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IL DANNO BIOLOGICO AI CONGIUNTI DELL’UCCISO E DEL MACROINVALIDO: SISTEMATICA E CASISTICA

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IL DANNO BIOLOGICO

AI CONGIUNTI DELL’UCCISO E DEL MACROINVALIDO:

SISTEMATICA E CASISTICA

Avv. Ugo Dal Lago*

Premessa

La nota sentenza 184/86 della Corte Costituzionale sulla risarcibilità del danno biologico ha rivitalizzato nelle indagini dei giuristi una problematica di non poco momento, che può essere riassunta nei seguenti due quesiti:

1) il danno biologico va risarcito anche nell'ipotesi in cui la menomazione alla salute conduca alla morte della vittima?

2) nella positiva, gli eredi sono legittimati a richiedere il risarcimento iure proprio o iure successionis?

Negli Ordinamenti esteri - soprattutto in quelli dei paesi a common law, ove anche la responsabilità civile assume uno spiccato carattere sanzionatorio - la risposta è generalmente positiva.

1. Il danno biologico da morte

1.1. Accenno storico

In Italia, invece, la questione ha sempre suscitato grandi contrasti. Il c.d. "danno biologico da morte" veniva liquidato - prima che il danno alla salute trovasse definitiva consacrazione nella Giurisprudenza Costituzionale - secondo lo stesso schema impiegato per il danno alla salute

"normale". In particolare:

a) il danno patrimoniale da morte veniva liquidato nelle seguenti voci:

- danno emergente, consistente nelle spese di cura e funerarie;

- lucro cessante, individuabile nel mancato apporto economico al bilancio familiare e - comunque - verso quei soggetti portatori di una legittima aspettativa a ricevere una parte della quota di reddito prodotta dal de cuius;

b) il danno non patrimoniale era liquidato esclusivamente ex art. 2059 e, quindi, in presenza di fattispecie integranti reato.

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Entrambe le voci di danno venivano comunque liquidate ai congiunti (pure se eredi) iure proprio, ancorché in dottrina si nutrissero dei dubbi sulla risarcibilità iure proprio del danno da lucro cessante (ciò anche se la risarcibilità era prevista solo in presenza di situazioni di legittima aspettativa).

In pratica (per ciò che qui interessa) il lucro cessante era liquidato solo se si dimostrava in capo al sopravvissuto una situazione giuridica soggettiva (diritto di credito o aspettativa legittima) nei confronti della vittima: ossia che la vittima destinasse una quota di reddito - di cui doveva essere provata esistenza ed entità - alle esigenze della vita del sopravvissuto.

1.2. Configurazione del danno iure proprio e iure hereditatis:

I due orientamenti emersi in giurisprudenza: fondamenti critici Il danno biologico da morte iure hereditatis

Dal momento in cui il danno biologico ha trovato "cittadinanza" nell'ordinamento italiano si passò da una valutazione di rilevanza del danno alla salute solo per le conseguenze patrimoniali del fatto ingiusto altrui intese come "danno-conseguenza", ad una concezione più ampia - e più equa - di

"danno-evento", ossia di danno in sé e per sé considerato e risarcibile.

Tale concezione pose in nuova luce anche il danno da morte, che ricevette dalla sentenza n.

184/86 della Corte Costituzionale nuova "linfa vitale".

Ed invero la nuova impostazione del problema, offerta da tale sentenza, diede modo agli interpreti di chiedersi se non fosse necessario configurare anche tale tipo di danno non tanto nella concezione limitata del lucro cessante, individuato in termini di mancato reddito (danno-conseguenza), bensì come vero e proprio danno autonomamente rilevante (danno-evento).

In dottrina il Giannini fu uno dei primi ad ammettere la risarcibilità del danno alla salute da morte, cosi riconoscendo agli eredi una legittimazione iure successionis.

In pratica egli sostenne che la massima lesione (la morte) del diritto alla salute del danneggiato determinerebbe la nascita di un diritto di credito in capo alla vittima; credito da ricomprendere nell'asse ereditario.

In giurisprudenza la tesi del danno alla salute iure hereditatis è stata recepita da: Corte di Appello Roma 4.6.1992; Tribunale di Treviso 26.3.1992; Tribunale di Roma 24.5.88 e 25.5.88; Tribunale di Napoli 8.7.88; Tribunale di Milano 12.10.88; Tribunale di Massa 20.1.90.

Gli argomenti utilizzati, sia in dottrina che in giurisprudenza, per suffragare la legittimità del risarcimento iure hereditatis del danno da morte erano - in estrema sintesi - i seguenti:

1) La morte è una lesione del diritto alla salute assai più grave delle lesioni menomanti, che si risarciscono con il danno biologico. Pertanto è assurdo porre un limite alla risarcibilità proprio per la lesione più grave del valore costituzionale tutelato. Come si risarcisce la mera lesione del diritto alla

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salute, a maggior ragione va risarcita la sua soppressione totale.

2) Opinare diversamente porterebbe all'assurda conseguenza che il danneggiato che sopravvive all'eventus damni fino alla sentenza definitiva - e cioè alla liquidazione prognostica - ha diritto al risarcimento, mentre non lo avrebbe colui che muore nelle more del giudizio.

3) E vero che il danno biologico consiste nella lesione di un diritto personalissimo e perciò è intrasmissibile: ma la personalità del diritto tutelato non deve essere confusa ed estesa al diritto conseguente, ossia al risarcimento della lesione, che è un credito pecuniario già maturato in capo alla vittima e, quindi, il più trasmissibile tra tutti i diritti. Trattandosi di un diritto di credito, il diritto al risarcimento sarà soggetto al decorso del termine prescrizionale da fatto illecito, a differenza del diritto personalissimo da cui deriva, che essendo assoluto è imprescrittibile.

4) Non è esatto sostenere che in caso di morte istantanea non si ha diritto al risarcimento perché la lesione coincide con la perdita della capacità giuridica.

Il danno biologico si verifica con la lesione (impatto) e non con la morte (conseguenza dell'impatto): tali due eventi non sono mai realmente contemporanei. Ed invero, oltre alla causalità logica, c'è sempre una causalità cronologica: prima la "causa" (lesione) e poi la "conseguenza"

(morte).

La Giurisprudenza è sempre stata, in misura largamente prevalente, contraria a tale impostazione.

In particolare la Corte di Cassazione, allorché si pronunciò sul problema con la sentenza n. 6938 del 12.1.88, sostenne l'inammissibilità del risarcimento del danno da morte iure hereditatis argomentando sulla natura di "diritto personalissimo" del diritto alla salute, come tale non riconoscibile agli eredi della vittima.

Tra la giurisprudenza di merito troviamo su posizioni analoghe Trib. Mi 7.4.88; 12.1.89; 18.3.90;

2.7.90; 7.10.91; 20.1.92; 03.02.92; Pret. Mi (sez. lav.) 26.10.91; Trib. Busto Arsizio 24.10.88;

Trib. Monza 4.4.91 (quest'ultima limitatamente all'ipotesi di morte istantanea); Tribunale di Firenze 12.1.1993.

In dottrina, nettamente contrari alla risarcibilità del danno da morte iure hereditatis, sono:

Gussoni, Pogliani e Rubini prevalentemente per i seguenti argomenti.

A) Il danno biologico costituisce lesione di un diritto personalissimo (diritto alla salute), epperciò intrasmissibile e inalienabile.

Sostenere la sua trasmissibilità sarebbe contrario al senso morale e, soprattutto, all'Ordinamento:

sulla base dell'art. 5 C.C., che pone i limiti di ordine pubblico e buon costume; e dell'art. 2 Cost., che parla di diritti inviolabili dell'uomo e quindi inerenti all'uomo.

Né può sostenersi che il diritto spetta al de cuius e l'azione all'erede, poiché:

a) il diritto processuale richiede la coincidenza tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto,

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salvo casi eccezionali (cfr. art. 81 C.P.C.);

b) l'azione a tutela di tale tipo di diritti non è trasmissibile o alienabile, tranne casi eccezionali: ad es. quello previsto dall'art. 5973 C.P., la cui eccezionalità viene correntemente spiegata col fatto che in tale ipotesi viene tutelato il buon nome della famiglia, e non - o non solo - quello del defunto.

B) Anche l'affermazione per cui oggetto della trasmissione non è il diritto alla salute in sé e per sé, ma il diritto di credito derivante dalla lesione del bene salute, veniva avversata sostenendo che quello derivante dal danno biologico è un diritto di credito nel quale la persona del creditore viene elevata a momento essenziale del vincolo obbligatorio, per cui non è trasmissibile. In altri termini in mancanza della persona lesa neppure sussiste il diritto di credito.

C) Il diritto alla salute è un concetto "qualitativamente" diverso dal diritto alla vita o alla sopravvivenza fisica. Ed invero, mentre il danno alla salute è una menomazione dell'integrità psicofisica, il danno alla vita non è integrato da una lesione alla salute, ma dal venir meno della stessa entità psicofisica.

Inoltre si argomentava che, mentre il diritto alla salute ha rilevanza costituzionale (art. 32) e civile (2043), il diritto alla vita avrebbe solo una tutela pubblicistica penale (es. art. 575 c.p.) e non civile.

E che i due concetti fossero diversi sarebbe stato dimostrato anche dal Codice Penale, che tratta il reato di omicidio in modo diverso da quello di lesioni.

D) Trattandosi di risarcimento conseguente ad un danno proiettantesi nel futuro, la sua quantificazione è correlata ad una prognosi congetturale di durata, come avviene per il danno patrimoniale; nella fattispecie, peraltro, non è consentito parlare della durata del danno (L. Rubini,

"E’ risarcibile il danno biologico dell'ucciso?" Diritto. Prat. Sin. Strad., 1978).

A fronte di questi contrasti dottrinari e giurisprudenziali si propose una tesi intermedia, che ammetteva la risarcibilità del danno alla salute da morte solo nel periodo intercorrente tra la lesione e la morte.

In particolare si notava che ove la morte fosse istantanea, il diritto al risarcimento non poteva nascere perché:

- la nascita del diritto coincide temporalmente con la perdita della capacità giuridica;

- il soggetto non subisce alcun danno prima della morte.

Diversamente accadrebbe nel caso in cui la morte non fosse istantanea.

In questo senso si espressero Alpa in dottrina; in giurisprudenza (fra gli altri) il Tribunale di Ancona 24.5.91.

Il Tribunale di Monza con sentenza del 4.4.91 statuì che se il tempo tra la lesione e la morte è zero, anche il diritto al risarcimento del danno della salute doveva ritenersi insussistente; nel caso esaminato, in cui tra l'evento lesivo e l'evento morte erano intercorsi 15 minuti di sofferenza atroce, il

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danno fu liquidato in 50.000.000 (cinquantamilioni).

Ma anche tale tesi incontrò delle critiche. Fu proprio Giannini che, a fronte delle resistenze incontrate, con una brillante intuizione tentò di configurare il risarcimento del danno alla salute da morte come risarcimento iure proprio.

In particolare tale chiaro autore sostenne che, oltre alla lesione del diritto alla salute del soggetto danneggiato e defunto, doveva configurarsi un danno alla salute degli eredi (rectius: dei prossimi congiunti), che subiscono a causa della morte del congiunto un gravissimo danno alla loro integrità fisiopsichica.

Alla base di tale visione il Giannini richiamò la Giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di danni così detti riflessi o di rimbalzo.

In siffatta impostazione il fatto illecito del terzo che uccide il congiunto non fa altro che ledere "di riflesso o di rimbalzo" i diritti (personalissimi) propri dei parenti, che hanno una precisa tutela normativa nella Costituzione (art. 2, 9, 30 Cost.) e nel C.C. (artt. 143 e 147).

Tale impostazione trovò ben presto il favore di parte della Giurisprudenza; e così il Tribunale di Milano 26.6.89, n. 5737 (sez. V), il Tribunale di Treviso 5.5.92, n. 567, il Tribunale di Milano 2.7.90, n. 4347 (sez. XXII), il Tribunale di Milano 2.9.93, n. 8166 (sez. XXII), il Tribunale di Milano 12.5.1994, n. 10866.

In particolare la sentenza del Tribunale di Milano del 2.9.1993 specifica la natura di tale tipo di danno, precisando che si tratta di un danno che normalmente andrebbe a ricadere in un ambito psichico, a differenza di quello alla salute in senso stretto, generalmente esaminato dalla giurisprudenza; peraltro si tratterebbe pur sempre di un danno alla salute diverso dal danno morale, nel cui ambito il pretium doloris è corrisposto a compensazione di un evento strutturalmente transitorio e non patologico.

Per il Giannini riferire al danno psichico il danno alla salute da morte è errato e crea difficoltà in ordine all'accertamento medico delle conseguenze psicopatologiche sofferte dai parenti della vittima.

Più esatto è dire che si tratta di danno biologico tout court e quindi di danno-evento, di per sé risarcibile.

1.3 L’ordinanza di rimessione 777/93 del Tribunale di Firenze

A fronte di tali contrasti interpretativi il Tribunale di Firenze, con ordinanza n. 777 del 27.10.93, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 c.c., e in subordine dell'art. 2059 c.c., ove interpretati in modo da non permettere il risarcimento del danno alla salute da morte sotto entrambi i profili sopra illustrati: id est del risarcimento iure proprio e di quello iure hereditatis.

In particolare il Tribunale ha lamentato una possibile violazione degli artt. 2, 3 e 32 della

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Costituzione.

L'ordinanza di rimessione - molto ben formulata - è articolata essenzialmente sui seguenti argomenti.

A) In ordine al danno da morte iure successionis il Tribunale fiorentino afferma, in particolare, che "Se la lesione alla salute è l'intrinseca antigiuridicità obiettiva dell'evento dannoso, del tutto distinto dalle conseguenze, appare evidente che l'evento morte, per quanto ravvicinato sia all'evento lesione, non può che porsi antologicamente, prima che temporalmente, fra le conseguenze del fatto:

è, cioè, una conseguenza della violazione; ma la lesione del bene salute e con essa della norma costituzionale posta a garanzia di un bene primario ovvero il danno evento, si è già verificato."

Ciò è confermato anche da altre sentenze della Corte Costituzionale, in particolare dalle 561/1987, 560/1987 641/1987, con le quali la Corte ha affermato che "le violazioni di posizioni soggettive riconosciute dalla norma primaria si traducono, in sostanza, in vanificazione di finalità protettive e solidaristiche e per se stesse, dunque, costituiscono danno, a prescindere dalle eventuali conseguenze delle violazioni stesse, idonee, se del caso, ad integrare danni ulteriori."

Da tali pregevoli osservazioni il Tribunale ha ricavato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 C.C. in relazione agli artt. 2 e 32 Cost., interpretato in modo da escludere la risarcibilità del danno da morte iure successionis, perché tale interpretazione non consentirebbe alcuna tutela del valore primario della vita; ed in relazione all'art. 3, per la disparità di trattamento con quello riservato ai familiari del lavoratore deceduto, ai sensi del l'art. 10 del D.P.R. 1124/1965.

B) Per quanto concerne la questione della risarcibilità del danno da morte iure proprio i giudici fiorentini muovono dalla distinzione tra la nozione medico legale di danno biologico (come lesione della preesistente integrità fisiopsichica del soggetto leso) e la nozione giuridica di danno alla salute (come violazione del diritto previsto e tutelato dall'art. 32 Cost.).

Da tale premessa il Tribunale desume che il danno derivante dalla morte di un familiare non può coincidere con il danno morale ex art. 2059 C.C.; se ne differenzia perché il primo è un "danno evento" sempre presente; mentre il secondo è un "danno conseguenza", ossia un effetto pregiudizievole di quella lesione e, peraltro, risarcibile "solo nel caso che esso assuma giuridica rilevanza (ex art. 2059 del c.c.)".

Da ciò pure deriva che la risarcibilità del danno evento è subordinata alla prova della sua sussistenza in concreto, sganciata dalla qualità di erede strictu sensu.

Il Collegio remittente solleva quindi la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2043 C.C. - e in subordine dell'art. 2059 C.C. - ove interpretato in modo tale da escludere la risarcibilità di tale tipo di danno, per contrasto con gli art. 2 e 32 Cost.; e con l'art. 3 Cost., per la disparità di trattamento fra chi subisca il danno per la lesione di un parente e chi lo subisca direttamente.

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1.4. La sentenza della Corte Costituzionale n. 372/1994: portata ed ambito

La sentenza della Corte Costituzionale 372/94, pronunciandosi sulla questione sollevata dal Tribunale di Firenze, si è posta sulla stessa linea già percorsa da parte della giurisprudenza di merito ed in particolare dal Tribunale di Milano.

Tale ultima pronuncia della Corte Costituzionale va qui brevemente riassunta, per rendere più immediate le argomentazioni che ne conseguono.

In primo luogo la Corte esclude la fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art.

2043 C.C., relativa al danno iure successionis, sulla base delle seguenti argomentazioni:

A) Il diritto alla salute ed il diritto alla vita sono distinti, per cui non si può affermare che la morte costituisca la massima lesione del diritto alla salute.

Ne deriverebbe che la morte immediata del soggetto leso non consente il verificarsi di diminuzione o privazione di valori della persona riguardanti il bene protetto; né -conseguentemente - la trasmissione in capo agli eredi di un diritto al risarcimento.

B) Sarebbe infondata anche la questione ex art. 3 Cost. in quanto la rendita INAIL ai congiunti del lavoratore morto ha carattere esclusivamente patrimoniale e spetta loro iure proprio, secondo un meccanismo avente natura analoga a quello previsto dall'art. 1920 C.C. in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo, epperciò estraneo al sistema della responsabilità civile.

Per quel che concerne la risarcibilità iure proprio del danno ai congiunti, la Corte - operate le necessarie distinzioni con il danno iure successionis e con la lesione dei rapporti giuridici obbligatori - incentra la propria attenzione sulla questione del nesso psicologico, ammettendo la "categoria" già da altri (e cosi da chi scrive) prospettata secondo cui la lesione da shock ai familiari dell'ucciso integra un'autonoma fattispecie di danno ingiusto.

La Corte esclude in primis l'applicabilità a siffatta teoria del disposto dell'art. 2056 C.C.

("valutazione dei danni"), argomentando che lo stesso sarebbe riferibile unicamente ai danni conseguenza.

Il risarcimento del danno biologico ai congiunti dell'ucciso ex art. 2043 comporterebbe quindi una responsabilità oggettiva - in quanto basata soltanto sul dato causale senza spazio per una valutazione della colpa - e illimitata sul piano soggettivo, non potendo essere applicati in una siffatta costruzione teorica i limiti previsti all'art. 2059 C.C..

Sulla base di tale motivazione la Corte esclude la fondatezza della questione di illegittimità dell'art. 2043 prospettata dal Tribunale di Firenze.

Per quel che concerne la questione di illegittimità dell'art. 2059 - sollevata in via subordinata dal

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Tribunale di Firenze - la Corte Costituzionale in buona sostanza afferma che il danno iure proprio è risarcibile ex art. 2059 in virtù, "dell'irrazionalità di una decisione che nelle conseguenze dello shock psichico patito dal familiare discerna ciò che è soltanto danno morale soggettivo da ciò che incide sulla salute, per ammettere al risarcimento solo il primo. Il danno alla salute è qui il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell'equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, etc.), anziché esaurirsi in un patema d'animo o in uno stato d'angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento. "

Da siffatta impostazione scaturiscono - ovviamente - notevoli problemi d'ordine sistematico ed interpretativo, in relazione soprattutto alla pronuncia n. 184/1986 della stessa Corte.

Com'è noto tale pronuncia aveva escluso la risarcibilità del danno biologico ex art. 2059, affermandone invece la risarcibilità ex art. 2043 C.C., qualificato come "norma in bianco".

Ripercorrendo i passi di quella motivazione si evince agevolmente che i giudici costituzionali avevano ritenuto la funzione dell'art. 2059 limitata ad introdurre nell'Ordinamento la risarcibilità (intesa con finalità preventiva e sanzionatoria in relazione all'art. 185 C.P.) del danno morale soggettivo, concepito in termini di transeunte sofferenza fisica e/o morale derivante dal fatto reato.

Ciò posto e ribadita la differenza tra danno evento e danno conseguenza (danno patrimoniale e danno morale) la Corte aveva affermato la risarcibilità (a carattere sanzionatorio-esecutivo del precetto costituzionale) della lesione alla salute in sé e per sé considerata, così configurando un tipo di danno certamente distinto da quello morale.

Orbene: pur a prescindere dai noti problemi di inquadramento del danno biologico (danno patrimoniale, danno non patrimoniale o tertium genus), appare difficilmente giustificabile sul piano tecnico l'utilizzo dell'art. 2059 C.C. come "ponte" per estendere le ipotesi di danno biologico risarcibile, dal momento che la stessa Corte escluse che tale norma potesse comprendere il risarcimento del danno biologico.

L'art. 2059 C.C. sancisce infatti - per espressa indicazione della stessa Corte Costituzionale (cfr.

decisione 184/86) - la risarcibilità del solo danno morale soggettivo, cosicché non sembra ora sufficiente - per stravolgere una categoria giuridica consolidata - affermare l'irrazionalità dell'interpretazione che limitasse il risarcimento del danno ex 2059 C.C. allo shock psichico ed escludesse nel contempo lo stato patologico derivante da tale shock.

Tutta la dottrina (e la giurisprudenza) che si sono impegnate sul problema si erano sempre preoccupate di tenere ben distinte le due categorie di danno: e ciò si manifesta in particolare

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prendendo in esame l'ipotesi del danno psichico, in cui de facto i confini tra le due fattispecie si assottigliano.

La dottrina quasi unanime e la giurisprudenza hanno infatti sempre messo l'accento sul fatto che può definirsi danno biologico solo il perturbamento psichico che trasmuti in uno stato patologico vero e proprio, con esclusione dello stato transeunte di sofferenza (in dottrina in questo senso Alpa, Cendon, Busnelli, Franzoni; contra D'Amico).

D'altronde se il danno morale è diverso e distinto dal danno biologico, non può essere consentito il risarcimento del biologico in forza di una norma che limita espressamente la sua previsione al morale.

Meglio avrebbe fatto la Corte ad accogliere l'eccezione di incostituzionalità come formulata in via principale dai giudici fiorentini, riconducendo ancora una volta la previsione del danno biologico da morte all'art. 2043 C.C.; evidentemente sono prevalse le preoccupazioni di non allargare eccessivamente la risarcibilità di tale fattispecie, con i rischi che si sono manifestati nell'Ordinamento inglese.

Ma sulla vexata quaestio dei limiti derivanti dalla previsione ex 2059 ritorneremo in seguito: per ora ci basta rilevare come - a questo punto - si ponga decisamente in dubbio la distinzione tra danno morale e danno biologico come prospettata dalla sentenza 184/86.

Va comunque sottoposto all'attenzione di tutti gli interpreti il pregnante rilievo che la Corte, se ha pure escluso la risarcibilità del danno biologico iure successionis, ha espressamente limitato siffatta esclusione all'ipotesi di morte immediata della vittima come risulta dalla "premessa" alla propria pronuncia; ciò consente di sostenere che la Corte abbia accolto lo schema interpretativo proposto da diversi giudici di merito per cui, quando intercorre un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte, è risarcibile e quantificabile in via equitativa il danno subito medio-tempore dal defunto (cfr.

la sentenza 4.4.1991 del Tribunale di Monza; sopra richiamata; in dottrina Rubini, cit.).

Né si dimentichi che siffatta limitazione prescinde - oltretutto - dai dubbi ben consistenti circa l'efficacia vincolante delle sentenze di rigetto dei giudici costituzionali.

2. Il danno al congiunti dell'ucciso e del macroinvalido: sistematica e casistica

Dopo avere inquadrato (in sintesi e - speriamo - correttamente) l'attuale situazione giurisprudenziale e normativa della problematica in discorso, passiamo ora ad analizzarla in prospettiva evolutiva:

a) per il risarcimento ai congiunti dell'ucciso;

b) con riferimento ai diritti risarcitori spettanti ai congiunti del macroinvalido.

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2.1. Riflessi della sentenza 372/1994 sul danno ai congiunti in genere;

correlazioni tra il danno biologico ai congiunti dell’ucciso e

lo stesso danno ai congiunti del macroinvalido; estensibilità della disciplina

La sentenza 372/94 della Corte Costituzionale (a prescindere dalle critiche formulate e formulabili all'impianto logico-giuridico della sua motivazione) costituisce un punto di partenza imprescindibile nell'analisi dell'ipotesi risarcitoria in esame. Tale sentenza, peraltro, lascia aperti diversi dubbi interpretativi, imponendo all'operatore un lavoro di esegesi ancor più attento, volto ad eliminare tutte quelle incertezze e disparità di trattamento connesse ad una "situazione magmatica" in continua ebollizione.

La Corte ha configurato il danno da morte iure proprio come un momento patologico, originato da quello stesso turbamento psichico che integra il danno morale.

Siffatta impostazione pone un duplice limite alla risarcibilità del danno iure proprio:

a) da un lato è necessario che la condotta illecita costituisca reato;

b) dall'altro che si innesti nel congiunto una vera e propria "patologia fisica o psichica

Se infatti la "norma ponte" è quella che prevede il risarcimento del danno morale, sulla base dell'impostazione della Corte il danno biologico ai congiunti dell'ucciso potrà essere risarcito solo in presenza dell'accertamento di un reato e non anche nel caso di responsabilità presunta ex art. 2054.

Per quel che concerne il limite indicato sub b), qualora a seguito della morte di un congiunto si verifichi una patologia di tipo organico, il problema rimane di ambito e portata limitati: saranno comunque applicabili i criteri usuali sia per la definizione di malattia, sia per l'individuazione del nesso causale e dell'entità del danno.

Invece la prospettiva di un danno unicamente psichico impone che si arrivi a determinare quanto prima:

a) un concetto univoco di malattia psicologica, differenziato in modo definitivo dalla semplice sofferenza morale;

b) una affidabile "tabella" relativa anche alle malattie a carattere psichico, in modo da poter quantificare in maniera uniforme i risarcimenti dovuti, evitando disparità di trattamento.

Rimessa - per ovvie ragioni di competenza - tale ultima problematica all'attenzione dei medici legali e più precisamente degli esperti in psicoterapia psicoanalitica, passiamo all'esame specifico dei problemi giuridici che la questione sottende.

Se il danno biologico è risarcibile ai congiunti sulla base dell'art. 2059 C.C. appare prima facie necessario applicare anche a tale ipotesi le stesse limitazioni che riguardano in generale il danno

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morale.

Il limite che solleverà sicuramente maggiori problemi è quello - imposto dalla Giurisprudenza di legittimità - che esclude la risarcibilità del danno morale ai congiunti del macroleso (rectius:

macroinvalido) attesoché "in ogni caso si tratta di conseguenze indirette del reato" (Cass. 11414/92;

Cass. 6854/88).

Ed invero, con la pronuncia testé citata, la Corte di Cassazione ha affermato (sulla scía di un orientamento consolidato) che in forza del combinato disposto degli artt. 2059 C.C. e 185 C.P. "... il risarcimento è dovuto in favore della parte offesa dal reato ... Nel delitto di lesioni colpose, la persona offesa dal reato è il leso: la persona cioè che ha riportato lesioni personali ... "

Le Corti di merito - diversamente dalla Suprema Corte - hanno invece riconosciuto in varie occasioni il diritto al risarcimento del danno morale anche ai congiunti del leso, soprattutto quando le lesioni sono tali da comportare la compromissione delle più importanti funzioni vitali (cfr. Tribunale di Verona, 4.3.1991; Tribunale di Udine, 13.5.1991; Tribunale di Brescia, 26.10.1988 et altri).

A questo punto dobbiamo chiederci se una limitazione di tal fatta possa valere anche per il danno biologico al congiunti del leso dopo la sentenza 372194 della Corte Costituzionale.

La Corte - dopo aver praticamente escluso la risarcibilità del danno ai congiunti ex 2043 C.C., anche per evitare un "effetto a valanga" sui soggetti ammessi al risarcimento - ha affermato che "la tutela risarcitoria deve fondarsi su di una relazione di interesse del terzo col bene protetto dalla norma incriminatrice, argomentabile, in via di inferenza empirica, in base ad uno stretto rapporto familiare (o parafamiliare, come la convivenza more uxorio) ".

Ma se ciò che contraddistingue la fattispecie è un interesse - e, aggiungiamo noi, un interesse giuridicamente protetto del "terzo" al bene tutelato dalla norma penale - non si vede a quale titolo possa essere escluso dal diritto al risarcimento il congiunto del macroinvalido a differenza di quello dell'ucciso.

E qui occorre anzitutto esaminare le ragioni dogmatiche che impongono di accogliere siffatta estensione e prospettare le obiezioni che, prevedibilmente, verranno mosse a tali ragioni.

A) In presenza di danni al congiunti del macroleso (rectius: macroinvalido) quella che viene anzitutto in considerazione è la violazione di un precetto primario che tutela un valore assoluto.

Una limitazione aprioristica della possibilità risarcitoria in una fattispecie del tutto assimilabile a quella del danno da morte del congiunto (siamo in presenza di un fatto-reato, che causa ai congiunti della parte offesa un danno alla salute) porrebbe in palese contrasto gli artt. 185 C.P. e 2059 C.C.

con il dettato dell'art. 3 Cost., con ciò ledendo il principio di uguaglianza che impone -come ben si sa - di trattare in maniera uguale situazioni analoghe.

Non si potrebbe nemmeno sostenere che si tratti di una determinazione discrezionalmente rimessa

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al legislatore, atteso il valore primario e non sacrificabile del bene tutelato (la salute): basti pensare a quanto sta accadendo in materia di legislazione sul fumo.

B) In secondo luogo la configurazione che la Giurisprudenza Costituzionale ha dato del sistema risarcitorio impone una riconsiderazione di tutte le fattispecie.

Ogni volta che la Corte si è occupata degli artt. 2043 e 2059 C.C. non ha mancato di mettere in evidenza il carattere almeno parzialmente sanzionatorio dei risarcimenti previsti in detti articoli.

Se il sistema ha una valenza sanzionatoria, imposta dalla necessità di tutelare con valenza preventiva e repressiva gli illeciti commessi in danno dei valori costituzionalmente tutelati, sarebbe irrazionale (per utilizzare gli stessi termini della Corte) escluderne alcuni: nel momento in cui si ritiene che un bene giuridico sia di valenza tale da dover essere comunque tutelato, tanto da raffigurarne la violazione come danno-evento, è manifestamente illogico non concedergli tutela.

C) Neppure le osservazioni svolte dalla Giurisprudenza di legittimità in tema di danno morale ai congiunti del leso appaiono sufficienti ad escludere l'estensibilità della disciplina risarcitoria qui prospettata.

La Cassazione, nelle sentenze già richiamate, afferma in merito all'art. 185 C.P. che "sebbene non sia precisato nella norma, non vi può essere dubbio alcuno sul fatto che il risarcimento è dovuto in favore della parte offesa dal reato, cioè dal soggetto passivo di esso" (Cass. 11414/92, cit.): in caso contrario si avrebbe una duplicazione dell'obbligo risarcitorio sul colpevole e si rischierebbe di allargare troppo la cerchia delle persone legittimate a richiedere il risarcimento del danno morale.

Ma nessuna di tali argomentazioni serve a confutare quanto affermato in questa sede.

E’ innanzitutto un fuor d'opera parlare di duplicazione dell'obbligo risarcitorio, attesoché si tratta non solo di poste di danno differenti, ma di poste di danno che fanno autonomamente capo a soggetti diversi, trovando esse l'unico elemento di congiunzione nella condotta illecita del soggetto agente.

Non è possibile poi sostenere - come fa la Cassazione - che l'esclusione sia dovuta alla natura

"indiretta" di tali danni, specie ove si consideri che in fattispecie sostanzialmente identiche (lesioni colpose), viene tutelata la posizione di chi, altrettanto "indirettamente", viene danneggiato in un autentico diritto patrimoniale. Basterà qui richiamare l'ipotesi del datore di lavoro che non abbia potuto godere delle prestazioni del dipendente infortunato a seguito di sinistro e, comunque, a tutta la giurisprudenza formulatasi sulla scia del celeberrimo "caso Meroni".

Non si può quindi ritenere che il fatto illecito vada a colpire un solo bene tutelato; che esso - illecito - sia solo monooffensivo, specie quando in gioco è un bene primario, come la salute.

Non è che qui si discuta della possibilità di estendere qualitativamente l'entità dei danni risarcibili, come se si stesse parlando dell'interesse contrattuale negativo: il caso in esame è quello di un danno- evento subito da un soggetto diverso da quello passivo del reato, danno la cui tutela è stata

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dichiarata irrinunciabile proprio sulla base della Carta Costituzionale.

Nemmeno la ragione "politica" addotta dalla giurisprudenza di legittimità può essere indicata per escludere l'invocata estensione. Ed invero chi paventa un'eccessiva estensione dei soggetti legittimati a richiedere il risarcimento non considera che il nostro Ordinamento contiene in se stesso tutti gli elementi atti ad impedire un indebito ingresso di fattispecie risarcitorie non previste: in proposito basterà riferirsi al criterio causale ed alla necessità - più volte affermata - di un vincolo giuridicamente rilevante tra la vittima del fatto-reato ed il congiunto leso.

Anche accogliendo il concetto di una sorta di responsabilità oggettiva per i danni morali, addotto dalla Corte Costituzionale, è peraltro necessario (al contrario di quello che afferma implicitamente la Corte stessa) che il soggetto agente abbia una qualche possibilità di prevedere il danno da fatto illecito, attesoché si tratta pur sempre di danno evento.

Ed invero, quale che sia il concetto di causalità preferito (causalità adeguata, causalità umana, regolarità causale, sussunzione sotto Leggi, aumento del rischio), deve pur sempre sussistere un fattore di congiunzione tra l'evento e la condotta in termini di prevedibilità: ché, altrimenti, si uscirebbe dalla normalità per ricadere nel caso fortuito, con la conseguente esclusione di responsabilità del soggetto agente (cfr. Tribunale di Venezia, sent. n. 313 dell'11.12.1992).

Deve infatti ben tenersi in mente che il danno alla salute (diversamente dalle altre ipotesi conosciute dal nostro Ordinamento) è un danno-evento, id est un danno che coincide in pieno con l'evento naturalistico (la lesione) causato dalla condotta e - come tale pure assoggettato anche alla normativa in materia di causalità.

In altri e più espliciti termini la risarcibilità o meno dei danni al congiunti del soggetto passivo del reato non deve trovare un limite in un postulato (solo in caso di morte) che non trova alcun espresso referente normativa, attesoché l'art. 185 C.P. (come ha riconosciuto la stessa Cassazione nella sentenza sopracitata) limita espressamente i soggetti obbligati e non certo i creditori.

Il limite fin qui configurato sarebbe già sufficiente a superare la prevedibile obiezione fondata sulle ipotesi che tanti problemi hanno sollevato negli Ordinamenti a common law e che paventano anche i giudici costituzionali nella sentenza 372/94: intendiamo riferirci, a mo' d'esempio, al caso del soggetto che avendo casualmente assistito ad un sinistro stradale ne sia rimasto scosso al punto da subire una malattia, organica o psicologica (un tal caso ha recentemente suscitato notevole clamore nel Regno Unito).

In siffatta ipotesi nel nostro Ordinamento non vi sarebbe alcuna possibilità per il mero spettatore del reato di azionare una qualche pretesa risarcitoria; la legittimazione sarebbe esclusa in nuce dalla mancanza di una relazione giuridicamente rilevante con la vittima (presupposto richiesto anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza qui commentata).

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Non vi è quindi nemmeno una ragione "politica" per escludere l'addotta estensione della disciplina.

In questo senso andavano già le preoccupazioni di G. Visintini, I fatti illeciti, ne "I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale", pag. 72. Peraltro la stessa Visintini affermava che in caso di lesioni gravi era difficile respingere le richieste dei familiari in quanto "è il consorzio familiare ad essere danneggiato nella sua globalità" (op. cit. pag.72).

Sarebbe infine agevole, ravvisando la necessità di introdurre ulteriori limitazioni, argomentare sull'importanza ed il rilievo delle lesioni subite dalla vittima del fatto reato.

Ed invero la sopra accennata necessità della previsione o prevedibilità dell'evento di danno consentirebbe anche di limitare il risarcimento alle ipotesi di lesioni più gravi, escludendolo laddove - per la lievità delle lesioni riportate dal soggetto passivo del reato - non sia possibile ipotizzare sulla base di una valutazione ex ante la sussistenza del nesso di prevedibilità (come richiesto dalla Giurisprudenza in tema di causalità).

E’ evidente, infatti, che una malattia conseguente ad una semplice frattura alla mano di un congiunto, conterrebbe già in sé gli elementi per far escludere la sussistenza di un nesso di causalità, come prospettato dalla migliore Dottrina.

E per tale motivo che si fa riferimento al caso del macroleso/macroinvalido, che ha già trovato riconoscimenti in Dottrina ed in giurisprudenza: solo in presenza di lesioni invalidanti di rilevante portata si può accertare e riconoscere un danno anche a carico dei congiunti.

A conforto della tesi qui sostenuta soccorre anche una ragione di "politica del diritto".

Tale invocata estensione consentirebbe di accogliere - e nel contempo superare - tutte le istanze avanzate da più parti (compresi anche taluni giudici di merito, soprattutto milanesi) affinché siano fornite di tutela risarcitoria diverse situazioni giuridiche soggettive, pure garantite dalla Carta costituzionale: come, ad esempio, il diritto alla serenità familiare e tutte le forme di estrinsecazione della personalità umana nell'ambito della vita familiare o comunque della normale vita sociale, riconducibili all'art. 2 della Costituzione.

Il risarcimento per la lesione di tali diritti è stato riconosciuto diverse volte dalla giurisprudenza di merito e dalla dottrina, con l'intento (più o meno velato),di garantire la riparazione in quelle ipotesi in cui la posizione restrittiva della Cassazione circa l'art. 185 C.P. non consente di tutelare le situazioni drammatiche ed evidentemente ingiuste derivanti dalla presenza nell'ambito familiare di un macroinvalido: situazioni che saranno meglio illustrate in seguito.

Questa soluzione avrebbe il merito di evitare un'eccessiva frammentazione delle fattispecie risarcibili; frammentazione che - fino al momento di un auspicabile intervento legislativo - non può produrre altro che confusione in tutti gli operatori e - conseguentemente - disparità di trattamento tra i danneggiati.

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2.2. Inquadramento dogmatico e definizione della macroinvalidità

Altro problema che l'impostazione assunta lascia aperto è quello della definizione della macrolesione: è necessario individuare un criterio univoco per stabilire quali macroinvalidità possano qualificarsi tali al fini della certezza del diritto e dell'applicazione di una uniforme tutela risarcitoria.

Al di là dei preziosi suggerimenti che sull'argomento forniranno i medici ed in particolare gli esperti in psicoterapia psicoanalitica, ci sembra che (sulla scorta di quanto ha precisato la Corte Costituzionale con la sentenza 184/1986) il criterio, per quanto preciso, non debba essere assolutamente vincolante: anche in questo caso sussiste infatti la necessità di adeguare comunque il rimedio risarcitorio alle caratteristiche del caso concreto, onde rendere la riparazione il più possibile effettiva e concreta.

Sulla base di tali considerazioni non è possibile - né equo - fissare a priori una percentuale di postumi permanenti, oltrepassata la quale possa parlarsi di macrolesione: invero qualsiasi percentuale di invalidità si scegliesse (ad es. il 50%) come "confine" della macrolesione, essa potrebbe risultare, nel caso concreto, eccessivamente limitante od esorbitante.

Anche l'analisi dei più recenti strumenti offerti dai giudici di merito per la quantificazione del danno (il riferimento è alle "tabelle" proposte da alcuni Tribunali, segnatamente da quelli di Milano e di Venezia) non aiuta ad individuare il confine tra lesione e macrolesione, posto che correttamente tali tabelle non prevedono degli "scaglioni", ma sono assestate su un criterio "a punto crescente" in misura proporzionale al tasso di invalidità.

D'altronde nella stessa relazione allegata alle tabelle proposte dal Tribunale di Milano si legge che

"tale scelta è suggerita dall'opportunità di non creare sensibili divari di valore fra diverse fasce percentuali di invalidità, al fine di evitare che, nei casi prossimi ai limiti tra le varie fasce di invalidità

"contigue", si sviluppi una forte litigiosità circa l'inserimento della fattispecie concreta in uno od altro scaglione".

Sembra quindi opportuno suggerire un criterio "elastico", che consenta un effettivo adeguamento al caso concreto, onde assicurare la "giustizia sostanziale" in subiecta materia: in proposito potrebbe valere il criterio della "compromissione dell'autosufficienza", nel senso che il soggetto va considerato macroinvalido in presenza di patologie tali che gli impediscano di svolgere autonomamente le funzioni essenziali della vita umana.

Ma anche su tale aspetto del problema - al di là dell'apporto suggerito dall'esperienza personale - è doveroso "rimandare la palla" agli esperti sopra indicati.

2.3. Il danno biologico ai congiunti del macroinvalido e dell’ucciso:

Alcuni casi portati all’esame dei giudici di merito

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A chiusura di questo intervento, per una migliore comprensione dei termini concreti e spesso drammatici della problematica in esame, ritengo doveroso "calare" l'attenzione del cortese lettore nel vivo di alcuni casi di "osservazione personale", come direbbe ancor oggi il grande Pellegrini. Trattasi di esperienze "vissute", dalle quali ho tratto motivazione ed incentivo per "coltivare" questa scottante tematica, rappresentandomi la necessità di fornire tutela riparatoria a chi si trova la "vita spezzata" da un evento - grave o letale - occorso ad un proprio congiunto: evento vissuto come un "terremoto"

sconvolgente l'essenza stessa della vita di chi è pur "costretto" a convivere col macroinvalido o con l'inelaborato lutto dell'ucciso.

Il caso David

Questo il quadro - spaventoso - delle "condizioni" in cui fu ridotto a vivere per quasi sette anni (3 marzo 1979 - 26 febbraio 1986) un ragazzo appena diciannovenne, che nella stagione invernale 1978/79 era apparso come la nuova stella dello sci mondiale:

1 - La natura delle lesioni riportate da David è consistita in un grave danno cerebrale traumatico costituito da un ematoma sottodurale acutissimo associato ad un grave rigonfiamento edematoso dell'emisfero di sinistra. Tali lesioni endocraniche si sono rapidamente complicate con la grave ipertensione endocranica che ha, a sua volta, determinato altre lesioni cerebrali secondarie allargando ed aggravando quelle primitive direttamente attribuibili all'impatto. L'esito finale si è concretato in una grave encefalopatia post-traumatica.

2 - Tutte queste lesioni sono state sicuramente ed interamente provocate dalla caduta riportata da David durante la gara di discesa libera a Lake Placid, il 3 marzo 1979.

3 - La malattia nel corpo e nella mente è tuttora in atto e, sulla base degli accertamenti peritali compiuti, è ragionevole concludere che essa non andrà ad esaurimento e configurerà quella che in medicina legale viene definita "malattia certamente insanabile".

4 - La risposta a questo quesito non può che essere la continuazione della risposta ai quesiti 1 e 3: è ovvio che persiste tuttora l'incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni e che la capacità suddetta non potrà essere ristabilita.

5 - Da tutti gli elementi a disposizione si deve affermare che la malattia subita ha messo in grave pericolo la vita di David, pericolo che, seppur attenuato, sussiste tuttora.

6 - La risposta a questo quesito è già in parte insita in quanto si è affermato rispondendo al quesito 3. Dall'evento lesivo sofferto da David è derivato uno stato di coma prolungato che persiste tuttora concretandosi in uno stato di coma vigile o stato vegetativo. David è sveglio, ma non è in grado di fornire alcuna risposta con un significato psicologico, è incapace di parlare e completamente dipendente dagli altri.

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Sulla scorta di queste risposte - rese addì 2.12.1979 dal Prof. Albino Bricolo (Primario Neurochirurgo nell'Ospedale Civile di Verona e Professore incaricato di Neurotraumatologia presso la Facoltà Medica dell'Università di Padova in Verona) a conclusione del proprio elaborato medico legale versato in sede penale - già in data 8.10.1988 nella comparsa conclusionale del processo per il risarcimento dei danni dovuti ai familiari conviventi con una persona "viva ma non vitale",

Scrivevo: L'assorbimento totale dei tre sventurati familiari (la sorella anche dopo il suo matrimonio), nell'assistenza di un corpo smisuratamente cresciuto di altezza e di peso, privo di razionali riflessi e di ogni forma di autosussistenza ... la abnegazione nel vegliare giorno e notte, a turno, il "tronco" cui David era ridotto, nonché l'alternarsi di speranze e delusioni per la sorte futura del congiunto, hanno determinato, almeno nei due genitori, una vera e propria "patologia della sofferenza", che rappresenta una ripercussione biologica dello status infermitatis del figlio".

Ma questo caso non ebbe l'avallo di una pronuncia giudiziaria definitiva, poiché la controversia risarcitoria venne conclusa in via transattiva nelle more del giudizio d'appello, dopo una sentenza - decisamente scandalosa - della 1^ Sezione Civile del Tribunale di Milano.

In una causa risarcitoria pendente avanti al Tribunale di Treviso a seguito della uccisione di un diciottenne, unico figlio maschio di una coppia ancor giovane, il C.T.U. Prof. Bruno Milani di Treviso (specialista in neuropsichiatria, medicina legale, psicologia) così ha descritto la situazione della madre della vittima: "è rimasta colpita in modo permanente, come se le fosse rimasto un arto paralizzato: è incapace di elaborare fisiologicamente l'evento, rimane prigioniera del culto della personalità e del ricordo del figlio, ha trasformato la camera di lui in un piccolo santuario, ha tappezzato la casa di ricordi e foto del figlio, ha cessato ogni attività lavorativa e rapporto sociale, vive di preghiera, di ricordi, di visite quotidiane al cimitero ... ".

A conclusione di una approfondita indagine psicologica condotta su una donna ventinovenne che cinque anni fa perse il fidanzato a tre giorni dalla data fissata per le nozze e che ha dato alla luce un bambino, concepito con la vittima, sei mesi dopo la morte di questa, la dott. Amalia Maria Montresor (Collaboratrice alla Cattedra di Criminologia dell'Università di Padova, Esperta in Psicologia) ha scritto: "Laura è una donna fissa nel lutto, un lutto che ha frammentato la sua vita interna e che le ha tolto qualsiasi possibilità di essere e di porsi come donna. Una donna che non ha e non potrà avere alcun progetto per sé, una donna che vive sopportando la vita. ‘Sopportare la vita:

questo è pur sempre il primo dovere d'ogni vivente’, afferma Sigmund Freud a proposito della morte.

Una affermazione profonda che fa comprendere quanto sia difficile per l'essere umano segnato da un destino di mortalità convivere con la propria e con l'altrui morte.

Fa comprendere quanto la presenza della morte ed il suo verificarsi incida sul decorso della vita di ciascun individuo e quanto la perdita della persona amata risvegli in chi la subisce l'impossibilità di

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sfuggirle, poiché la concretizza e priva chi l'ha subita del piacere del vivere, dell'affrontare con gioia il susseguirsi dei giorni, delle ore, dei minuti.

Laura è una di quelle persone che ha contattato - perdendo l'oggetto amato anzitempo - la morte;

che ne è rimasta sconvolta, frantumata; che non vive ma sopporta per dovere la vita."

I limiti di spazio non mi consentono di segnalare tante altre situazioni drammatiche, in cui si dibattono familiari e conviventi di persone uccise o colpite da macroinvalidità. Interessante - ed anzi necessario - diviene a questo punto:

A) analizzare la varie "tendenze" dei giudici di merito che hanno iniziato ad affrontare queste scabrose situazioni;

B) segnalare e commentare i vari quesiti che sono stati via via posti da giudici istruttori -sensibili e solerti - a cospetto di queste problematiche; mi riferisco (per esperienza personale) a valorosi magistrati di Treviso, Padova, Milano, Vicenza;

C) analizzare i diversi percorsi che, in relazione alla varietà della casistica, ed alla diversa preparazione professionale dei vari consulenti, sono finora emersi, per arrivare a stabilire dapprima l'esistenza e, nella positiva, l'entità del danno biologico in esame;

D) i criteri finora adottati per quantificarne l'entità patrimoniale.

Ma su queste tematiche varrà la pena di indire altro Congresso, avendo di mira - ogni operatore - l'obiettivo indefettibile di attribuire a ciascun danneggiato quanto gli spetta: unicuique suum tribuere!

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