• Non ci sono risultati.

CAPITOLO 4 IL LAVORO MINORILE IN ITALIA

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO 4 IL LAVORO MINORILE IN ITALIA"

Copied!
42
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO 4

IL LAVORO MINORILE IN ITALIA

(2)

4.1. Il lavoro minorile nei Paesi Industrializzati.

Il lavoro minorile, seppure in forme diverse da quelle dei paesi in via di sviluppo, è presente anche nei paesi ricchi. Sono 2,5 milioni i minori al di sotto dei 15 anni che lavorano nei paesi industrializzati1. Questa evidenza ci porta a riconoscere che lo sviluppo economico di un paese, in se stesso, non è in grado di eliminare nel tempo il lavoro minorile.

Nei paesi ricchi il fenomeno presenta delle caratteristiche peculiari: cause, tipologie, profilo dei soggetti coinvolti, legislazione variano rispetto a quelle dei Pvs.

Nella lettura del fenomeno nei paesi del Nord del mondo si deve perciò fare ricorso a categorie interpretative differenti rispetto a quelle usate per i paesi del Sud. Ad esempio, le cause di un inserimento precoce nel mondo del lavoro, nei paesi ricchi rispetto ai paesi poveri, possono essere di tipo diverso. Mentre nei paesi più arretrati il lavoro minorile ha come causa la necessità di integrare il reddito familiare ai fini della sopravvivenza, nelle società a sviluppo avanzato la variabile economica è legata maggiormente al contenimento dei costi (è il caso del minore che lavora in un’azienda familiare) o al soddisfacimento di necessità contingenti (è il caso dei ragazzi che scelgono liberamente di lavorare per esigenze personali di consumo).

Un altro fattore distintivo riguarda il rapporto tra frequenza scolastica e lavoro minorile. Nei contesti occidentali la scolarizzazione è una realtà ormai diffusa e pressoché in ogni paese i ragazzi e le ragazze vanno a scuola almeno fino agli 11 anni, e più spesso fino ai 15, 16 anni. Questo ha degli effetti sull’età del coinvolgimento nel lavoro minorile.

Il lavoro minorile nei paesi occidentali non riguarda i bambini in età di scuola primaria, ma coinvolge principalmente la fascia dagli 11 ai 15 anni. Pertanto, a differenza dei paesi del Sud del mondo, dove il lavoro minorile costituisce il più delle volte un impedimento alla frequenza scolastica, l’inserimento lavorativo non necessariamente comporta l’abbandono scolastico. Il più delle volte, per i minori europei e occidentali i tempi riservati al lavoro non si sovrappongono

ai tempi dedicati alla scuola.

Molto spesso si è in presenza di famiglie non necessariamente disagiate dal punto di vista economico, che scelgono di avviare i propri figli a un’esperienza professionale che non sia in contrasto con la formazione, ma al contrario sia parallela e integrativa rispetto all’esperienza formativa, e magari la arricchisca garantendo al ragazzo un vantaggio competitivo nel contesto sempre più concorrenziale del mercato del lavoro.

Tuttavia, queste forme di lavoro minorile non escludono la presenza nei paesi ricchi di casi di bambini che entrano precocemente nel mondo del lavoro per rispondere alla necessità vitale di integrare il reddito familiare per alleviare l’impatto di una condizione di povertà estrema. Non escludono tanto meno la presenza, seppure meno diffusa, di forme di lavoro minorile che sfociano nello sfruttamento vero e proprio. Spesso si tratta di lavori in nero che non garantiscono l’acquisizione di specifiche capacità professionali e che impegnano i ragazzi tutta la giornata e li costringono ad abbandonare la scuola. In certi casi si tratta di soggetti con un vissuto individuale di emarginazione, preadolescenti che risiedono in zone rurali o nelle periferie delle città, aree caratterizzate da bassi tassi di sviluppo e alti livelli di esclusione sociale e culturale, spesso si tratta dei minori stranieri immigarati.

Anche in Italia il lavoro minorile costituisce un’evidenza quantitativa tale da connotarlo come

(3)

fenomeno non marginale.

Nel rapporto italiano dell’Istituto nazionale di statistica del 2002 viene sottolineato l’elemento di invisibilità del lavoro minorile che, per sua natura, tende a svilupparsi nella clandestinità, nell’illegalità o in contesti privati (in famiglia), rimanendo perciò difficilmente accessibile ai ricercatori.

4.2. La legislazione italiana sul lavoro minorile.

L’evoluzione della legislazione e la Legge n. 977 del 17 ottobre 1967.

Attualmente la normativa fissa in 15 anni l’età minima per l’ammissione al lavoro e comunque vieta l’impiego di minori di età compresa tra i 15 ed i 18 anni che non abbiano ancora portato a termine il ciclo di istruzione obbligatoria.

I principi fondamentali, per la tutela del lavoro dei minori, vigenti nel nostro ordinamento si rinvengono nell’art. 37 della Costituzione e nella legge n. 977 del 17 ottobre 1967. Questa ultima è stata recentemente integrata e modificata dal decreto legislativo n. 345/99 (in recepimento della direttiva comunitaria n.94/33), in materia di protezione dei giovani sul lavoro, dalla legge n.9/99, sull’elevamento dell’obbligo scolastico, e dall’art. 68 della legge n. 144/99, relativo all’obbligo di formazione dei minori.

Le prime iniziative in Italia, in materia di lavoro dei minori, sono da ricondurre prima dell’unità d’italia, agli stati più industrializzati della penisola: così il governo austriaco prima (1844) e lo stato Sardo poi (1859) adottarono i primi provvedimenti e vietarono ai minori di 9 anni il lavoro nelle miniere.

Il problema dello sfruttamento stentava però ad essere risolto concretamente, le proposte avanzate si limitavano ad una riduzione dei carichi di lavoro dei bambini, ad una alternanza ai macchinari o all’introduzione di momenti educativi nell’arco della giornata lavorativa.

Nel 1866 venne promulgata la prima legge organica dello Stato italiano (n. 3657 dell’11 febbraio). Con essa si ribadiva il limite di 9 anni da elevare a 10 per cave e miniere e a 15 anni per i lavori insalubri o pericolosi. Per i minori di età compresa tra i 9 e i 14 anni l’ammissione al lavoro era subordinata al possesso di certificati d’idoneità fisica. La legge, come si può immaginare, si prestava ad essere aggirata con una certa facilità: con la complicità di un medico e di un ispettore del lavoro, qualsiasi datore di lavoro poteva continuare impunemente a sfruttare la fatica dei bambini. Tuttavia, già allora vi era la consapevolezza della gravità del problema e, nel 1869, il ministro Minghetti dispose un’inchiesta governativa sul lavoro delle donne e dei minori. Gli stessi industriali, si resero conto che un miglioramento delle condizioni di vita era necessario, quantomeno, per poter contare su una forza lavoro robusta, resistente ed efficiente. Anche i progressi in campo tecnologico imponevano, quantomeno nell’industria metallurgica e meccanica, una manodopera più specializzata, riducendo così l’interesse per il lavoro infantile. D’altro canto risultava ancora diffuso l’impiego di bambini nel settore tessile e chimico, oltre che, naturalmente, nelle campagne e nelle miniere.

Da segnalare il tentativo del ministro Lanza nel 1870, fallito miseramente, di far passare una nuova legge che sanzionava lo sfruttamento del lavoro infantile riconducendolo al reato di “tratta dei fanciulli”.

(4)

Nel 1876, a seguito della pubblicazione di un’inchiesta sulle solfatare siciliane, fu avanzata una proposta per la riduzione dell’orario di lavoro e per l’innalzamento della soglia dell’età minima di ammissione. Successivamente, la legge n. 242 del 19 giugno 1902, elevò il limite di età a dodici anni (tredici per cave e miniere), confermò il massimo di otto ore lavorative per bambini fino ai dodici anni e di undici ore per quelli dai 12 ai 15 anni ed infine vietò il lavoro notturno per i minori di anni sedici.

Solo nel 1904 si pensò di contrastare il fenomeno mediante l’elevamento dell’obbligo scolastico, che passò dai 9 ai 12 anni. Questa legge tuttavia fu disattesa sia dagli imprenditori che delle famiglie, troppo interessate alla ulteriore fonte di reddito garantita dall’impiego dei bambini. Così nel 1907 fu emanato un Testo Unico che, modificando il testo precedente, introduceva numerose deroghe al divieto di impiego dei minori. Su tale scia nel 1914 fu anche annullato il divieto di lavoro notturno. Ci vollero alcuni anni prima di reintrodurre, in modo chiaro e definitivo, l’obbligo del conseguimento della licenza del primo triennio elementare per l’ammissione al lavoro. In seguito alla Conferenza di Washington nel 1919 e soprattutto in considerazione della Convenzione n.33 del 1932 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, fu formulata la legge n.653 del 1934, con la quale il limite di età fu elevato a 15 anni in conformità alla legislazione internazionale.

Le intenzioni erano ottime, ma le eccezioni rimanevano comunque troppo numerose: la legge non trovava applicazione per i lavori domestici, nel caso di impiego presso parenti o affini, per i lavori a domicilio e per il lavoro agricolo nel quale il fenomeno era molto diffuso. Inoltre l’ispettorato scolastico poteva, con una semplice dichiarazione di inidoneità alla scuola, esonerare i minori lavoratori dall’obbligo scolastico ed anticipare, quindi, il loro ingresso nel mondo del lavoro.

Con la nascita della Repubblica, l’Assemblea Costituente, conscia dell’importanza della materia e pressata dai numerosi impegni assunti a livello internazionale, sanciva nell’art. 37 della Costituzione: “La repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi a

parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione” ed ancora “la legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato”.

Tuttavia solo nel 1967 viene promulgata la legge n. 977 (Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti), ancora vigente, che fissa a 15 anni l’età minima di ammissione al lavoro e, in ottemperanza al disposto costituzionale (art. 37), segna il distacco della disciplina legale del lavoro dei minori da quello femminile fino ad allora equiparati ed accomunati a livello normativo.

Il maturare della coscienza sociale ha reso necessaria una scissione nella disciplina di quelle categorie di lavoratori che fino ad allora erano considerate “mezze forze”. La tutela apprestata per i giovani dalla legge n. 977/67 si pone infatti come obiettivo prioritario quello di raccordare il mondo del lavoro con le esigenze di sviluppo fisico e psichico, con la formazione scolastica obbligatoria e con la formazione professionale necessaria ad un adeguato inserimento nel mercato del lavoro.

La legge n. 977 del 19672

I principi fondamentali dell’attuale disciplina del lavoro minorile in Italia sono contenuti nella legge n. 977 del 1967 integrata dal decreto legislativo n. 345 del 4 agosto 1995, entrato in vigore il

(5)

23 ottobre 1996, che recepisce, con cinque anni di ritardo, la direttiva comunitaria n.33 del 19943 sul lavoro minorile. La legge n. 977/67 si presenta così in armonia con i principi dettati dal legislatore Comunitario.

L’attuale disciplina prevede due condizioni imprescindibili per la costituzione di un rapporto di lavoro anche “speciale”4con un soggetto minorenne:

• il compimento del quindicesimo anno di età; • l’adempimento dell’obbligo scolastico.

Accanto a queste due condizioni la legge n.144 del 17 maggio 1999 art. 68 ne ha sostanzialmente introdotta una ulteriore, prevedendo “un obbligo di frequenza di attività formative fino al

compimento del diciottesimo anno di età” .

Prima condizione: limite di età per l’ammissione all’impiego

Il primo e più importante limite all’impiego di minori, in conformità alla Convenzione n. 138 adottata a Ginevra il 26.6.1973 e ratificata con legge n. 157 del 10.4.1981, è l’età professionale che la legge n. 977/67 determina in 15 anni (art. 3). Tale limite, prima delle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 345/99, poteva essere e abbassato a 14 anni per i servizi familiari, per il settore agricolo o per i lavori leggeri previsti dal D.P.R. n. 36 del 4.1.1971. Le nuove disposizioni hanno vietato, nel modo più assoluto, l’occupazione di “bambini” in età scolare e comunque prima dei 15 anni in armonia con la recente riforma scolastica.

La limitazione per l’età è da considerarsi assoluta e non è più suscettibile di deroghe. Permane infatti, come sola ed unica eccezione, l’impiego di minori di 15 anni, definiti dalla nuova normativa “bambini”5, in attività culturali, sportive e pubblicitarie.

Seconda condizione: obbligo scolastico

La seconda condizione prevista dal legislatore, per la costituzione di un valido rapporto di lavoro con un minorenne, è rappresentata dall’assolvimento dell’obbligo scolastico. Questo secondo elemento definisce in sostanza l’età minima di immissione al lavoro. Infatti, mentre per i minori di quindici anni permane il divieto assoluto di immissione al lavoro (indipendentemente dall’assolvimento dell’obbligo scolastico), per coloro che abbiano compiuto i 15 anni, l’assolvimento dell’obbligo scolastico diviene condizione necessaria per la costituzione di un valido rapporto di lavoro. L’età diviene un requisito soggettivo e potrà variare per ogni minore, a seconda del momento in cui viene conseguito l’adempimento dell’obbligo scolastico.

La legge stabilisce, in armonia con quanto dettato in materia di riordino del sistema scolastico, uno stretto rapporto tra lavoro minorile ed obbligo scolastico.

L’art. 8 comma 2 della legge n.1859/62, disponeva la cessazione dell’obbligo scolastico con il conseguimento del diploma di scuola media dopo aver frequentato per almeno 8 anni le scuole.

3 Approvato dal Consiglio dei Ministri il 29 Luglio 1999 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.237 dell’8 ottobre 1999. 4

La qualifica di “speciale “ di un rapporto di lavoro o contratto, è contenuta nell’art.2 della legge n. 55/25 con riferimento all’istituto dell’apprendistato in forza del quale l’imprenditore è obbligato ad impartire o far impartire la necessaria formazione per divenire lavoratore qualificato.

5

Le nuove disposizioni assorbono nella definizione di “bambino” (da 0 a 15 anni) anche il “fanciullo” che nel vecchio testo della legge n.977/67 indicava i giovani di età compresi tra i 14 ed i 15 anni ammessi al lavoro.

(6)

La recente legge n.9 del 20 gennaio 1999 ha innovato la materia ed ha innalzato l’obbligo a 10 anni. Tale innalzamento ha eliminato la sfasatura esistente tra età scolare dell’obbligo (14 anni) e età di norma stabilita per la capacità lavorativa (15 anni), in ottemperanza ai principi dettati dalla Comunità Europea sull’età minima di ammissione all’impiego.

Tuttavia il superamento della fase transitoria di applicazione della legge sulla riforma della scuola (L.n.9/99), porta all’innalzamento ulteriore di un anno dell’obbligo di frequenza scolastica, fino a 16 anni, riproponendo una sfasatura temporale di un anno, tra l’età minima per l’immissione al lavoro ed il termine per la scuola dell’obbligo.

Con l’entrata in vigore della riforma, a partire dal 1° settembre 1999, tutti gli studenti si debbono iscrivere alla scuola superiore: l’ultimo anno del nuovo obbligo scolastico coincide, infatti, con il primo della secondaria che, in attesa della riforma del ciclo scolastico, rimane comunque strutturata in 5 anni.

Agli studenti che, completato il ciclo obbligatorio, non intendano proseguire nel percorso scolastico facoltativo, viene rilasciato un certificato che attesta gli studi effettuati e le competenze acquisite Costituisce deroga alla condizione dell’assolvimento dell’obbligo scolastico, la possibilità di impiegare minori che abbiano compiuto quindici anni (che ancora frequentano la scuola) in servizi domestici, prestati in ambito familiare, per lavori occasionali e di breve durata svolti nell’ambito dei servizi domestici e purché non si tratti di prestazioni di lavoro nocive. La circolare n. 1/2000 del Ministero del lavoro ha precisato che si deve trattare di prestazioni che non consentono una programmazione e che non abbiano caratteristiche di periodicità. L’”occasionalità” del lavoro viene nella circolare riferita alla prestazione che deve intendersi come “casuale sporadica e periodica”. Decade invece definitivamente la possibilità di impiegare minori, che non abbiano compiuto 15 anni ed assolto l’obbligo scolastico, in agricoltura o in attività industriali o nell’ambito di lavori che la legge n.977/67 definiva “leggeri”6 e previsti dal D.P.R. n. 36 del 4.1.1971.

Il lavoro minorile autorizzato

La nuova legge, oltre a superare la distinzione sessista fra maschi e femmine, in base alla quale i primi erano considerati “fanciulli” e le seconde comunque “donne”, definisce “adolescenti” tutti i soggetti minori tra i 15 e i 18 anni e gli riconosce la possibilità di lavorare a determinate condizioni, sempre che abbiano soddisfatto l’obbligo scolastico. Tale possibilità è infatti circoscritta da limiti di carattere generale e particolare.

Limiti di carattere generale sono, tra gli altri, quelli che vietano l’impiego di adolescenti in lavorazioni che espongono a rischi legati alla mancanza di esperienza e all’assenza della necessaria consapevolezza dei rischi esistenti o virtuali; in attività che vadano obiettivamente al di là delle loro capacità fisiche o psicologiche; che implichino un’esposizione nociva ad agenti tossici, cancerogeni; etc.

Esistono inoltre limitazioni di carattere specifico che escludono l’impiego di adolescenti per

6

La Corte di Cassazione ha precisato che il lavoro poteva considerarsi “leggero” solo quando il suo svolgimento era compatibile con le particolari esigenze di tutela del fanciullo o adolescente, in quanto il divieto di adibire al lavoro i minori di 15 anni tendeva ad impedire l’esposizione degli stessi al pericolo di un danno insito nello svolgimento di qualunque lavoro industriale.

(7)

determinati settori di impiego (nell’Allegato I7 della legge n. 977. allegato 1) per i quali è sicuramente acclarata la pericolosità.

La violazione delle norme poste a tutela dei giovani sul lavoro comporta da parte dell’imprenditore l’assunzione in via esclusiva del rischio di qualsiasi evento pregiudizievole per il minore nell’ambiente di lavoro. Ne consegue che, nel caso di infortunio sul lavoro ai danni di un minore, il datore di lavoro è responsabile di tutte le conseguenze dannose derivatene, anche se scaturite da atti imprevedibili o inconsulti del bambino.

Terza condizione: l’obbligo formativo

Alla luce del dettato costituzionale, la tutela del minore non dovrebbe limitarsi alla sola eliminazione delle situazioni di sfruttamento, bensì, dovrebbe promuovere lo sviluppo delle attitudini personali, delle capacità dei singoli mediante un’ idonea formazione professionale al fine di uno stabile e soddisfacente inserimento nel mondo produttivo.

Lavoro ed istruzione sono al centro del progetto di riordino del sistema scolastico e formativo portato avanti dal Governo. Obiettivo primario è quello di far acquisire obbligatoriamente a tutti i giovani il diploma di scuola secondaria superiore o comunque una qualifica professionale.

Scopo ultimo della riforma, ancora in itinere, è quello di garantire/obbligare tutti i giovani, anche a quelli che non intendano proseguire negli studi superiori, istruzione e/o formazione fino al compimento del 18° anno d’età.

La formazione fino al 18° anno di età costituisce i nfatti il terzo e nuovo requisito per l’ingresso nel lavoro di un soggetto minorenne ed è attualmente disciplinato, nei tratti essenziali, dall’art. 68 della legge n.144 del 1999. L’assolvimento di tale obbligo, istruzione fino ai 18 anni, è previsto attraverso “percorsi anche integrati di istruzione e formazione”:

• nel sistema di istruzione scolastica;

• nel sistema della formazione professionale di competenza regionale; • nell’esercizio dell’apprendistato.

Tuttavia questo terzo elemento, che dovrebbe condizionare l’accesso al lavoro dei maggiori di 16 anni, allo stato attuale non risulta definito nella fase applicativa in quanto la legge contiene una disposizione che ne rinvia l’applicazione ad un regolamento che doveva essere adottato entro sei mesi dalla pubblicazione della legge.

La disciplina del lavoro minorile

La tutela psicofisica del minore: le visite mediche preventive e periodiche

Il datore di lavoro, prima di impiegare i minori, deve effettuare la valutazione dei rischi prevista dall’art. 4 del decreto legislativo n. 626/94 al fine dell’individuazione di tutti i fattori di rischio esistenti, delle loro eventuali reciproche interazioni e della loro entità. Il datore, tenuto conto dell’età, della mancanza di esperienza, della scarsa consapevolezza che il giovane ha del rischio e considerata la necessità di impartirgli una adeguata formazione, affida all’adolescente incarichi compatibili con le sue capacità.

7

L’elenco delle lavorazioni vietate di cui all’Allegato I, è aggiornato ed adeguato costantemente al progresso tecnico ed all’evoluzione della normativa comunitaria con Decreto del Ministero del Lavoro.

(8)

Come stabilito dall’art. 8 della legge n.977/67 l’ammissione al lavoro dei giovani è subordinata all’esito favorevole della visita medica che deve essere comprovata da un apposito certificato da allegare al libretto di lavoro. Il medico deve esprimere, oltre ad un apprezzamento generico sullo stato di salute dell’adolescente, anche una valutazione specifica circa l’idoneità all’attività cui il minore sarà addetto. L’eventuale inidoneità, sia essa parziale, temporanea o totale del minore al lavoro, deve essere comunicata per iscritto al datore di lavoro, al lavoratore ed ai titolari della potestà genitoriale. L’esito negativo delle visite comporta il divieto di occupare il minore nell’azienda.

L’idoneità al lavoro deve essere verificata anche periodicamente per mezzo di controlli medici annuali: in ogni caso la Direzione Provinciale del lavoro può disporre in qualsiasi momento il rinnovo della visita medica preventiva o periodica.

Come per le visite preassuntive, l’inosservanza dell’obbligo delle visite mediche periodiche integra gli estremi di un reato permanente.

L’orario di lavoro

La legge n. 977/67, come modificata ed integrata, disciplina inoltre, l’orario di lavoro (giornaliero e settimanale), i riposi (intermedi e settimanali), le ferie annuali e il lavoro notturno. L’art. 18 fissa in 7 ore giornaliere, e per un massimo di 35 settimanali, l’orario degli adolescenti liberi da obblighi scolastici. Per i minori adibiti al trasporto di pesi, l’art. 19 prescrive che l’orario di impiego non può eccedere le 4 ore, compresi i ritorni a vuoto. E’, inoltre, prevista una pausa obbligatoria di almeno un’ora ogni 4 ore e mezza di lavoro senza interruzione.

L’art. 22 dispone che ai minori deve essere, in ogni caso, assicurato un periodo di riposo settimanale di almeno due giorni, se possibile consecutivi e comprensivi della domenica, con evidente maggiore tutela rispetto alla precedente previsione di legge: si è, infatti, passati dalle 24 ore alle 48 ore di riposo obbligatorio. Il periodo di riposo può essere eccezionalmente ridotto per comprovate ragioni tecniche e/o organizzative ma non può mai essere inferiore alle 36 ore consecutive.

Gli adolescenti, inoltre, non possono essere adibiti al lavoro notturno: con il termine “notte” si intende un periodo di almeno 12 ore consecutive comprendente l’intervallo fra le ore 22 e le ore 6 o tra le ore 23 e le ore 7. I maggiori di 16 anni possono essere, eccezionalmente e per il tempo strettamente necessario, previa dettagliata ed immediata comunicazione alla Direzione Provinciale del Lavoro, adibiti al lavoro notturno se indispensabili per il funzionamento dell’azienda e solo in mancanza di adulti disponibili.

Il divieto di impiego notturno rimane assoluto e non ammette deroghe per gli adolescenti di età compresa tra i 15 ed i 16 anni.

La tutela previdenziale.

I minori di qualsiasi età, anche se adibiti al lavoro in violazione delle norme sull’età minima di ammissione, hanno diritto alle prestazioni assicurative obbligatorie. Pertanto gli istituti assicuratori hanno l’obbligo di erogare le prestazioni richieste dal minore infortunato sul lavoro. Agli enti previdenziali è ovviamente riconosciuto il diritto di esercitare un’azione di rivalsa nei confronti del datore di lavoro per l’importo complessivo delle prestazioni corrisposte al minore ai sensi dell’art. 24 della legge n. 977/67.

(9)

Quest’ultimo ha una portata innovativa di rilievo costituzionale, in quanto “in virtù dell’assunzione sia pure illecita del lavoratore è stata, in effetti, esplicata dal minore stesso un’attività lavorativa che, essendo oggetto di retribuzione, non può non essere coperta e garantita dalle disposizioni di prevenzione e di assicurazione che sono poste a tutela dei minori e che sono state valorizzate nella stessa Costituzione”

Anche nel caso di rapporto di lavoro sorto in violazione delle norme sull’età minima grava, comunque, in capo al datore di lavoro l’onere della contribuzione obbligatoria in via generale oltre allo specifico onere circa le prestazioni previdenziali relative al singolo rischio verificatosi.

La Corte di Cassazione ha, infatti, stabilito che l’applicabilità dell’art. 24 della legge n. 977 soltanto in presenza di un rapporto subordinato fosse eccessivamente restrittiva ed ha ritenuto la normativa applicabile anche nel caso di infortunio occorso ad un bambino addetto ad attività lavorativa in agricoltura nell’ambito del nucleo familiare.

Il diritto alla parità di salario

La Costituzione (art. 37) afferma il diritto alla parità retributiva dei lavoratori minorenni “a parità di lavoro”.

La parità retributiva si realizza in relazione alla qualifica ed alle mansioni da svolgere, indipendentemente dalla parità di rendimento. Pertanto, il minore che ha la medesima qualifica ed esplica le medesime mansioni dei compagni di lavoro maggiorenni ha il diritto di percepire la retribuzione riservata a questi ultimi, anche nell’ipotesi di rendimento inferiore.

A seguito dell’affermazione dell’indirizzo giurisprudenziale che colpisce con la sanzione della nullità le clausole contrattuali (individuali o collettive) che si pongono in palese violazione dell’art. 37 della Costituzione, le discriminazioni retributive sul solo presupposto dell’età sono state abrogate in sede di contrattazione collettiva a partire dai rinnovi contrattuali del 1975/76.

Le sanzioni

Il sistema sanzionatorio vigente prima del decreto legislativo n. 345/9928 comminava, quale massima sanzione, l’arresto fino a sei mesi.

La massima punizione era, però, prevista per l’inosservanza delle disposizioni contenute nell’art.5 lettere a), b), d), e) che disponevano il divieto di adibire fanciulli e adolescenti di età inferiore ai 16 anni a lavori pericolosi, insalubri e faticosi, ai lavori di pulizia e di servizio dei motori e degli organi di trasmissione nonché ai lavori sotterranei nelle cave, miniere e torbiere ed ai lavori particolarmente pesanti e pericolosi di cui alla lettera e) prima del compimento del 18° anno.

Invece, chi occupava un minore in violazione alle norme sui requisiti minimi di età e di istruzione era punito con una sanzione meno grave ovvero con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda da un milione a cinque milioni (delle vecchie lire).

Il decreto legislativo n. 566 del 9.9.94, che teoricamente avrebbe dovuto inasprire le sanzioni, ha fondamentalmente eliminato ogni forma di proporzionalità della pena: in precedenza l’art. 26 comminava la sanzione (penale o amministrativa) in relazione al numero di minori occupati abusivamente e/o al numero di giornate lavorate in violazione dei divieti posti dal legislatore. In questo modo, se le irregolarità erano protratte nel tempo, le sanzioni potevano raggiungere livelli tali da fungere da efficaci deterrenti.

(10)

fino a sei mesi ne ha però notevolmente esteso l’ambito di applicazione. La pena più grave è così prevista nel caso di violazione dell’art. 4 che vieta l’impiego di bambini (minori di anni 15), dell’art. 6 comma 1 che vieta l’impiego di adolescenti nei processi e lavorazioni considerate dannose, ed infine dell’art. 8, comma 7 che punisce chi impiega un adolescente che, all’esito della visita medica, sia risultato non idoneo al lavoro.

Per l’inosservanza delle altre disposizioni si va dall’arresto da uno a sei mesi (o in alternativa l’ammenda fino a dieci milioni), alla più semplice sanzione amministrativa pecuniaria (massimo cinque milioni). Sanzioni sono, inoltre, previste a carico di chi, incaricato della vigilanza sopra un minore, ne consente l’avvio al lavoro in violazione alle disposizioni di legge.

Un dato positivo emerge: per le infrazioni considerate più gravi è stata prevista solo la pena detentiva, sebbene permanga il problema dell’esiguità dei limiti edittali delle pene, scarsamente dissuasive e pertanto inefficaci a garantire la necessaria tutela del lavoratore.

Per stroncare il fenomeno dello sfruttamento dei giovani sul lavoro si è ipotizzato un inasprimento delle pene o in alternativa l’introduzione di altre sanzioni che possano avere maggior effetto dissuasivo come, ad esempio, la possibile irrogazione di una pena accessoria che comporti la chiusura dell’azienda per un certo periodo di tempo.

Sono inoltre al vaglio del Parlamento alcuni disegni di legge che prospettano una modifica al codice penale vigente con l’introduzione del reato di sfruttamento del lavoro minorile.

Altre norme.

L’assetto istituzionale a favore dell’infanzia ha subito nel corso degli anni profondi cambiamenti, e l’interdipendenza tra rapporti internazionali e politiche nazionali ha velocizzato il processo di sensibilizzazione degli organi istituzionali e governativo. Ad esempio, in sede IPEC è sorta la convinzione che la repressione del lavoro minorile sia raggiungibile attraverso la concertazione e il dialogo tra tutte le parti in causa con il coinvolgimento degli organismi locali. Il medesimo principio è stato sviluppato in Italia attraverso l’adozione, da parte del governo e delle parti sociali, di una Carta degli Impegni per la lotta contro lo sfruttamento della manodopera minorile a norma della quale il lavoro minorile è “conseguenza e causa della povertà, perché l’utilizzo dei fanciulli rallenta la crescita economica e lo sviluppo sociale e costituisce una violazione grave dei diritti elementari delle persone umane. Gli interventi sul territorio, secondo il documento, devono basarsi su una sinergia di politiche, leggi e risorse che coinvolga al scuola come “centro di promozione culturale e sociale nel territorio”, poiché l’abbandono e il disagio scolastici sono considerati una delle principali cause che incentivano il lavoro minorile. Sempre in base alla Carta di impegni, emerge la necessità di scoraggiare la fuga dei minori verso il lavoro attraverso: l’introduzione di attività aggiuntive che interessino e motivino gli alunni, una formazione degli insegnanti mirata alle problematiche del disagio e dell’abbandono scolastico e l’innalzamento dell’età per l’adempimento dell’obbligo scolastico (concretizzatosi con la riforma scolastica).

Il 2 giugno 1999 è stato approvato dal Senato un disegno di legge sulla certificazione di conformità sociale dei prodotti realizzati senza l’utilizzo del lavoro minorile, iniziativa che ha l’obiettivo di sensibilizzare i consumatori e di responsabilizzare produttori importatori e distributori. Esigenze di garanzia e di protezione dei cosiddetti soggetti deboli nella loro vita sia sociale sia individuale hanno sotteso alla creazione di un sistema volto alla promozione di diritti e di

(11)

opportunità per l’infanzia e l’adolescenza. La legge 28 agosto 1997, n. 285, ha istituito un Fondo nazionale, finalizzato alla realizzazione di interventi a livello nazionale, regionale e locale che abbiano come punto di riferimento il minore in quanto soggetto prima in fase di sviluppo e poi di realizzazione.

Nello stesso anno, sono stati istituiti la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’Osservatorio nazionale per l’infanzia, con legge 23 dicembre 1997, n. 451. La prima ha compiti di indirizzo e controllo sulla concreta attuazione degli accordi internazionali e della legislazione sui diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva. Sui risultati della propria attività ressa riferisce annualmente alle Camere.

L’Osservatorio ha il compito di predisporre il piano nazionale di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, con l’obiettivo di conferire priorità ai programmi riferiti ai minori e di rafforzare la cooperazione per lo sviluppo dell’infanzia nel mondo. Esso si avvale di un centro di documentazione e di analisi al quale, oltre alle funzioni di analisi delle condizioni dell’infanzia e di raccolta della normativa in materia è attribuito anche il compito di formulare proposte per l’elaborazione di progetti-pilota tesi a migliorare le condizioni dei fanciulli o ad assistere la madre nel periodo perinatale

In concreto, sussistono realtà diverse del lavoro minorile, le quali in alcuni casi si trasformano in forme di schiavitù e sfruttamento, contro cui è stata introdotta la legge 3 agosto 1998, n. 2698. Tale legge considera lo sfruttamento del lavoro minorile come una nuova forma di schiavitù che sfocia in pornografia turismo sessuale e tratta dei minori, tutti reati contro la libertà personale sanzionati con una pena proporzionale al grado di coinvolgimento del reato.

Nel 2000, sempre in relazione al problema dello sfruttamento del lavoro minorile, l’Italia ratifica con legge9 la Convenzione 182 dell’ILO contro le peggiori forme di sfruttamento minorile e, quindi, si prende l’impegno ad adottare con urgenza le misure più idonee per eliminare tali forme lavorative predisponendo mezzi per la riabilitazione e l’integrazione sociale dei minori e sanzionando la violazione di tali misure a livello penale, o comunque con pere appropriate. Insieme ad altre norme e iniziative a livello nazionale, concorre a definire la posizione abolizionista dell’Italia nei confronti del lavoro minorile.

4.3. La normativa a livello di Unione Europea (UE).

La Carta Sociale Europea

La Carta Sociale Europea è stata adottata da Consiglio d’Europa il 18 ottobre 1961, con ultima revisione nel 1996, al fine di riconoscere i diritti dei lavoratori. A riguardo del lavoro minorile, l’art. 7, dedicato ai minori di diciotto anni, vieta l’impiego dei minori di 15 anni e impegna gli Stati ad assicurare protezione agli adolescenti, considerati tali coloro che hanno già raggiunto l’età

8 Legge 3 agosto 1998, n. 269 "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale

in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitu'." Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 185 del 10 agosto 1998.

9

Legge 25 maggio N° 148, "Ratifica ed esecuzione della Convenzione n. 182 relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile e all'azione immediata per la loro eliminazione, nonché della Raccomandazione n. 190 sullo stesso argomento, adottate dalla Conferenza generale dell'Organizzazione internazionale del lavoro durante la sua ottantasettesima sessione tenutasi a Ginevra il 17 giugno 1999.". Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 135 del 12 giugno 2000.

(12)

professionale ma non ancora i 18 anni.

L’età professionale è poi elevata a diciotto in caso di lavori pericolosi o insalubri. In ogni caso, i minori sottoposti all’obbligo scolastico non devono essere impiegati in attività che pregiudichino il suo assolvimento. Una volta stabilita la necessità di limitare l’orario lavorativo, secondo le esigenze del loro sviluppo e della loro formazione professionale (il tempo dedicato ad essa è considerato parte dell’orario di lavoro), è sancito il diritto degli adolescenti e degli apprendisti ad una giusta remunerazione.

Infine, è prescritta la visita medica di controllo, il diritto di fruire di almeno quattro settimane di ferie retribuite e il divieto di lavoro notturno per tutti gli adolescenti. Speciale protezione dovrà poi essere accordata, in relazione alla loro integrità psicofisica, a bambini e adolescenti esposti in via diretta o indiretta a pericoli.

In seguito alla revisione del 1996 si ha una nuova considerazione dei diritti dei minori che lavorano e, conseguentemente, all’introduzione di una norma tesa ad assicurare loro un’adeguata protezione sociale, giuridica ed economica contro pericoli fisici e morali, nel tentativo di rendere effettivo l’esercizio dei loro diritti ed allo scopo di garantirne uno sviluppo sano (art. 17). A tal fine, i firmatari della Carta, si sono impegnati ad adottare le misure appropriate per assicurare l’assistenza, l’educazione e la formazione necessarie, per combattere la negligenza, la violenza e lo sfruttamento

Il diritto comunitario e il lavoro minorile.

Il 16 giugno 1986 il Parlamento Europeo adottava una Risoluzione per sollecitare la Commissione a presentare una proposta di direttiva che, nell’intento di armonizzare le legislazioni nazionali in materia, fissi un’età minima di ammissione al lavoro in cui contestualmente sia estinto l’obbligo scolastico, e vieti il lavoro notturno, il lavoro sotterraneo e le ore straordinarie, i lavori molesti e pericolosi e in generale tutte quelle attività che possano compromettere la salute fisica e psichica, la sicurezza e la moralità degli adolescenti.

Nell’ottica della risoluzione, il lavoro minorile tocca innanzitutto aspetti etici, perché riguarda la sfera della salute, dello sviluppo, dell’educazione e della formazione del minore. In particolare, è messo in evidenza il rapporto diretto tra il fenomeno e il sistema educativo, la situazione di disoccupazione, i movimenti migratori e l’incremento dell’economia sommersa.

Nel 1996 l’Assemblea emana una Raccomandazione sulla lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile come priorità. In questo documento l’organo rileva ufficialmente la presenza del fenomeno anche in Europa e, tra le cause vi sono povertà e emarginazione sociale. I primi interventi che essa ritiene necessari sono un appoggio totale alla Convenzione OIL n. 138 del 1937 e la fissazione di un’età minima di ammissione al lavoro in cui contestualmente si estingua l’obbligo scolastico, alla luce del ruolo prioritario dell’istruzione per un’azione di prevenzione del lavoro minorile. In particolare, un’istruzione che fornisca formazione per un futuro impiego costituisce un incoraggiamento alla frequenza scolastica, concorrendo a ridurre le più crudeli di sfruttamento.

L’impegno civile è fondamentale in questo contesto, laddove il fenomeno di presenti nascosto e non riconosciuto. L’azioni di parti sociali, mezzi di comunicazione e ONG deve dunque tendere ad attività di informazione sul fenomeno, anche al fine di rafforzare l’azione politica.

(13)

L’Assemblea rileva, inoltre, la mancanza di una documentazione europea in materia. A seguito di tali osservazioni, essa raccomanda al Comitato dei ministri di chiedere agli Stati Membri di combattere lo sfruttamento economico dei bambini attraverso:

1. Una chiara politica nazionale;

2. Un programma di azione con adeguate risorse per la sua realizzazione;

3. L’utilizzo di ricerche sistematiche e finalizzate all’intervento in tutti gli ambiti che riguardino il lavoro minorile;

4. Il riesame della legislazione per renderla conforme agli standard sociali posti dal Consiglio d’Europa, dalla Convenzione della Nazioni Unite sui diritti dei bambini e dalle inerenti Convenzioni dell’OIL;

5. Il rafforzamento dei servizi ispettivi scolastici e del lavoro;

6. Un maggiore coinvolgimento delle parti interessate quali sindacati, datori di lavoro, ONG e gli stessi bambini e famiglie;

La Raccomandazione dell’Assemblea segue di due anni la Dichiarazione europea sulla protezione dei minori sul lavoro emanata nel 1994 che, nel rivolgersi a tutti coloro che non hanno compiuto i 18 anni, vieta il lavoro dei minori che non hanno raggiunto l’età professionale, momento in cui si auspica che termini anche l’obbligo scolastico. Il lavoro degli adolescenti, per contro, deve trovare protezione attraverso un’attenta regolamentazione che fissi i procedimenti per valutare i rischi specifici cui il giovane possa essere esposto e per informare il lavoratore dei risultati della valutazione. In presenza di pericoli concreti, il datore di lavoro è obbligato all’adozione di misure adeguate di prevenzione, dalla modifica delle condizioni di lavoro al cambiamento del posto di lavoro. Le condizioni di lavoro e le mansioni devono dunque essere appropriate all’età del lavoratore, onde il divieto per tutti i minori di 18 anni di compiere lavori che li espongano a sostanze nocive, che richiedano uno sforzo fisico o psicologico eccessivo, che presentino rischi di incidenti che siano pericolosi per la salute.

La Direttiva contiene disposizioni precise sul contenuto della legge nazionale in merito a:

• lavoro notturno: è vietato tale lavoro ai bambini tra le ore 20 e le 6 e per gli adolescenti tre le 22 e le 6;

• riposo: di almeno dodici ore consecutive dopo ogni dopo ogni turno di ventiquattro ore e un riposo settimanale di almeno due giorni, riducibile, solo in caso di comprovate ragioni di ordine tecnico od organizzativo, a non meno di trentasei ore;

• divieto a tutti i minori di svolgere lavori che siano pregiudizievoli per la salute e per lo sviluppo.

La legge italiana su lavoro dei minori è stata resa conforme a quanto stabilito dalla Direttiva attraverso l’entrata in vigore del d.lgs. n. 345 del 1999, che ha modificato la legge 977 del 1967.

(14)

4.4. Dati sul lavoro minorile.

Secondo un’inchiesta pubblicata nel 2001 dalla CGIL10, in Italia circa 400.000 bambini ed adolescenti lavorano, prima di aver raggiunto l’età normativa minima stabilita.

L’indagine statistica fu elaborata sulla base di alcuni indicatori, utilizzati per effettuare un’analisi qualitativa del fenomeno e dare un profilo dei minori che lavorano precocemente ed alle relazioni e dinamiche che essi intrecciano all’interno di vari contesti: la famiglia, la formazione, il tempo libero e il lavoro.

Gli indicatori impiegati vengono di seguito analizzati: 1. Sesso età e storia lavorativa.

La quasi totalità dei minori intervistati è di sesso maschile (91%); questo dato non deve essere utilizzato per stabilire un legame biunivoco tra lavoro minorile e sesso maschile. La natura del dato dipende da scelte metodologiche: nell’indagine vengono considerate le tipologie di lavoro minorile associate al concetto di produzione e salario e non è preso in considerazione il settore del lavoro minorile legato alle attività di tipo informale, quali il lavoro di cura e assistenza in ambito familiare e il lavoro domestico, nel quale sono impiegate le femmine per la maggioranza.

Il 97% dei minori intervistati ha un’età compresa tra gli 11 e i 14 anni, mentre il restante 3% ha meno di 11 anni e quasi tutti i minori sono compresi nella fascia d’età che corrisponde a quella dell’obbligo a livello di scuola media inferiore.

Da un lato questo ultimo dato spiegherebbe l’evoluzione del lavoro minorile, da fenomeno che coinvolge i bambini e bambine di ogni età, il fenomeno assumerebbe una fisionomia a cui corrisponde l’inserimento precoce e illegale nel mondo del lavoro di minori che sono pre-adolescenti.

Dall’altro lato, il dato va letto tenendo conto della storia lavorativa dei minori che lavorano, che rivela che il 40% lavora da più di due anni11, il 33% lavora da meno di un anno e il 27% da più di un anno e da meno di due anni. Ciò significa che una parte significativa dei minori intervistati ha un rapporto con il lavoro da un arco di tempo rilevante, che investe probabilmente anche la fascia di età relativa alla scuola elementare.

Se per certi versi, quindi, ha un suo riscontro con la realtà affermare che il lavoro minorile riguarda in particolar modo i pre-adolescenti, d’altro canto non si può sottovalutare il fatto che molti di loro lavorano fin da quando erano bambini.

10 G. Paone e A. Teselli Anna, Lavoro e lavori minorili. L’inchiesta Cgil in Italia, Ediesse, Roma 2000 11 Per più di due anni si intende un arco di tempo che va da due anni fino a cinque/sei anni.

(15)

Grafico N° 1 STORIA LAVORATIVA Lavora da più di 2 anni 40% Lavora da meno di 1anno 33% Lavora da più di 1 anno e da meno di 2 anni 27%

FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

2. Gli indicatori relativi al lavoro: settore, tipologia della mansione, datore di lavoro, orario e retribuzione.

Più del 60% dei minori intervistati lavora nel settore commerciale legato ai generi alimentari e ad altre tipologie di merci. I minori che operano nel settore del commercio lavorano come camerieri in bar e ristoranti o garzoni di negozio. Anche i minori che lavorano negli altri settori tendono a svolgere mansioni generiche, in genere poco formative e professionalizzanti, legate ad attività di pulizia e/o di relazione di base con il cliente. Si tratta, quindi, di attività generiche, spesso rifiutate dal lavoratore adulto, che non richiedono la conoscenza e lo sviluppo di competenze specifiche.

Sembra, così, che il lavoro minorile sia trasversale rispetto alla tipologia di settore di lavoro in cui il minore riesce ad inserirsi: non emerge, cioé, un settore di lavoro come ambito privilegiato del lavoro minorile, bensì un tipo di attività, genericamente definibile di “bassa manovalanza”, compatibile con diversi settori, dal commercio all’artigianato, all’edilizia. Risulta assente l’ambito delle grande industria, probabilmente sia perché in questo settore sono richieste competenze specialistiche ed è necessario ricoprire ruoli specifici, cosa che il minore può difficilmente soddisfare, sia perché c’è un maggiore controllo istituzionale e delle parti sociali.

Tavola N° 1

SETTORI E SPECIFICHE DI LAVORO*

Settore di lavoro Percentuale Specifiche del settore di lavoro

Commercio alimentare 47% Vendita prodotti agricoli Ristorante, pizzeria

Bar, supermercato alimentare Macelleria Pasticceria Panetteria Artigianato e commercio settore automobili 15% Officina Distributore di benzina Parcheggiatore Commercio non alimentare 17% Abbigliamento-tessile

Vendita ambulante Artigianato 12% Falegnameria

Calzoleria Parrucchiere Sartoria

(16)

Edilizia 10% Muratore Operaio Idraulico Elettricista

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

Il macrosettore del terziario e dei servizi, rappresenta quindi, un ambito in cui si concentra il lavoro minorile in esercizi di piccola a media entità che possono trarre un valore aggiunto per la loro attività dall’impiego dei minori in mansioni di bassa manovalanza.

Grafico N° 2

TIPOLOGIA DELLA MANSIONE*

Il minore svolge una mansione specifica 45% Il minore non svolge una mansione specifica 55%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione

Il decentramento produttivo di questo macrosettore favorisce processi e situazioni legate all’irregolarità, sia dal punto di vista ispettivo, sia da quello economico. Nel primo caso i controlli delle istituzioni e dei sindacati sono molto difficili in unità produttive piccole e decentrate, e diventano quasi impossibili quando queste unità sono a conduzione familiare. A riguardo della richiesta economica, le unità produttive di piccola e media entità tendono a produzioni non in scala, ma a forte intensità di lavoro, a cui ben risponde il lavoro del minore che si caratterizza per salari bassi, orari flessibili, scarsa tutela e disponibilità verso mansioni umili e ripetitive.

Secondo una logica di mercato, all’interno di tale settore il lavoro minorile “conviene”, in quanto i rischi e gli eventuali svantaggi nell’impiegare un minore sono molti ridotti, mentre restano solo i vantaggi di tipo economico legati al valore aggiunto che il lavoro non tutelato dei minori garantisce all’attività produttiva.

Considerando, allora, l’indicatore datore di lavoro, si rileva che il 70% dei minori intervistati lavora presso terzi e, solo il 30% lavora in famiglia.

Il dato deve essere letto da più punti di vista. Innanzitutto si può dire che il lavoro minorile non è funzionale esclusivamente al bisogno di sussistenza economica e/o di maggiore produttività e valore aggiunto legati all’impresa familiare. Il fenomeno in analisi è inserito nel mercato del lavoro per conto terzi e dipende, semmai, dai meccanismi di funzionamento e dalle regole gestiti da un sistema extrafamiliare.

A livello di domanda il lavoro dei bambini è in entrambi i casi, che sia interno al contesto familiare o che ne sia esterno, funzionale alla stessa logica di mercato che trasforma le caratteristiche intrinseche del lavoro minorile (bassi salari, orari flessibili, scarsa tutela e

(17)

duttilità del lavoratore) in valore aggiunto per le imprese.

Anche rispetto all’indicatore orario di lavoro il 65% lavora in modo continuativo dal lunedì fino al venerdì o al sabato, l’8% lavora sette giorni su sette. Inoltre, circa la metà dei minori intervistati lavora per 8 ore o più al giorno, a tempo pieno durante la giornata, cioè sia la mattina sia il pomeriggio.

Grafico N° 3 GIORNI DI LAVORO*

Alcuni giorni 25% Solo il sabato

1% Dal lunedì alla

domenica 8% Dal lunedì al sabato 35% Solo la domenica 1% Dal lunedì al venerdì 30%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

Emerge che il legame tra lavoro minorile e un orario di lavoro che indica un impegno molto forte e rappresenta un elemento importante di caratterizzazione del fenomeno. Il valore aggiunto che il minore porta con il suo lavoro ad un’impresa dipende non tanto dalla specificità professionale della mansione svolta, quanto dalla flessibilità e dalla quantità di ore di lavoro rispetto, per esempio, alla retribuzione.

In secondo luogo, però c’è un gruppo di minori che lavora in modo saltuario solo alcuni giorni alla settimana, al mese o durante l’anno; in aggiunta c’è un gruppo che lavora in modo continuativo durante la settimana, ma solo il pomeriggio o solo la sera, fino al massimo di 5-6 ore al giorno.

Grafico N° 4

ORE DI LAVORO PER GIORNO LAVORATIVO*

Almeno 4 ore 14% Meno di 4 ore 11% Più di 4 ore 23% Almeno 8 ore 30% Come capita 3% Più di 8 ore 19%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

(18)

Il lavoro minorile si caratterizza, quindi, anche come fenomeno legato all’occasionalità, alla saltuarietà: pochi giorni al mese, o qualche ora al giorno, o qualche giorno alla settimana. Dal punto di vista della domanda di lavoro minorile, anche questa forma è funzionale a determinati contesti lavorativi: in questo caso il lavoro dei minori pare legato non tanto al bisogno di soddisfare livelli e ritmi di produzione quanto a quello di fornire un valore aggiunto rispetto al cliente e il datore ricava benefici, perché arricchisce il prodotto pagando molto poco e correndo scarsi rischi.

Bisogna tenere in considerazione anche i casi di lavoro “straordinario”, vale a dire, che non rispettano il numero di ore di lavoro del minore stabilite per legge, quando il bambino lavora in orari non usuali come la mattina molto presto o la sera molti tardi. Il 40% dichiara di svolgere un’attività lavorativa prima delle 7 del mattino e dopo le 20 di sera. Questa particolarità di orario coinvolge le varie categorie di minori: hanno abbandonato la scuola o frequentano, lavorano saltuariamente o continuativamente, hanno un datore di lavoro esterno oppure lavorano nella famiglia e la maggioranza delle imprese sono vicine all’abitazione del minore.

L’orario di lavoro, nell’indagine, viene definito in due categorie:

Continuativo: l’insieme di attività lavorative svolte dal minore in modo costante in rapporto all’anno, al mese e alla settimana;

Saltuario: le attività svolte in modo non costante e stabile durante l’anno, il mese e la settimana.

A riguardo dell’effettivo valore della retribuzione percepita dal minore, questa è definibile come paga medio – bassa (il 25% riceve tra le 100.000 e le 200.000 delle veccie Lire) ed è versata a cadenza settimanale (nel 64% dei casi). Di conseguenza si deduce che la paga non è adeguata all’impegno di lavoro del minore che copre talvolta l’intero arco della settimana e, in aggiunta, le modalità di retribuzione indicano l’esistenza di precarietà del rapporto di lavoro.

Considerando le esperienze lavorative, il 38% dei ragazzi ha già avuto esperienza di lavoro, mentre per i 62% si tratta della prima esperienza.

Un altro indicatore molto importante è costituito dalla presenza o meno di coetanei nel posto di lavoro. Circa il 27% dichiara di avere compagni della stessa età nel proprio ambiente lavorativo.

Considerando la categoria di minori che lavorano per un numero di ore consistente (oltre le 4 ore) durante l’arco della giornata, l’inchiesta aveva registrato che la maggioranza (76%) interrompe il lavoro per il pranzo, con una pausa che in genere varia dalla mezz’ora ad un’ora e circa il 47% mangia sul posto di lavoro. Questa categoria di minori, inoltre, è caratterizzata dal fatto che in più della metà dei casi 54% ha alcuni giorni di vacanza, che spesso però non vengono pagati (71%)

Infine, analizzando l’indicatore infortuni sul lavoro, emerge che il 13% dei bambini che lavora ha avuto un infortunio e che nel 61% dei casi il padrone nasconde l’incidente occorso al minore e solo nel 10% dei casi è intervenuta la polizia.

(19)

Tavola N° 2

IL LAVORO E GLI INFORTUNI*

Lavora con strumenti a motore Si No

27% 73% Ha avuto un infortunio sul lavoro Si

No

13% 87% Il padrone ha nascosto l’incidente Si

No

61% 39% Il minore ha avuto soldi a causa dell’incidente Si

No

12% 88% Ci sono stati incidenti ad altri compagni di lavoro Si

No

8% 91% E’ intervenuta la polizia Si

No

10% 90% Il padrone ha nascosto l’incidente Si

No

56% 44% Ci sono stati incidenti mortali Si

No

1% 99%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

3. Gli indicatori della relazione tra scuola e lavoro: il rapporto con la scuola.

I minori intervistati si distribuiscono rispetto alla frequenza scolastico in modo eterogeneo e non è vero che solo chi abbandona la scuola si inserisce precocemente e illegalmente nel mondo del lavoro, infatti il 58% degli intervistati lavora e frequenta la scuola.

Tra coloro che frequentano la scuola, il 55% lavora in modo saltuario e il 45% in maniera continuativa. Nel caso di coloro che hanno abbandonato la scuola, l’80% lavora in modo continuativo e il 20% in modo saltuario.

Considerando il livello di ripetenza, il 15% degli intervistati ha ripetuto qualche anno nella scuola elementare e l’80% di questi ha ripetuto durante il primo ciclo della scuola elementare. Il 5% ha vissuto anche esperienze di interruzione e ripresa degli anni di frequenza della scuola elementare, legate a diverse ragioni (problemi di salute, motivi familiari, disagio scolastico). I problemi nel percorso scolastico, nati nella scuola elementare, aumentano nella scuola media inferiore, in cui, in cui il 41% dei minori intervistati ha ripetuto qualche anno scolastico, in particolare la prima media (54%) e il 66% ha ripetuto più di una volta.

All’interno del percorso di vita dei minori uno degli elementi che giocano un ruolo importante nell’orientare il minore verso un ingresso precoce e illegale nel mondo del lavoro è rappresentato dalle concrete e rilevanti difficoltà incontrate nella scuola, che si traducono in una incapacità ad investire nel percorso formativo legato alla scuola. L’80%, infatti, pensa di non continuare a frequentare la scuola dopo quella dell’obbligo.

(20)

Tavola N° 3

ATTEGGIAMENTO DEL MINORE VERSO LA SCUOLA E IL FUTURO*

Frequentano la scuola in modo saltuario Si No 23% 77% Se pensa di continuare: quale

scuola Istituto tecnico Artistico Scientifico Classico Professionale Non so 12% 15% 9% 3% 50% 12% Se non pensa di continuare:

cosa farà

Lavorare Non so

97% 3% Pensa che la scuola sia utile Si

No

64% 36% Pensa che ciò che ha studiato

potrà essere utile

Si No 61% 39% Per cosa Competenze formali Cultura generale Per crescere Fare concorsi Lavorare Non so 44% 23% 13% 3% 12% 5%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL

Tavola N° 4

RELAZIONE LAVORO SCUOLA*

Su 100 minori che lavorano e frequentano la scuola Frequentano la scuola in modo saltuario

Frequentano la scuola in modo continuativo

55% 45% Su 100 minori che hanno abbandonato la scuola

Frequentano la scuola in modo saltuario Frequentano la scuola in modo continuativo

20% 80%

FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

4. Gli indicatori sulla famiglia: relazione tra il lavoro dei minori e il nucleo familiare.

Un altro elemento fondamentale per definire la fisionomia del lavoro minorile è quello della cultura familiare: l’inchiesta ha cercato di delineare quali sono i modelli adulti di riferimento e le dinamiche familiari che influenzano il minore, orientandolo verso un ingresso precoce e illegale nel mondo del lavoro.

La maggior parte delle famiglie cui appartengono i minori intervistati si caratterizzano come nuclei “normali”. Più del 75%, infatti, vive in famiglie in cui sono presenti entrambi i genitori e solo il 3% vive in contesti destrutturati in cui non è garantita la presenza neanche di uno dei genitori. Il 21% è inserito in una tipologia di famiglia “spezzata”, in cui, cioè, uno dei due genitori è assente per diversi motivi (separazione o divorzio, lavoro, carcere, morte).

(21)

Grafico N° 5

PRESENZA DEI GENITORI*

Nessun genitore 3% Solo 1 genitore 21% Padre e madre 76%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

Per quanto riguarda la grandezza del nucleo familiare, i minori intervistati vivono in famiglie non allargate, ovvero in cui non sono presenti altre figure oltre i genitori e figli.

Inoltre si tratta di nuclei familiari abbastanza numerosi rispetto alla quantità di figli; il 38% vive in famiglie con quattro figli e il 39% con più di quattro figli.

Il 36% vive in nuclei familiari con un genitore e uno o due figli, mentre il 31% con entrambi i genitori e uno o de figli.

Tavola N° 5

SETTORI E SPECIFICHE DI LAVORO*

Tipologia del nucleo famigliare Percentuale

1° Genitori e 1 o 2 figli 31%

2° Genitori e 3 figli 31%

3° Genitori e 4 o più figli 38%

* Per 100 minori che vivono in famiglie con entrambi i genitori FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

L’indicatore “numerosità del nucleo familiare” insieme a quello della presenza-assenza dei genitori rappresentano, quindi, elementi correlabili al lavoro precoce e illegale dei minori. Per comprendere le dinamiche di questa correlazione approfondiamo gli elementi legati ai modelli e alla cultura parentale di riferimento, al reddito familiare e ai settori di lavoro in cui opera il nucleo familiare.

A riguardo della composizione, non sembra rappresentare un elemento rilevante la posizione che il minore occupa all’interno della famiglia: i minori intervistati si distribuiscono in modo omogeneo rispetto a questo elemento, cosicché non si può dire che il fatto di essere nato per primo o per ultimo rappresenti un fattore rispetto a cui valutare l’ingresso precoce e illegale nel mondo del lavoro.

Un altro aspetto per comprendere i modelli genitoriali cui è legato il lavoro illegale e precoce dei minori è quello del titolo di studio dei genitori.

Il 50% hanno entrambi i genitori che hanno frequentato solo fino alla scuola elementare, circa il 30% hanno sia la madre sia il padre che hanno ottenuto il diploma si scuola media

(22)

inferiore e il 15% non hanno alcun titolo si studio. La quasi totalità dei genitori, ha seguito un percorso formativo scolastico, nella migliore delle ipotesi, solo fino alla scuola dell’obbligo, senza aver avuto alcun contatto con il circuito formativo della scuola superiore.

Tavola N° 6

TITOLO DI STUDIO DEI GENITORI*

Elementare Media inferiore Professionale Niente

Titolo di studio del padre 48% 31% 4% 16%

Titolo di studio della madre 48% 34% 2% 15%

* Per 100 padri e per 100 madri dei minori intervistati FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

Molti dei genitori dei minori intervistati infatti, hanno avuto esperienze di lavoro minorile in età precoce: ad esempio la metà dei padri ha iniziato a lavorare prima dei 15 anni e quasi il 13% è entrato nel mondo del lavoro prima dei 10 anni di vita. Considerando poi l’età di inizio del lavoro dei fratelli e delle sorelle registriamo un aspetto interessante: in genere i componenti di sesso maschile tendo a seguire il modello paterno.

Si può dedurre, che per storia e vissuti personali, l’atteggiamento delle famiglie rispetto all’ingresso precoce e illegale dei minori nel mondo del lavoro è di tipo positivo o, comunque non conflittuale, in quanto il lavoro precoce è stato introiettato come esperienza vantaggiosa e non patologica o deviante. La totalità delle famiglie dei minori intervistati, infatti, sanno che i minori lavorano e la maggior parte (80%) è soddisfatta del fatto che il minore sperimenti un’esperienza di lavoro.

Per meglio capire questo atteggiamento positivo della famiglia all’ingresso del figlio minore nel mondo del lavoro, la ricerca considera anche il lavoro dei genitori e il numero dei componenti della famiglia che lavora.

Il 40% dei padri lavora nel settore dell’artigianato o fa l’operaio, il 17% è impiegato, il 14% è commerciante e il 12% lavora nel settore agricolo. Le madri, per il 66% sono casalinghe, il 13% svolge attività a domicilio legate al settore del lavoro informale e il 6% lavora nel settore impiegatizio e un altro 6% fa l’artigiana o l’operaia.

Tavola N° 7 LAVORO DEL PADRE*

Agricoltore Commerciante Impiegato Disoccupato Professione libera

Pensionato Operaio e/o artigiano

12% 17% 17% 8% 3% 3% 41%

* Per 100 padri dei minori intervistati. FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

(23)

Tavola N° 8

LAVORO DELLA MADRE*

Agricoltore Commerciante Impiegato Disoccupato Professione libera

Pensionato Operaio e/o artigiano

5% 3% 13% 1% 6% 6% 66%

* Per 100 madri dei minori intervistati. FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

Emerge, che la percentuale di disoccupazione è bassa, infatti solo l’8% dei padri non ha un lavoro e quindi non si può stabilire una correlazione forte tra il lavoro minorile illegale e disoccupazione nella forma di assenza totale di un reddito familiare proveniente dal lavoratore adulto.

Valutando i settori in cui lavorano i genitori, si può rilevare una parte significativa di minori che non svolge attività di sostegno all’interno dell’impresa familiare, bensì ha una madre casalinga, un padre lavoratore spesso come dipendente presso qualche azienda o esercizio artigianale, e lavora presso terzi. Il lavoro dei minori, potrebbe rappresentare una fonte rilevante di integrazione del reddito familiare. Il 50% degli intervistati fa parte di nuclei familiari definibili come “monoreddito”, e il restante 50% sono inseriti in famiglie in cui ci sono minimo due redditi. Di conseguenza, non sempre si può correlare il lavoro dei minori all’integrazione del reddito familiare, l’elemento economico non è il solo a prevalere ma bisogna tenere in considerazione anche il fattore culturale. La famiglia rappresenta per il minore un modello: quando lo coinvolge nella gestione dell’impresa familiare o quando rappresenta un elemento facilitatore qualora il minore voglia sperimentare un’esperienza di lavoro.

Questo insieme complesso di motivazioni, aspettative e tendenze che formano l’atteggiamento della famiglia rispetto al progetto di vita del minore si riflette anche nelle motivazioni che i ragazzi dichiarano essere alla base della loro esperienza lavorativa. Il 27% dice di lavorare per aiutare la famiglia, il 25% per avere denaro, il 22% per imparare un mestiere e il 13% per non andare a scuola. Solo l’1% degli intervistati non sa perché lavora.

Tavola N° 9

MOTIVAZIONE AL LAVORO*

Per non andare a scuola Per aiutare la famiglia Per avere denaro Perchè gli piace Per imparare un mestiere Non sa 13% 27% 25% 12% 22% 1%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione. FONTE: Elaborazione CGIL, 2001

Nelle tipologie di risposta “lavoro per aiutare la famiglia” e “lavoro per imparare un mestiere” emerge l’influenza diretta del modello familiare sul minore, più o meno esplicita. A riguardo di ci che fanno i minori con il denaro guadagnato, risulta che il 38% dà quasi tutti i soldi che guadagna alla famiglia, il 26% ne consegna una parte e il 36% non dà nulla e qui si possono collocare quella percentuale di minori che lavora per avere denaro.

Il denaro viene speso in maniera differente: per comprare beni di ordine primario, per divertimento e soddisfare di evasione e di impegno del tempo libero o per comprare beni di

(24)

consumo secondari (telefonino, scarpe di marca, etc.).

Tavola N° 10

CHE COSA FA IL MINORE CON IL DENARO*

Rispetto alla famiglia Non dà niente alla famiglia

dà qualcosa alla famiglia Dà quasi tutto alla famiglia

36% 26% 38% Per se stesso Cose necessarie Divertimento

Spese per cose che gli piacciono Spese personali

33% 30% 21% 16%

* Le percentuali si riferiscono all’intero campione. FONTE: Elaborazione CGIL, 2001.

Dai dati si deduce che i minori che lavorano per avere denaro lo utilizzano per sé, puntando a realizzare bisogni di gratificazione personale o di autoaffermazione attraverso il possesso di determinati beni.

Da questo punto di vista, la famiglia potrebbe rappresentare un elemento facilitatore per il minore: comunicherebbe, cioè, talvolta anche a livello molto profondo e inconsapevole, un insieme di motivazioni, aspettative e tendenze tali da influenzare e orientare il minore verso quegli atteggiamenti e comportamenti centrati sulla possibilità di acquisire e consumare determinati beni piuttosto che verso altri.

Infine, considerando l’effettivo valore della retribuzione percepita dal minore, che come detto in precedenza è definibile come medio – bassa, il suo reale potere di acquisto risulta essere piuttosto scarso o limitato.

5. Gli indicatori sul tempo libero.

Per comprendere come i minori lavoratori trascorrono il loro tempo libero, sono stati considerati vari indicatori:

Il gruppo dei pari. La maggior parte dei minori fa parte di un gruppo: il 49% ha tanti amici e solo il 21% dice di avere pochi amici. Rispetto alla tipologia del gruppo di pari, il 63% ha amici coetanei e solo l’11% ha amici più grandi. Nel gruppo dei pari sono presenti più compagni di scuola che compagni di lavoro. La scuola, invece, sembra rappresentare per i minori che lavorano, un contesto significativo in cui sviluppare relazioni con i coetanei.

Le attività svolte nel tempo libero. La maggior parte, il 60%, non pratica uno sport, ma le piacerebbe farlo. Il 90% dei minori guarda la televisione e o fa prevalentemente la sera, il 61% e la notte il 10%, probabilmente perché questi per il minore che lavora sono i momenti della giornata più disponibili. I passatempi preferiti sono lo sport, il computer e i videogiochi, anche se il 55% dice di non avere un passatempo. In generale, quindi, non si rileva una significativa partecipazione dei minori che lavorano ad attività legate al tempo libero, cui corrispondono vissuti di frustrazione e di disagio legati alla mancata realizzazione dei bisogni associabili

Riferimenti

Documenti correlati

 Indica le persone in cerca di occupazione rispetto alle forze di lavoro complessive?.  Si ottiene come rapporto tra le persone in cerca di occupazione e le forze di

(PER BUONI CARE GIVER E BADANTI) descrizione delle prestazioni assicurate dal caregiver familiare e/o personale di assistenza regolarmente assunto da sostenere con il Buono.

I dati del Secondo Rapporto mondiale sul lavoro minorile elabo- rato dall’International Labour Organization (ILO) indicano nel 2004 circa 218 milioni di minori tra i 5 e i 17

I ricercatori hanno raccolto tante testimonianze e, forti anche delle proprie esperienze, hanno verificato come spesso i minori affrontano condizioni rischiose e molto faticose:

interessante ricordare quella nata nel 2020 a napoli che collega 10 scuole di 4 quartieri difficili della città, e coinvolge l’assessorato alla Scuola del Comune e 17 organizzazioni

(possibile una sola risposta) famiglia tradizionale in cui alla donna sono affidati i compiti di cura della casa e dei figli?. famiglia non tradizionale in cui i compiti di cura

Dopo aver risposto alla prima domanda, stampate il disegno su carta o cartoncino, ritagliate i vari pezzi e ricostruite il puzzle quadrato di Aurelia usando i cinque pezzi

nostro gruppo di ricerca ha sviluppato un sem- plice sistema nel quale un macrociclo transita unidirezionalmente lungo un asse molecolare in modo ripetitivo usando la luce come unica