PARTE III
CAPITOLO V
IL TEATRO DI DIONISO NEL BUIO DEL ’68
Nella primavera del 1966 un’ulcera colpisce Pasolini e lo costringe a trascorrere un intero mese a letto, pressoché immobile: la convalescenza gli impedisce di operare senza sosta come la sua vulcanica personalità lo pungolerebbe a fare, ma gli dà l’occasione preziosa di dedicare più tempo del solito alla lettura e allo studio e così, tra i classici antichi, il poeta rilegge – e in alcuni casi legge per la prima volta – i tragici e alcuni dialoghi platonici. Anche se non possiamo sapere con assoluta precisione quanti e quali testi prese in mano, è possibile ricavare alcuni titoli dalle interviste e soprattutto dalle opere successive all’aprile ’66; e ormai da diversi anni la letteratura sui film “greci” e sulle sei tragedie in versi ha infatti chiarito quello che invece non fu subito chiaro, cioè che una fra le letture pasoliniane più prolifiche ebbe per oggetto proprio la tragedia attica di V secolo a.C.1 In riferimento al «nuovo teatro» si sono fatti pure i nomi del Simposio, del Fedone e del Fedro, però a torto, ossia dando troppo credito alle dichiarazioni di Pasolini; tutte e tutti in ogni caso, inclusi gli assertori del contributo platonico alla genesi del «teatro di Parola», concordano sul fatto che sono i tragici – specialmente Sofocle ed Euripide, aggiungo io – ad aver lasciato un segno indelebile nell’opera dei secondi anni ’60: e perché l’intero corpus drammaturgico ideato durante la convalescenza si rifà al modello attico del V secolo a.C. e perché in particolare tre tragedie si inseriscono appieno nel macrotesto delle riscritture novecentesche del teatro greco (Pilade, Affabulazione e Teorema2). Anche guardando al cinema si può fare un
discorso simile: altrimenti dai sei/sette drammi le pellicole non sono accompagnate da un programma che rivendica uno stretto legame genetico con la tragedia antica, ma da
La terra vista dalla luna (1967) a Medea (1969) se ne possono cogliere diversi richiami,
1 Il ritardo si spiega anzitutto con l’incompiutezza di cinque delle sei tragedie: vivente l’autore fu pubblicata una
sola versione definitiva (Calderón, 1973), mentre Pilade e Affabulazione, che erano state edite rispettivamente nel 1967 e nel 1969 su Nuovi Argomenti, furono in seguito soggette a profonde modifiche e mai licenziate al pari di
Bestia da stile, Porcile e Orgia; il secondo motivo della tarda ricezione riguarda ancora il teatro: soltanto Orgia fu
messa in scena dal suo stesso autore malgrado nel progetto teatrale complessivo l’attenzione per la rappresentabilità e per il luogo fisico del «nuovo teatro» fosse considerevole. La terza ragione ha invece a che fare con il cinema: Medea fu un insuccesso sia al botteghino sia per la critica cinematografica, e altrimenti da Appunti per un film sull’India (1968) il gemello Appunti per un’Orestiade africana fu rifiutato dalla Rai nel 1970, presentato a Venezia nel settembre del 1973 nella cornice ‘ufficiosa’ delle Giornate del cinema italiano e solo post mortem entrò nella distribuzione cinematografica – ma d’essai: contro le intenzioni illustrative, paideutiche del regista (!); per molti anni appannaggio di pochi eletti (e.g. chi prese parte al convegno Eschilo e l’Orestea, organizzato a Siracusa dall’Inda nelle giornate 19-22 maggio 1977), è solo a partire dal 2005 che grazie al restauro curato dalla Cineteca di Bologna il secondo capitolo della “trilogia” greca ha cominciato ad avere maggiore circolazione (e maggiore attenzione critica).
2 Teorema fu concepito solo inizialmente come tragedia in versi: diventò presto un film e un romanzo (1968); a
parte la sua natura anfibologica, che lo sottrae a una classificazione assoluta – come del resto Porcile: sia tragedia sia pellicola –, in seguito (par. 5.1) vedremo che Teorema più degli altri film mantiene un legame particolare con il teatro pasoliniano, sia tematico (la crisi della famiglia patriarcale) sia strutturale (tragedia come mitopoiesi, non come traduzione intersemiotica).
dal semplice motivo della morte-rinascita della moglie bella e devota (Assurdina Caì) – con buona probabilità ricavato dall’Alcesti di Euripide perché l’episodio pasoliniano del film collettivo Le streghe ha, tra le sue fonti antiche, un altro paradigma greco (Esopo) – fino alla traduzione “fedele” di due tragedie “integrali” (Edipo re e Medea); o dal legame concettuale fra gli Appunti per un film sull’India e gli Appunti per un’Orestiade
africana, cioè fra due pseudo-avantesti girati in terre che a partire da L’uomo di Bandung sono interpretate come nuove contrade della Grecia in virtù del loro sostrato
sacrale-animale3, fino all’idea di mettere in crisi la produzione greco-tragica del ’66 proprio con la nuova Orestiade di Eschilo – versione che dopo il sequel mitopoietico di
Pilade (solidale con tutti gli altri testi “greci” del periodo) si configura appunto come
opera inclusiva, e che si pone un serio interrogativo sulla bontà dell’interpretare il presente dell’Africa nera attraverso uno sguardo poetico-antropologico sul passato di Eschilo4. Il segno indelebile del tragico però travalica il teatro e il cinema ed è proprio al resto del corpus che si intende qui guardare, pur senza prescindere in toto dalle opere più note e studiate (appena menzionate). Da solo il tema del nuovo capitolo potrebbe essere oggetto di una ricca monografia, il che è appunto avvenuto (La Grecia secondo
Pasolini); e su questa produzione degli anni 1966-1969 esiste una letteratura critica
vastissima, raccolta nella bibliografia finale: ma si tratta per lo più di studi di breve respiro, solo Massimo Fusillo e Stefano Casi (nel quarto capitolo de I teatri di Pasolini), hanno studiato tale Grecia macroscopica in profondità e con sguardo panopsios. Come dissi nelle pagine introduttive, non intendo riconsiderare nel dettaglio il periodo più creativo del classicismo pasoliniano perché la mia vuole essere una ricerca innovativa, che privilegia il microscopico e l’ignoto, e non ambisce a soppiantare i due studiosi bensì soltanto a integrarli e aggiornarli: nell’attesa di studi iperanalitici sulle singole tragedie e sui film – che non paiono imminenti giacché richiedono uno sforzo collettivo, d’équipe5 – chiunque voglia mettere bene a fuoco Edipo re, Medea e Appunti per
un’Orestiade africana deve tuttora leggere la monografia di Fusillo; e chi Pilade, Affabulazione e il complesso delle tragedie, quella di Casi, che limitatamente al teatro
ha già riveduto con profitto alcune valutazioni di Fusillo. Pertanto mi limiterò a riassumere questa fertile stagione creativa – di cui, lo si è visto, ho già tenuto conto dall’archaiologia sino al capitolo precedente – concentrandomi sui testi ancora ignoti: le poesie tout court. Saranno prese in considerazione alcune opere cinematografiche e teatrali, ma osservandole da una prospettiva nuova: quella dei versi; e spero che anche grazie a questi ultimi la traiettoria del classicismo pasoliniano tragga ulteriori, migliori lumi.
3 Cfr. supra, par. 2.2.
4 La pars destruens più evidente corrisponde alle due sequenze in cui Pasolini, invece di commentare in over-sound le riprese africane, si fa filmare mentre discute con alcuni giovani immigrati in un’aula dell’Università di
Roma La Sapienza.
5 Penso soprattutto ai film: che andrebbero studiati filologicamente in ogni minimo aspetto, dalla fase scritta alla
produzione fino all’opera montata (da studiare quest’ultima sia nei rapporti con gli omnia pasoliniani, con la storia del cinema, con gli ipotesti greci, etc., sia nei dettagli iconici, musicali, verbali, gestuali, etc.).
5.1. Una Grecia (quasi) ‘solo’ barbarica: il teatro e il cinema del ’66
L’unico errore di prospettiva di Fusillo sta nella demarcazione fra un gruppo di opere ‘barbariche’, ossia visive, oniriche, poco permeabili al razionalismo dei codici letterari scritti, e un gruppo di testi ispirati di converso al logos platonico, segnati dal dominio della «Parola»: lo studioso ammette di schematizzare, così facendo, e riconosce che forze antitetiche convivono tanto fra i primi (soprattutto Edipo re e Medea) quanto tra i secondi (le sei tragedie); ma nella sostanza reputa giusta tale suddivisione6. Io non ne sono persuaso non soltanto alla luce delle indagini sulle ‘fonti’ bibliografiche che Fusillo invece non ritiene produttive né consone al taglio della sua monografia, ma anche sulla base di una più approfondita considerazione dei componimenti poetici e soprattutto di una lettura del teatro pasoliniano corroborata dalle ricerche di Casi. Secondo quest’ultimo il richiamo di Pasolini a Platone ha indotto in errore molti critici perché i dialoghi in realtà non avrebbero influito sulla «forma» delle sei tragedie bensì sul «senso» complessivo dell’operazione (avviare un discorso pedagogico sull’eros); del pari Casi evidenzia che la «colonna vertebrale» del teatro del ’66, come quella di Edipo
re e Medea, è costituita dal «mistero sacrale», cioè dalla rilettura della tragedia greca
come «rito culturale»: come si vede, dopo Fusillo pure Casi rileva che le sei tragedie sono animate da tensioni contraddittorie, ma dando correttamente un risalto maggiore alla loro natura orgiastico-misterica lascia intendere che la Grecia barbarica è l’unica possibile Grecia secondo Pasolini, ossia che non esiste una differenza veicolata dai due differenti media utilizzati7 – mi sembra un’idea più aderente alla realtà, però è possibile puntualizzarla meglio. A parte la contraddizione interna alle singole opere, è davvero ravvisabile un’antitesi fra una lettura più viscerale del mito greco e una invece più razionale, e per la precisione essa contrappone Edipo re, Teorema, Medea e le sei tragedie al solo Appunti per un’Orestiade africana, l’unico testo dialettico e imperniato sulla decostruzione ‘socratica’ del sapere, nonché estraneo all’evasione celata dietro alle visioni cupe di tutti gli altri; come ha suggerito l’excursus del capitolo precedente, l’unica frattura interna al gruppone interessa Edipo re e Medea – nei quali sopravvive un’ideologia metafrastica che li lega segretamente e alle traduzioni proprie e ad Appunti
per un’Orestiade africana –, eppure non è così profonda da spezzare i vincoli fra le
nove opere. Il limite principale del quarto capitolo di Teatri di Pasolini riguarda le letture platoniche dell’aprile 1966: nonostante la grande perizia, alla fine Casi sopravvaluta le dichiarazioni del poeta e si fa depistare; data l’assenza di specifiche citazioni e riscritture di ‘testi’ di Platone reputo azzardato considerare le sei tragedie allo stesso tempo un «convivio-teatro»8 e un mistero sacro (o un’orgia, come suggerisce la prima omonima tragedia). Che il Pasolini auto-recensore del Calderón accenni proprio al Simposio perché il dialogo platonico è inserito in una cornice ‘teatrale’ (il 6 Cfr.F USILLO 1996, pp. 8-26. 7 Cfr. C ASI 2005, p. 167-196. 8 C ASI 2005, p. 178.
banchetto con cui Agatone celebra la vittoria negli agoni drammatici) e perché i personaggi monologherebbero sull’eros come quelli concepiti durante la malattia9, è un’idea suggestiva, ma debole: si scontra con il concreto disinteresse di Pasolini per Platone, e cioè con il fatto che il nostro era da lungo tempo attratto più dalla figura di Socrate che da quella dell’allievo. Dobbiamo riconoscere a Casi il merito di aver svincolato la composizione delle sei tragedie dalla folgorazione dell’ulcera, vale a dire di averle contestualizzate nella stagione di comune fermento teatrale avviato in Italia nel 1964, e, più in generale, di aver rivelato la profonda attenzione per un genere artistico invece “poco” praticato dal poeta-cineasta; tuttavia anche il fondatore dell’Accademia non era una novità per il Pasolini drammaturgo e non saranno perciò dei dati trascurabili i seguenti: che i dialoghi menzionati fra gli anni ’60 e ’70 siano gli stessi letti e studiati al Liceo Galvani (specialmente il Fedone)10; che tra le opere letterarie, gli articoli e le interviste il nome di Socrate ricorra più del nome di Platone; e che le uniche due citazioni testuali di un dialogo platonico (la prima posta in epigrafe a un saggio di
Empirismo eretico, la seconda nel discorso Contro la televisione) siano tratte dal Fedone, cioè dal testo-apologo sulla morte del Maestro – riscritto da un poemetto
pascoliano (La civetta) che non a caso il Pasolini laureando incluse fra i più belli11. Intendo dire – ancora una volta – che l’educazione scolastica si rivela un bagaglio fondamentale, dal quale nemmeno l’adulto smette di attingere: non metto in dubbio che Pasolini avesse riletto nel mese di convalescenza alcune opere di Platone, però il motivo del piacere per tale ‘rilettura’ risiedeva sia nell’elogio di Socrate fatto dall’ubriaco Alcibiade (nel Simposio) sia in primis nella morte del Maestro12; perché, come ha segnalato Bazzocchi, fin dall’ultima grande opera precedente l’attacco d’ulcera (Uccellacci e uccellini) il poeta aveva recuperato il giovanile amore per la figura di Socrate per decostruire ironicamente le due opposte ideologie già irrise due anni prima, con violenza, nel Poema per un verso di Shakespeare13: il corvo, definito «Socrate sublime e ridicolo»14, non muore avvelenato bensì arrostito dai due allievi, interpreti
9 Cfr. C
ASI 2005, p. 178 e, più a monte, PASOLINI 1999a, p. 1932.
10 Cfr. Verbali del collegio dei professori e dei consigli di classe, 1931, 1932, 1933, 1934, 1935, 1936, 1937-1942 –
Volume XIII, pp. 79, 229, 275 (Archivio del Liceo Galvani). Fu letto per intero – in traduzione – solo il Fedone (cfr. Bibliografia, 1.2.2), ma del Simposio e del Fedro era fatta menzione in entrambi i manuali allora in uso nella sezione C (Antonio Aliotta, Storia della filosofia, vol. I, Il pensiero antico e medievale, 1936; Augusto Guzzo, Prospetti di
storia della filosofia, 1938); di tutti e tre i dialoghi erano per giunta forniti brani più e meno estesi nell’eserciziario di
greco adottato da Gallavotti (scil. DECIA-PAOLI 1937).
11 Cfr. supra, sottopar. 0.3.1. Ma, come già segnalato, nella tesi di laurea Pasolini dà inoltre risalto alla mania
poetica teorizzata nel Fedro e soprattutto alla ‘statua’ di Sileno, il termine di paragone al quale Alcibiade alla fine del
Simposio avvicinava Socrate (un passo che non è tra le fonti dirette del Sileno di Pascoli ma il nostro aveva ben
presente; vd. la nota seguente).
12 Vd. P
ASOLINI 1999a, p. 2511 (corsivo mio): «Nel ’65 [sic] sono stato un mese a letto ammalato, e, durante la
convalescenza, ho ripreso a lavorare – e – forse perché durante la malattia avevo riletto Platone, con una gioia che non so descrivere – mi son messo a scrivere del teatro». Notevole che l’ubriacatura di Alcibiade fosse ricordata pure in Amado mio: vd. PASOLINI 1982, pp. 172-173. La nota del Meridiano cita in proposito la plutarchea Vita di Alcibiade perché oltre all’«ubriachezza» è evocata la celebre mutilazione delle Erme; ma per quest’ultimo dettaglio
non ritengo necessario richiamare un testo greco preciso: trattandosi appunto di un episodio celebre, poteva averlo incontrato nelle lezioni di storia (o nel manuale) del professor Evangelista Valli.
13 Cfr. B
AZZOCCHI 2015, p. 98, n. 18.
14 P
troppo letterali della massima di Giorgio Pasquali: «I maestri esistono per essere mangiati in salsa piccante». L’unico vero elemento socratico-platonico delle sei tragedie del ’66 sta dunque in questa specifica decostruzione ironica: valida perfino per dei testi tanto inquietanti – fino a che punto lo vedremo tra breve – perché qui come nella pellicola del ’65 e poi in Petrolio/Vas e Salò – ma non in Edipo re e Medea – la serietà del discorso non intende affatto precludere il riso al lettore/spettatore esperto; naturalmente non bisogna eccedere nella comparazione esistendo più caratteri inconciliabili che in comune, eppure lo spoudogeloion che Lago riscontra in tutte le opere appena menzionate, da Uccellacci e uccellini fino a Salò, è un dato di fatto (ora più ora meno evidente) e potrebbe non essere un esito della sola metamorfosi satirica già discussa nel secondo capitolo15. Si tratta quindi di un paradigma ideale e ‘vago’, non
è presente in concreto come lo sono invece i poeti tragici. Anche se la mia tesi dovrebbe ormai aver chiarito che l’amore di Pasolini per il mondo classico non si riduce alla letteratura, alla mera poesia, ancora in tutti gli anni ’60 riguarda anzitutto tale ambito; il nostro cerca “solo” di sottrarlo alla comunicazione scritta, di arricchirlo di voci e corpi: per quanto innovativo, rimane un poeta «destinato ad adorabili topi di biblioteca»16. La dichiarazione citata poc’anzi, nella nota 12, è imprecisa cronologicamente e reticente, ma è importante che la «gioia che non sa descrivere» alluda a una lettura di piacere: perché tale, a mio giudizio, fu la rilettura dei dialoghi platonici nel 1966; otium che si limitò ad alimentare una passione pedagogica radicata da lungo tempo, una vocazione che era nata ai tempi dell’università – e non in stretta relazione con i dialoghi –, non si era mai spenta fino ad allora e avrebbe continuato ad ardere fino alla morte, nella fattispecie fino a Gennariello e agli altri articoli di giornale raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane. Le affermazioni di Pasolini e di qualsiasi altro scrittore o scrittrice andrebbero verificate sui testi e l’unico passo “greco”-tragico che sembra seguire da vicino l’esempio socratico – ma sempre senza riferimenti puntuali al verbo di Platone – è il confronto con gli studenti africani dell’Università di Roma in Appunti per
un’Orestiade africana; nel prossimo capitolo vedremo che nell’ultimo anno di vita la
figura di Socrate è soppiantata da quella cinico-lucianea di Diogene, ossia da un modello filosofico ancora più estremo, tuttavia già nell’intervista presso La Sapienza si può cogliere una strenua volontà di rovesciare gli insegnamenti profferti nel commento in over-sound alle riprese africane: con un doppio bersaglio: e la lettura marxista-thomsoniana dell’Orestea e il tema cruciale dell’esportazione della democrazia17.
15 Cfr. L
AGO 2007, pp. 156, 162.
16 Cfr. supra, par. 1.5.
17 Aggiungo solo che l’approccio logico-razionale del film lo aveva protetto a monte da una critica mossa invece
alla messinscena del 1960: quella di aver idealizzato il mondo primitivo: perché per visualizzare il ‘passato’ di sangue che l’Oreste negro avrebbe forse sublimato attraverso l’adesione al modello socialista filo-cinese, il regista non optò per tranches de vie primitivistiche, cioè non fotografò buoni selvaggi colti in una natura incontaminata, bensì ricorse a immagini ‘moderne’ (raffinerie in fiamme, coacervi di cadaveri di soldati, etc.) desunte da materiale di repertorio girato principalmente durante la guerra civile nigeriana, scoppiata nel maggio 1967, ossia l’altrieri rispetto all’oggi del film e, mutatis mutandis, l’oggi rispetto a noi stessi se si considera che l’Africa è ancora terreno di guerre fratricide – ed è proprio questa la conferma che il nostro fece benissimo a filmare e a montare il dissenso di alcuni suoi interlocutori sulla democrazia occidentale di Atena (già espresso per la verità, per via non dialettica, nel Pilade).
Occorre precisare però che la tensione didascalica di questa pellicola non deriva soltanto dal vago paradigma socratico, è anzi in rapporto sia con quel processo di traduzione “didattica” che ho cercato di illustrare nel capitolo precedente – Pasolini stesso commenta alcune riprese leggendo brani della versione siracusana – sia con Eschilo medesimo. Come ho anticipato poco fa il teatro e il cinema del ’66 nacquero dalla lettura/rilettura di Sofocle ed Euripide, solo tangenzialmente di Eschilo: questo perché, anche a fronte dell’interpretazione thomsoniana suggeritagli da Lucignani, il nostro aveva visto nel primo dei tre poeti tragici quello più organico alla polis ateniese e quindi, in un momento di spiccata regressione ideologica, non poteva più riconoscervi un modello; Eschilo sopravvisse solo per essere capovolto dal suo stesso traduttore, dapprima nella pellicola commissionata dalla Rai e in seguito dal finale apocalittico di
Medea, che segnò la fine ultima della speranza in una sintesi tra passato e futuro. A
partire dalla seconda metà degli anni ’60 Pasolini era senza dubbio più attratto dai due tragici eterodossi, critici, cupi; non lo confermano solo Edipo re, Pilade, Teorema,
Affabulazione e Medea, ma per giunta le poesie che vedremo in seguito. Per il momento
atteniamoci alle tragedie e ai film; e vediamo anzitutto di riassumere il portato del «nuovo teatro».
Il tema unificante del teatro del ’66 è la tragedia dei figli, per la verità un tema ricorrente già da lungo tempo: dal dramma lirico-esistenziale del figlio diverso, messo in croce (Edipo all’alba), fino al dramma politico della meglio gioventù, prima friulana poi romana infine africana. La differenza sostanziale è che la malattia ricorda al poeta il passare del tempo: contribuisce cioè a renderlo consapevole che pure lui, malgrado il vitalismo adolescenziale e la rinuncia alla paternità, è giunto nell’odiata età dei padri; e da questa nuova prospettiva, come sintetizza bene lo scritto iniziale di Lettere luterane, la morte della ‘nuova’ gioventù non appare più esclusivamente carnale, bensì anzitutto spirituale: i nuovi giovani periscono non tanto perché mandati a morire lontano dal Potere (maschile), ma soprattutto perché morti dentro, nevrotici. La tragedia di cui parla il teatro del ’66 è l’Italia degli anni di piombo, della falsa contestazione del ’68: al neo-padre i ragazzi che ha visto crescere appaiono irrimediabilmente «infelici», tutti variamente vittime del Nuovo Potere, quel fascismo dei consumi creato dai loro stessi padri (genitori senza Edipi). Il bersaglio privilegiato dei sei drammi è dunque costituito dai giovani borghesi (intellettuali, rivoluzionari, poeti incerti, etc.), e per traslato dal loro intero quadro familiare: quindi anche i padri, anche le madri, anche le sorelle. Siffatto tema e siffatto bersaglio determinano una svolta radicale rispetto alle traduzioni di Eschilo e di Sofocle dei primi anni ’60: Pasolini non cerca più di sviluppare una poesia dialogante con il pubblico ma cerca di rappresentare in forma misterica, straniante, la tragedia in atto; una poesia nuova e al contempo antica – perché guarda
Senza dubbio in diverse sequenze il Pasolini autore di Appunti per un’Orestiade africana ci conferma il suo amore creaturale (ed erotico) per il popolo africano, ma senza più illusioni politiche.
più al modello attico che alla tradizione moderna18 – per degli eletti, diretta a dei destinatari ‘unici’: gli odiati borghesi che vorrebbero rivoluzionare la società senza però accorgersi che sono rivoluzioni fittizie se non si protegge ciò che a suo giudizio andrebbe tutelato più di ogni altra cosa, il polo positivo della tradizione (in primis il sentimento del sacro). L’esclusione di un target ampio è dichiarata polemicamente sin dai commi 2-5 del Manifesto per un nuovo teatro, scritto e pubblicato proprio nel ’68, ma si ricava dai testi medesimi, che risultano tanto complessi quanto lo sono molti degli originali greci letti durante la convalescenza: concettualmente complessi, intendo, giacché nello stile sono molto difformi dall’Edipo all’alba, mettono anzi a frutto la ricerca di quella lingua da dirsi a teatro avviata con le traduzioni classiche oggetto del capitolo precedente. Benché il nostro, coniando l’espressione «teatro di Parola»19, abbia
riservato una grande attenzione all’aspetto linguistico-comunicativo e quest’ultimo abbia costituito senza dubbio uno dei primi nuclei della riflessione sul teatro da
Orestiade fino al coinvolgimento nel dibattito intorno alle ultime sperimentazioni
drammaturgiche (1960-1965)20, si tratta di un verbo Poetico, visionario, irrazionale:
mythos che evoca di continuo la tragedia di Corpi senz’anima; non logos, non rhesis,
non dialogo. Parola e Corpi, sono questi i motori del teatro del ’66: perché attraverso una Parola poetico-liturgica si rappresenta la tragedia dei Corpi-automi in atto in Italia: dunque non un’opera drammatica tout court, ma un «rito» misterico di cui i pochi eletti (mystai) ai quali si rivolge il drammaturgo sono i compartecipi21. Così la semplificazione retorica avviata dalle versioni conduce paradossalmente allo xenon, cioè all’effetto straniante: a tragedie classico-contemporanee da cui la maggioranza è esclusa a priori; ma in realtà, alla fine, lo è pure la gran parte dei convenuti, incapace di seguire quest’ultima svolta pasoliniana, il suo parlar figurato, con il sesso elevato a suprema allegoria della condizione politica attuale – un’innovazione non molto diversa da quella del suo ultimo film (Salò): dove al modello del mistero pagano subentra quello del mistero medievale (e dantesco). L’undicesima sezione del Manifesto per un
nuovo teatro, intitolata Il «rito» teatrale e corrispondente ai commi 36-41, può aiutare a
comprendere l’origine di tale concezione dionisiaca delle sei tragedie; vi compare un compendio della storia del teatro come «rito»: in primis quello «naturale», che sarebbe
18 «Il nuovo teatro si vuol definire, sia pur banalmente e in stile da verbale, ‹teatro di parola›. La sua
incompatibilità sia col teatro tradizionale sia con ogni tipo di contestazione al teatro tradizionale, è dunque contenuta in questa sua autodefinizione. Essa non nasconde1 di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese,
saltando completamente l’intera tradizione moderna del teatro rinascimentale e di Shakespeare». (PASOLINI 1999a,
pp. 2483-2484 = Manifesto per un nuovo teatro, comma 7; alla n. 1 aggiungeva: «Con candore neofitico»). Si tenga presente che appena prima di questo scavalcamento della tradizione moderna, cioè al comma 6, il manifesto rifiutava l’intero teatro contemporaneo, riassunto nelle due correnti del Gesto o dell’Urlo (ossia il teatro d’avanguardia) e della Chiacchiera (il teatro accademico). Il manifesto è testo forse più insidioso delle stesse tragedie perché non parla né banalmente né con oggettività da verbale, ricorre anzi all’ironia e ad affermazioni perentorie e bellicose che si richiamano alla tradizione futurista – cfr. CASI 2005, pp. 214-215 –, perciò non bisogna prenderlo alla lettera: la
tradizione classica ha un’indubbia priorità e certamente il nostro percorre una via teatrale eccentrica all’interno della contemporaneità, ma non desume tutto dai tragici greci.
19 La maiuscola ricorre per la prima volta al comma 13, e da lì in poi, sempre. 20 Cfr. C
ASI 2005, pp. 136-141.
21 Cfr. C
«lo spettacolo che si svolge ogni giorno», poi quello «religioso» della proto-tragedia (orgiastico, coreutico), dopo ancora il «rito politico» dell’Atene di V secolo a.C., quindi il «rito sociale» moderno, incarnato da Shakespeare e degenerato nel teatro accademico, infine quello «teatrale», della svolta sperimentale, contestatario. A tutte queste fasi Pasolini contrappone il suo teatro-rito definendolo, oltre che teatro di Parola, «rito culturale»22. È fondamentale che nella sezione successiva – nonché l’ultima – il poeta respinga con veemenza le sole ultime due fasi mentre del teatro greco, sia nella sua forma evoluta sia nello stadio embrionale del ditirambo, segnali a un tempo l’irrecuperabilità e la grande bellezza: è vero che alla fine proclama di fondare un rito nuovo – «culturale» in quanto rivolgendosi ai pochi sessantottini vorrebbe mettere in moto un pensiero più approfondito e complesso di quello della contestazione –, eppure nelle pieghe del manifesto, nemmeno troppo nascosta, si può cogliere la grandissima simpatia per l’arcaico; per ciò che in teoria non gli sembra più possibile. Un autore ambizioso come Pasolini non era certo intimorito dalla sfida di ricreare «il più grande teatro del mondo»23 (ossia quello attico) e la portò avanti amalgamando i due riti
(«religioso» e «politico») che pure diceva irrecuperabili, incrociando i tragici greci con l’idea della tragedia pre-classica, dionisiaca24. Tale proposito era senza dubbio legato alla svolta antropologica attestata anche dal cinema coevo, ma esistono delle fonti specifiche, fino a oggi ignote: ne La Grecia secondo Pasolini si parlava di imprecisati «dizionari mitologici»25 che io non sono riuscito a precisare, preciso in compenso che negli anni ’60 entrarono nella biblioteca del nostro due volumi che dedicavano diverse pagine alla tragedia attica, dalla sua formazione fino a Euripide: La letteratura greca di Cecil Maurice Bowra (Garzanti, 1962) e Gli antichi Greci di Moses Israel Finley (Einaudi, 1965)26. Entrambe le opere avevano un fine divulgativo, ma credo che Pasolini si sia servito in profondità solo della seconda perché la prima rappresentava un mezzo già antiquato e lui deve essersene accorto in virtù dei validi studi bolognesi: era stata concepita infatti quasi trent’anni prima della traduzione italiana per la collana garzantiana Saper tutto e per molti versi risultava analoga alla letteratura (greca) del Rostagni (in primis per la poca attenzione per il dato storico-filologico). Al contrario il volumetto di Finley costituiva uno strumento d’informazione aggiornato; scritto per giunta non da un letterato tradizionale, ma da uno storico attento – “come” Thomson – agli aspetti sociali del mondo antico. Altrimenti da quanto aveva fatto Bowra lo storico americano non tracciava una epitome del corpus letterario dei tre tragici: di scarso interesse per un poeta vorace e, nel fortunato frangente dell’aprile ’66, eccezionalmente
22 Vd. PASOLINI 1999a, pp. 2497-2499. 23 P
ASOLINI 1999a, p. 2498.
24 Rivelatore in tal senso è uno dei cartelli-slogan realizzati dallo stesso poeta per la prima della sua unica
messinscena teatrale (Orgia, prodotta dallo Stabile di Torino e rappresentata tra il novembre e il dicembre 1968 presso un magazzino di una zona periferica del capoluogo piemontese): «Solo il rigore di un RITO CULTURALE può
ricordare il sacro orrore del RITO RELIGIOSO che fu il teatro delle origini» (PASOLINI 2001b, p. 316).
25 F
USILLO 1996, p. 16.
26 Cfr. C
dotato di molto tempo utile alla lettura integrale dei testi27; Finley sintetizzava in una decina di pagine la nascita del Teatro ad Atene, sottolineando i due aspetti segnalati anche dal nostro: rito religioso e rito politico. Ma quello che reputo l’elemento più interessante agli occhi di Pasolini è proprio l’approccio storico, la cura per i dettagli ‘materiali’ (trascurati invece da Bowra): dall’organizzazione degli agoni drammatici delle Grandi Dionisie all’architettura del Teatro di Dioniso del V secolo a.C. (ligneo, «primitivo»28). Nozioni di questo genere non dovevano essere una novità assoluta per il nostro, che aveva frequentato il corso di Coppola sulla tragedia greca, fu assiduo lettore del manuale di Pericle Ducati29 e aveva partecipato anche al convegno di apertura della sedicesima tornata di rappresentazioni classiche del Teatro greco di Siracusa, eppure il sunto fatto da Finley deve averlo aiutato a chiarirsi le idee sul quadro storico-religioso della tragedia; la tesi di una Grecia grandiosa, fondatrice di molte strutture della civiltà occidentale ma al contempo primigenia, arcaica, deve aver contribuito all’invenzione creativa della Grecia barbarica del teatro e del cinema del ’66. Dopo Finley, d’altronde, il poeta prese in mano Il trattato di storia delle religioni di Eliade e Il ramo d’oro di Frazer per sceneggiare Medea di Euripide: altri due libri che non tracciavano una storia antropologica della tragedia30, ma furono utilizzati proprio per dare un’interpretazione del dramma euripideo e del mito argonautico anzitutto in termini di dinamiche culturali. In sostanza, Pasolini ha dato una lettura anticlassicistica del sublime tragico, in anticipo rispetto ai tempi: ha precorso in forma creativa quello che oggi è divenuto addirittura di moda nell’ambito degli studi. Ciò che nei sei drammi accade in una forma liberamente ‘filologica’31, in parte accade anche nelle tre pellicole tratte da Sofocle ed Euripide (Edipo re, Teorema e Medea): ma, venuta meno la Parola, il mistero del sesso – specie in Teorema – sopravvive veicolato dall’immagine, dai soli Corpi.
Proprio Teorema è l’anello intermedio che ci permette di passare dall’opera drammaturgica a quella cinematografica. Diversamente dalle altre due pellicole (sullodate), qui l’ipotesto non è rivelato né seguito – in nessuna sequenza – in maniera pedissequa; le Baccanti di Euripide hanno “soltanto” fornito un’idea-chiave, anzi la stessa idea motrice della tragedia antica, aggiornata al ’68: quella di una crisi generata nella polis dalla visita del giovane Dioniso; nonché l’esito: la «strage» in cui finiscono i mille Pentei che non riconoscono il giusto valore al culto dionisiaco, all’irrazionalità della religione primitiva. È il regista medesimo a evidenziare il legame con l’opera di Euripide, lo fa in una lettera aperta a Silvana Mangano pubblicata nella famosa rubrica curata negli anni ’60 sul settimanale Tempo (Il caos); e lo fa a seguito del sequestro e processo per oscenità ai quali andò incontro il film (solo in Italia!). La lettera è molto
27 Cfr. BOWRA 1962, pp. 65-99. 28 F
INLEY 1965, p. 97.
29 Per il teatro ligneo di Dioniso vd. D
UCATI 1939, pp. 386-388.
30 Vi si avvicinava in compenso il libro di Thomson, che però non era stato letto dal poeta-traduttore, solo filtrato
attraverso il colloquio con Lucignani.
31 Parlo anche in questo caso di filologia perché pochi continuatori contemporanei dei tragici greci hanno contato
su un’analoga formazione classica d’eccezione e su un confronto diretto con i testi, affiancato anche da qualche lettura scientifica.
bella anche perché il poeta è autocritico – lo sarà sempre più negli ultimi anni di vita –: ammette di non essere nemmeno lui in grado di seguire appieno la follia «benigna» e «maledetta» di Dioniso, di seguirla solo a metà, irretito dalla nevrosi generale della società contemporanea; però del pari scaglia un’accusa violenta contro i Pentei italiani che lo stanno processando: «mediocri», «meschini», «imbecilli», ma soprattutto «infelici»32; come i giovani rivoltosi, che mostrarono di non apprezzare un film che andava ricordando l’importanza del sacro, di trovare una sintesi tra ragione e sogno, passato e futuro, etc., o, per meglio dire, la mesotes che manca al fanatico Penteo – finito perciò da un opposto all’altro come tutti i membri della famiglia milanese visitata dal misterioso Ospite. Quest’ultimo, dietro al quale si cela l’archetipo dionisiaco (più di quello cristico), è la seconda figura emblematica della ‘barbarie’ serpeggiante nei film del ’66: un anno prima era apparso sugli schermi cinematografici l’Edipo-Citti, l’anno dopo apparve la Medea-Callas; ma solo il personaggio interpretato da Terence Stamp, pur contaminato con altre fonti letterarie, mantiene pressoché inalterato il sostrato euripideo. Malgrado sia certo che la follia ‘colpevole’ di Penteo (la prima non assegnata dagli dèi nel corpus tragico) è deteriore rispetto a quella istituzionalizzata nel culto dionisiaco, le Baccanti non ci lasciano capire l’esatto pensiero di Euripide: una simile ambiguità permane nel film perché il regista ha voluto sottolineare con una struttura bipartita la pari capacità di bene e di male che il dio dell’estasi può dare, non solo gli estremi tra cui la famiglia fanatica oscilla. Come ha mostrato bene il libro di Fusillo, l’irrazionalismo rappresentato dagli altri due personaggi coevi (Edipo e Medea) appare invece il frutto di una svolta autonoma del regista, e dato che si tratta delle due pellicole miliari del classicismo pasoliniano, vediamo di riassumerne i tratti principali.
Edipo re e Medea differiscono da Teorema per una qualità macroscopica: in essi non
c’è mitopoiesi ma solo traduzione intersemiotica, cioè il mito antico non è uno schema di riferimento lontano eppure così pregnante da creare ex novo nell’«odiernità» la tragedia originale, riletta nel suo nucleo tematico irrinunciabile o in singoli passi (come avviene in Affabulazione con l’esodo delle Trachinie sofoclee); salvo che nel prologo e nell’epilogo del primo film, il mito è anzi presentato in tutta la sua alterità cronologica e viene fatto scaturire direttamente dai poeti tragici. Il regista si sforza di dare la sensazione dell’arcaico e del preistorico, di visualizzare anzitutto un passato aurorale limitandosi ad ‘alludere’ al presente – mentre in Pilade, Teorema e Affabulazione rappresenta appunto il presente alludendo al mito in modo ora più ora meno esibito. A siffatta vertigine cronologica concorre la scelta straniante di inserire in opere per lo più visive, quasi “mute” (specie Medea), la citazione di cospicui brani delle tragedie greche (scelta unita beninteso a varie soluzioni visuali e musicali che mirano a incrementare lo straniamento); ma nonostante un così grande amore per i ‘testi’ antichi e tale peculiare forma “archeologica”, non si trattò nemmeno in quei due casi di riproporre gli stessi messaggi dei drammi antichi (nei termini in cui la filologia di allora era riuscita a ricostruirli): Edipo re, Edipo a Colono e Medea sono anzi citati per essere attualizzati,
32 Cfr. P
ricodificati in sintonia con il sentimento del poeta-cineasta di fronte alla contemporaneità. Se alla base di Medea non ci sono soltanto i versi di Euripide ma anche ricerche di storia delle religioni33, nel film del 1967 Pasolini recupera invece alcune antiche letture freudiane perché prima ancora dell’Edipo sofocleo compare sullo schermo quello di Freud: altrimenti da Eliade o Frazer allora autore tanto canonico quanto lo era il poeta tragico. Tuttavia, pure per il padre della psicanalisi non si trattò di un’interpretazione alla lettera; il nostro fagocitò nella stessa misura i due amati e vecchi autori (entrambi scoperti a Bologna34). Vediamo come. Freud si era reso conto, a partire sia dalla propria esperienza personale sia da quella dei pazienti, che l’attaccamento alla madre e la gelosia verso il padre sono atteggiamenti diffusi nella prima infanzia, e aveva letto perciò nell’opera sofoclea la messa in scena di quelle inconsce pulsioni infantili di amore e odio che sempre inconsciamente vengono rimosse durante la vita adulta. In sostanza lo scienziato pensava che nella tragedia antica vi fosse una conferma della teoria sulle pulsioni libidiche, cioè dell’idea che le pulsioni sessuali psichiche nel bambino si manifestino sotto forma di inconscio amore per la madre e di inconscio odio verso il padre: pulsioni di cui ci sarebbe appunto un preciso riscontro nel parricidio e nell’incesto che Edipo compie ‘inconsapevolmente’35; il fatto che tali componenti psichiche siano presenti nell’apparato mitico greco costituirebbe dunque la riprova della loro universalità, ossia del fatto che tracce di una simile attività psichica si trovano nei nostri sogni. Come è arcinoto, Freud è stato il primo uomo di scienza a dare un significato universale all’attività onirica, a capire che parte di essa è direttamente riconducibile ai desideri infantili di amore per un genitore e di rivalità verso l’altro. È questa, in estrema sintesi, l’interpretazione freudiana seguita alla lettera da Pasolini: il prologo storico serve a inquadrare il mito edipico entro l’esperienza biografica del regista perché nella sequenza cerniera fra tale cornice e il film vero e proprio è proprio dal sonno/sogno del piccolo Pasolini aggredito ai piedi dal padre Carlo Alberto che scaturisce tutto il nucleo mitico della pellicola. Fino a qui il film del 1967 rilegge Edipo secondo Freud, ma mentre per il padre della psicanalisi – come per Sofocle – Edipo è l’eroe della conoscenza, per il nostro lo è dell’incoscienza. Ho appena ricordato che lo scienziato legge nell’eroe greco l’inconsapevolezza infantile, eppure in quanto è il solo capace di risolvere l’enigma della Sfinge assurge non di meno a simbolo della psicanalisi che riesce a sciogliere gli enigmi dell’inconscio. Ciò non vale anche per Pasolini perché, come chiarì Fusillo, l’episodio della Sfinge appare sostanzialmente azzerato: ridotto da prova di intelligenza eccezionale ad atto di forza impulsiva, distruttività36. Con Freud il mito interpretato da Sofocle non narra più la ferrea ricerca
della verità, la tenace volontà di conoscenza che finisce però tragicamente e polemizza perciò con l’ottimismo razionalistico delle correnti sofistiche, ma diviene soprattutto il
33 E in più il regista si servì di un consulente d’eccezione quale Angelo Brelich. 34 Cfr. supra, sottopar. 0.2.2.
35 Ma correttamente F
USILLO 1996, p. 32 evidenzia che il tema dell’inconsapevolezza/consapevolezza del protagonista sofocleo è dibattuto nell’ambito della filologia. Cfr. anche PADUANO 1994, pp. 22-25.
36 Cfr. F
racconto della violenza delle passioni inconsce, diviene la storia del complesso edipico, ed è solo su questa precisa via interpretativa che Pasolini segue lo scienziato: le capacità intellettuali e conoscitive che sia Sofocle sia Freud riconoscono all’eroe, al regista non interessano per nulla; e di tanto disinteresse ci sono numerosi segnali. Quello più immediato è la scelta di Franco Citti per la parte cruciale di Edipo; tale scelta è pregnante perché Citti non era un attore professionista bensì un umile romano delle periferie, che il poeta aveva conosciuto già negli anni ’50 e proprio in quanto borgataro fu assoldato per il primo film: per ‘essere’ – più che ‘vestire i panni di’ – Vittorio Cataldi, soprannominato Accattone e di professione magnaccia. Come in Enrique Irazoqui il regista trovò la giovinezza rivoluzionaria che voleva attribuire a Cristo – lo studente spagnolo era un tenace oppositore della dittatura di Franco –, così in Franco Citti vide quell’impulsività animale che in parte riconosceva come propria e in particolare amava riscontrare allo stato puro negli ultimi. Nell’intervista televisiva di Biagi ricordata nell’archaiologia37, Pasolini dichiarò senza mezzi termini di amare specialmente le persone non istruite perché vedeva in loro, associate a quella mancanza di sapere, una bella vitalità e un’innocenza di cui difetterebbero invece le persone alfabetizzate, sofferenti per il peso della conoscenza, per il razionalismo necessario allo sviluppo neocapitalistico; questa affermazione, per quanto discutibile (e in contraddizione con la sua grande vocazione pedagogica!), ha tuttavia grande pertinenza con il film in oggetto (oltre che alla luce del sottopar. 6.2.1): risponde sì a un’idea fortemente pasoliniana, che ha prodotto molti frutti nelle poesie, nelle prose e nei film, ma in parte ha origini anteriori. Un retore-filosofo come Luciano – oggetto del prossimo capitolo – nel dialogo Menippo o la negromanzia raccontò il viaggio del celebre cinico nel regno dei morti: un viaggio intrapreso perché Menippo, disorientato dal proliferare delle varie scuole e correnti filosofiche, desiderava interrogare Tiresia su quale fosse la condotta di vita più saggia e felice; e secondo il profeta era quella di lasciar perdere la filosofia, ridere e non dar alcun peso alle cose. In termini ben diversi da quelli di Luciano (!), però anche il Tiresia sofocleo avverte l’eroe che vuole conoscere del peso e del dolore connessi. Intendo dire – schematizzando – che pur tra profonde differenze dalla mia sintesi, in Luciano, Sofocle e Pasolini ricorre l’idea che la conoscenza sia problematica: e il poeta-cineasta ha deciso di “tradurre” l’Edipo re di Sofocle non solo alla luce delle scoperte freudiane ma pure per questo comune sguardo critico sul sapere; sguardo sempre più cupo negli ultimi anni, ossia nel periodo della disillusione politico-intellettuale: che è appunto allegorizzata nell’ultima sequenza, là dove a Edipo re subentra Edipo a Colono e la morte dell’eroe appare singolarmente esemplata sulla personale regressione poetico-ideologica anziché sull’apoteosi del testo sofocleo.
Mentre in Edipo re il tema della barbarie è declinato secondo tale dinamica autobiografica – ma nel cuore del film non mancano sequenze di taglio etnografico –, nella pellicola del 1969 esso è sviluppato in termini di dinamiche culturali, è ossia presentato attraverso lo scontro fra due civiltà: quella razionale-civile incarnata da
Giasone e quella irrazionale-barbarica impersonata da Medea. Tanto l’antitesi civiltà-barbarie quanto l’antitesi razionalità-irrazionalità – sebbene in maniera diversa – sono caratteristiche salienti già della tragedia di Euripide. La prima emerge con veemenza nell’esodo, quindi in posizione di assoluto rilievo: Giasone accusa Medea di essere un
misos, un essere abominevole, che odia e merita di essere odiato, e rievocando la fuga
dalla Colchide contrappone quel «paese barbaro» (v. 1330) all’Ellade, di converso definita oikon, «casa» (v. 1331)38; la seconda antitesi si sviluppa invece nel corso dell’intera opera ed è interna al personaggio, definisce cioè la psicologia di Medea, franta tra bouleumata e thymos. Il regista radicalizza e attualizza la contrapposizione euripidea fra civiltà e barbarie e inoltre la fa collimare con quella fra razionalità e irrazionalità; perciò, rispetto al testo greco, il film è segnato da un dualismo all’ennesima potenza, senza tuttavia risultare monocorde perché l’antitesi è declinata in varie forme. La principale è antropologica: da una parte c’è la mentalità pragmatica, razionale, lineare-progressiva, ossia tesa verso il progresso, e dall’altra c’è la mentalità sacrale, irrazionale: contadina; e quindi, anziché lineare-progressiva, ciclica, fondata sulla seminagione intesa come ciclo naturale di morte e resurrezione. Tale contrapposizione è delineata fin dal principio (la sequenza dell’insegnamento del centauro Chirone) e subito ripresa nel seguito, nella lunga sezione che precede la citazione della tragedia (prima descrittiva della terra di Medea, poi argonautica); e lo scontro di civiltà non è suggerito solo dal contrasto fra il silenzio verbale degli abitanti della Colchide e il fiume di parole affabulanti del centauro, ma anche dall’evoluzione del discorso di Chirone nel corso delle tre sottosequenze che avviano il film. Al bimbo Chirone parla per miti, cioè con un linguaggio simbolico, religioso, e pure al Giasone tredicenne il centauro si rivolge con parole sacrali, con lodi alla «santità» del creato, al paesaggio popolato da dèi nascosti; quando però l’eroe è cresciuto, il maestro non parla più con voce entusiasta, passionale e poetica, bensì con voce fredda, intellettuale, e soprattutto non è più il mostro metà uomo metà cavallo, ma è divenuto uomo che parla da uomo a un altro uomo: inizia prendendo le distanze dagli insegnamenti e dagli entusiasmi precedenti e infine istruisce Giasone sulla diversità fra il suo mondo (razionale) e quello in cui dovrà recarsi per conquistare il vello d’oro (religioso, pre-logico). Dunque, già nell’ultimo episodio della sequenza incipitaria emerge ‘verbalmente’ l’antitesi culturale: parole appunto concretizzate subito dalla sequenza successiva, che presenta un lungo rituale di sacrificio umano e detronizzazione (ricavato dal Trattato di storia delle religioni di Eliade); mentre l’inizio era dominato dalle parole teoriche del centauro ed era ellittico, sintetizzava in tre episodi tutta la formazione dell’eroe, la sequenza del rito colchico non ha invece sostanziali soluzioni di continuità e descrive minuziosamente e solo attraverso immagine e musica il paese barbaro di Medea. Lo scontro di civiltà trova ulteriori sviluppi lungo il film ma posso riassumerne 38 Vd. E UR. Med., vv. 1323-1332: Ὦ µῖσος, ὦ µέγιστον ἐχθίστη γύναι / θεοῖς τε κἀµοὶ παντί τ’ ἀνθρώπων γένει, / ἥτις τέκνοισι σοῖσιν ἐµβαλεῖν ξίφος / ἔτλης τεκοῦσα κἄµ’ ἄπαιδ’ ἀπώλεσας. / Καὶ ταῦτα δράσασ’ ἥλιόν τε προσβλέπεις / καὶ γαῖαν, ἔργον τλᾶσα δυσσεβέστατον; / Ὄλοι’· ἐγὼ δὲ νῦν φρονῶ, τότ’ οὐ φρονῶν, / ὅτ’ ἐκ δόµων σε βαρβάρου τ’ ἀπὸ χθονὸς / Ἕλλην’ ἐς οἶκον ἠγόµην, κακὸν µέγα, / πατρός τε καὶ γῆς προδότιν ἥ σ’ ἔθρέψατο.
così la parabola generale. La Medea di Pasolini, in quanto interprete di una cultura primitiva, è capace di nutrire sentimenti profondi ma in fondo ingenui e di fronte alla diversità di Giasone, incarnazione della cultura razionalistica nella sua fase aurorale, rimane sconvolta – lei sola – dalla violenza dell’amore: all’arrivo degli Argonauti resta subito sedotta dall’eroe greco e tale innamoramento, che è allegoria del fascino che lo sviluppo tecnologico esercita sulle società contadine, modifica profondamente l’eroina, la converte; dimesse le vesti sacerdotali – blu come l’abito di Susanna-Giocasta –, Medea viene ellenizzata (“borghesizzata”), e solo quando Giasone la abbandona preferendole Glauce e favorisce così la sua messa al bando da Corinto il sostrato irrazionale e contadino riemerge con imperfezione ma con forza tale da provocare una catastrofe che non risparmia nessuno, nemmeno il progresso tecnologico. La conclusione del film è ben più tragica dell’esodo perché in Euripide l’eroina alla fine fuggiva sul carro del Sole verso Atene, ospite di Egeo, invece nel film è espunto l’intero incontro del terzo episodio fra il re ateniese e Medea, Medea non ha quindi nessuna possibile via di uscita da Corinto e rimane vittima dell’incendio che lei stessa ha appiccato e che è il simbolo tragico della sua forza sacrale – la prima vera apparizione della protagonista avveniva proprio in associazione al fuoco del sacrificio umano: inquadrata mentre azionava la ruota solare e con essa diffondeva nell’aria e nei campi le ceneri del giovane sacrificato39. In sostanza, Pasolini riadatta il mito argonautico e la tragedia di Euripide anche in chiave storico-allegorica: raccontando l’incontro-scontro fra il greco Giasone e la barbara Medea, allude inoltre al boom che negli anni ’50 e ’60 aveva industrializzato l’Italia agricola e in generale alla modernizzazione neocapitalistica che l’Occidente aveva imposto al Sud del mondo. Dunque il monito allegorico della pellicola è che la civiltà tecnologica si sviluppa ma non progredisce se mette al bando e sopprime le istanze religiose e sentimentali, se distrugge tutto ciò che è altro da sé, ossia tutto ciò che non è moderno e razionale. Come già dissi, Pasolini non ha mai sognato una regressione culturale, ma si è sempre erto a difesa della barbarie perché credeva che un mondo interamente logico fosse ancora più brutale e barbarico di quello precedente, amato ma riconosciuto come tale: brutale e barbarico; solo che nel 1969 non credeva più possibile la sintesi intravista nelle Eumenidi di Eschilo.
Esiste tuttavia un’altra forma di dualismo: oltre alle antitesi antropologico-culturale e storico-politica, ve n’è una psicanalitica; e la sequenza che rappresenta al meglio questa ulteriore tipologia è quella che spartisce il film in due grandi blocchi, cioè la sequenza del doppio centauro, prima della quale è posto l’antefatto mitico e dopo la quale inizia la citazione del testo euripideo. In principio Freud aveva pensato che la personalità psichica fosse bipartita in conscio e inconscio, ma negli anni ’20 elaborò una teoria più complessa, che in parte rispecchiava ancora la suddivisione originaria tra conscio e inconscio (ridefiniti rispettivamente Ego ed Es), però con l’aggiunta di una terza zona dell’apparato psichico (il Super-Ego): in tale nuova formulazione teorica la coscienza non doveva più contrapporsi banalmente alle pulsioni inconsce, bensì fungere da
39 F
mediatore fra queste e le opposte inibizioni morali del Super-Ego. L’incontro fra Giasone e il doppio centauro concorre anch’esso allo sviluppo dell’antitesi antropologica perché il Chirone umano parla esplicitamente del disorientamento di Medea in una cultura diversa da quella colchica, ma esemplifica bene per giunta la mediazione freudiana: appena Giasone si rende conto dello sdoppiamento chiede se è una visione, un ‘sogno’; e il centauro umano gli risponde che se pure è un sogno è comunque lui che lo produce perché loro due, il Chirone mostruoso e il Chirone uomo, sono dentro di lui. «Dentro» è parola rivelatrice: occorreva in un’altra sequenza dal forte significato psicanalitico, quella in cui la Sfinge – in Edipo re – dice: «C’è un enigma dentro di te...»; e poi, sul punto di essere uccisa: «L’abisso in cui mi spingi è dentro di te»40. I due centauri sono dentro Giasone, ossia frutto di una sua attività
pulsionale e onirica perché l’uno, quello metà uomo metà cavallo, conosciuto durante l’infanzia, è l’Es: l’aspetto pulsionale inconscio controllato dal Giasone adulto; mentre l’altro è appunto l’Ego, la parte cosciente della personalità psichica di Giasone: l’eroe adulto. Lo sdoppiamento del centauro introduce dunque l’attrito fra Es ed Ego, la confusione psichica dell’eroe nei confronti di Medea: la sua coscienza pragmatica lo porta a disinteressarsi di lei e a preferirle Glauce perché è un miglior partito, ma nel suo nucleo più irrazionale, controllato dall’Ego, Giasone simpatizza per Medea. A parlare di contrasto fra Es ed Ego è stato Fusillo41, studioso di assoluto riferimento per tutta la presente sintesi su Medea (e su Edipo re): è un’interpretazione fondata, però è ugualmente lecito pensare che il secondo centauro, il Chirone uomo, rappresenti anziché l’Ego tout court l’Ego incitato dal Super-Ego, vale a dire da quella parte dell’apparato psichico che costituisce sia la coscienza morale, il sapere ciò che si deve fare, sia il senso del fare opportuno, il sapere ciò che conviene in quanto socialmente valido e riconosciuto: tale opportunismo, tale capacità di calcolo si attaglia molto bene a Giasone, che malgrado i dissidi interiori fa prevalere raziocinio e progetti di gloria. In ogni caso, la sequenza del doppio centauro denuncia l’errore psichico (oltre che culturale e storico) e rende così più sfaccettata la chiave interpretativa della Medea di Pasolini. Segue una sezione che dà ulteriore risalto agli impliciti psicanalitici del film: comincia la “messinscena” del testo euripideo, eppure quest’ultima, rispetto a quella lineare della tragedia di Sofocle, si rivela molto più complessa perché il regista ha voluto replicare la vendetta di Medea, sdoppiarla in una prima versione onirica e in una seconda reale. È una scelta ardita, bella e che rimane impressa in chiunque abbia visto il film, sia per la ripetizione in sé di alcune sequenze, che non è cosa frequente nel cinema, sia perché all’inizio della versione reale chiunque rimane sorpreso al rivedere vivi Glauce e Creonte appena morti nel sogno: è solo dopo alcuni minuti che prestando attenzione si possono cogliere le varianti e, grazie alla logica dell’implicazione a posteriori, si è in grado di capire che la prima vendetta era soltanto un sogno di Medea; esclusivamente chi è esperto del codice cinematografico si accorge subito di una serie di
40 Come al solito ho trascritto le battute dalla colonna dialogo del film. 41 Cfr. F
accorgimenti tecnici utili a ricreare sullo schermo il linguaggio dei sogni quali la sovrimpressione fra un primo piano di Medea in lacrime e un campo lungo della Colchide, lo stacco netto dal campo lunghissimo su Helios al primo piano sulla cassapanca che contiene le vesti sacerdotali di Medea, improvvisamente ardenti, etc. Ma la differenza fondamentale fra l’eroina di Euripide e quella di Pasolini è che la vendetta, seppur duplicata, risulta più circoscritta: cioè, mentre nella tragedia greca era lei la sola artefice di tutti le uccisioni e, con un piano impeccabile, riusciva persino a fuggire, nella pellicola Medea ammazza soltanto i figli; non fa nulla invece per punire Glauce e Creonte dato che è il malessere psichico a causare la loro morte. Insomma, nonostante i grandi sogni di rivalsa, nel momento finale recupera solo una piccola parte della sua forza magico-sacrale, connessa col fuoco; e la volge a una disperata autodistruzione: dalla “tragedia” di Pasolini tutti i personaggi escono sconfitti, sì, ma non grazie al potere vendicativo della protagonista.
In sintesi, tanto Medea quanto Edipo sono privati delle loro facoltà eroiche, entrambi appaiono rivoluzionati rispetto ai personaggi originali; solo l’Ospite-Dioniso resta abbastanza fedele all’archetipo euripideo. Tutte e tre le tragedie che hanno ispirato il regista sono tuttavia rispettate in un profondo nucleo tematico comune: l’effetto dirompente del primitivo che mette in crisi la cultura razionalistica ateniese di V secolo a.C.; la preistoria personale che Edipo arriva a conoscere pagando un prezzo immenso, la barbarie da cui proviene il misos assassino, il dionisismo truculento delle Baccanti non sono stati scelti a caso dal Pasolini greco-barbaro.
5.2. Trasumanar e organizzar: l᾽altruismo di Meneceo-Panagulis e il «terrore»
demartiniano di Maria42 Καλή ἡ Λογική κ’ ἡ Σωφροσύνη, ὅταν ὅµως ὑπάρχει Λευφτεριά. Οἱ τυραννίες γκρεµίζονται µέ ἀγῶνες τῆς Λευτεριᾶς τό παραµύθι µέ αἷµα γράφεται. Ἀδέλφια πού θά ζήσετε µετά ἀπό µᾶς µή καταριέστε τούς δειλούς πού δίστασαν νά µποῦνε στόν ἀγώνα. Λυπηθεῖτε τους καί συνεχίστε τό δρόµο µας43.
42 L’incontro letterario fra Pasolini e Panagulis, mediato dalla tragedia antica, è stato discusso per la prima volta
da Gherasimos Zoras nella cornice del convegno internazionale organizzato dall’Università di Salonicco per il quarantennale dalla morte (La Sfinge nell’abisso, 14-16 ottobre 2015); ma il suo intervento, intitolato Ο Παζολίνι για
την Ελλάδα του σήµερα, conteneva molteplici ingenuità nella lettura dei testi pasoliniani – ad oggi non mi risultano
usciti gli atti del convegno né, il contributo di Zoras, pubblicato in altra sede.
43 «Buona cosa la Logica e la Saggezza / quando però c’è Libertà. / Le Tirannidi si abbattono con Lotte. / Col
sangue si scrive la favola della Libertà. // Fratelli che vivrete dopo di noi / non maledite i vigliacchi / che hanno esitato ad entrare nella Lotta. / Abbiate pietà di loro e continuate la nostra strada» (PANAGULIS 1990, pp. 44-45).
Negli ultimi giorni del novembre 1968 Pasolini alberga a Torino per curare la regia di Orgia: la prima è stata rimandata più volte per l’imprevista partecipazione, da imputato, al processo contro Teorema; e nel frattempo nelle strade e nelle piazze del capoluogo, come in quelle di altre città italiane, è scoppiata la contestazione giovanile. In tale cornice vicina alla stasis dispone sul tavolo di lavoro delle ultime uscite del
Corriere della Sera e di qualche verso di Alexandros Panagulis; inoltre ha ben presenti
nella memoria i tragici greci letti e riletti solo due anni prima. Questo intreccio di avvenimenti e di emozioni non gli ispira soltanto alcune pagine di diario, pubblicate nel numero del 7 dicembre del settimanale Tempo: cioè una serie di note in cui incrocia l’ostilità personale verso la rivolta degli studenti, accusati di pretendere nuovi diritti senza lottare dal basso, con il proprio «sangue», e la viva commozione per il destino di morte che incombe invece sul vero rivoluzionario di quei giorni, sul «ragazzo» Panagulis, uno dei pochi disposti a morire per degli ideali come avevano fatto prima di lui i giovani della resistenza e alcuni eroi delle tragedie di Euripide; scrive per giunta una poesia, Panagulis, pubblicata sul precedente numero della medesima rivista (30 novembre 1968) e in seguito inclusa nella penultima silloge di versi (Trasumanar e
organizzar, 1971), e in stretta connessione con il teatro euripideo sviluppa delle idee che
ricorrono in altri versi coevi e ritornano persino ne La «forma» di Panagulis (1972), ossia nell’introduzione alla terza edizione italiana delle poesie che il rivoluzionario greco scrisse durante la clandestinità e la prigionia nel carcere attico di Μπογιάτι (Altri
seguiranno)44. La poesia che ho appena trascritto, intitolata Συνεχίστε (Continuate), fu
vergata prima dell’incarceramento, nella primavera del ’68, ed era con ogni probabilità uno dei testi che il rivoluzionario riuscì subito a divulgare malgrado la latitanza e a far leggere, tra gli altri, anche a Pasolini; è sicuro invece che Συνεχίστε figurava tra i componimenti del neogreco più apprezzati dal nostro, come dimostra la detta introduzione, che termina citando proprio quei versi, dall’incipit gnomico che al poeta-filologo ricordava l’esordio della prima Olimpica di Pindaro (Ἄριστον µὲν ὕδωρ)45: La
«forma» di Panagulis non si limita a condurre una fine analisi stilistica dei testi
neogreci ma valorizza due aspetti contenutistici che, uniti alla straordinaria attenzione per i valori formali, mi permettono di dire che Pasolini non è stato solo fra i primi scopritori italiani di Kavafis bensì senza dubbio pure il più attento e appassionato interprete di Alekos Panagulis46 – benché non conoscesse la lingua neogreca: lo segnalo a ulteriore conferma che si può essere perspicaci interpreti senza conoscere le lingue originali47. Importa siffatta scoperta letteraria nell’ambito di una tesi dedicata invece alla tradizione contemporanea delle letterature classiche perché è Pasolini stesso, verso la fine dell’introduzione, a considerare l’opera di Panagulis poesia «‹d’altri tempi›,
44 Il saggio, ampliato di alcune pagine, ricomparve nella quarta edizione, curata da Filippo Maria Pontani (Vi scrivo da un carcere in Grecia, 1974).
45 Vd. P
ASOLINI 1999a, p. 2684.
46 Cfr. P
ONTANI 2012, p. 164.
anche là dove accetta una tradizione recente»48 (ossia Eluard, Aragon, etc.), cioè una poesia nutrita di classici antichi (tragici in testa49) tanto nell’espressione letteraria quanto, specialmente, nell’etica a essa sottesa; il critico infatti conclude la presentazione del neogreco sia evidenziando un’equivalenza già presente nel primo breve scritto apparso sul Tempo (Diario per un condannato a morte) e, prima ancora, nella poesia accolta in Trasumanar e organizzar: l’identificazione di Panagulis in Meneceo, il ‘virgineo’ figlio di Creonte, personaggio secondario delle Fenice eletto a rappresentante di una serie di eroine (euripidee) disposte a sacrificarsi per il bene comune; sia evidenziando «l’omologia tra letteratura e persona»:
Questa poesia [cioè Συνεχίστε, ma scelta a emblema di ‘tutta’ la raccolta Και άλλοι
θ’ακολουθήσουν] così disperatamente attuale, scritta su brandelli di carta, si direbbe col
sangue («Col sangue si scrive la favola della Libertà»), si presenta letterariamente come poesia «d’altri tempi», anche là dove accetta una tradizione recente: ma questo carettere è anche il carattere «naturale» dell’eroe Panagulis. L’omologia tra letteratura e persona, in Panagulis, pur se non diretta e esplicita, è perfetta. Nella sua letteratura c’è la stessa sfida alla retorica che c’è in Euripide quando parla, per esempio, del nipote del tiranno, che sa che gli dèi lo vogliono come «capro espiatorio» ed egli lo accetta e fa in modo di essere ucciso, malgrado il parere delle autorità. La semplicità e la grandezza dell’eroe ragazzo è tale che può essere espressa anche attraverso parole sia pure altamente letterarie: né Euripide né lui ne vengono minimamente toccati. L’arretrata situazione economica e politica della Grecia fa sì che i colonnelli siano vecchi tiranni, cinici fantasmi di un mondo finito, e, nello stesso tempo, fa sì che l’eroe che si contrappone a loro dia l’impressione che quell’antico mondo sia ancora immenso e presente, e che la sua idea della libertà sia un’idea assoluta, capace di valere per il futuro, e anzi di rendere il futuro stesso un valore50.
Nel passo non è fatto il nome del modello tragico seguito da Panagulis sia in carne e ossa sia in versi, ma Pasolini si riferisce senza dubbio al terzo episodio delle Fenicie di Euripide, nuovo dramma del ciclo tebano che raccontava la lotta fratricida tra Eteocle e Polinice presentando però una sintesi patetica di quasi tutti i personaggi del relativo mito, da Edipo a Creonte, da Antigone a Giocasta, da Tiresia ai due fratelli in lotta per il potere: è una tragedia molto fortunata nell’antichità e di converso sminuita in tempi moderni per la presunta inefficacia drammaturgica e per il problema dell’autenticità di tanti versi; in compenso la focalizzazione multipla euripidea costituì con ogni probabilità un valore aggiunto agli occhi del nostro: soltanto nelle Fenicie poté ritrovare tanti temi e personaggi a lui cari, dalla devozione accorata di Antigone per il padre alla figura patetica di Giocasta, archetipo di madre in lutto non dissimile da quello di Agave nelle Baccanti. Eppure, con bel senso dell’innovazione, il poeta italiano si concentra sul personaggio ‘anonimo’, sull’abnegazione di Meneceo: che nel terzo episodio decide di 48 P ASOLINI 1999a, p. 2685. 49 Vd. P ASOLINI 1999a, p. 2677. 50 P ASOLINI 1999a, pp. 2685-2686.