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Capitolo 3 Riassorbimento osseo periprotesico

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Capitolo 3

Riassorbimento osseo periprotesico

3.1 Cause di Riassorbimento osseo a livello dello stelo

La perdita ossea periprotesica e, di conseguenza, il maggior rischio di fallimento delle protesi d’anca (mobilizzazione per cause non infettive dello stelo) è riconducibile principalmente a due meccanismi d’azione: Stress shielding e Wear debris.

Stress Shielding - le modificazioni della densità ossea periprotesica che si realizzano dopo un’artroprotesi d’anca sono l’espressione della risposta dell’osso all’alterazione della distribuzione dei carichi che l’impianto determina sull’ospite. Tale fenomeno è legato alle caratteristiche osso-impianto e il riassorbimento osseo che ne deriva è espressione della legge di Wolff. Quindi per Stress Shielding si intende la riduzione della densità ossea (BMD) periprotesica (valutabile con DEXA), risultante dalla perdita delle norali stimolazioni sull’osso che ospita l’impianto per un processo definito “Load Transfer”35: quando viene impiantata la protesi, i carichi sono trasmessi dallo stelo (maggiore rigidezza) e non più dalla porzione prossimale del femore, di conseguenza, nei primi mesi successivi all’impianto, si sviluppa un rimodellamento osseo che appare fondamentale per la fissazione e la stabilità, quindi per la longevità della protesi36 (Fig6).

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Fig. 6:

(a)Distribuzione fisiologica delle forze di carico. (b)trasferimento delle forze di carico alla protesi.

Nonostante il crescente interesse verso la definizione dei fenomeni alla base di questi meccanismi, non è ancora chiaro il rapporto tra le caratteristiche biomeccaniche della protesi, del femore che la ospita e della relativa perdita ossea. In particolar modo, l’attenzione è stata concentrata sul modulo di rigidezza del femore e delle componenti protesiche non cementate per individuare una correlazione tra queste e l’entità del rimodellamento osseo. A questo proposito, studi recenti37 hanno dimostrato che, negli impianti non cementati, la rigidezza assiale del femore è il principale fattore predittivo della perdita ossea: ciò potrebbe quindi dipendere dalla differenza che esiste tra la rigidezza assiale dello stelo e quella dell’osso ospite, mentre la rigidezza antero-posteriore e medio-laterale dello stelo e del femore sembrano essere molto più simili. Nelle protesi cementate invece, la perdita ossea non è dovuta alla rigidezza assiale del femore più di quanto non lo siano gli altri parametri38. Per quanto riguarda i meccanismi di traduzione del segnale da meccanico (Stress Shielding) in cellulare, l’ipotesi più credibile è che lo stimolo meccanico si traduca in segnale elettrico a livello degli osteociti i quali, lavorando come network intraosseo, andrebbero poi ad attivare le linee

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cellulari osteoblastiche a seconda delle necessità e delle caratteristiche dell’impianto. Attualmente sono stati meglio identificati alcuni aspetti di questo fenomeno, come i meccanismi cellulari alla base dell’attivazione dell’osteoclastogenesi, che sembra essere indotta dall’attivazione dell’asse RANK-RANKL (Schema 1).

Schema 1: asse RANK-RANKL

La perdita ossea che si realizza, inizia dal 3 mese dopo l’intervento e tende a stabilizzarsi entro il primo anno ma, in realtà, modificazioni dell’organizzazione ossea periprotesica si svolgono in un tempo molto più lungo, fino a 3-5 anni dall’intervento. Infine, vorrei precisare che, dopo posizionamento dello stelo protesico le sollecitazioni che

si tramettono e la distribuzione dei carichi (influenzata dai diversi moduli di elasticità) possono determinare, oltre che il fenomeno dello stress shielding, anche altri meccanismi biomeccanici, come: il Load Sharing, detto anche condivisione di carico che è una ripartizione del peso tra l’osso e la protesi, in modo tale che la sua distribuzione sia funzione diretta della rigidità dei due materiali coinvolti e lo Stress-bypass che è una situazione in cui il carico viene completamente trasferito distalmente per cui, oltre a determinare un riassorbimento prossimale, crea un effetto punta distale doloroso per il paziente (dolore di coscia).

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Mobilizzazione asettica – definita come reazione infiammatoria indotta da usura dei materiali: L’osteolisi periprotesica indotta dai materiali di usura ricopre, un ruolo dominante come fattore responsabile del fallimento clinico degli impianti, sia perché è la principale causa della mobilizzazione delle componenti sul versante acetabolare e su quello femorale, sia perché è il più importante processo correlato alle fratture patologiche del femore e dell’acetabolo dopo artroprotesi di anca; eventi, questi, che rendono imprescindibile una revisione chirurgica. I fenomeni ad essa correlati cominciano a manifestarsi, generalmente, a 5 anni dall’intervento chirurgico. La sua incidenza è in aumento progressivo ed è stato calcolato che oltre il 25%, di tutti gli impianti protesici, mostra segni di mobilizzazione asettica 39,40. In generale i materiali utilizzati per la costruzione delle protesi articolari e impiantati con funzione sostitutiva di parti dell’apparato locomotore sono inerti verso le cellule; infatti, prima dell’utilizzazione in campo clinico vengono testati per valutare la reattività biologica delle cellule e dei tessuti verso gli stessi (prove di biocompatibilità). Il problema della reazione da corpo estraneo non è, perciò, abitualmente collegato alla tossicità, nonostante per situazioni specifiche legate al rilascio ionico delle particelle metalliche, anche questo aspetto sia stato documentato in colture in vitro di fibroblasti 41. Il punto principale attorno al quale si sviluppa tutta la problematica della reazione da corpo estraneo è rappresentato dalla fagocitosi, vale a dire dalla capacità dell’organismo d’includere all’interno del citoplasma di specifiche cellule sostanze o corpuscoli non riconosciuti come costituenti dell’organismo stesso. La finalità della fagocitosi è la degradazione enzimatica del materiale estraneo con l’eliminazione o la riutilizzazione delle subunità più semplici quali amminoacidi, zuccheri ecc. Nel caso delle particelle di usura prodotte dalle protesi, nessuna di esse può essere degradata o ridotta a unità semplici dagli enzimi delle cellule, pertanto esse attivano una produzione enzimatica che si autoalimenta e si amplifica nel tempo producendo la necrosi per autolisi delle stesse cellule deputate alla fagocitosi. La liberazione degli enzimi lisosomiali nell’ambiente pericellulare porta alla modificazione dei tessuti interessati dal fenomeno42,43: nel caso del tessuto osseo, la

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risposta alla carica enzimatica è svolta dai macrofagi, per autolisi, e il riassorbimento della matrice ossea, che ne deriva (cui fa riferimento il termine “osteolisi”) è comunemente usato per descrivere i più tipici aspetti radiologici della mobilizzazione delle protesi articolari. Questo meccanismo è, infatti, alla base della maggior parte delle mobilizzazioni asettiche e non ha nulla a che fare con il processo infiammatorio che caratterizza buona parte della patologia umana: infatti, lo studio dei tessuti periprotesici dopo revisione per mobilizzazione asettica evidenzia un’estesa proliferazione di macrofagi che hanno fagocitato le particelle d’usura e che infiltrano i tessuti connettivi periprotesici, siano essi l’osso, i vasi, il tessuto fibroso o quello adiposo, ma non si osservano le cellule tipiche dell’infiammazione, vale a dire i polimorfonucleati, neutrofili e i linfociti (Schema 2).

Schema 2: Fagocitosi delle particelle di usura e tentativo di digestione enzimatica da parte delle cellule fagocitarie (Macrofagi)

Quando, occasionalmente, si osservano accumuli locali di linfociti o franchi infiltrati purulenti, si deve sospettare un’infezione batterica sovrapposta, evento a rischio elevato negli accumuli di tessuto di granulazione da corpo estraneo. È possibile analizzare alcuni aspetti della reazione da corpo estraneo alle particelle di usura che permettono una comprensione più approfondita di quanto osservato in campo clinico:

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 La possibilità da parte di un macrofago di fagocitare una particella e di includerla all’interno dei lisosomi per tentare la degradazione enzimatica è condizionata dalle dimensioni della stessa: infatti se questa supera le dimensioni del macrofago la si troverà inclusa nel citoplasma di una cellula gigante, ma comunque in posizione extralisosomiale. Se le sue dimensioni sono ancora superiori essa verrà incapsulata da una membrana fibrosa che in genere comprende anche cellule giganti. In entrambi i casi non vi è la stimolazione di produzione enzimatica. La conseguenza di tale osservazione è che solo le particelle di piccole dimensioni e compatibili con l’inclusione lisosomiale (dimensione < 0.5 μm) sono veramente attivatrici del processo osteolitico sull’osso.  A parità di volume usurato delle componenti protesiche il numero di particelle è

inversamente proporzionale alla loro dimensione, pertanto le particelle più piccole attiveranno un numero più alto di macrofagi.

 Esiste un meccanismo di drenaggio tramite i vasi linfatici dell’ambiente periarticolare (protesizzato) ai linfonodi, alla milza e al fegato, per cui una limitata e lenta produzione di particelle di usura può essere compensata e drenata per via linfatica evitando l’accumulo locale, che è il responsabile dell’osteolisi e del deterioramento della fissazione meccanica.

 Il meccanismo di produzione delle particelle di usura deve essere primariamente ricercato a livello delle superfici di scivolamento tra le componenti protesiche e segue le leggi della fisica. Tuttavia, l’elaborato assemblaggio delle componenti degli inserti e delle modalità di fissazione ha moltiplicato le possibili zone di origine di aree di usura o corrosione (quali: Impigment del collo sulla componente aceta bolare, cono tra collo e testina, tutti i giunti di parti modulari, superficie esterna inserti…), spesso non individuabili all’analisi radiografica anche più elaborata, ma che divengono evidenti all’osservazione delle componenti rimosse.

 Una volta innescata la produzione di particelle di usura in una protesi articolare è irreversibile; solo la riduzione dell’attività e delle sollecitazioni meccaniche potrebbero influire sull’evoluzione del processo. È evidente che tale soluzione non possa che restare

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teorica, visto il principale obiettivo della protesizzazione, che consiste proprio nel recupero della funzionalità articolare, poiché significherebbe annullare i vantaggi acquisiti con l’intervento.

Analizzando nel dettaglio il fenomeno della mobilizzazione asettica, provocata da reazione infiammatoria indotta da materiale di usura, è possibile definire:

Caratteristiche morfologiche ed istologiche: il tessuto presente nelle zone di osteolisi ha

l’aspetto di una membrana simil-sinoviale sul versante a contatto con il polimetilmetacrilato, mentre è caratterizzato dalla presenza di macrofagi e cellule giganti da corpo estraneo sul versante che invade l’osso corticale 44. La componente cellulare appare molto varia con presenza di istiociti, cellule giganti, linfociti, plasmacellule e neutrofili 45. Le particelle di cemento acrilico e i frammenti di polietilene sono inglobati negli istiociti/macrofagi o nelle cellule giganti che realizzano foci di attività cellulare all’interno della membrana periprotesica 46. Dalla continua fagocitosi dei frammenti di usura deriva la produzione, da parte delle cellule attivate, di citochine proinfiammatorie ed enzimi proteolitici, che si ritiene possano danneggiare l’osso e la cartilagine e attivare cellule del sistema immunitario, in particolar modo l’interleuchina 1 (IL-1) e il tumor necrosis factor α (TNFα), che sono potenti mediatori del riassorbimento osseo 47, e citochine attivate dal sistema immunitario più recentemente identificate come il PDGF e IL-11 48. Queste citochine agiscono come segnali di attivazione per i linfociti, dai quali derivano interleuchina 2 (IL-2), interleuchina 6 (IL-6) e interferone β (IFN-β), che possono influenzare l’attività degli osteoclasti ed il rimodellamento osseo.

Meccanismo cellulare (biblio giallu 50-51): Normalmente la massa ossea è frutto di un

equilibro esistente tra apposizione di osso (osteoblasti) e suo riassorbimento (osteoclasti). La regolazione dell’equilibrio che è alla base dell’accoppiamento tra cellule formanti e riassorbenti osso è stata recentemente chiarita 49 con l’identificazione del ligando del recettore attivatore del fattore nucleare kappa B (RANKL). RANKL è espresso sulla superficie cellulare degli osteoblasti e delle cellule stromali midollari e svolge la funzione di stimolare direttamente la differenziazione dei precursori cellulari

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degli osteoclasti in osteoclasti maturi. Il segnale di questa attivazione diretta è mediato attraverso il recettore attivatore del fattore-nucleare kappa B (RANK), localizzato nella membrana cellulare dei precursori degli osteoclasti e degli osteoclasti immaturi. L’interazione tra il RANK ed il suo ligando (RANKL) regola l’accoppiamento tra formazione e riassorbimento d’osso. Il rilascio di mediatori pro-infiammatori, sviluppati nei tessuti a causa dei detriti di usura, determina uno stato di infiammazione cronica che altera il sistema RANKL e l’osteoclastogenesi, modificando in modo significativo il fissaggio dell’impianto. Si può, quindi, concludere che la perdita ossea periprotesica che si realizza a breve e a lungo termine con i fenomeni dello stress shielding e della lisi da detriti, è l’evento che maggiormente condiziona la “longevità” di un impianto protesico e di conseguenza la buona riuscita dell’intevento. La valutazione della ridistribuzione della densità minerale ossea è, dunque, un dato importantissimo per la diagnosi precoce dei processi, clinicamente silenti, che potrebbero condurre in futuro alla mobilizzazione delle componenti protesiche.

3.2 Fattori che influenzano il riassorbimento

La perdita ossea periprotesica può essere considerata come un evento inevitabile che condiziona la durata dell’impianto. Tale rimodellamento è il risultato di una complessa interazione tra fattori meccanici intrinseci (legati all’osso), estrinseci (legati alla protesi) e fattori fisiologici.

Fattori estrinseci:

 Materiali di costruzione (specialmente in termini di modulo di elasticità): tutti i materiali attualmente utilizzati in chirurgia protesica, polietilene (UHMWPE: materiale

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polimerico ottenuto dal monomero etilene), leghe metalliche e ceramica, hanno l’obiettivo di ridurre il particolato da usura, ottenere una immediata stabilità primaria e favorire l’osteointegrazione. Sono quindi caratterizzati da ottime qualità di resistenza meccanica e di usura, buona biocompatibilità e biofunzionalità tale da avvicinarsi il più possibile alla funzione dell’articolazione naturale. E’ comunque importante sottolineare che la rigidità dello stelo è il fattore maggiormente responsabile del fenomeno dello stress shielding, influenzando in maniera significativa il rimodellamento osseo periprotesico, in ragione del fatto che, assorbendo le forze di carico e trasferendole successivamente alla diafisi, esclude la porzione prossimale del femore.

 Design: nel processo evolutivo degli impianti protesici, il maggior numero di cambiamenti in termini di design è stato fatto a carico degli steli. La loro evoluzione ha permesso quindi di studiare gli effetti che ciascun disegno protesico è in grado di determinare sull’osso circostante. Bisogna tener presente però che il design influenza il riassorbimento osseo periprotesico solo negli impianti non cementati. In linea generale, gli steli possono quindi essere classificati:

 In base alla lunghezza: corti (con presa metafisaria a press-fit e fill distale) e lunghi (tradizionali con tenuta diafisaria a press-fit). In letteratura sono presenti varie classificazioni anche se la più accreditata è la JISRF Short Stem Classification System (Fig articolo e classificazione) che distiugue gli steli in 4 gruppi: head stabilization, neck stabilization, metaphyseal stabilization e conventional metaphyseal diaphyseal stabilization.

 In base alla forma: possiamo distinguere Steli Retti (non tengono conto della forma del femore e il bloccaggio nel canale è permesso dalla loro forma a cuneo; esempio più classico è lo stelo Zweymuller), Steli Curvi (si adattano all’anatomia in modo da proseguire un contatto più esteso possibile), Steli Anatomici (capostipite è la protesi ABG, sono steli a presa metafisaria conformati per adattarsi alla forma del femore).

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 In base alle geometrie che regolano il livello a cui sarà ottenuta la fissazione (basandosi sul grado di contatto osseo e sulla progressione della zona di fissazione da prossimale a distale): si distinguono sei categorie (Fig.7):

Fig.7 :Classificazione degli steli femorali non cementati: (P=posteriore e A=anteriore) Tipo1è a cuneo singolo,

Tipo2 è doppio cuneo,

Tipo3A è affusolato e rotondo, Tipo3B è affusolato e scanalato, Tipo3C è affusolato e rettangolare, Tipo4 è cilindrico e completamente rivestito,

Tipo5 è modulare, Tipo6 è anatomico.

 Tipo di fissazione meccanica (cementate e non cementate): Punto che assume un valore fondamentale specialmente per quanto riguarda il riassorbimento osseo periprotesico indotto dal fenomeno dello Stress Shielding, in quanto questo si verifica principalmente quando ci troviamo di fronte ad uno stelo non cementato. Negli impianti cementati, infatti, sia per la dimensione dello stelo usato (più piccolo e meno destruente a livello del canale midollare femorale), che per il modulo di elasticità del polimetilmetacrilato (inferiore sia all’osso che allo stelo), non si ha indebolimento

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dell’osso circostante l’impianto.

 Tipi di rivestimento: Le leghe più utilizzate per gli steli femorali non cementati sono: la lega cobalto-cromo-molibdeno e quella titanio-alluminio-vanadio. L’elasticità della lega al titanio è più simile a quella ossea, quindi, teoricamente, dovrebbe produrre un minor grado di stress-shielding e meno dolore di coscia, seppur si ritenga che questo non sia legato esclusivamente alla rigidità del metallo, bensì anche alla geometria e alla lunghezza dello stelo. Detto questo appare evidente che, almeno in teoria, lo stress-shielding dovrebbe essere assente o quasi negli impianti a presa metafisaria50. Il cromo-cobalto, inoltre, è noto per essere citotossico e da molti è considerato un potenziale agente cancerogeno. Un’altra caratteristica fondamentale per il successo di un impianto è rappresentata dalla superficie di rivestimento, che svolge un ruolo importante nel contesto della stabilità primaria, in virtù della rugosità che ne aumenta l’attrito e quindi la tenuta; ma anche nel determinare la stabilità secondaria, che ne condiziona il successo a lungo termine. Nell’ambito della stabilità secondaria rientrano due meccanismi: l’Ingrowth e l’Ongrowth50. L’ingrowth, o microfissazione, che rappresenta il fenomeno di crescita di tessuto osseo all’interno del materiale impiantato, è ottenuta soprattutto con materiali di ultima generazione, quali il titanio poroso a poro aperto o il Trabecular Metal (Fig.8).

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L’ongrowth è, invece, il fenomeno di crescita del tessuto osseo attorno al materiale impiantato.

La tipologia delle superfici di rivestimento regola questi due fenomeni; esistono, infatti, superfici con lo scopo di aumentare l’ingrowth, quali quelle con applicazione di grani di cobalto o titanio, il rivestimento a fibre di titanio e l’utilizzo di metalli porosi, che hanno come costanti: la presenza di pori di una dimensione compresa tra i 100 e i 700 µm e il mantenimento della percentuale di vuoti nel rivestimento tra il 30 e il 40%, in modo da ottenere un’ adeguata resistenza meccanica residua. I metalli porosi hanno una rete tridimensionale uniforme con alta interconnettività tra i vuoti ed una porosità che varia dal 75 all’ 80%50,51. L’ongrowth è invece incrementato utilizzando tecniche come il plasma spray e la sabbiatura dello stelo. Il plasma spray consiste in un mix di polveri di metallo, generalmente polveri di titanio, e gas inerti pressurizzati e ionizzati che formano una fiamma ad alta energia, in grado di fondere le polveri e di generare una superficie rugosa, distribuita sull’impianto, che ne aumenti l’osteointegrazione. La sabbiatura crea, a sua volta, una superficie rugosa attraverso il bombardamento dello stelo con piccole particelle abrasive di corindone (ossido di alluminio). Esistono differenze anche per quanto concerne l’estensione della superficie del rivestimento (completa o incompleta) e l’area di rivestimento (prossimale o diffusa). Relativamente a quest’ultima variante, molti chirurghi prediligono un rivestimento prossimale al fine di ridurre lo stress-shielding. Il rivestimento dello stelo preso in oggetto in questa tesi è circonferenziale-prossimale, ottenuto con tecnica plasma spray, che contribuisce all’osteointegrazione ed anche a fornire un’interfaccia ottimale per l’applicazione del rivestimento proprietario PureFix HA, composto da idrossiapatite, con pori delle dimensioni di 50µm di diametro52.

Fattori intrinseci:  Caratteristiche meccaniche dell’osso:

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all’impianto di steli non cementati, anche se alcuni studi53 prospettano la possibilità di utilizzare tali dispositivi anche in pazienti osteoporotici, purchè dotati di rivestimento con idrossiapatite, che determini un maggior livello di osteointegrazione.

 Forma delle componenti che dovranno ospitare: In base al tipo di femore del paziente, il chirurgo può orientare la sua scelta all’interno di un’ampia gamma di steli e, di conseguenza, l’uso di un impianto rispetto ad un altro può influenzare l’eventuale riassorbimento periprotesico. Nella scelta dello stelo più idoneo bisogna, infatti, considerare: l’angolo di antiversione, l’angolo di inclinazione, l’indice corticale e l’indice di svasatura femorale (ISF)54. In particolare l’ISF esprime il rapporto fra la larghezza endostale dellʼepifisi prossimale di femore e quella del canale diafisario, permettendo, in base ai risultati, di riconoscere tre tipologie (Fig.9):

 ISF>4,7: Femore tipo A  3<ISF<4,7: Femore tipo B  ISF<3: Femore tipo C

Fig. 9: Le diverse tipologie di femore secondo l’indice di svasatura.

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3.3 Tecniche di valutazione del riassorbimento osseo

Lo studio e la valutazione dei processi di rimodellamento osseo periprotesico, in soggetti sottoposti a sostituzione protesica di anca (specialmente nella componente femorale), riveste un ruolo di elevato interesse scientifico; può, infatti, fornire utili elementi per migliorare le nostre conoscenze sulle interazioni tra fenomeni biologici e meccanici, in modo tale da sviluppare impianti meno invasivi e più duraturi. I primi studi sulla misurazione della massa ossea periprotesica sono iniziati alla fine degli anni ’80. Gli apparecchi per assorbimetria a singolo raggio fotonico (SPA) furono presto abbandonati per la bassa risoluzione spaziale. Anche gli apparecchi per assorbimetria a doppio raggio fotonico (DPA) mostrano dei limiti in termini di risoluzione spaziale, tempi di scansione e di precisione, pertanto l’applicazione in campo ortopedico si fermò dopo pochi studi55. L’avvento della Densitometria ossea a raggi X a doppia energia, segnò in questo campo una svolta fondamentale, tanto che, ben presto, furono applicati a questi nuovi apparecchi i primi software di analisi specifici per misurare il contenuto minerale osseo (BMC) e la densità minerale ossea (BMD) in segmenti ossei protesizzati55. Dopo i primi soddisfacenti risultati, la DEXA ha assunto notevole importanza diventando fondamentale per:

 Valutazione delle caratteristiche dell’osso nella fase del pre-impianto.  Valutazione della reazione dell’osso all’impianto metallico.

 Valutazione del Bone Stock.

 Valutazione del consolidamento dopo fratture.

La DEXA rappresenta, quindi, la metodica maggiormente accettata per la misurazione della massa ossea periprotesica a livello femorale, in virtù della sua accuratezza, riproducibilità e scarsa invasività55. La misurazione della massa ossea, sin dai primi studi, è risultata indice indiretto della ridistribuzione del carico meccanico indotto da un particolare disegno protesico e dalla conseguente risposta biologica dell’osso. Non meno importante è l’impiego della DEXA in fase preoperatoria, in quanto è

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ampiamente documentato che l’efficienza di uno stelo protesico e il tipo di fissazione sono dipendenti dal grado di mineralizzazione dell’osso sul quale lo stelo viene applicato55. Nel caso, infatti, di un osso scarsamente mineralizzato risultano più idonee le protesi cementate, mentre nell’osso ben mineralizzato sono indicate protesi non cementate che garantiscono una elevata stabilità primaria. Occorre precisare che gli esami radiografici standard, che vengono classicamente eseguiti nel follow-up, risultano essere poco sensibili per la quantificazione del riassorbimento periprotesico7, in quanto consentono di evidenziare alterazioni solo per riduzioni della massa ossea superiori al 30%, per cui attualmente la RX viene utilizzata, per lo più, per documentare le fratture patologiche da osteoporosi sia vertebrali, sia delle ossa lunghe. Quindi, lo studio in vivo dei fenomeni di rimodellamento periprotesico vede la Moc DEXA (mineralometria ossea computerizzata con metodica Dual-energy X-ray absorptiometry), e non l’Rx, come la miglior metodica di studio, in quanto permette di rilevare variazioni della densità ossea periprotesica (epifenomeno del rimodellamento) già in fase precoce8,9. Già nel 1992 Bobyn et al.5 ritenevano indispensabile la DEXA nella valutazione precoce del rimodellamento periprotesico. I successivi lavori pubblicati hanno confermato tale validità, con coefficienti di variazione inferiori al 3-4%. Questo sta a significare che variazioni di densità ossea superiori, in plus o in minus, del 3-4% sono legate al processo di rimodellamento. Tenendo presente che l’occhio umano riesce ad identificare variazioni di densità radiografica quando queste superano il 30-40% della densità iniziale (in plus o in minus), fatta salva la perfezione tecnica dell’esecuzione della radiografia, ben si comprende come la DEXA sia la metodica di scelta per valutare il rimodellamento periprotesico.

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3.4 Mineralometria Ossea Computerizzata con tecnica DEXA

La MOC, o mineralometria ossea computerizzata, è una tecnica quantitativa che, fondamentalmente, misura quanta idrossiapatite [ formula chimica: Ca5(PO4)3(OH) ] è

presente per unità di volume del tessuto in esame. Essa si basa sull’assorbimento e sull’interazione con il tessuto osseo di fotoni incidenti emessi dalla sorgente. La sorgente di raggi x è posizionata sotto il lettino e si muove in maniera sincrona con un sistema di rilevatori posti al di sopra del paziente; la proiezione è, quindi, postero-anteriore. La DEXA (Dual X-Ray Absorptiometry) utilizza un tubo a raggi x che emette un fascio “a pennello” a due tensioni, 70 e 140 kVp in modo da generare due distinti fasci fotonici. Dopo conversione analogico-digitale, i valori di attenuazione, ottenuti alle due diverse energie, vengono confrontati ed il risultato viene elaborato, in modo da ricavare il contenuto minerale osseo (BMC: Bone Mineral Content) riscontrato in una determinata area di interesse (ROI, region of interest), che può essere l’intera superficie del singolo corpo vertebrale od un opportuno segmento del collo femorale. Viene quindi calcolato il rapporto tra BMC e l’area stimata di ciascuna superficie di interesse (considerando solo l’area della ROI occupata dall’osso), così da ottenere il valore di densità minerale ossea per unità di superficie (BMD: Bone Mineral Density), che consente di confrontare i risultati di soggetti con dimensioni corporee differenti56. La risoluzione spaziale delle immagini è inferiore a quella della radiografia tradizionale, ma la precisione delle misure è comunque elevata. Essa può essere eseguita a livello dell'avambraccio, della colonna vertebrale lombare, del femore o dell'intero scheletro. Nella maggior parte dei casi si fa a livello della colonna vertebrale e/o dell’epifisi prossimale del femore. La DEXA sfrutta una sorgente a raggi X, ma la dose di radiazione utilizzata per l'esame, ovvero la dose di esposizione, è bassissima (1- 2,5 µSv contro i 0,02 mSv dell’esame radiografico standard del torace) (Tab.3).

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Tab.3: Dosi effettive a confronto tra varie metodiche strumentali.

Pertanto, non sussiste alcun problema correlato all’esposizione ai raggi X, nel ripetere la MOC nel tempo.

Nell’adulto la valutazione della densità ossea si fa esaminando il T-score, cioè valutando di quanto il valore in esame si differenzia da quello del campione di riferimento (soggetti sani dello stesso sesso e di età pari a 25-30 anni, ossia esaminati nel momento in cui si raggiunge il picco di massa ossea). In termini più precisi, il T-score è la differenza, espressa in numero di "deviazioni standard", fra il valore individuale osservato e il valore medio della popolazione sana di riferimento. Valori di T-score compresi fra +1 e -1 indicano una mineralizzazione ossea nella norma. Secondo i criteri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (originariamente riferiti alle donne in menopausa, ma oggi utilizzati per gli adulti di ambo i sessi), si parla di osteopenia quando il valore del T-score è inferiore a -1, mentre di osteoporosi quando il T-score è inferiore a -2.5. Lo Z-score, invece, indica di quanto il valore in esame si differenzia da quello di una popolazione sana di riferimento composta da soggetti dello stesso sesso e della stessa età del soggetto in esame. Occorre sempre e solo usare lo Z-score quando si studiano bambini, adolescenti e in genere soggetti di età inferiore ai 30 anni. Questo indice, sebbene sia sempre riportato nel referto MOC, non ha alcun significato rilevante nello studio dei pazienti in età adulta o avanzata, per i quali l’indice di riferimento resta il T-score. Per il protocollo di valutazione periprotesica dello stelo femorale, sono stati descritti in letteratura diversi software di analisi “Metal Removal”.

Metodica Dose effettiva (µSv)

DEXA rac lomb / fem 4,0 / 1,3 RX torace / anca 20,0 / 300,0

TC torace 8000,0

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Tali software sono stati applicati per studiare modelli protesici diversi: dai tradizionali steli lunghi tipo Zweimuller, fino a protesi considerate moderne, ovvero corte a presa metafisaria. Nel nostro lavoro abbiamo utilizzato il modello proposto da Gruen per la suddivisione delle aree periprotesiche in sette zone, definite Gruen zones: 3 laterali (1-3), 3 mediali (5-7), ed una posta 1 cm distalmente alla punta dello stelo (zona 4), in modo tale da poter quantificare le variazioni ossee zona per zona (Fig.10).

Fig.10: Aree di Gruen

3.5 Altre metodiche di studio: QCT e QUS

La QCT è una tecnica tomografica computerizzata con il vantaggio, rispetto alla DEXA, di effettuare una valutazione tridimensionale e di fornire, quindi, una stima della reale densità ossea, espressa come massa ossea per unità di volume. Oltre a ciò, la QCT permette di analizzare e misurare separatamente la quantità ed il volume di osso trasecolare e corticale. E’, però, una tecnica costosa che espone inoltre il paziente ad alte dosi di radiazioni (da 10 a 50 volte superiore). Viene utilizzata per la misura del

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BMD a livello vertebrale. Esiste anche la variante periferica della QCT detta pQCT, utilizzata per la misurazione della densità ossea del polso; la dose erogata al paziente è circa 20 volte minore, l’analisi è più rapida, e viene effettuata attraverso una macchina dedicata.

La QUS si basa sulla misura della trasmissione di ultrasuoni di bassa frequenza (0,2-0,6 MHz) attraverso il segmento osseo in studio. Le misure vengono effettuate nella regione metafisaria delle falangi della mano (si prende in esame la mano non dominante) dove è presente sia osso corticale che trabecolare e dove il ricambio osseo è elevato. Dato il basso costo di gestione, la QUS è stata proposta come indagine di screening dell’osteoporosi 57.

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