• Non ci sono risultati.

1. RELIGIONE, MORALE E ILLUMINISMO NELLE RIFLESSIONI GIOVANILI

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "1. RELIGIONE, MORALE E ILLUMINISMO NELLE RIFLESSIONI GIOVANILI"

Copied!
65
0
0

Testo completo

(1)

1. RELIGIONE, MORALE E ILLUMINISMO

NELLE RIFLESSIONI GIOVANILI

1.1. INTRODUZIONE

Nel soppesare quanto gli anni giovanili abbiano avuto un ruolo al momento della conversione, la critica si è spesso divisa in due parti: molti sottolineano come in fin dei conti e per certi versi si sia trattato di un crescendo, affermando che le esperienze giovanili preparano Manzoni alla fede; a tal fine questa parte della critica ha indugiato molto nell’evidenziare quelli che potessero sembrare elementi di continuità con il successivo pensiero religioso dell’autore. L’altro ramo della critica ha invece seguito la direzione opposta, cercando di dividere nettamente i periodi della vita manzoniana come scompartimenti stagni, da considerarsi in maniera a sé stante.

I lavori che invece hanno visto meglio, sono riusciti da un lato a mettere in luce gli elementi di continuità tra la prima e la seconda fase; dall’altro a non dimenticare le differenze che comunque le separano, ovvero l’ingresso del sostanziale ateismo nella vita di Manzoni che caratterizza gli anni della prima giovinezza e il ritorno alla fede che invece coinvolse un Manzoni già adulto e maturo, grazie all’incontro con gli Ideologi e con la nuova moglie. Il periodo giovanile, però, preparò il ritorno al cattolicesimo: una mente riflessiva e attenta come quella del Manzoni poté infatti arrivare a credere soltanto tramite lunghe riflessioni. Aver presente il periodo giovanile della vita di Manzoni è perciò importantissimo, specialmente perché permetterà di far emergere quegli elementi di continuità, cui si è già accennato, che legano lo scrittore adulto a quello della gioventù. Tali elementi non hanno a che fare soltanto con le posizioni religiose: riguardano anche (e forse soprattutto) il pensiero di Manzoni sulla politica, sul liberalismo, e sulla concezione della morale.

Perciò scopo di questo capitolo è avere presente, almeno per sommi capi, quale fu il percorso delle riflessioni e degli studi giovanili al fine di comprendere con quale

(2)

preparazione e orientamento di idee la personalità di Manzoni si affacciò al momento della conversione. Indicare le esperienze e le letture giovanili può infatti togliere qualche velo e portare a comprendere come avvenne che Manzoni aderì ad un cattolicesimo filo-giansenistico: furono infatti proprio le idee maturate nel periodo giovanile a dare al cattolicesimo di Manzoni quel carattere liberale, che lo resero così vicino al giansenismo del Grégoire.

1.2. GLI ANNI DEL COLLEGIO

Il primo incontro che Manzoni ebbe con la religione cattolica va ravvisato negli anni dell’infanzia e coincise con un momento probabilmente indotto e irriflesso di adesione alla fede 1. Questo è confermato dall’episodio di Pescarenico, che sembra essere stato raccontato da Manzoni stesso:

“Da ragazzo io andavo spesso al Convento di Pescarenico e una volta vi ebbi una tentazione. Ero entrato e rimasto solo nella stanza dove si conservavano le frutta e stavo per approfittare dell’occasione, quando, alzati a caso gli occhi, vidi scritto sul muro: “Iddio ti vede” e questo mi fece vincere subito la tentazione” 2.

Pian piano il rapporto con la religione divenne difficile 3, come dimostra il periodo della prima adolescenza che il giovanissimo scrittore trascorse nei collegi di Merate (1791-1796) e di Lugano (1796-1798) entrambi retti da Somaschi 4. Dal

      

1  Su  questo  episodio  ricama  forse  un  po’  troppo  il  Gallarati  Scotti  nel  suo  volume:  Tommaso  Gallarati  Scotti,  La  giovinezza  del  Manzoni,  Milano:  Mondadori,  1969,  pp.  33‐34.  E’  senz’altro  vero che i luoghi di Pescarenico e Lecco divennero sacri alla prosa manzoniana; ma non sembra  che ci siano abbastanza elementi per sostenere che il Manzoni bambino abbia avuto un rapporto  così  idilliaco  e  soprattutto  ragionato  con  la  fede.  Senza  nulla  togliere  all’affettuoso  ricordo  dei  Frati  cappuccini  di  Pescarenico  si  può  pensare  che  Manzoni  abbia  sguinzagliato  la  propria  creatività dando toni completamente diversi ad un fatto forse trascurabile. 

2

  Cristoforo  Fabris,  Memorie  manzoniane,  a  cura  di  Emanuela  Fabris  Malaguzzi  Valeri,  Firenze,  1959, p. 33. 

3 Piero Floriani, Manzoni in Dizionario biografico degli Italiani, Roma: Istituto della Enciclopedia  italiana, 2007, 69, p. 306; cfr. con Luigi Tonelli, Manzoni, Milano: Edizioni Corbacco, 1935, pp. 5‐ 63. 

(3)

1798 al 1801 Manzoni entrò nel collegio Longone dei Barnabiti dove concluse gli studi 5. Le esperienze di questi anni fecero maturare nel Manzoni convinzioni anticlericali e simpatia verso le idee giacobine, che in quel periodo di clamorosi eventi avevano raggiunto l’Italia 6. Le idee rivoluzionarie nell’ultimo decennio del settecento viaggiavano per tutta Europa e in Italia vi fu un’improvvisa diffusione di pamphlet, riviste e giornali di aperto orientamento giacobino e illuminista: a Milano venivano stampati a partire dal 1796 “Il giornale degli amici della libertà e dell’Uguaglianza” e il “Termometro politico della Lombardia”, a Brescia “Il Giornale democratico”; perfino nella capitale ad un passo dalla Curia si potevano leggere le pagine del “Monitore di Roma” a cui collaborarono giacobini come Russo e Pagano 7. La parola “Libertà” si era caricata un po’ ovunque in Europa di speranze e di entusiasmi, ma anche della nera pesantezza del Terrore ed essa dovette toccare il poeta ancora bambino con i suoi echi più dolci 8.

Il precocissimo giacobinismo dovette nascere da una situazione di solitudine e sofferenza che insegnò subito ad Alessandro l’importanza di contare sulle proprie forze e di sviluppare una propria indipendenza anche ideologica a cui far affidamento 9: il fine fu quello di fare delle proprie speculazioni un rifugio dall’ambiente angusto del collegio. A prescindere dal suo desiderio di isolarsi, gli anni trascorsi presso i Somaschi seppero comunque lasciare nel giovane Manzoni un’impronta profonda: furono infatti anni in cui il giovanissimo scrittore strinse importanti amicizie; inoltre proprio tra le mura dei collegi cominciò a manifestarsi per la prima volta il talento letterario che lo rese celebre 10.

Nell’ambiente dei Collegi era certo richiesto molto impegno da parte degli studenti: il piano di studi era organizzato in quattro classi e doveva durare otto o

      

5 Alessandro Galletti, Alessandro Manzoni – seconda edizione corretta e accresciuta, Milano: Casa  editrice Alberto Corticelli, 1944, p. 24. 

6

 Ibidem. 

7  Marco  Testi,  Tra  speranza  e  paura:  i  conti  con  i  1789:  gli  scrittori  italiani  e  la  rivoluzione 

francese, Ravenna: Giorgio Pozzi Editore, 2009, p. 9.  8  Tonelli (op. cit. (1935), p. 63) ricorda la vivace descrizione, fatta da Gioia, della confusione che  regnava a Milano in quegli anni. Cfr. Melchiorre Gioia, Opere Minori, III, Lugano: Ruggia, 1833, pp.  120‐121.   9

  Bruna  Fazio  Allmayer,  La  formazione  del  pensiero  etico‐storico  del  Manzoni,  Urbino:  Stabilimento Tipografico Editoriale Urbinate, 1969, p. 11. 

10  Come  dirà  Manzoni  stesso  a  proposito  di  un  Somasco  che  aveva  saputo  notare  i  primordi  di  quel  talento:  “invece  di  darmi  le  busse,  come  i  Prefetti,  vedendo  questa  mia  facilità  a  compor  versi,  mi  dava  le  chicche”  e  ancora  “mi  chiudevo  durante  le  ricreazioni,  in  una  camera,  e  lì  componevo versi”. Cito da Ferruccio Ulivi, Manzoni, Milano: Rusconi, 1984, p. 38. 

(4)

nove anni 11. L’insegnamento era di carattere dogmatico e autoritario e dava grande spazio allo studio mnemonico e alla retorica: nonostante l’impronta scolastica, Manzoni riuscì comunque a sviluppare una grande passione per i classici latini e italiani: arrivò a conoscere molto bene Dante e Petrarca e ad adorare Virgilio 12, di cui in tarda età poteva ricordarsi brani a memoria 13. Questa è infatti l’epoca in cui aveva cominciato a “gustare i libri” 14.

Manzoni non poté, però, approfondire la filosofia, il cui studio veniva evitato dai Somaschi perché considerato pericoloso 15. Gli studenti, inoltre, vivevano in un clima di oppressione creato dalla severità dei frati 16; tra coloro, però, che avevano il compito di guidare l’apprendimento, non mancavano figure in grado di fare una differenza: Manzoni ebbe infatti la possibilità di conoscere personalità autorevoli all’epoca come il filosofo pedagogista Jacopo Stellini e Padre Soave 17. Verso quest’ultimo le fonti testimoniano che Manzoni ebbe un rapporto non scevro da contraddizioni: da una parte vi fu certo ammirazione 18, dall’altra incompatibilità.

Secondo Stoppani e Fabris da questa figura Alessandro sarebbe rimasto colpito e affascinato: gli pareva “di vedergli intorno al capo un’aureola di gloria” 19. All’ammirazione si affiancò, però, la volontà di contravvenire a quella autorità, qualora essa avesse tentato di inculcare al ragazzo idee che egli considerava lontane da sé: tutto ciò ci viene testimoniato dal Cantù, il quale racconta ciò che il piccolo Manzoni si ostinava a non voler scrivere: “re” e “papa” con la lettera maiuscola, creando più di un dispiacere a padre Soave 20.

Come ricorda Gabbuti, Padre Soave fu sostenitore del sensismo e fu uno dei più grandi divulgatori di Condillac in Italia 21. La studiosa, insieme ad una certa parte della critica, vuole rivedere in Padre Soave colui che trasmise al giovanissimo

      

11 Stefano Franscini, Della pubblica istruzione del Canton Ticino, Lugano, Ruggia, 1828, p. 28.  12

  Salvatore  Battaglia,  Biografia  letteraria  di  Alessandro  Manzoni,  Napoli:  Liguori  ‐  Istituto  di  letteratura Italiana, 1962, pp. 9‐11.  13 Ulivi, op. cit. (1984),  p. 40.  14  Galletti, op. cit. (1944), p. 34.  15  Elena Gabbuti, Manzoni e gli Ideologi Francesi, Firenze: Sansoni, 1936, p. 59.  16 Galletti, op. cit. (1944), p. 25.  17  Fazio Allmayer, op. cit. (1969), p. 12.  18  Ulivi, op. cit. (1984) p. 37. 

19  Antonio Stoppani  e  Cristoforo  Fabris,  I  primi  e  gli ultimi  anni  di A. Manzoni,  Milano:  Cogliati,  1923, p. 39. 

20

 Ulivi, op. cit. (1984), p. 38.  21 Gabbuti, op. cit. (1936), p. 49. 

(5)

Manzoni lo spirito del sensismo 22: l’insegnamento sensista in realtà poté essere interiorizzato dal ragazzo soltanto superficialmente e per via irriflessa 23.

Padre Soave era stato l’autore di Istituzioni di etica, dove insegnava che le opere virtuose sono il risultato di una raffinata analisi quasi kantiana delle circostanze e dei doveri, cui ci si deve sottomettere; il teologo, con tutta evidenza vicino al cattolicesimo raziocinante dei Gesuiti, invitava a considerare la Religione alla stregua di una perfezione sublime cui doveva elevarsi la filosofia morale 24. E’ quindi possibile che Manzoni abbia ricevuto in retaggio dal proprio maestro una certa forma mentis e l’abitudine a considerare la virtù come frutto di un attenta e ragionata analisi dei doveri a cui ci si deve sottomettere. Manzoni dovette però mantenere quest’abitudine soltanto, come si vedrà, sino alla conversione che porterà in lui nuove idee in fatto di morale e di virtù. Padre Soave si lasciava guidare dal raziocinio non soltanto nelle questioni etiche ma anche nello stesso uso della severità, secondo una convinzione che si legge espressa nella sua opera: “qualunque cosa a’ fanciulli avvenga, o qualunque cosa essi facciano, mai non siano ripresi o gastigati con ira: sentano la severità, non la collera; e s’avvengano che a punirli ci spinge non il trasporto, né l’impeto, ma la ragione” 25. La sua “severità illuminata” fu certo più umana rispetto alle ruvide maniere dei suoi confratelli, ma non servì a conquistare l’obbedienza 26 di un ragazzo che sino a

      

22

  Manzoni  si  ricorderà  certo  di  questo  maestro  più  avanti  quando  per  confutare  la  dottrina  sensista sull’origine del linguaggio citerà Locke sia nell’originale che nell’edizione di Padre Soave.  23  Mario  Sansone,  Manzoni  Francese.  1805‐1810:  dall’illuminismo  al  romanticismo,  Bari:  Gius.  Laterza & figli, 1993, p. 66. 

24

  Già  nella  “Prefazione”  dell’opera  l’ecclesiastico  fa  infatti  una  dichiarazione  programmatica  e  scrive: “Nella III parte dopo aver mostrato i doveri, che per ragione stringono ogn’Uomo al suo  Autore supremo, farem vedere quelli che obbligano più particolarmente l’Uom cristiano e perché  quelle  cose  che  avrem  innanzi  mostrate  colla  ragione,  ricevevano  dalla  Religione  vie  maggior  peso e autorità; e perché veggasi quanto abbia questa augusta religione perfezionata la morale  Filosofia,  e  perché  ognuno  che  la  professa  possa  conoscere,  quanto  sopra  d’ogni  altro  ei  sia  tenuto non solo per ragione, ma ancora e più fortemente per Religione ad essere e saggio e pio e  probo”. p. 8. Nell’opera di Padre Soave viene data grande importanza alla Ragione intesa quasi in  senso  illuministico  come  giusto  mezzo  a  cui  il  l’uomo  si  deve  affidare.  A  p.  114  si  legge  “La  superiorità  che  ha  l’uomo  sulla  materia  inerte,  sulle  piante,  e  su’  bruti  consiste  nella  facoltà  di  conoscere,  di  ragionare,  e  di  regolare  la  propria  condotta,  e  la  perfettibilità,  che  secondo  Rousseau  è  quella  proprietà  che  più  di  tutte  innalza  l’uomo  sopra  gli  altri  animali,  non  è  altro  appunto che la facoltà a lui data di perfezionare il suo spirito. Or ciò che l’animo perfeziona, si è  la dottrina e la virtù”. La ragione è perciò per padre Soave il dono più importante che riceviamo  dalla  natura  (p.  163).  Francesco  Soave,  Istituzioni  di  Etica  o  filosofia  morale,  Napoli:  a  spese  di  Michele Stasi, 1792. 

25

 Ibidem, p. 200. 

(6)

quel momento non aveva mai conosciuto l’amore filiale 27: testimonianza di questo è la freddezza con il falso padre, Pietro Manzoni, e l’inesistente rapporto con la madre 28. La donna lo aveva infatti abbandonato nel Collegio di Merate quando il piccolo Alessandro aveva soli 6 anni ed era andata via di soppiatto senza un saluto mentre egli fu trattenuto a chiacchierare 29. L’insegnamento pedante dei frati generò nel giovane Manzoni insofferenza e ribellione, che si risolsero nella ricerca di un sistema di idee in aperta opposizione a quello propugnato nel collegio 30: tale ricerca sfociò nell’anticlericalismo e nel giacobinismo radicale 31.

Che l’adesione alle idee rivoluzionarie nacque come un grido di rivolta ci viene testimoniato da un aneddoto raccontato da Manzoni stesso 32: lo scrittore, ritornando al periodo del collegio, racconta di aver avuto un ruolo significativo nell’organizzazione di una piccola congiura per cui parecchi collegiali decisero in massa di tagliarsi il codino in segno di entusiastica adesione alle idee rivoluzionarie 33; la vicenda creò grande scalpore in collegio e fu motivo di una lettera accorata da parte del rettore al padre di Alessandro 34. L’insofferenza al mondo del collegio e il netto anticlericalismo 35 di questi anni traspariranno nettamente dai versi dedicati all’amico Giovanni Battista Pagani:

“Pensier null’altro io m’ebbi in fin dal tempo / che a me tremante il precettor severo / segnava l’arte, onde in parole molte / poco senso si chiuda; ed io vestita / la gonna di Volunnia al figlio irato / persuadea con

      

27

 Galletti, op. cit. (1944), p. 24.  28

  Il  silenzio  del  padre  nell’epistolario  è  veramente  assordante,  come  scrive  Danelon.  Fabio  Danelon,  "Se  ve  l'avessi  a  raccontare  vi  seccherebbe  a  morte".  I  Promessi  sposi,  Alessandro 

Manzoni, il matrimonio in “Nuova Rivista di Letteratura Italiana”, 5, 2002, n.° 2, pp. 226‐231.  29  Ulivi, op. cit. (1984), pp. 34‐35.  30 Ibidem, p. 40.  31 Natalino Sapegno, Manzoni Rivoluzionario e il Trionfo della libertà in Manzoni – Lezioni e Saggi,  Milano: Nino Aragno editore, 2009, p. 10.  32 Ibidem, pp. 8‐10. 

33  Confesserà  Manzoni  stesso:  “un  giorno  mi  sento  bussare  all’uscio  dei  miei  compagni  che  mi  dicono:  “Apri,  camerata;  vieni  fuori,  che  abbiamo  stabilito  di  tagliarci  le  code”.  Io  dapprima  risposi: “Lasciatemi star quieto”: ma poi ho ceduto, ho aperto, e mi son lasciato tagliare il codino.  È stato un gran delitto, perché era segno di idee liberali, e molti anni dopo, morto mio padre, tra  le sue lettere ne ho trovata una del Padre rettore del mio Collegio, la quale diceva: “Questa volta  la camerata dei mezzanelli me ne ha fatta una di grossa: si son tagliate le code! E quello che più  mi dispiace si è di doverle dire, signor Manzoni, che suo figlio è stato uno dei caporioni”. Cito da  Ulivi, op. cit. (1984), p. 38. cfr. pp. 37‐39.  34  Fabris, op. cit. (1959), pp. 94‐95.  35 Ulivi, op. cit. (1984), pp. 39‐40. 

(7)

gonfi sillogismi / che umil tornasse e disarmato in Roma, / Allor sol degno del materno amplesso” 36.

In questi versi Manzoni critica la severità e la sterile erudizione che veniva insegnata in quei collegi, ricordando per posizioni gli ingegni più illustri e liberi dell’epoca come per esempio il Parini e l’Alfieri: il primo giudicava negativamente l’insegnamento retorico delle scuole del tempo; il secondo invece, nella sua Vita, biasimava persino l’ignoranza dei precettori stessi 37. Proprio come Parini nei versi appena citati, Manzoni si doleva per la pratica delle esercitazioni retoriche e ricorda di quando fu obbligato da un professore di eloquenza (Cosimo Galeazzo Scotti) presso il Collegio Longone a comporre una suasoria, dove vestendo i panni di Volunnia (o Vetturia) doveva convincere Coriolano a non marciare su Roma 38. Un’altra critica al mondo ecclesiastico da parte di Manzoni,

questa volta più forte e mirata, compare nel carme In morte di Carlo Imbonati: “Ne ti dirò com’io, nodrito / in sozzo ovil di mercenario armento, / gli aridi bronchi fastidendo e il pasto / dell’insipida stoppia, il viso torsi / da la fetente mangiatoia; e franco / m’addussi al corso de l’Ascrea fontana” 39.

Dopo la conversione il rapporto tra Manzoni e il mondo ecclesiastico si farà più sfaccettato e complesso: l’anticlericalismo da un lato si trasformerà in sincera repulsione verso gli abusi e le ingiustizie, che costellano la storia ecclesiastica, ma dall’altro verrà sostituito da devozione e affetto verso appartenenti al mondo ecclesiastico, che godranno presso di lui di ottima stima. Tale complessità portò lo scrittore dell’età adulta a rinnegare formalmente e in più contesti questi versi 40. Ciononostante il ricordo del periodo trascorso in Collegio rimarrà sempre aspro e sarà di ispirazione per il Romanzo, quando si tratterà di parlare dell’infanzia di Gertrude e dell’educazione religiosa impartita a Federico Borromeo. Nel manoscritto in margine è stata reperita una postilla rivelatrice: “! Merate! In

      

36

  A  Giovanni  Battista  Pagano,  vv.  21‐28.  Cito  sempre  da  Valter  Boggione,  Alessandro  Manzoni 

Poesie e Tragedie, Torino: Utet, 2002, p. 372.  37 Galletti, op. cit. (1944), pp. 25‐27.  38  Ibidem.  39  In morte di Carlo Imbonati, vv. 148‐152. Cito sempre da Poesie e Tragedie, pp. 417‐418. 

40  Nelle  lettere  del  1839  e  1847  ai  Somaschi  Antonio  Buonfiglio  e  Francesco  Calandri  l’autore  lombardo  afferma  che  le  ingiurie  contenute  in  quei  versi  sono  bastevoli  a  fargli  “desiderare  di  non  averli  mai  scritti,  o  almeno  che  fossero  dagli  altri  affatto  dimenticati”.  Sapegno,  op.  cit.  (2009), p. 8. Cfr. Galletti, op. cit. (1944), p. 26. 

(8)

quante maniere tu guasti l’intelletto dei poveri tuoi ospiti per forza” 41. Nel Romanzo si aggiunge alla denuncia della deficienza dei sistemi educativi di allora, il desiderio di mostrare come due anime fatte di una pasta diversa possano rispondere secondo crismi propri ad uno stesso ambiente 42.

L’adesione alle ideologie giacobine fu alla base di una scelta di letture che lo scrittore fece autonomamente, buttandosi con passione tra le pagine di Parini, Alfieri e Monti 43; tale adesione lo spinse a condurre uno stile di vita aperto e disinibito e a stringere amicizia con le menti più colte e liberali del tempo, ovvero lo stesso Monti e Ugo Foscolo e con “i giovani scapestrati della migliore società milanese” il greco Mustoxidi, Pagani, Calderari, Arese, Confalonieri, Ermes Visconti 44. C’è qualche ragione di pensare che Manzoni, come anche gli altri componenti di questo gruppo, sia stato spinto all’incredulità e all’ateismo proprio dal Pagani 45, il più ribelle e antireligioso 46 tra i suoi compagni del collegio, al

quale egli dedicò il già citato sermone e donò un manoscritto (mutilo) del Trionfo

della libertà 47. L’operetta in effetti riscosse grande successo tra gli amici tanto

che alcuni erano in grado di ricordarsi quei versi a memoria 48. L’Arese, fu uno dei più grandi e appassionati seguaci degli enciclopedisti: era proprietario di un imponente quantità di libri che Manzoni poté ritrovarsi fra le mani: il Voltaire, il Diderot, il D’Alambert, il Codillac, l’Helvétius, il Condorcet, il Rousseau etc 49. La passione, poi rinnegata, verso Voltaire, nacque probabilmente a partire da questi anni e fu approfondita insieme a quella per Rousseau nel periodo dei primi soggiorni a Parigi, degli incontri con Fauriel e col mondo degli Ideologi. Poco più

      

41 Cito da Sapegno, op. cit. (2009), p. 8. 

42 Scrisse Sticco: “Alla base di due vite diverse, la monaca traviata e il cardinale santo, si trova la  stessa ineducazione fatta d’ignoranza e d’orgoglio, di bigottismo e di soperchieria che erano poi  gli elementi di quella società spagnolescamente sudicia e sfarzosa; e l’educazione sta alla società  come  al  frutto  sta  il  seme,  che  ne  è  generato  e  lo  genera”.  Maria  Sticco,  Postille  di  pedagogia 

manzoniana, in “Vita e Pensiero”, maggio 1923, p. 301.  43  Battaglia, op. cit., p. 11. Cfr. Gaetano Trombatore, I sonetti e le odi giovanili di A. Manzoni in  “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, 138, 1961, n.° 422,  1° gennaio, p. 197.  44  Ibidem, p. 204.  45  Gallarati Scotti, op. cit. (1969), pp. 34‐35.  46 Ulivi, op. cit. (1984), pp. 41‐42.  47  Gian Piero Bognetti, Manzoni Giovane, Napoli: Guida Editori, 1972, p. 186.  48  Gallarati Scotti, op. cit. (1969), p. 42.  49 Fazio Allmayer, op. cit. (1969), p. 20. 

(9)

tardi Manzoni strinse amicizia con il Cuoco e Lomonaco 50, rifugiatisi in Lombardia dopo esser scampati alla rivoluzione napoletana del ‘99 51.

1.3. DEL TRIONFO DELLA LIBERTA’

Le convinzioni giacobine, volterriane e libertarie del primo Manzoni erano ferme, sostenute da una mente che si presentava già solida e portata al ragionamento 52. Dimostrazione di questo è senza dubbio il poema giovanile Trionfo della libertà, che Alessandro, allora quindicenne 53, aveva costruito riunendo i frutti dei propri studi scolastici e la passione per le idee rivoluzionarie 54.

In una riflessione metapoetica, nell’ode amorosa Quel su le cinzie cime, Manzoni colloca la fase rivoluzionaria della propria poesia alludendo al Trionfo della

libertà in una fase mediana (vv. 49-54) tra un momento precedente improntato

allo stoicismo (vv. 43-44) e altri due successivi; questi ultimi due sono quello dell’esperimento neoclassico, segnato dalla presenza di Virgilio (vv. 55-60) e quello del momento satirico e pariniano, cui l’estro manzoniano sta per approcciarsi 55.

Per quanto riguarda l’opera manzoniana, in questa sede ci si soffermerà soprattutto sul secondo momento, quello del Trionfo della libertà e sull’ultimo, quello pariniano dei Sermoni, perché queste opere mettono in mostra in modo privilegiato come il giovane Manzoni si approcciasse alla religione, alla morale, alle idee giacobine e rivoluzionarie. Altra opera che verrà presa in considerazione è il carme In morte di Carlo Imbonati, in quanto importante manifesto di una poetica che ha raggiunto nel seno del realismo una propria maturità.

       50  Trombatore, op. cit. (1961), p. 108.  51  Sapegno, op. cit. (2009), p. 11.  52 Ulivi, op. cit. (1984), pp. 43‐44.  53  Gallarati Scotti, op. cit. (1969), p. 43.   54

  Nonostante  le  evidenti  ingenuità,  rimane  impressa  nel  lettore  la  bravura  con  cui  il  giovane  poeta  abbia  saputo  adattare  le  idee  moderne  e  rivoluzionare  allo  stile  antico  dell’allegoria  e  dell’endecasillabo dantesco.  

55

 Luca Danzi, Alessandro Manzoni. Tutte le poesie, a cura di Luca Danzi, Milano: Rizzoli, 2012, p.  11. 

(10)

Il Trionfo della libertà, poemetto di carattere etico-retorico 56, fu pubblicato per la prima volta per intero da Carlo Ramussi nel 1875. Si tratta di un’opera per certi versi immatura che presenta contraddizioni ideologiche e ambiguità dovute allo sperimentalismo di una penna ancora acerba 57. Il poema appare diviso in quattro canti. Nel primo, dove trionfa l’allegoria, si fa accenno alla pace di Lunéville del febbraio 1801, che aveva deciso sul piano politico le conseguenze della vittoria francese sugli austriaci 58. Chiuse le porte di Giano, la Libertà può sfilare su un cocchio trionfale e, adornata del berretto frigio dei giacobini, reca nella mano destra il “brando scotitor de’ troni” 59: viene accompagnata da altre due dive, allegorie della Pace e della Guerra che fanno sventolare due bandiere: “Su l’una scritto sta pace alle genti, su l’altra si leggea guerra ai tiranni” 60. Già da qui si nota che alla creazione di questi versi Manzoni è giunto tramite un sentimento feroce e l’adorazione dell’idea di Libertà, amata in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore.

Accanto a loro si affacciano altre due personificazioni, l’Eguaglianza che porta in alto la bilancia “ove merto e virtù si pesa e libra” 61 e l’ “Amor patrio” 62. Mentre la sola vista di queste dame rafforza il potere rigenerante della primavera e crea un clima sereno e gioioso, la Tirannide giace prostrata a terra e sconfitta. Sopraggiunge, però con l’intento di darle manforte, la Religione che la invoglia nuovamente alla lotta: “Tutto si tenti e si ritenti tutto; / e se morire è forza pur, si moja, / ma acerbo il mondo ne raccolga frutto” 63. La lotta non ha affatto luogo perché Manzoni sta facendo retorica 64: alla Libertà basta spingere il cocchio “su le attonite larve” tingendo le ruote d’oro con il loro sangue. Alla sconfitta della Tirannide si accompagna quella storica dell’Austria, l’ “Aquila grifagna” 65: “S’alzò tre volte e tre ricadde al suolo / Spossata e vinta l’Aquila grifagna, / Che l’arse penne ricusâro il volo. / Alfin, strisciando dietro a la campagna / le mozze

       56 Trombatore, op. cit. (1961), p. 199.  57 Ibidem, p. 200. Cfr. Boggione, Poesie e Tragedie, p. 280.   58  Sapegno, op. cit. (2009), pp. 12‐13.  59  Del Trionfo della libertà, I, vv. 49‐50. Cito l’opera sempre da Poesie e Tragedie, p. 287.  60 Ibidem, vv. 65‐66, p. 288.  61  Ibidem, v. 78, p. 289. Fortissimo è in questo giovanissimo Manzoni il desiderio di giustizia e di  equità.   62 Ibidem, vv. 83‐84, p. 289.  63  Ibidem, vv. 140‐141, p. 293.  64  Trombatore, op. cit. (1961), p. 199.  65 Era il simbolo dell’impero Asburgico. Cfr. Poesie e Tragedie, p. 295. 

(11)

ali e le tronche ugne, fuggìo / Agl’intimi recessi di Lamagna” 66. In questi versi vi è il primo riferimento alla battaglia di Marengo, in cui ruolo importantissimo aveva giocato il generale Louis Disaix, che fu il vero autore della vittoria francese e del conseguente passaggio della Lombardia alla Francia 67.

Nel secondo canto Manzoni presta grande attenzione agli episodi celebri della storia di Roma, che ormai da secoli facevano parte del repertorio scolastico; compare infatti il “drappello eletto”, composto da tutti i grandi personaggi che si sacrificarono per la libertà di Roma: Collatino, Lucrezia, Bruto primo, Muzio Scevola, Clelia, Orazio Coclite, Virginio, i Gracchi, Mario, Pompeo, Catone Uticense, Bruto secondo e Porzia 68. In questa sezione del poema la Religione, in negativo, ha un ruolo molto importante: viene data infatti la parola a Bruto che in un lungo discorso biasima Constantino per aver dato autorità alla religione cattolica: l’acquisto del potere da parte di essa, significò, infatti, la definitiva vanificazione di tutti gli sforzi che in precedenza i martiri della libertà avevano fatto per impedire l’avvento della tirannide. Il verso, cadenzato dal ritmo di una violenta polemica, riscrive la storia di Roma rileggendola alla luce delle idee giacobine, riprendendo spesso Parini e Monti 69. Negli ultimi versi del secondo canto compare una feroce requisitoria che mette all’indice gli ecclesiastici, critica la loro “maledetta intolleranza” 70 e infine rievoca i torti di cui l’Inquisizione si macchiò nei confronti del “gran Tosco”, Galileo Galilei. L’intenzione è evidente: dall’alto di un innato senso della morale, il giovanissimo Manzoni sottopone a severo giudizio l’Istituzione ecclesiastica e guarda ad essa con gli occhi di un imberbe illuminista.

Nel terzo canto invece sfila un secondo gruppo di eroi, quelli per Manzoni contemporanei, che erano stati i protagonisti degli eventi rivoluzionari. Tra tutti spicca Desaix 71 e il suo nome vuol essere un nuovo richiamo ai fatti di Marengo

      

66

 Ibidem, vv. 190‐193, p. 295. 

67  Cfr.  Jacques  Godechot,  Napoleone  di  Jacques  Godechot.  Testimonianze  storiche  a  cura  di 

Gérard Walter. Testi di Metternich (et al), Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1970, p. 132.  Cfr. Poesie e Tragedie, p. 279.  68  Sapegno, op. cit. (2009), p. 13.  69  Cfr. Alessandro Manzoni, Poesie prima della conversione, a cura di Franco Gavazzeni, Torino:  Einaudi, 1992, pp. 31‐34.  70  Del Trionfo della libertà, II, v. 151, p. 304.  71 Il Disaix aveva aderito con grande entusiasmo alla rivoluzione francese e dopo aver combattuto  sul  Reno  divenne  generale  di  divisione  a  soli  26  anni.  Trovò  la  morte  sul  campo  di  Marengo.  A  Milano gli furono tributati funerali solenni e il suo atto di eroismo fu celebrato anche da Monti in 

(12)

72. Il poeta rivede nella vittoria francese una vittoria italiana e, intervenendo

personalmente nel canto, ringrazia lo straniero a nome di tutti gli italiani per aver parteggiato per l’Italia. Alle domande di Disaix che interroga il poeta sulla situazione attuale, Manzoni parla con rammarico del proprio status di esule in patria 73, di una Lombardia caduta in mano straniera, di Napoli di nuovo schiava

74. Successivamente in un passo dove è forte l’ispirazione montiana e dantesca,

prende la parola un martire delle stragi napoletane del ‘99 e comincia una terribile invettiva contro Carolina di Borbone 75, che il poeta aveva già paragonato a Medea poco prima 76. Il martire lamenta le speranze infrante di una libertà che si era potuta soltanto intravedere nei brevi entusiasmi della Repubblica Partenopea, instaurata proprio nel 1799 dai Francesi, che guidati da Championnet avevano invaso Napoli, sconfiggendo i Borboni. La regina Carolina di Borbone, sorella di Maria Antonietta d’Austria, si trovò costretta a trovare rifugio in Sicilia insieme alla corte e sferrò contro i giacobini una feroce offensiva, lasciando le redini della situazione al pugno di ferro del cardinale Ruffo 77. Quest’ultimo fu autore di una terribile repressione e le sue truppe coadiuvate dagli Inglesi si macchiarono di efferatezze terribili che Manzoni non manca di denunciare: “e un porporato

      

72 Del Trionfo della libertà, III, vv. 13‐15, p. 308. 

73  Manzoni  si  sta  riferendo  in  questo  momento  specialmente  a  Lomonaco.  Negli  anni  post‐ rivoluzionari la questione nazionale e l’identità italiana era avvertita come un problema serio ed  importante: su questi temi insistevano i Verri, Melchiorre Cesarotti. Tra gli illuministi italiani molti  ritenevano  che  la  risoluzione  del  problema  risiedesse  in  una  monarchia  e  nell’assolutismo  illuminato;  c’era  però  una  minoranza  che  vedeva  soluzioni  in  un  una  nuova  rivoluzione  che  sovvertisse  gli  antichi  ordinamenti.  Cfr.  Carlo  Capra,  Questione  nazionale  e  identità  italiana  in 

Dall'origine  dei  lumi  alla  rivoluzione.  Scritti  in  onore  di  Luciano  Guerci  e  Giuseppe  Ricuperati,  a 

cura di Donella Balani, Dino Carpanetto, Marina Roggero, Roma : Edizioni di storia e letteratura,  2008, pp.  125‐143.  74 Del Trionfo della libertà, vv. 40‐42; vv. 61‐63, pp. 309‐311.  75 Ibidem, vv. 79‐277, pp. 312‐322.  76  Ibidem, v. 62, p. 310. 

77  Le  lettere  che  Carolina  di  Borbone  inviò  al  cardinale  testimoniano  la  volontà  da  parte  della  regina di proseguire una politica molto dura: “gli esempi di clemenza, di perdono e soprattutto di  rimunerazione ad una nazione così vile, corrotta ed egoista come la nostra, non ispessirebbero la  gratitudine e riconoscenza, ma invidia e pentimento di non aver fatto altrettanto, e farebbe più  male che bene. Lo dico con pena, ha da essere punito di morte, chi avendo servito il Re, come  Caracciolo, Moliterno, Roccaromana, Federici ecc, si trovano con le armi alla mano combattendo  contro di lui. Gli altri tutti deportati, con l’obbligo da loro sottoscritto, secondo i gradi del reato o  dell’impiego, di avere la pena straordinaria o perpetua: carcere severo se ritornano, confisca dei  beni (…) Non mi creda di cattivo cuore, né tiranna, né vendicativa: io sono pronta ad accogliere  ed  a  perdonare  tutti,  ma  credo  sarebbe  la  perdita  di  due  regni,  quando  il  giusto  rigore  non  ripurghi, né può essere colle altre misure da prendersi la salvazione” Maria Carolina al Cardinale  Ruffo,  Palermo,  17  maggio  1799,  cito  da  Giuseppe  Astuto,  Dalle  riforme  alla  Rivoluzioni:  una 

regina “austriaca” nel regno di Napoli e di Sicilia in “Quaderni del dipartimento di studi politici” a 

(13)

mostro (il cardinale Ruffo) / Duce si fe' de le ribelli squadre, / Celando i ferri sotto il fulgid'ostro. / Costor le mani vïolenti e ladre / Commiser ne la patria, e tutta quanta / D'empie ferite ricovrir la madre” 78. Manzoni lamenta le stragi cui andarono incontro coloro che credevano nella libertà patria 79, i soprusi subiti dalle spose, dalle donne incinte 80, dai bambini uccisi a sangue freddo 81. Alla vivida condanna delle tragedie che si consumarono a Napoli in quei mesi 82, Manzoni affianca l’elogio del coraggio dimostrato dagli “eroi” 83 napoletani che affrontano la morte “non il loro danno, ma il comun plorando” 84. Successivamente compare lo spettro della “barbara consorte di Luigi” 85 Maria Antonietta d’Austria, che si compiace della strage 86; la segue una folla di sacerdoti, intenti a bere sangue umano. L’invettiva del martire napoletano si chiude nella ferocia, con un augurio di morte per Carolina di Borbone.

Nel quarto canto, invece, Manzoni, mostrando le abbozzate intenzioni di dare una struttura anulare all’opera, rievoca nuovamente la situazione terribile della Lombardia passata dalle mani austriache a quelle francesi. Al martire napoletano, di difficile identificazione, compare il Genio dell’Insubria (la Lombardia) che ricorda le promesse disattese del Trattato di Campoformio 87 e la sconfitta degli Austriaci, costretti a consegnare la Lombardia alla Francia. I versi 79-81 del IV

      

78

 Del Trionfo della libertà, III, vv. 139‐141, p. 315.  79

    Riporto  questi  versi  e  i  seguenti  in  nome  della  loro  efficacia:  “Chi  solo  amò  di  Libertade  il  nome, / O appena il proferì, dai sacri lari / Strappato e strascinato è per le chiome”. Ibidem, vv.  169‐171, p. 317. 

80

 “Ai casti letti venian quei sicari, / Qual di lupi digiuni atro drappello, / D'oro e di sangue e di  null'altro avari. / E invan le spose al vïolato ostello, / Di lagrime bagnando il sen discinto, / Fean  con  la  debil  man  vano  puntello;  /  Che  fin  fu  il  ferro,  ahimè!  / cacciato  e  spinto /  Entro il seno  pregnante: oh scelleranza! / E il ferro, il ferro da l'orror fu vinto”. Ibidem, vv. 172‐180. 

81  “E  i  pargoletti  a  que'  feroci  lupi  /  Con  un  sorriso  protendean  le  mani,  /  Con  un  sorriso  da  spetrar le rupi. / Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani / Tigri! col ferro rimovean l'amplesso, / E  fean le membra tenerelle a brani”. Ibidem, vv. 184‐190, pp. 317‐318. 

82  Manzoni  sta  naturalmente  omaggiando  Lomonaco,  con  cui  si  identifica  in  quanto  esule.  Trombatore, op. cit. (1961), pp. 196‐197.  83  Del Trionfo della libertà, III, v. 196, p. 318.  84 Ibidem, v. 201.  85 Ibidem, v. 228, p. 319.  86

    “Venia  gridando:  Insana  ciurma  e  prava;  /  Che  noi  di  crudi  e  di  tiranni  incolpe,  /  E  al  regno  agogni, nata ad esser schiava,/ Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe Il fio tu paga". Ibidem, vv.  229‐231, p. 320. L’eccesso di toni foschi e cupi, degni del De Raptu Proserpinae di Claudiano, con  cui  Manzoni  descrive  la  regina  defunta  ricordano quelli utilizzati  da Monti, quando nel  Pericolo  offre la propria descrizione di Luigi XVI. 

87  Nel  trattato  di  Campoformio  del  17  ottobre  1797,  l'imperatore  d'Austria  si  era  impegnato  a  mantenere  la  pace  con  la  Francia  e  riconoscere  l’autonomia  della  Repubblica  Cisalpina,  come  potenza indipendente. A tutte queste promesse l’imperatore venne meno un anno e mezzo più  tardi quando con l’aiuto delle armate russe guidate da Suwaroff si impadronì della repubblica. 

(14)

canto sono molto significativi perché dimostrano l’attenzione e il disincanto con cui il giovanissimo scrittore leggeva la storia: “Ma tu, misera Insubria, d'un tiranno / Scotesti il giogo, ma t'opprimon mille. / Ahi che d'uno passasti in altro affanno!” 88. L’acceso giacobinismo non impedisce a Manzoni di comprendere che ad un gioco se n’è alternato un altro e che i francesi si sono fatti promotori di pace e libertà soltanto a parole 89. Mostrandosi sino in fondo sostenitore delle idee egualitarie, il poeta mette in luce la situazione cambiata in peggio del popolo lombardo ancora affamato, mentre i nuovi dominatori vivono negli agi e impoveriscono il paese:

“Langue il popol per fame, e grida: pane; / E in gozzoviglia stansi e in esultanza / Le Frini e i Duci, turba che di vane / Larve di fasto gonfia e di burbanza, / Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda, / A piena bocca sclamando: Eguaglianza; / Il volgo, che i delitti e la nefanda / Vita vedendo, le prime catene / Sospira, e 'l suo Tiranno al ciel domanda” 90.

Il Genio dell’Insubria allora invita il popolo lombardo a ribellarsi 91 alla nuova Tirannia mascherata sotto il nome di “Libertà” e lo esorta a crearsi con le proprie forze uno stato di indipendenza vero e duraturo. Il IV canto, del quale l’ultima parte fu forse scritta posteriormente nel 1805 92, si conclude con l’invocazione della Musa e l’elogio spassionato di Vincenzo Monti, considerato da Manzoni sommo maestro, in grado di superare per bravura persino Dante 93.

Il Trionfo della libertà è un poema che deve molto allo studio intenso fatto in Collegio: il verso utilizzato è l’endecasillabo dantesco e moltissimi sono i rimandi anche contenutistici alla Divina Commedia, anche ad una prima lettura si evince il fatto che Dante risuoni un po’ dappertutto in questi versi; per ricordare solo alcuni esempi, l’apparizione della Dea Libertà è descritta in termini stilnovistici e

       88 Del Trionfo della Libertà, IV, vv. 85‐93, p. 327.  89 Sapegno, op. cit. (2009), p. 15.  90  Del Trionfo della libertà, IV, vv. 85‐93.  91  “Odimi Insubria, i dormigliosi spirti / risveglia alfine”. Ibidem, vv. 121‐122, p. 328.  92 Poesie e Tragedie, p. 280.  93  Manzoni ebbe modo di cambiare idea come dimostra per esempio la parodia scritta per l’ode  che Monti compose nel 1803 in occasione della Festa Nazionale della Repubblica Italiana: “Fior di  mia gioventude.” Il Monti preoccupato per la propria salute implorava la giovinezza di restituirgli  le forze e concludeva l’ode con l’elogio di Napoleone. Manzoni osservava invece con i suoi versi  scherzosi, ma non per questo meno pungenti, che avrebbe fatto meglio a rivolgersi ad un medico.  Battaglia, op. cit. (1962), pp. 12‐16. 

(15)

Manzoni stesso compare all’interno dell’opera ricordando fortemente il Dante-personaggio nella Divina commedia; evidente omaggio a Dante e poi l’incontro con l’anima del martire napoletano 94.

La struttura del poemetto deve naturalmente molto anche ai Triumphi del Petrarca di cui Manzoni conosceva forse già da questi anni anche il Secretum, che gli potè presentare per la prima volta Sant’Agostino. La dipendenza dal Petrarca va evidenziata in modo particolare per la sua importanza tematica; Manzoni sfrutta lo schema del Trionfo perché lo avverte legato alla causa popolare: nel triennio giacobino si stabilì la moda di organizzare feste civiche col doppio fine di irretire per via demagogica la massa popolare e di educarla ai nuovi valori giacobini 95. Poiché l’intenzione di Manzoni era proprio quella di parlare alle masse per risvegliarle, quando si trattò di ricercare una struttura da dare al poemetto, il poeta si rivolse a quella che egli riteneva più congeniale e adatta ad accogliere i temi della festa rivoluzionaria, ovvero la struttura dei Triumphi petrarcheschi: l’allegorismo religioso poté quindi lasciar spazio a quello politico e veicolare immagini forti dalle intenzioni spettacolari, capaci di colpire subito e di rimanere impresse 96. Il carro della Libertà, della Pace, della Guerra o dell’Amor di Patria sono di fatto quelli che sfilavano nei cortei delle feste popolari. Anche l’immagine della lotta tra la Libertà vittoriosa e i suoi antagonisti, Tirannia e Religione, risponde al gusto delle parate popolari 97.

Che la fonte di ispirazione sia la festa rivoluzionaria ci viene testimoniato dalle parole dell’Abbiati: “L’argomento del primo canto ha molto dello spettacolo della macchina di fuochi d’artifizio che il 6 febbraio 1797 rappresentò la libertà che schiacciava il dispotismo e il fulmine della ragione che annientava l’aristocrazia dalle cui ceneri balzava un’aquila spennacchiata (…)” 98. Ci fu inoltre, un’altra festa dalla quale Manzoni poté trarre ispirazione, quella del 30 aprile del 1801 celebrata a Milano per la pace di Lunéville 99, alla quale Manzoni partecipò. Questo fatto è stato indicato dagli studi del Gavazzeni che ha rilevato la

      

94

  Enrico  Farina,  Sul  Trionfo  della  libertà.  Classicismo  e  giacobinismo  in  uno  scritto  del  giovane 

Manzoni in “Italianistica”, 1997, n.° 3, p. 431.  95  Ibidem, p. 432.  96  Ibidem.   97 Ibidem.  98  Tiberio Mario Abbiati, Novelle a spunto manzoniano di un discepolo del Parini, professore di A.  Manzoni, Milano: Casa Editrice “Amatrix”, 1927, p. 10.  99 Godechot, op. cit. (1970), p. 36. 

(16)

somiglianza dell’esperimento di Manzoni con i contenuti del volumetto Raccolta

di tutto ciò che si è stampato in occasione della gran festa del 10 Fiorile dell’anno IX (30 aprile 1801) celebrata in Milano per la pace di Lunéville e per la collocazione della prima pietra nel foro Bonaparte 100.

Nel Trionfo della libertà numerose sono anche le reminiscenze montiane 101. Il rapporto che l’opera intesse con questo autore è senza dubbio di privilegio, ma segue dinamiche complesse: se da una parte Manzoni mostra tutta la propria ammirazione verso il poeta ferrarese 102, che egli non si perita di chiamare “Cigno divin” 103, dall’altra, pur tenendo sempre presenti gli insegnamenti della sua poesia, per certi versi se ne discosta assumendo posizioni politiche differenti, se non opposte. Su questo si tornerà in seguito. La grande influenza di Monti si evince soprattutto dal profondo sincretismo che Manzoni opera tra classicismo e contenuti moderni: le idee rivoluzionarie sfilano, infatti, ammantate di neoclassicismo e poetica dantesca. Esse sono: l’egualitarismo, l’inconsistenza della nobiltà di sangue 104, la guerra alla tirannide, l’esaltazione della ragione, la condanna della religione 105.

1.4. RELIGIONE E POLITICA IN UN POEMETTO DI

ISPIRAZIONE GIACOBINA

La condanna della religione è un tema ricorrente nel poema e deve molto a Lomonaco: la religione, considerata vana superstizione, attira sempre il risentimento e il duro sarcasmo del giovane scrittore ateo più che miscredente:

       100  Poesie e Tragedie, p. 279.  101  Gavazzeni nelle sue note ha messo in evidenza le numerose reminiscenze montiane presenti  nell’opera. Poesie prima della conversione, (1992), pp. 32‐65. Cfr. Poesie e Tragedie, p. 279.  102  Galletti, op. cit. (1944), pp. 38‐39.  103

  Del  Trionfo  della  libertà,  IV,  v.  163,  p.  330.  Tale  ammirazione  era  assolutamente  ricambiata  come  dimostrano  le  parole  con  cui  Monti  ringraziò  Manzoni  dopo  aver  ricevuto  da  lui  l’Adda:  “Non sono adulatore, mio caro Manzoni; ma credimi sincerissimo quando ti dico che i versi che  m’hai mandato sono belli. Io li trovo respiranti quel molle atque facetum Virgiliano, che a pochi  dettano  gaudentes  rure  Camoenae”.  Cfr.  Giovanni  Sforza  e  Giuseppe  Gallavresi,  Carteggio  di 

Alessandro Manzoni, I, Milano: Hoepli, 1912, p. 3. 

104

 Questa ereditata con tutta evidenza dal Parini.   105 Poesie e Tragedie, pp. 280‐281. 

(17)

essa viene infatti considerata da Manzoni, “evemeristicamente” 106, come il pretesto e la maschera dietro cui l’uomo nasconde con astuzia i suoi veri interessi. Già ai versi 112-123 del primo canto viene fatto della Religione un terribile e crudissimo ritratto:

“Evvi una cruda, che uno stile innalza, / E 'l caccia in mano all'uomo e dice: scanna, / E forsennata va di balza in balza. / Nera coppa di sangue ella tracanna / E lacerando umane membra a brani / Le spinge dentro a l'insaziabil canna / E con tabe-grondanti orride mani / I sacrileghi don su l'ara pone, / E osa tendere al Ciel gli occhi profani. / Che più? sue crudeltati ai Numi appone, / E fa ministro il Ciel di sue vendette; / E il volgo la chiamò: Religione” 107.

Questa descrizione rievoca da vicino quella che il Parini fece della Superstizione nel suo poemetto intitolato Guerra 108.

Alla religione è dedicata anche la lunghissima requisitoria (versi 106-206) del discorso di Bruto, che, dopo aver fatto un breve cenno ai tiranni di Roma, indirizza parole molto severe alla Chiesa cattolica 109. Quest’ultima viene accusata di erigere il proprio dominio servendosi dell’inganno, della viltà e di scelleratezze, istituendo come sua legge “Quel che giova lece” 110. Tra i versi che più colpiscono vi sono quelli immediatamente successivi, di chiara ispirazione illuministica, i quali biasimano come conseguenze di questa legge l’intolleranza, la messa al bando della sapienza, il trionfo dell’ignoranza: “Quindi la maledetta ignoranza / del detto e del pensier, quindi Sofia / stretta in catene e in trono l’Ignoranza” 111. Anche i versi successivi (Canto II, vv. 154-171), dedicati alle vessazioni che Galileo Galei dovette subire dalla Santa Inquisizione, sono indicativi per mostrare fin dove arrivasse l’avversione di Manzoni al mondo ecclesiastico: lo scienziato, dopo aver dischiuso ai posteri nuovi orizzonti sul fronte della scienza, era stato

       106 Ibidem, p. 281.  107  Del Trionfo della libertà, I, vv. 112‐123, p. 292.  108  “... di religion prese le spoglie / E posto il ferro in mano all'uom, gli disse: / Uccidi pur, che così  il ciel comanda”. Cito da Poesie e Tragedie, p. 281.  109  Poesie e Tragedie, p. 281.  110  Del Trionfo della libertà, II, v. 150, p. 304.  111 Ibidem, vv. 151‐153. 

(18)

messo a tacere facendo leva sull’autorità del vangelo 112. E’ però chiaro che i versi in questione non hanno lo scopo di condannare i contenuti evangelici, ma quello di disapprovare duramente la strumentalizzazione a cui tali contenuti per secoli erano stati soggetti da parte della Chiesa 113. Questo appare ancor più chiaro se si leggono con attenzione i versi che seguono: “Empj! Che di ragione i divi semi / spegner tentaro ne gli umani petti / e colpirono il ver con gli anatemi. / Van predicando un Nume, e a’ suoi precetti / fan fronte apertamente, e a che gl’imita / fulminan le censure e gl’interdetti” 114. Il fascino della dea Ragione induce Manzoni a contrapporre i contenuti evangelici al vero della scienza: se le scoperte di Galileo appartengono alla sfera sacra del vero, l’arma che la Chiesa imbraccia per colpirlo è quella dell’ “anatema”. Indiscussa è la critica alla storia della Chiesa, abituata a far fioccare censure, bolle interdetti a chiunque non accetti i suoi dogmi 115, ma sullo sfondo è presente anche un sostanziale ateismo. Tale

orientamento anima, a ben vedere, anche la formula di inizio del passo scelto (v. 172 del secondo canto “Van predicando un Nume”), in cui sembra vibrare l’ironia di una domanda, che mette in dubbio non solo l’autorità, ma anche la verità religiosa.

Nei versi 139-144 116 e nei già citati versi 172-175 si fa polemica contro la corruzione del papato che, dopo l’acquisizione del potere temporale, ha allontanato la Chiesa dall’umiltà delle proprie origini. Nei versi 181-198 viene condannato il celibato ecclesiastico come una pratica nociva che si oppone alla voce della natura e alla volontà di quello stesso Dio che gli stessi ecclesiastici affermano di adorare 117. Sul terminare del discorso di Bruto vengono infine rievocate le malefatte dei Gesuiti, intenti ad ordire inganni e nascondere sotto cilici e flagelli veleni e pugnali 118: “E tal sotto i flagelli ed i cilici / cela i pugnali, e vassi a capo chino / meditando veleni e malefici” 119. All’attenzione del presente lavoro questi versi assumono capitale importanza: essi dimostrano che al giovane

       112 “contra te i dardi del diabolic’arco sfrenò / l’invidia, e contra i tuoi sistemi / indarno trasse in  campo Luca e Marco”. Ibidem, vv. 166‐168, p. 305.  113  Poesie e Tragedie, p. 281.  114  Del Trionfo della libertà, II, vv. 169‐174, p. 305.  115 Poesie e Tragedie, p. 305.  116  “E nel Roman bordello prostituta, / vile, superba, sozza e scellerata / al maggior offerente era  venduta. / Ivi un postribol fece, ove sfacciata / facea di sé mercato, ed a’ suoi Proci / dispensava  ora un detto, ora un’occhiata” Del Trionfo della libertà, II, vv. 139‐144, p. 303.  117   Poesie e Tragedie, pp. 305‐306.  118  Sapegno op. cit. (2009), pp. 20‐21.  119 Del Trionfo della libertà, II, vv. 199‐201, p. 306. 

(19)

Manzoni non era affatto estranea quella terribile lotta durata quasi due secoli che, coinvolgendo sovrani e papi, opponeva giansenisti, calvinisti, molinisti e gesuiti

120. Nel mondo del settecento la “querelle de jansénisme” era divenuta di portata

monumentale, trovando nel panorama francese la propria cassa di risonanza, specie nel momento (1709) in cui Luigi XIV fece distruggere la famosa Abbazia di Port-Royal 121. Su tutte queste questioni il giovane Manzoni poté forse affacciare, già da questo momento, un primo sguardo osservandole attraverso le lenti di Voltaire, che dava giudizi sprezzanti e taglienti alle dispute teologiche tra giansenisti e gesuiti122 non trovando differenze, a suo dire, tra la pazzia dei primi e quella dei secondi. In una lettera dell’11 maggio 1761 ad Helvétius, Voltaire afferma di volere “qu’on envoyât chaque Jésuite dans le fond de la mer avec un Janséniste au cou” 123: il Manzoni del Trionfo della libertà avrebbe certo sottoscritto questo commento.

La condanna del mondo della Chiesa procede durissima anche nel III canto quando ha luogo l’invettiva contro i Borboni: la Chiesa è rappresentata come alleata dei tiranni, sotto il cui giogo geme il popolo romano 124. L’impeto polemico si riversa quindi sulla figura del cardinale Ruffo, il “mostro imporporato” a cui fanno quasi eco per cattiveria e violenza i terribili preti, empi ed avidi di sangue innocente, rappresentati come in preda ad un furore profano e dionisiaco:

“Venìa uno stuolo di Leviti, colla / faccia di rabbia e di furor bollente, / e inzuppata di sangue la cocolla. / Ciascun reca una coppa, e d’innocente / sangue l’empiero, e le posar su l’ara. / E lo vide e ‘l soffrì l’Onnipossente! / E disser: - Bevi – e fean quegli empi a gara. / Danzava intorno oscenamente Erinni / e scoteva la cappa e la tiara” 125.

Per capire con precisione quale posizione Manzoni avesse assunto di fronte alla questione religiosa nel Trionfo della libertà, è significativo rievocare un

       120 Per approfondimenti Ruffini, op. cit. (1931), I, pp. 1‐89.  121  Gaetano Lettieri, op. cit. (1999), p. 400.  122  Arturo Carlo Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della Rivoluzione, Bari: Laterza, 1928, pp.  XXIX ‐ XXX.  123  Cito da Jemolo, op. cit. (1928), p. XXX.  124  Del Trionfo della libertà, III, v. 58, p. 310.  125 Ibidem, vv. 238‐246, p. 320. 

(20)

commento che egli stesso appose ai versi del discorso di Bruto (Canto II, v. 115 e ss.) 126 :

“Io protesto che qui e dovunque parlo degli abusi. Diffatti ognuno vede che qui non si tocca principj di sorta alcuna. Altronde il Vangelo istima la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando; cose tutte che diametralmente s’oppongono a questi principj, ai quali per conseguenza diametralmente s’opposero e s’oppongono coloro che qui sono descritti” 127. Questa nota è stata reperita nel manoscritto mutilo che Manzoni diede al Pagani e – stando alla congettura di Bognetti - è probabile che l’autore del Trionfo della

libertà l’abbia aggiunta, come quelle che la seguono nel manoscritto 128, al fine di

ammorbidire il proprio anticlericalismo per far breccia su un destinatario preciso: la famiglia di orientamento liberale, ma cattolico, di Luigina Visconti 129, della

quale il giovane Manzoni nel 1801 era profondamente innamorato 130. Quando i rapporti con la famiglia di Luigina cambiarono 131, Manzoni volle evidentemente cancellare quelle note per restituire al proprio pensiero irreligioso e acattolico la forza originaria. Il fatto che questa nota sia sopravvissuta dipende probabilmente anche dal problema concreto che avrebbe rappresentato la volontà di tagliarle tutte: la materiale composizione del quinterno avrebbe costretto, infatti, Manzoni ad eliminare tutte le terzine finali del secondo canto 132. Lo studio di Bognetti è senza dubbio convincente: non c’è possibilità di comprendere fino a che punto Manzoni sia stato sincero in quelle parole, probabilmente scritte con intenzione; nel caso, però, in cui esse fossero state dettate dal cuore si dovrebbe ritenere che il

      

126

 Bognetti, op. cit. (1972), p. 187. 

127 Cfr. Tonelli, op. cit. (1935), p. 21. Sapegno, op. cit. (2009), p. 21. 

128  Accanto  a  questa  nota  Manzoni  ne  appose  con  certezza  delle  altre  che  però  sono  andate  perdute, come quella ai versi 137‐138 dove si accenna al pontefice Silvestro I “Che infallibil divino  a  le  devote  /  genti  s’infinse,  che  a  la  Putta  astuta”:    alla  fine    del  primo  dei  due  versi  Manzoni  appose l’apice di nota “d” senza che poi segua la nota corrispondente. Lo stesso avviene al verso  141  dove  della  Chiesa  viene  detto  “nel  roman  bordello  prostituta,  /  vile  superba,  sozza  e  scellerata  /  a  maggior  offerente  era  venduta”  (vv.  139‐141):  al  rimando  dell’apice  “e”  non  risponde  nessuna  nota,  che  deve  essere  stata  con  tutta  evidenza  distrutta.  Bognetti,  op.  cit.  (1972), pp. 187‐188.  129  Galletti, op. cit. (1944), p. 36.  130 Bognetti, op. cit. (1972), pp. 176‐188.  131  Il motivo di ciò è da ravvisare nelle frequentazioni di Manzoni. Trombatore, op. cit. (1961), p.  204.  132 Ibidem, p. 188. 

(21)

suo ateismo giovanile oscillasse talvolta tra dubbi, sfumando nello scetticismo o nell’agnosticismo 133 .

Nel Trionfo della libertà, quando la Religione viene presentata come Superstizione, ovvero come “colei che in sacri ceppi il volgo allaccia” 134, Manzoni vuole con tutta evidenza mettere alla berlina il cumulo di rituali e credenze, che il mondo illuminista considerava ridicole “superstizioni”. Si ha, però, la sensazione che lo scrittore non voglia tanto biasimare le idee religiose quanto l’utilizzo che di esse viene fatto: la polemica di Manzoni sferza e si abbatte sulla “superstizione”, soprattutto in quanto considerata strumento di manipolazione e coercizione.

L’opinione precisa che il Manzoni del Trionfo della libertà abbia avuto sui precetti evangelici è difficile da intravedere, perché essa di fatto non emerge, se non nella nota sopra citata. Ma è forse possibile ricostruirla, facendo alcune osservazioni. Nei versi 193-195 135 del II Canto compaiono accenni all’umanità di

Cristo e al Dio buono, creatore della natura e degli istinti naturali, fatti perché l’uomo li seguisse. Benché alcuni critici abbiano visto in questi versi allusioni positive al cattolicesimo, il Dio di cui Manzoni parla è quello dei deisti e, in ultima analisi, quello di Voltaire 136. Tenuto conto di ciò, Manzoni, in questo periodo della sua vita, avrà guardato positivamente ai precetti evangelici soltanto fintanto che essi collimavano con le idee di giustizia, tolleranza, e rispetto trasmesse dalla morale laica ed illuministica: la sua posizione sui precetti religiosi si presenta quindi molto vicina a quella che Voltaire esprime nel suo Traité sur la

Tolerance. Viene quasi spontaneo domandarsi se Manzoni avesse intravisto già da

adesso la possibilità che conciliava le idee egualitarie della rivoluzione e i precetti evangelici, possibilità che il Manzoni adulto rivedrà incarnata nel Grégoire. Quel che però risulta molto importante notare è che lo scrittore già all’età di quindici anni aveva presente la differenza tra dottrine e abusi, tra principi e storia dell’agire umano.

      

133  Secondo  qualcuno  Del  trionfo  della  libertà  è  stato  scritto  in  momenti  separati  e  in  modo  disorganico.  In  questo  modo  si  spiegherebbero  alcune  ambiguità  che  l’opera  presenta.  La  tesi  convince sino ad un certo punto. Cfr. Tonelli, op. cit. (1935), p. 19.  134 Del trionfo della libertà, I, v. 135, p. 292.  135  “Ei con la voce di natura chiama, / Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna, / E va d’ognuno al  cor ripetendo: ama”, Del trionfo della libertà, II, vv. 193‐195, p. 306.  136 Sapegno, op. cit., (2009), p. 22.  

(22)

I versi del Trionfo della libertà non confondono mai le due cose, né quando si affronta la tematica religiosa, né quando si tirano in ballo questioni politiche: per questo può accadere che rappresentanti dello stesso fronte politico vengano giudicati diversamente; se Desaix è martire della libertà, i francesi che instaurarono il proprio dominio in Lombardia dopo gli austriaci sono degli approfittatori, che si nascondono dietro gli ideali rivoluzionari mentre sfruttano e impoveriscono il popolo lombardo. Questa fondamentale differenza tra parole e fatti, pretesti e cause, intenzioni ed azioni sarà sempre presente nel pensiero manzoniano: di essa si sostanzia quella parte tucididea della sua anima volta ad analizzare con massima acribia i fatti e la storia, indagandone i retroscena. Gli abusi di cui si parla nella nota sopra ricordata, sono in fin dei conti gli stessi che l’autore adulto condannerà nelle Osservazioni Sulla Morale Cattolica e nelle durissime parole delle lettere indirizzate al Tosi (quella del 1 dicembre 1819 e l’altra del 7 aprile 1820). Le convinzioni acattoliche e di orientamento deista rimarranno identiche a se stesse quasi certamente sino al 1805, quando Manzoni, nel momento di donare all’amico Giambattista Pagani il poemetto, prima di partire per Parigi aggiunse al manoscritto queste parole: “Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell’anno quindicesimo della età mia, non senza compiacenza, e presunzione di nome di Poeta, i quali ora con miglior consiglio, e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo” 137.

Come notò già Sapegno, Manzoni nel rileggere la sua vecchia opera mostra di rifiutarne la forma, ma di accoglierne la sostanza: riconosce l’immaturità e il tono presuntuoso attribuito alla “follia di giovanile ingegno”; si mantiene però fedele ai “sentimenti” e cioè alle idee che quei versi veicolavano 138.

Per quanto riguarda la politica e gli eventi che all’epoca sconvolgevano Francia e Italia, la posizione assunta dal Manzoni può essere affiancata a quella degli altri scrittori italiani che guardavano a quei fatti con speranza e paura. La contemporaneità di quegli eventi induce a leggere le interpretazioni che gli italiani diedero a queste importanti pagine della storia europea alla luce del loro vissuto:

      

137

 Cito da Bognetti, op. cit. (1972), p. 178.  138 Cfr. Sapegno, op. cit. (2009), p. 22. 

(23)

Alfieri e Pindemonte nel 1789 vivevano entrambi in Francia; Monti vissuto a Roma sino al 1797, aveva abbandonato in quella data l’ambiente curiale e la città del Papa per sposare la causa di Bonaparte; Foscolo si era arruolato nell’esercito francese e aveva combattuto nella Grande Armata sul campo di Marengo. Il giovanissimo Manzoni, invece, vissuto a Milano nel triennio d’oro del giacobinismo, si era lasciato coinvolgere da quel mondo di idee, sulla scia del Pagani e dell’Arese. Gli sconvolgimenti che in quegli anni facevano tremare l’Italia e l’Europa 139 per per un momento toccarono da vicino anche lui 140; ce lo rivela il racconto di un episodio preciso: quando nel 1799 Manzoni si trovava in villeggiatura insieme ai frati a Castellazzo dei Bardi, ebbe modo di assistere personalmente alla ritirata dei Francesi sconfitti dagli austriaci dopo la crisi della Repubblica Cisalpina 141. Questo ricordo, gli rimase vivissimo e non lo abbandonò mai, se è vero che si ispirò ad esso quando si trattò di raccontare nel Romanzo la calata dei Lanzichenecchi 142. Successivamente l’incontro con Cuoco e Lomonaco

diede una sostanza diversa alla sua passione per la storia e per la politica e lo aiutò a guardare con consapevolezza storica ai fatti del suo tempo. Quando infatti le vicende storiche dimostrarono che la promessa libertà era una fasulla chimera perché l’esercito francese era venuto a razziare l’Italia come uno stato di conquista, quando fu chiaro che il primo Console non era affatto intenzionato ad offrire alla Cisalpina l’indipendenza e Milano si trovava solo nella condizione di cambiar padrone 143, Manzoni fu preciso nel mantenersi coerente a sé stesso: continuò ad abbracciare le idee egualitarie, ma criticò aspramente i Francesi 144. Cuoco e Lomonaco incanalarono il giacobinismo manzoniano in una direzione precisa: gli ideali di uguaglianza e libertà si calarono ai suoi occhi nel concreto e Manzoni assorbì da Cuoco e Lomonaco l’idea che l’Italia avrebbe potuto ottenere la libertà soltanto se fosse stata unita e libera 145.

In generale, nel panorama italiano erano molti gli intellettuali che in un primo momento si erano lasciati trasportare dall’entusiasmo verso i giacobini: Foscolo,

       139  Tonelli, op. cit. (1935), p. 14.  140 Ibidem, p. 16.  141  Ibidem. Fazio Allmayer, op. cit. (1969), pp. 17‐18.   142  Tonelli, op. cit. (1935), p. 16.  143 Gaetano Trombatore, L'esordio del Manzoni, in Giornale storico della letteratura italiana,  134,  n.° 406, 1° aprile 1957, pp. 273‐276.  144  Trombatore, op. cit. (1961), p. 208.  145 Trombatore, op. cit. (1957), p. 278. 

(24)

Pindemonte, Alfieri, Parini, Botta, il padovano Melchiorre Cesarotti. Costoro inizialmente non esitarono ad invitare gli insorti di Parigi ad esportare la rivoluzione in Europa e tra tutti spiccò in questo senso Ignazio Ciaja, autore dell’appassionata canzone “Alla Francia” 146. Successivamente la crisi della Repubblica Cisalpina e il comportamento che i presunti “liberatori” avevano adottato nei confronti del popolo “liberato” suscitarono grandissima delusione presso tutti i liberali italiani 147. Le spogliazioni, i soprusi, le rapine di opere d’arte, il dispotismo sostenuto con le armi, la fame del popolo e, più in generale tutte le ingiustizie di cui si macchiarono i nuovi padroni impressionarono molto gli scrittori italiani: esse vengono già additate dai versi di Manzoni, ma ricevono una critica ancora più pungente negli scritti che Foscolo, Monti, Cuoco redassero in questi anni 148.

Per molti la sfiducia generatasi nei confronti dei Francesi aveva anche portato ad un abbandono delle idee giacobine verso un orientamento sempre più temperato e moderato, che talvolta finì per sfociare nell’estremo opposto, ovvero nell’adesione alle idee reazionarie 149. Manzoni non appartenne a questo gruppo, ma si affiancò, comunque, a tutti coloro che avevano riposto grandi speranze in Bonaparte, augurandosi inizialmente che lo stroncamento della dominazione austriaca venisse seguito dall’indipendenza lombarda e non da una nuova dominazione, come invece accadde. La consapevolezza della differenza tra causa e pretesto, tra intenzioni e fatti, tra pensiero e avvenimenti di cui si è già parlato, guida Manzoni non soltanto nella comprensione delle questioni religiose, ma anche di quelle politiche: dopo il “tradimento” dei francesi egli non rinnega affatto le proprie idee passate, semmai li biasima per esser diventati a propria volta tiranni e per non essersi mantenuti fedeli alle idee che avevano propugnato 150.

       146  Testi, op. cit. (2009), p. 11.  147 Ibidem.  148  Sapegno, op. cit. (2009), pp. 23‐24.  149  Testi, op. cit. (2009), p. 12 e ss.  150 Ibidem. 

Riferimenti

Documenti correlati

(S.U.A.P.), per il quale è stato espletato il procedimento di verifica di assoggettabilità alla valutazione ambientale strategica — VAS, previsto al punto 5.9

Fino alla metà dell’800 le scatole erano prodotte ancora a mano e un valido stagnino ne poteva produrre anche sino a sessanta al giorno che risultava comunque sufficiente visto che

Sabato 25 luglio Radio Wow – diretta Live broadcast/ Live Cinecentrum Jesolo Arena Cinema/Kino. Domenica 26 luglio Radio Padova – diretta Live broadcast/ Live Radio Company –

Ciononostante la concezione di “misericordia di Dio” e “Grazia di Dio” adottata da Degola e dai giansenisti vicini a Manzoni, pur trovandosi anche in altri autori e in

Denominazione codice promozione: Convenzione I soliti ignoti - CODICE PROMOZIONALE PRISIGZ0222CV Prezzo comprensivo di prevendita fino ad esaurimento posti in

In questo contesto, pertan- to, le corrispondenze nel loro insieme e per i loro contenuti testimoniano il fer- vore scientifico, culturale, letterario, politico ed intellettuale di

Il Liceo Manzoni promuove attraverso progetti di alternanza scuola-lavoro l'esercizio, tra le altre, della competenza chiave di cittadinanza europea relativa allo sviluppo

Biglietteria del sito www.teatromanzoni.it oltre che disponibile negli spazi del Teatro.. UFFICIO VENDITE