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SATIRA XVI
Le lodi del “bentivoglio”
al signor Ercole Bentivoglio
La satira, dedicata a un altro poeta satirico cinquecentesco, canta le lodi del
“bentivoglio”: il capitolo di lode (opposto nell’argomento ai due precedenti – il
XIII e il XIV “al signor Pietro Aretino” – che narravano, invece, “del mal
del bene”) si ispira, appunto, al cognome di Ercole Bentivoglio, autore d’una
raccolta di satire, edita in quello stesso 1546 nel quale uscì quella nelliana.
Io temo, signor mio, che quel capriccio
ch’io vi scrissi l’altrier del mal del bene1
fin a Ferrara vi puzzi d’arsiccio2,
così perché la vostra stirpe viene
da tal composta e fa ’l bene onorato 5
con quel “ti voglio” orrevol3 che ’l sostiene,
come ancor perché il mio stile infreddato
forse par men che pumice4 succhioso5
al vostro gusto dotto e dilicato,
però, per non vedervi corruccioso6 10
se qua verrete quest’Ascensa7, io voglio
darvi al naso un odor manco fumoso. E ciò sia l’imbrattarvi questo foglio
1 Le satire XIII e XIV, entrambe dedicate “al signor Pietro Aretino”,
costituiscono due testi (“capitolo primo” e “capitolo secondo”) intitolati al “mal del bene”: il riferimento contenuto in questi primi versi può far, forse, ipotizzare che il Bentivoglio fosse stato messo al corrente, oppure incluso quale destinatario oltre all’Aretino, di almeno uno dei due componimenti (inoltre, anche questo è sviluppato secondo quella stessa modalità, benché rovesciata).
2 Arsiccio da arso per “bruciaticcio”.
3 Onorevole diventa orrevole per assimilazione dopo la caduta della vocale
protonica.
4 «Pumice» è un latinismo fonetico da PŪMEX.
5 Pieno di succo.
6 Corruccioso per “pronto alla sdegno”.
271 del ben del bene attaccato a quel vostro
manico generoso del “ti voglio”8, 15
il quale al ben più nero assai che inchiostro dà la bionda e lo fa lucido e chiaro,
tal ch’egli alluma ’l brutto secol nostro.
Or se v’ammenta9, in quel discorso amaro
del ben tristo, vi fei toccar col dito 20 che il “voler” verbo fa ’l ben bello e caro:
non sendo il ben per sé buon né gradito, aggionto al “voglio” fa quel propio effetto che il favore o la salsa all’appitito,
ma, s’alora a bastanza non fu detto, 25 or al “voglio” s’aggionge un “ti” che tira
col “voglio” insieme ’l ben più su che ’l tetto.
Questo “ti voglio”, donque, ov’egli aspira10,
porta seco un amore, una dolcezza,
che scaccia via ’l dolor, l’affanno e l’ira; 30 ma, per che conosciuto assai s’apprezza,
non conosciuto è avuto in quella stima
che dal gallo la gemma in la sporchezza11,
però mi piace farvi assaggiar prima
questo mel, questo zucchero, e da poi 35 legargli ’l ben ch’egli lo porti in cima.
Il “voglio”, oltra infeniti acconci12 suoi,
s’accomoda col “ti” parola breve e quella segue come il carro i buoi,
8 Viene enunciato qui l’argomento che l’autore intende affrontare (ancora una
volta sul modello del capitolo di lode), ovvero l’elogio del “ben”, legato – in onore del destinatario – al “ti voglio”.
9 Ammentarsi per rammentarsi.
10 Arcaico per spirare.
11 Cfr. Ariosto, Satire, IV vv. 206-207: «io per me son quel gallo/che la
gemma ha trovata e non l’apprezza».
272 la natura tant’utile riceve 40 da questa compagnia che, senza lei,
sarebbe ogni sua gloria al sol di nieve. L’umane operazion di sette sei
ove intervien dolcezza han condimento
col “ti voglio, vorrò, volsi o vorrei”, 45 e per darvi un essempio sol di cento,
senza ’l “voglio” o ’l “ti voglio” amor non suole esser altro che nave senza vento:
le lagrime, i sospiri e le parole
d’un amoroso cuor son sempre in questo, 50
ch’un “voglio” pona empiastro13 ove li duole.
E per che il “voglio” sia stimato onesto vi mette il “ti” la coda e vi s’appiglia
come propio l’incalmo in un annesto14.
Col “ti voglio” un’onesta e bella figlia 55 farà l’amante suo lieto e felice,
e sé contenta, e non divien vermiglia. Ma ben con quel “ti voglio” si disdice così disconciamente ogni bugia
com’al vero che il prete in chiesa dice, 60 e, pur quantonche disdicevol sia,
quantunch’al mondo e a Dio tanto dispiaccia il far cosa mentir sì santa e pia,
non di meno è venuta un’usanzaccia
che il “ti voglio” bugiardo alcuna volta 65
fa la gente annegar nella bonaccia15.
13 Empiastro o impiastro è una mistura medicamentosa; in senso figurato vale,
dunque, “rimedio”.
14 Letteralmente vorrebbe dire “come la parte da innestare sulla pianta su cui
viene eseguito l’innesto”: metafora che richiama la pratica agricola consistente nel trasportare la parte di una pianta dotata di gemme su un’altra, in modo da formarne una sola.
273 In Roma, e qui spesso, chi vuole ascolta
nanzi a’ preti i lamenti e le querele di qualche donnicciuola al ponto colta
che già ’l “ti voglio” fallace e crudele 70 nella dolcezza sua tutta ravvolse
com’una mosca impaniata nel mele16.
Un grande conobb’io già che ci colse
col “ti voglio” più bel d’ogni bel volto,
e poi che ne fu stucco17 non la volse, 75
la qual bench’or si doglia più che molto, e che chiami ’l “ti voglio” un traditore, un baro, un degno esser vivo sepolto, però ancor sente tal dolcezza al cuore
che, narrando in qual modo fu ingannata, 80 su quel “ti voglio” va tutta in favore.
Or, se falso egli allegra la brigata, che diè far vero, udendo l’uomo dirsi “ti voglio” dalla cosa tanto amata?
Ma come col “ti voglio” stabilirsi 85 sogliono i parentadi insieme e senza
veggiamo rare l’amicizie unirsi, e come gli è di sì grande eccellenza ch’egli dà pace al mondo e lo consola
e fa di peso l’umana semenza, 90 così tirando seco una parola
negativa contorba gl’elementi
e fa impiccar la gente per la gola18,
e spesso fra gl’amici e fra’ parenti
15 Annegare nella bonaccia vale “perdere se stessi, fidandosi dell’apparente buono
stato delle cose”.
16 L’illusorio “ti voglio” è capace di ingannare quanto il miele, nel quale la
mosca, attirata dal dolce sapore, finisce per invischiarsi.
17 Stucco per “pieno a sazietà”, quindi, in senso figurato, “infastidito, annoiato”. 18 Impiccare per la gola ha valore pleonastico.
274 mette risse, discordie, ferro e morte, 95
e d’undici once19 fa nascer le genti.
Perché l’è forza, o per vie dritte o torte, che ciascuno ubidisca alla natura, e chi le sue non ha, va all’altrui porte.
Vi narro un caso occorso, una sciagura, 100 un “non ti voglio” doppio, un atto indegno
per questa negazion rustica e dura. Gl’era qui un padre assai nobile e degno ch’a una sua figlia ben dotata e bella,
vertuosa, gentil, piena d’ingegno, 105 volea improntar questo “ti voglio”, e ch’ella
fesse a lui i nepotini, e avea trovato coperchio al creder suo per tal padella. Stabilito col giovane il mercato
de cinque mila scudi, al fin si viene 110 ove il dolce “ti voglio” era aspetato.
Fe’ il prete le parole intere e piene: - Magnifico messer, vi contentate ... - con l’altra diceria che dietro viene.
Stavano a bocca aperta le brigate 115 aspettar la parola dolce e cara
del messer: - Sì, la voglia: or me la date - ,
quando quel moccicon20 che ora frate impara
pe’l “ti voglio”, “ ’l vorrei”, ma poco giuova,
sputò un “non voglio”, voce tanto amara, 120 il che a ciascun parve cosa più nuova
che il veder volare l’asino a Pont’Olmo21
19 Essere di undici once vuol dire “essere di peso inferiore al normale”, in senso
figurato “essere bastardo”.
20 Uomo da poco.
21 L’espressione popolare vedere volare l’asino o credere che gli asini volino vuol dire
275 e chieser tosto qual cagion lo muova.
- La sposa ha - disse - il naso alquanto colmo - ,
sorrise il padre: - E in ogni modo, voglio 125 - disse - appoggiar la vite con quest’olmo:
ecco altri mille scudi, io così soglio assottigliare i nasi - e a questo suono cantò quel pezzo di carne il “ti voglio”.
Ma perché non fu né bel né buono 130 detto per forza, e fa tristo lavoro
quando si compra e non sia dato in dono, la giovane gentil del naso d’oro
quando il “ti voglio” suo le fu richiesto
carboni diede a quel vil per tesoro. 135 - No’l voglio - disse - saria mal che questo
mio bel naso, stimato oggi sì caro, contaminassi in lezzo sì molesto, come è il fetor d’un sì vil uomo avaro
che non cerca moglier ma cerca dote, 140
degno d’aver senza dote un carnaro22 - .
Né il padre o tutto il parentado puote trarle di bocca ’l “ti voglio” soave, così le nozze andar d’effetto vote.
E volta al padre: - Omai non vi sia grave 145 di tanta dote, sol darmi l’aggionta
che ’l naso grosso assottigliato m’have, il resto con voi resti ch’io son pronta donarmi a Dio, perché non è ragione
ch’a sì bel naso uomo tocchi la ponta - . 150
comunque impossibile si verifichi”; tra l’altro, il Battaglia cita anche questo specifico esempio della raccolta nelliana (Pont’Olmo vale qui come località generica).
22 «Carnaro» per carnaio (le forme -aio/-aro si alternano con prevalenza di quella
non toscana) vuol dire propriamente “luogo di sepoltura”, ma può valere anche per “strage, massacro”.
276 Così divenne suora e quel menchione
rimase scioccamente uno stivale23,
e all’ombra come il can perse ’l boccone, qual poi, sendo stimato uom senza sale,
si fece frate, ove arrabbia e si duole, 155 e spesso ha carestia d’un naso tale.
Vi mostra un tal digresso di parole che il “ti voglio” fa sempre effetto lieto, e il suo contrario ’l contrario far suole.
Or, quando il ben gl’entra innanzi o dirieto, 160 ne nasce un “bentivoglio” affermativo
ch’un orso, un tigre può far mansueto. Quest’è quel nome e cognome attrattivo che penetra per fin nelle medolle
a chiunche l’ode, e a me ch’or ve lo scrivo. 165 Ma, per che anco un castel fangoso e molle,
tra Ferrara e Bologna24, ben composto
da’ vostri antichi, un sì bel nome tolle, io di questo non parlo, anzi, l’ho posto
fra’ danni miei, per che già in quel camino 170 quasi imparai ’l “bentivoglio” a mio costo:
pel ben ch’io voglio al signore sforzino e a voi, di voi pensava a più non posso, passando un giorno a quel castel vicino,
e quella bestia che m’aveva a dosso, 175 sentendo in quel pensier più lento ’l freno,
secomi trasse in un fangoso fosso; così quel “bentivoglio” a me fu meno che ben quel giorno, e Dio vel dica come
23 Restare uno stivale significa “essere uno sciocco”.
24 Il castello, appunto, di Bentivoglio, fatto costruire da Giovanni II
Bentivoglio, signore di Bologna tra il 1463 e il 1506, e usato come dimora di campagna dalla nobile famiglia.
277 di “bentivoglio” uscì satollo e pieno. 180 Parlo di quello ond’avete ’l cognome,
che tanto Italia e più Bologna onora,
dolente ancor delle mutate some25.
Quest’è quella parola onde ristora
amor gl’amanti e fa tornar in vita 185 l’uomo ancor che più volte il giorno mora.
Quest’è quella dolcezza saporita
che indolcisce ogni cuor superbo e fero e tien con l’alto Dio la gente unita.
Qual dispiatato cuor, qual uomo altiero, 190 vedendo che Dio l’ama, in uno istante
non s’inchina a quel ben superno e vero? Qual tormentato e disperato amante,
se ascolta un “ti vo’ ben” da cui tant’ama,
non benedice le sue pene tante? 195 Un amor generoso altro non brama,
altro non chiede, altro non vuol che questa parola santa che su in Ciel ne chiama. I piacer vili, onde l’uomo s’annesta
alle bestie26 et a noi comuni, sono 200
insipidi, anzi, voglia disonesta, se non si balla a quel soave suono
del “bentivoglio”, ond’ogni vero amore si condisce e diventa santo e buono:
né crediate, signor, ch’un amatore 205 soportasse i perigli e le fatiche
25 Dalla città di Bologna («dolente ancor delle mutate some») la famiglia
Bentivoglio venne cacciata un anno prima della nascita di Ercole (1506), a causa dell’interdetto lanciato sulla città da papa Giulio II; «mutate some» è, tra l’altro, un sintagma tipicamente ariostesco: lo troviamo anche in una delle satire (cfr. Satire, III vv. 2-3: « e s’io mi sento/più grave o men de le mutate some»).
26 Gli abietti piaceri per i quali l’uomo perde la sua propria natura,
278 se il “bentivoglio” non gl’ardesse ’l cuore,
però che a trarsi le voglie impudiche, senza natare ’l mar, scalar le mura,
pur ch’abbia soldi, averà mille amiche, 210 ma questo adornamento di natura
che sente in sé, bramando in l’altrui petto, fra lance e spade ’l guida e l’assicura.
Or, come anco il “ti voglio” ch’io v’ho detto,
tal or n’inganna sendo senza ’l bene, 215 così col ben insieme anco ha difetto.
Son donne assai che per voi stanno in pene,
che vi dan “bentivoglio” a tutto pasto27
mentre avete la borsa e le man piene,
e da tal “bentivoglio” sconcio e guasto 220 è sì guasto oggi il mondo, che a fatica
discerner puossi il rio dal buono al tasto: perché la moglie ancor, non pur l’amica, col “bentivoglio” castra la scarsella,
e se l’una vi ponge e l’altra ortica, 225 quel della moglie fa trar veste, anella,
la puttana vi monge oro battuto,
credendolo voi vero, in questa e in quella; né prima è ben da l’uomo conosciuto
il “bentivoglio” vero dal dipinto 230
che l’ha ridotto all’ospedal cornuto28.
Ma nuoce ancora più quand’egli è tinto nel bel color dell’amicizia pia, il “bentivoglio” d’un amico finto
27 A tutto pasto per “continuamente”.
28 L’uomo, non riconoscendo il “bentivoglio” vero da quello falso, riceve
danno sia dalla legittima consorte che dalla donna frequentata fuori dal vincolo matrimoniale, secondo il noto luogo misogino, secondo il quale l’elemento femminile è sempre e comunque causa di rovina.
279 che vita, onore e robba, e s’altro sia 235 che più caro si tenga, l’uomo fida
per buon oro, in alchimia tanto ria29:
di qui i pianti, i sospir, di qui le strida de gl’amici ingannati sotto ’l zelo
del “bentivoglio” falso che gli guida; 240 né si fa tradimento sotto ’l cielo
ch’egli non v’abbia ogn’or panni in bucata e non l’adombri e non li presti ’l velo. Potrei darvi d’essempi una fornata
ma voi ben li sapete a senno e a mente, 245
e troppo è longa questa intemerata30.
Or, come il “bentivoglio”, il qual ne mente
per la gola31, è la distruzion del mondo,
di Dio nemico e del diavolo parente,
così il vero, il gentil, santo e giocondo, 250 agomenta e mantien l’umana pianta
e rende l’uomo a Dio solo secondo. Che altro mostra di Dio la legge santa
che amar l’un l’altro? e il nostro etterno Duce
di che più co’ seguaci suoi si vanta? 255 non dice loro “Io v’amo”? non gl’induce
a dir “Tu sai ch’io t’amo”? non gl’afferma quest’esser quella via ch’al Ciel conduce? Col “bentivoglio” ogn’amor si conferma,
ogni nemistà parte, ogni aspra voglia 260 ch’amara vita fanno varia e inferma.
Qual è sì grande offesa che non soglia parer minor se al fin l’offeso veda che l’offendente a lui molto ben voglia?
29 Alchimia qui ha il valore figurato di “contraffazione”.
30 L’intemerata può essere anche un “discorso tedioso”.
280 Ma che direm di quei ch’han fatto preda 265 d’un “bentivoglio” succhioso e modesto?
chi dir potrà quanto ben ne socceda? Da questo nasce il lecito e l’onesto
amoroso contento32 maritale,
né durar potria il mondo senza questo. 270 Quanto sia degno un “bentivoglio” tale
sia testimonio la progenie vostra che tanto adorna ’l mondo e tanto vale. Facea noto ’l suo ardor, ne facea mostra
quel primo ceppo vostro, e ne’ sospiri 275 e per gl’occhi, onde aperto amor si mostra,
né, quantunche vedesse i suoi martiri, la bella donna avea caldo a quel fuoco o volgea gl’occhi in più piatosi giri:
non dava il freddo petto al caldo loco, 280 né vento di sospir movea quel scoglio
a cui molto desir parea sì poco. Ma tanto valse un sol dir “bentivoglio”, che il todesco amator dir seppe a pena,
ch’ella rispose: - Anch’io signor vi voglio - . 285 Così, del “bentivoglio” e d’amor piena,
partorì un figlio e il bel nome li pose che l’avea vinta in sì dolce catena: di lui nacquer le genti gloriose,
tanto illustrate dal vostro alto ingegno, 290 quanto del vago Ren le sponde erbose
da loro, ove eber già imperio sì degno33.
32 Contento vale “soddisfazione”, anche nel senso di “conforto”.
33 La satira si conclude con un altro esempio della bontà d’un “bentivoglio”
pronunciato con sincerità: l’autore trae materiale per comporre l’aneddoto dal racconto secondo cui i Bentivoglio sarebbero addirittura discesi da re Enzo di Sardegna, figlio dell’imperatore Federico II.