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CAPITOLO 4 LE FENICIE DI EURIPIDE: TRAGEDIA DELLA COMPLESSITÁ STRUTTURALE E TEMATICA

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CAPITOLO 4

LE

FENICIE

DI

EURIPIDE:

TRAGEDIA

DELLA

COMPLESSITÁ STRUTTURALE E TEMATICA

4.1 La complessità strutturale delle Fenicie euripidee nel giudizio della critica moderna e contemporanea

La complessità strutturale delle Fenicie di Euripide era nota già agli antichi, come ci testimonia l’UPOQESIS o Argomento premesso alla tragedia nei manoscritti. In particolare le ultime righe della stessa così tramandano: «To\ dra=ma e0sti me\n tai=j skhsikai=j o1yesi kalo/n, ei0 kai\ paraplhrwmatiko/n. H# te a0po\ tw=n teixe/wn 0Antigo/nh qewpou=sa me/roj ou0k e1sti dra/matoj, kai\ u9po/spondoj Polunei/khj ou0deno\j e#neka paragi/netai, o# te e0pi\ pa=si met’ w?0dh=j a0dole/sxou fugadeuo/menoj Oi0di/pouj prose/rraptai dia\ kenh=j.» «Il dramma è bello per le scenografie, sebbene sovrabbondante. Antigone che osserva dalle mura non è parte del dramma e Polinice protetto dalla tregua viene per nulla e alla fine la scena di Edipo in partenza per l’esilio con le sue liriche ciarle è un vacuo rattoppo aggiuntivo». 1

In proposito così si esprime Musso: «Tre scene non superflue secondo l’antico commentatore: la prima, Antigone che osserva dalle mura il campo nemico, compresa nei vv. 103-192; la seconda, l’arrivo sulla scena di Polinice e la fallita riconciliazione col fratello, nei vv. 261-637 e infine l’esodo di Edipo, nei vv. 1539-1766. Questo dimostra che gli antichi erano consci del fatto che le Fenicie erano state abbondantemente rielaborate rispetto alla versione originaria ».2 Sulla questione della complessità dell’intreccio del dramma quale peculiarità essenziale di questa opera punta anche Lesky, il quale così si esprime in proposito: «Se dai pochi drammi conservati che risalgono all’ultimo periodo

1

Ipotesi a Euripide, Fenicie, a cura di Musso, O. , vol.III, pp. 298-9, Torino, 2001. 2

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ateniese del poeta è possibile ricavare una conclusione, si può dire che Euripide cerca di concentrare nell’intreccio (delle Fenicie) un contenuto sempre più ricco e di rappresentarlo con un movimento sempre più vivace.»3 In riferimento alla fonte di Lesky, si può infatti notare che dopo il prologo illustrativo di Giocasta, si ritrova, abilmente riferito ad Antigone, il motivo omerico della teixoskopi/a, che permette così di protrarre l’esposizione e di allargare fortemente la visuale del lettore oltre i confini della scena; ad esso segue un agone energicamente accentuato in cui emerge la figura di Eteocle, definito da Lesky “il despota sfrenato, il vero figlio della natura come amavano raffigurarlo gli estremisti della sofistica”; in ulteriori scene seguenti si manifesta poi la tecnica tipicamente euripidea degli a3millai lo/gwn (scontri di parole) di chiara ascendenza sofistica.4

Ciò che, tuttavia, fa ancora notare Lesky è il fatto che nelle Fenicie sono ben inseriti i canti del coro, che formano una specie di ciclo della saga tebana. Fatto singolare, da ricondurre però soltanto all’intenzione di produrre un “effetto insolito”, è che esso sia composto di schiave fenicie in viaggio per Delfi. Lesky, pertanto, punta a questo fenomeno, che anche alcuni critici successivi definiranno come “straniamento”, vedendo per l’appunto nelle Fenicie un dramma dalla profonda natura sperimentale sotto l’aspetto tecnico e compositivo. Anzi, in nome di questa sua convinzione di matrice tecnica e letteraria, Lesky si oppone al giudizio di un altro filone della critica che si è sforzato di interpretare la tragedia come un dramma della po/lij tebana e di ritrovarvi una composizione compatta e organica che verterebbe intorno a questo centro.5

3

Lesky, A. , Storia della Letteratura greca, vol. II, Op.cit. , p.513.

4

Sui rapporti di Euripide con la sofistica resta ancora fondamentale l’opera di Nestle, W. , Euripides. Der Dichter der griechischen Aufklärung, Stuttgart, 1901; notizie interessanti si rinvengono anche in Petruzzellis, N. , Euripide e la sofistica, pp. 356-79, “Dioniso” 39, 1965.

5

Sostenitori di questo filone delle Fenicie come saga della polis tebana sono Riemschneider, W. , Held und Staat in Eur. Phön., Berlin, 1940 e Ludwig, W., Sapheneia. Ein Beitrag zur Formkunst im Spätwerk des Eur. , Tübingen, 1954

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Sulla stessa scia critica di natura strutturale e tecnicistica si colloca Guidorizzi che definisce le Fenicie come “una tragedia collettiva e di ampio respiro”6. Egli infatti parla di quest’opera come di un dramma dai toni insolitamente epici, in cui nessun protagonista emerge sugli altri. Per lui infatti, Euripide, rinunciando ad approfondire la psicologia dei personaggi, costruisce scene di notevole coralità e lunghi squarci narrativi di profonda efficacia drammatica, come quello in cui Antigone, dalle mura, contempla l’esercito nemico che avanza, o la terribile e dettagliata descrizione del duello mortale tra i due fratelli e del disperato suicidio di Giocasta sul corpo dei figli. Di forte effetto patetico, per Guidorizzi è anche il colpo di scena che vede l’uscita del cieco Edipo dalla reggia: «un mostro gonfio di odio e di impurità che ha covato il suo risentimento come un serpente velenoso proprio nel cuore del palazzo, e che ora viene cacciato come un capro espiatorio fuori da Tebe, accompagnato dalla fedele Antigone.» Il critico mette in risalto alcuni aspetti di analogia tra le Fenicie euripidee e l’ Edipo a Colono di Sofocle, dal momento che nel dramma di Euripide un oracolo predice a Edipo che morirà proprio a Colono. Ciò comporterebbe, ma con delle clamorose forzature storico-temporali, una retrodatazione dell’Edipo a Colono, che costituirebbe in tal caso il modello basilare delle Fenicie. In ogni caso, anche Guidorizzi, punta agli effetti insoliti e, per certi versi clamorosi, che sono alla base di questo dramma: non a caso anch’egli cita come autorevoli le parole dell’Argomento di cui sopra, secondo cui «questo dramma è pieno di personaggi e di pensieri elevati, ed è bello per gli effetti visivi e pieno d’azione.»7

Sul tema dello “straniamento”, oltre a quello della riproposizione critica del mito tradizionale, puntano gli studiosi Casertano e Nuzzo che in proposito parlano anche di ribaltamento dei rapporti tradizionali in relazione al ruolo svolto dai fratelli Eteocle e Polinice all’interno di questo dramma. In proposito i critici così si esprimono: «Le Fenicie sono, fra i drammi euripidei, il più lungo e affollato di personaggi, quasi tutti con un ruolo primario: ciò spiega la “stranezza” di un

6

Guidorizzi, G. , Letteratura greca, cultura autori testi, vol. II, L’età classica, p.186, Milano, 2012

7

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titolo così generico, derivato dalla nazionalità del coro di fanciulle, presenti a Tebe solo per caso e del tutto estranee all’azione. La critica antica e moderna ha variamente giudicato sia il valore intrinseco dell’opera (unità interna, organicità, coerenza fra gli episodi), sia l’autenticità di alcune sue parti (specie nel finale). Ad ogni modo anche in questo dramma Euripide cerca e ottiene l’effetto scegliendo un’antica variante rispetto alla versione canonica del mito: i ruoli tradizionali dei due fratelli sono invertiti, con Polinice che fa di tutto per arrivare a una soluzione pacifica della questione, laddove Eteocle è invece prepotentemente attaccato al potere e per esso è disposto a riempire di lutti e dolori la città; Giocasta non si dà la morte al momento della rivelazione dell’incesto con Edipo ma sui cadaveri dei figli, ed il marito/figlio vive abbastanza da apprendere la fine di Polinice ed Eteocle, e da tormentarsi per il rimorso della maledizione scagliata su di loro. E se la tradizione dell’accecamento di Edipo era così radicata e diffusa da non potersi altrettanto disinvoltamente eliminare come il suicidio di Giocasta, Euripide non perde tuttavia occasione per esercitare anche su di essa la sua revisione dissacratoria, facendo dire ad Eteocle (v.763 sgg.) che il padre è stato uno sciocco a privarsi della vista.»8

I due studiosi continuano poi sostenendo che la prepotenza di Eteocle tocca le sue punte estreme, al pari di alcuni eroi shakespeariani quali Macbeth o Riccardo III, allorché dichiara senza mezzi termini di essere disposto ad andare anche fino in capo al mondo e anche all’inferno pur di essere re, affermando di essere pronto a bruciare, ad uccidere, a riempire di cavalli e di carri la pianura, e soprattutto allorchè erompe in una sorta di delirio nel famoso verso: ei1per ga\r a0dikei=n xrh/, turanni/doj pe/ri / ka(lliston a0dikei=n, ta1lla d’eu0sebei=n xrew/n. («se c’è da commettere ingiustizia, l’ingiustizia più bella sia per ottenere un regno; la pietà si applichi pure al resto!» v.524 sgg.). Di fronte a così smisurata ambizione, inutilmente la madre Giocasta lo supplica di rispettare l’uguaglianza: il giovane

8

Casertano, M. – Nuzzo, G. , Storia e testi della letteratura greca, Vol. II , L’età della polis, pp. 209-210, Palermo, 2011.

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ormai, in preda all’ambizione, capace solo di rendere folli gli uomini (v.531 sgg.), ha ormai deciso di compiere il suo gesto. E’ proprio la molla dell’ambizione (filotimi/a) il demone che spinge Eteocle: un impulso non molto differente da quello che trascinava in quello stesso periodo Atene verso la catastrofe finale, a dispetto di tutti gli appelli alla pace. Infine, fanno notare i due studiosi, come ormai della “necessità” ( 0Ana/gkh) eschilea, che fatalmente spingeva i due fratelli a reciproca morte, restino solo labili tracce: si tratta ancora una volta di quel processo di laicizzazione, diseroicizzazione e, per certi versi, dissacrazione di un mito che ormai forniva sempre più esigue ed insufficienti risposte al cittadino ateniese di fronte all’imminente catastrofe bellica che incombeva sulla sua città.9

Ben lontano da questa visione di tipo tecnico-strutturale è il giudizio di Biondi, che punta, in merito al dramma Fenicie, ad una giustificazione di ordine prettamente storico-politico. La tragedia infatti viene contestualizzata all’interno del difficilissimo periodo dell’ultima fase della guerra del Peloponneso, in un tempo storico estremamente duro per Atene.10 Dopo la disfatta riportata in Sicilia, infatti, la città viveva un momento critico anche nella politica interna; all’oligarchia dei Quattrocento, a cui aveva aderito lo stesso Sofocle, era seguita la restaurazione democratica del 410, che però non era riuscita a sanare le antinomie interne. Dolorosa conseguenza di questa situazione era stato l’esilio di numerosi personaggi appartenenti alle più grandi famiglie, alcuni dei quali

9

Per quanto riguarda la laicizzazione e l’imborghesimento della tragedia euripidea, già Nietzsche sostiene che con Euripide la tragedia conclude il suo ciclo dionisiaco per lo spirito realistico ed antieroico in essa introdotto. Euripide infatti apre la via alla Commedia Nuova, a Menandro e a Filemone, prendendo lo spettatore e portandolo sulla scena: “Chi ha capito di quale materia i tragici prometeici anteriori ad Euripide formassero i loro eroi, e quanto fosse lontana dalla loro invenzione l’idea di portare sulla scena la maschera fedele della realtà, si rende conto della tendenza del tutto diversa di Euripide” (Nietzsche, F. , La nascita della tragedia, p. 25 sgg. , Roma-Bari, 1925).

Fondamentale in proposito resta anche l’opera di Paduano, G. , La formazione del mondo ideologico e poetico di Euripide, Pisa, 1968, in cui si fa riferimento allo scontro politico e culturale dell’aristocrazia ateniese legata ai valori arcaici della pa/trioj politei/a, fortemente avversa al programma radicalmente “illuminato” della drammaturgia euripidea.

10

Per quanto riguarda le ultime fasi della Guerra del Peloponneso restano ancora autorevolissime le opere di Berve, H. Storia Greca, Roma-Bari, 1976 e Musti, D. , Storia Greca, Roma-Bari, 1989.

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avevano mantenuto il loro amor patrio, a dispetto del trattamento ricevuto, mentre altri, per spirito di vendetta o per desiderio di potere, non avevano esitato ad allearsi col nemico. In questo particolare momento, la tragedia euripidea, che presentava lo sfacelo della casa dei Labdacidi, non causato, come aveva voluto Eschilo, dal motivo trascendente di una maledizione ereditaria, ma dal dissidio di due fratelli, accecati entrambi dalla bramosia di potere e pronti a coinvolgere un intero popolo nel conflitto da loro scatenato, colpì certo gli Ateniesi per la sua drammatica attualità.

Partendo proprio da questo complicato scenario politico attuale, Biondi sostiene: «Fantasia e realtà, passato mitico e presente storico si fondevano nelle figure dei due protagonisti, che Euripide aveva delineato allontanandosi molto dalla tradizione: Eteocle era divenuto l’incarnazione stessa del tiranno, che non conosce affetti, che non si preoccupa né del diritto, né della giustizia, ma che ambisce al potere ad ogni costo. Per lui non esiste altra legge se non quella di una sfrenata sete di sopraffazione, mentre il suo comportamento si modella su norme etiche profondamente distorte rispetto alla morale comune che lo spingono a considerare virtù la capacità di affermarsi come sovrano e onta il rinunciare al potere senza combattere fino all’ultimo, a qualunque costo e contro chiunque. Per contrapposizione Polinice incarna la figura dell’esule, costretto a tornare in patria guardingo e pieno di paure, anche se l’incolumità dovrebbe essergli garantita dalla presenza della madre e dal giuramento del fratello; ma fino a che punto ci si può fidare della parola di un tiranno? Tuttavia, nonostante il pericolo, il ritorno in patria è anche fonte di intensa commozione: l’animo è assalito da ricordi dolci e dolorosi, che suscitano nel cuore un tumulto di sentimenti, fra i quali uno domina sovrano:

…a1ll’ a0nagkai=j e1xei

Patri/doj e0ra=n a3pantaj: o#j d’a1llwj le/gei, lo/goisi xai/rei, to\n de\ nou=n e0kei=s’ e1xei.))

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«non c’è male più grande per un uomo, che dover abbandonare la propria patria, e chi dice che non è così, gioca con le parole, ma il suo cuore è là».

(Fenicie, 359, trad. Biondi Ida)11.

Come si vede, la studiosa Biondi punta soprattutto a vedere in questo dramma di Euripide forti elementi di attualizzazione in riferimento alla politica ateniese contemporanea, in cui si scontravano le fazioni più avverse tra loro: da quella oligarchica in cui Biondi vede rappresentata l’ambizione (filotimi/a) a quella democratica delineata nel concetto di uguaglianza (i0so/thj). All’interno degli ampi dibattiti presenti nella tragedia, molto probabilmente, secondo Biondi, gli Ateniesi rivedevano i temi più salienti della loro politica quotidiana, in particolare la questione relativa allo scontro tra il concetto di uguaglianza vista come principio davvero giusto e valido per tutti e il concetto di disuguaglianza intesa come naturale corrispondenza di differenti poteri ed onori in base alla naturale diversità degli uomini. Non a caso, nota il critico, la filotimi/a che caratterizza Eteocle è la stessa che Tucidide12 considerava quale impulso dominante negli uomini della sua generazione capace di distruggere ogni qualità positiva, di corrodere ogni valore e di togliere credibilità perfino ai giuramenti e ai legami di sangue: secondo Biondi il dramma euripideo fonda la sua essenza proprio sull’importanza di questi legami parentali fondamentali nella mentalità dei Greci.

E’ pur da considerare, però, che «Euripide è lontano dalla convinzione eschilea, secondo cui la stirpe è un’unità inscindibile e tutti i membri ne condividono le responsabilità, nel bene e nel male; egli ha delineato uomini e donne dello stesso sangue, ma con personalità molto diverse, caratterizzate da un potente individualismo; e la loro tragicità consiste nella contraddizione che portano in sé e che li spinge ad andare l’uno contro l’altro, dominati da passioni discordi,

11

Biondi, I., Graece et Latine, La lirica e il teatro tragico, vol.III, pp. 1140-41, Roma, 2003.

12

Sul pensiero politico di Tucidide, importanti cenni si trovano in Tucidide, La Guerra del Peloponneso, a cura di. Annibaletto, L. , pagine introduttive VII-XXII, Milano, 1971.

Sulla figura del tiranno nell’Atene del V secolo a.C. e della sua trasposizione in ambito teatrale, resta tuttora fondamentale l’opera di Lanza, D. , Il tiranno e il suo pubblico, Torino, 1977, con riferimenti sparsi anche alle Fenicie euripidee.

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capaci di annullare anche il vincolo dell’origine comune, tradizionalmente indistruttibile agli occhi di un Greco.»13

Su questa stessa linea di impronta politica e socio-antropologica si colloca anche lo studioso Avezzù, che rimarca l’eccezionale notorietà delle Fenicie che, a giudicare dal numero di reperti papiracei era probabilmente il dramma euripideo di gran lunga più letto nell’antichità: questo, secondo il critico, è spiegabile col fatto che esso assomma svariati scenari, ad esempio quelli dei Sette contro Tebe e dell’Antigone, ed offre peraltro dei precedenti immediati dell’Edipo a Colono. Ciò però che Avezzù rimarca è il carattere prettamente politico su cui si basa la tragedia in questione. Così si esprime in proposito: «Diversamente dal dramma eschileo, questo non è centrato sulle scelte pubbliche e personali dell’uomo di governo (Eteocle), anche se Giocasta e i due figli si diffondono sul tema prettamente politico dell’uguaglianza (i0so/thj): qui l’intera famiglia – un cast smisurato, che comprende Edipo, Giocasta e l’intero ramo cadetto di Creonte – è coinvolta nella contesa fra Polinice ed Eteocle. Nonostante l’esortazione di Giocasta alla misura, è dunque per eccellenza il dramma in cui risalta l’irriducibile singolarità (la peritto/thj) dell’uomo politico; e anche agli altri personaggi si offrono soltanto risposte individuali, dall’egoismo paterno di Creonte all’abnegazione di Meneceo, all’abbandono della città da parte di Antigone ».14

Estremamente originale è il giudizio fornito in una Letteratura di recente pubblicazione dagli studiosi Ferrari, Rossi, Lanzi, che individuano come nucleo portante delle Fenicie la sua “disarmonia programmatica” che tuttavia trova il suo elemento cementificatore nella rappresentazione degli affetti familiari. Così si esprimono in particolare riguardo al dramma: « Un critico antico (probabilmente Aristofane di Bisanzio), il cui giudizio è riportato nell’ Argumentum , osservava che all’efficacia scenica del dramma corrispondeva una

13

Biondi, I. , Graece et Latine, Op.cit. , p.1141.

14

Avezzù, G. , Annali della tragedia antica “Le Fenicie”, in Storia della civiltà letteraria greca e latina, diretta da Lana I. e Maltese E. V. , vol.I, Dalle origini al V sec. a.C. , pp. 417- 8, Torino, 1998.

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struttura disorganica e sovrabbondante e in particolare censurava come estranei al corpo dell’opera sia la teixoskopi/a (lo “spettacolo dalle mura”, con Antigone e il pedagogo che osservano i condottieri Argivi sul modello di ciò che fanno Elena e Priamo nel III canto dell’Iliade), sia l’incontro di Polinice con Giocasta, sia infine la presenza di Edipo che si appresta a partire per l’esilio nella parte finale. Senonché anche queste scene, superflue o eccentriche in relazione al progresso dell’azione, ribadiscono l’interesse già riscontrato come caratteristico dell’ultimo Euripide, per la rappresentazione degli affetti familiari: la teixoskopi/a culmina nell’esultanza di Antigone nel riconoscere il fratello; l’arrivo di Polinice in città incorpora l’incontro con la madre, segnato da una monodia di Giocasta che produce un effetto complessivo e vibrante grazie alla fusione fra elementi patetici e inventività espressiva; la partenza di Edipo mette in luce il vincolo che lega Antigone così al fratello come al padre. E in effetti tutta l’opera, che esteriormente gravita sulla sorte di Tebe, risolta per il meglio dal sacrificio di Meneceo, verte sulla rovina di una famiglia, quella dei Labdacidi, ai cui estremi poli generazionali si pongono Antigone ed Edipo, da ultimo accomunati nell’esilio imminente (una situazione che anticipa l’Edipo a Colono sofocleo), mentre al centro del quadro sta la grande figura di Giocasta, promotrice frustrata e infine suicida di una riconciliazione impossibile ».15

Sempre sul motivo della succitata “disarmonia programmatica”, viene fatto rilevare dagli autori il fatto che un problema altrettanto particolare si rinviene anche nell’esodo: qui infatti si sovrappongono in modo sconcertante i due motivi in esso centrali, quello della sepoltura (divieto di Creonte relativo al cadavere di Polinice) e quello dell’esilio (ci si chiede in particolare come Antigone potesse ad un tempo abbandonare Tebe e ribadire il suo proposito di seppellire il fratello). Di fronte a problemi testuali di tale portata e probabilmente insanabili, gli autori ritengono quasi con certezza la natura fortemente interpolata e spuria di questo lungo finale. Tuttavia l’unica interpolazione di cui si può essere

15

Ferrari, F.-Rossi, R.-Lanzi, L. , Bibliothéke, Storia della letteratura, antologia e autori della lingua greca, vol. II, Atene e l’età classica, pp. 376-7, Bologna, 2012.

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sostanzialmente sicuri è quella dell’ultima sezione (vv. 1737-fine), che non è compresa nel papiro di Strasburgo il quale invece riporta la precedente parte lirica dell’esodo (vv.1710-1736).16

Un ultimo ma non meno significativo giudizio critico sulle Fenicie euripidee è quello fornito da un recentissimo studio di Medda.17 Questi focalizza la sua attenzione sulla presenza, all’interno della tragedia, di quello che egli definisce “il coro straniero”. Difatti la tragedia prende il titolo, in modo per certi versi sorprendente, dal gruppo di donne straniere, originarie della Fenicia, che per l’appunto ne costituiscono il coro.18 Per Medda l’identità del coro è punto di

partenza obbligato dell’analisi. Le donne che lo compongono, infatti, non soltanto non sono tebane, ma addirittura non appartengono al mondo greco. Sesso femminile, giovane età, presenza casuale a Tebe: tutte queste caratteristiche fanno delle donne fenicie uno dei gruppi corali euripidei meno integrati rispetto alla collettività cui appartengono i personaggi principali del dramma (ed è probabile che ad esse si aggiunga anche la condizione servile). Partendo da un primo livello di motivazione, Medda sostiene che : « La scelta di un coro non cittadino permetteva di non porre una questione che nella lettura euripidea del mito doveva restare in ombra: quella della reazione dei Tebani di fronte al comportamento di una stirpe regale che conduce la città sull’orlo della

16

Per quanto riguarda la problematicità testuale e filologica delle fenicie euripidee, si vedano in particolare: Valgiglio, E. , L’esodo delle “Fenicie” di Euripide, Torino, 1961 ed anche Trautmann, H.T. , De Euripidis “Phoenissarum” versibus suspectis et interpolatis, Programm Halle, 1863

17

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, Milano, 2010.

18

Sulla annosa questione del titolo, Medda pone in nota un’ampia digressione: «Foi/nissai”era il titolo anche di una famosa tragedia di Frinico, uno dei più antichi tragediografi ateniesi, che trattava le stesse vicende dei Persiani di Eschilo e aveva un coro di donne fenicie. Alcuni interpreti sono convinti che il titolo euripideo alluda a quell’opera, ma è difficile immaginare quale potesse essere il punto di contatto fra i due drammi in grado di giustificare una scelta simile. In Frinico il coro è perfettamente inserito nel contesto orientale del dramma, cosa che non può dirsi del coro euripideo a Tebe. Valckenaer 1775, 76 colse una somiglianza fra l’attacco della parodo Tu/rion oi]dma lipou=s’e1ban (“lasciando i flutti di Tiro” Ph. 202) e il frammento delle Fenicie di Frinico in cui il coro iniziava il canto con le parole Sidw/nion a1stu lipou=sa (“lasciando la città Sidonia”, TrGF 3 F 9 Sn.); Wecklein 1894, 11 n.2 e Kranz 1933,11 andarono oltre, interpretando la somiglianza come un richiamo voluto (Kranz pensava a una caratterizzazione esotica della parodo). L’affinità può tuttavia essere casuale, essendo normale che un coro dichiari preliminarmente la propria provenienza.»

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rovina. … Un coro straniero non coinvolto nelle ragioni e nelle emozioni dei personaggi può guardare a tutta la vicenda con una prospettiva più ampia e introdurre nella tragedia una serie di collegamenti con momenti precedenti della saga mitica che permettono di leggere i fatti in una chiave diversa da quella in cui li intendono i personaggi che ne sono protagonisti.»19 Proprio questa condizione straniera del coro fa sì, per Medda, che manchi sul piano affettivo la partecipazione fra il coro stesso e i personaggi femminili del dramma, di cui anche un coro poco “autorevole” avrebbe potuto farsi carico. Questo distacco del coro dalle vicende sceniche potrebbe spiegarsi in base alla generale regressione della componente corale nelle tragedie dell’ultimo Euripide; tuttavia, fa notare ancora Medda, si tratta di un fenomeno, quest’ultimo, non sempre regolare e, comunque, non sufficiente a spiegare la quasi totale mancanza di coinvolgimento del coro nelle problematiche dell’azione drammatica. Eppure, nelle Fenicie, la sistematica disgregazione della funzione corale si manifesta coerentemente anche con l’atrofizzazione del dialogo tra coro e attore soprattutto nel finale, dove lo svolgimento drammatico è affidato esclusivamente agli attori. In pratica nelle Fenicie, Euripide ha creato una voce corale che non parla per i personaggi del dramma. L’unico ruolo essenziale che il coro svolge nella tragedia, secondo Medda, è quello di riproporre simbolicamente, con il suo viaggio dalla Fenicia a Tebe, anche l’antico itinerario del fondatore Cadmo20: in questo modo il coro

delle donne fenicie, per provenienza e antica parentela, ha titolo per rileggere la

19

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, Op. cit. , pp. 19-20 , di cui si riporta integralmente la nota 25: « Per l’individuazione delle connessioni tra le narrazioni mitiche contenute nei canti corali e la vicenda drammatica resta fondamentale lo studio di Arthur 1977. Il compilatore di uno scolio al v. 202 (I 276, 25-29 Schwartz) individuava la motivazione della scelta del coro nella volontà di dare alle donne la libertà di contrapporsi a Eteocle: pw=j ou]n e1mellon to\n basile/a e0le/gxein, ei0 u9p’au0tou= e0basileu/onto; (“come avrebbero potuto rimproverare il re, se fossero state sue suddite?”). Questa interpretazione sopravvaluta il peso dei vv.526-27, che in realtà sono il solo punto della tragedia in cui il coro biasima l’a0diki/a di Eteocle (ad essi si possono aggiungere solo i vv. 258-60, nei quali il coro riconosce un fondamento di giustizia alle pretese di Polinice). Non credo che su una base così ristretta si possa costruire l’immagine di un coro che assume il ruolo di voce libera e si oppone alla prepotenza del sovrano. Per un’analisi dettagliata dello scolio al V. 202 si veda Mejering 1985, 96. »

20

Si veda in proposito Nancy, C. , La voix du choeur, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia s. III 16 (1986) , pp. 461-479.

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storia mitica della città, evidenziandone l’intima duplicità, ma restandone opportunamente ai margini.

Il coro si pone, anche sul piano dell’identità, come un elemento esterno che non pretende di esercitare un influsso diretto nella dimensione intradrammatica. Ciò porta Medda a concludere che : « Il referente unico delle enunciazioni del coro viene ad essere il pubblico presente in teatro … l’idea del coro come spettatore interno al dramma ».21

La conclusione di questa prospettiva enunciata da Medda suggerisce come il coro, nella sua funzione straniata, infonda nello spettatore un senso di protezione rispetto alla vicenda fratricida rappresentata, così bruciante di attualità nello scontro civile che in quel periodo insanguinava il mondo greco.22

Conclude tuttavia Medda che, nonostante questo evidente senso di protezione, il coro delle Fenicie resta comunque una realtà “altra”, dalla quale lo spettatore, interno o esterno che sia, potrà alla fine distaccarsi senza esserne emotivamente travolto.23

4.2 Le Fenicie come esempio dello sperimentalismo lirico-corale e linguistico dell’ultimo Euripide

A prescindere dai più disparati giudizi che la critica moderna ha fornito delle Fenicie di Euripide, rimane comune a tutti gli studiosi un punto ineludibile: quello del rinnovamento euripideo nelle ultime tragedie delle sue sezioni liriche, fatto questo che porta l’elemento corale a trasformarsi in lirica pura, spesso estranea al contesto storico-ideologico del dramma che si fa asservito solo al testo metrico-musicale.

21

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, Op. cit. , p. 26. 22

Ampie notizie sul periodo storico in questione si rinvengono in Delebecque, E. , Euripide et la guerre du Peloponnese, Paris, 1951.

23

Notizie più dettagliate sul coro delle Fenicie si trovano in Medda, E. , Il coro straniato. Considerazioni sulla voce corale nelle Fenicie di Euripide, “Prometheus” , [S.l.], p. 119-131, apr. 2014.

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200

Si è ritenuto opportuno, perciò, dedicare una parte del lavoro in questione a quest’aspetto fortemente innovativo e , per certi versi rivoluzionario, in cui alcuni critici hanno visto un progressivo, ma inesorabile sfaldamento della tragedia tradizionale, di stampo soprattutto eschileo, e l’inizio del dramma di tipo ellenistico, basato più su effetti fortemente estetizzanti, di carattere lirico-melodrammatico, che sulle tematiche politico-sociali legate ad una polis ormai in irreversibile declino.

Sarà proprio questa peculiarità legata al me/loj ed alla performance musicale che farà di Euripide il tragico di gran lunga più apprezzato sia in epoca ellenistica sia, ancor più, nel teatro tragico latino arcaico, da Ennio a Pacuvio fino ad Accio, per poi diventare modello canonico anche in età imperiale giulio-claudia delle Phoenissae di Seneca.

Questo fenomeno non può prescindere dal fatto che negli anni della sua ultima produzione, Euripide tende sempre più ad un allontanamento dalla scena politica, il tutto in perfetta sincronia con le profonde innovazioni del suo repertorio estetico-stilistico-musicale.24

In generale, del canto corale euripideo non si può affatto dire che costituisca un inserto estraneo all’azione.25 Proprio nella sua ultima tragedia, le Baccanti,

paradossalmente il legame che unisce il coro ai fatti drammatici è insolitamente stretto.26 Anche qui, tuttavia, la poesia euripidea presenta disuguaglianze e numerosi canti si qualificano come narrazioni liriche autonome. Lo studioso Kranz li ha definiti “stasimi ditirambici”, paragonandoli ai ditirambi di Bacchilide.27

24

Fondamentale in questa ottica è il capitolo L’evasione verso la poesia bella tratto da Di Benedetto, V. , Euripide : Teatro e società, pp. 239-72, Torino, 1975.

25

Per il confronto con la lirica corale arcaica, cfr. Gentili, B. , Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca, “Studi Urbinati” 39, pp. 70-88, 1965, successivamente in Gentili, B. , Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari, 1984, pp. 153-202.

26

Importante in proposito l’introduzione di Dodds, E.R. a Euripidis Bacchae, Oxford (II ed.), 1960.

27

(14)

201

Tranne un canto dell’Ecuba (vv.444-83), essi appartengono tutti al tardo periodo euripideo, in cui il canto corale è sottoposto a profondi mutamenti anche di altro genere. Questo “canto nuovo”28 presenta una sovrabbondanza e una turgidezza

linguistica che, a volte, sono curiosamente sproporzionate rispetto al contenuto. Aristofane ne fa una parodia tagliente e salace nell’ultimo periodo della sua produzione letteraria.29

In diversi casi si vede che questi testi euripidei ormai servono soltanto da traccia per la musica, e sono dipendenti in un certo qual modo dalle innovazioni metrico-musicali: il testo scritto assume pertanto funzione di libretto, così come la musica, in sintesi, diventa essa stessa il contenuto della poesia, allontanando l’opera letteraria dalle antiche strutture e simmetrie cui era saldamente connessa.30

L’innovazione più rivoluzionaria in questo senso deve essere considerata la scissione e lo sgretolamento dell’antica struttura triadica del canto corale (strofe, antistrofe, epodo)31: questa, spesso, nell’ultimo Euripide si trasforma in monodie o duetti, e, anche qualora la tripartizione perduri, figura solo come elemento labile, instabile e talora le varie coppie strofiche sono collegate fra loro tramite continuità concettuale o espedienti stilistici (iato, analogia metrica, ecc.).32

Si sa con certezza, in proposito, che nell’ultimo periodo della sua produzione, Euripide subì fortemente l’influenza della musica del nuovo ditirambo neo-attico: pomposa, nervosa, turgida, piena di effetti stridenti, e, a detta di Aristofane, barocca, effeminata, decadente.

Fra i tragici, uno dei suoi più convinti seguaci era Agatone, noto come uno degli interlocutori del Simposio platonico, bersaglio continuo degli strali satirici aristofanei per la sua figura elegante e ingentilita (sembra che fosse uno dei primi

28

Definizione attribuita da Kranz, W. , Op.cit. , p. 252.

29

Thesmoforiazouse v.49 e Rane v.1309.

30

Notizie di fondamentale importanza sono presenti in Schroeder, O. , Euripidis Cantica, Lipsiae, 1910.

31

Canonizzata da Stesicoro secondo la tradizione attestata dalla Suda. Sulla questione cfr. Theiler, W. , Mus. Helv. , 12, p.181, 1955.

32

Di Benedetto, V. , Responsione strofica e distribuzione delle battute in Euripide, pp. 298 sgg. “Hermes” 89, 1961.

(15)

202

a radersi la barba contro il costume greco) e per il carattere innovatore dei suoi canti corali.33

Ebbene, nel rapporto di dipendenza stilistica Euripide-Agatone, quest’ultimo, secondo una fondamentale notizia aristotelica34, sarebbe stato il primo a sostituire nella tragedia le parti corali, comunemente collegate con la trama, con puri e semplici interludi musicali (e0mbo/lima) che avevano solo lo scopo di riempire l’intervallo tra un atto e l’altro, come avverrà di lì a poco nella Commedia Nuova ellenistica.

Appare evidente come questa novità sia indissolubilmente connessa con le trasformazioni della musica verso la fine del V. sec. a.C. e gli antichi non mancano di sottolineare le affinità tra le monodie e, in genere, le parti liriche della tragedia di Agatone col ditirambo contemporaneo, cui era imprescindibilmente collegato un altro nome famoso, quello di Ione di Chio. Probabilmente, però, il nome che più degli altri si associa all’opera dell’ultimo Euripide è quello di Timoteo di Mileto, uno dei più celebrati rappresentanti del nuovo stile, sulla cui figura di innovatore basti citare un aneddoto leggendario ma sicuramente significativo in cui si tramanda, che, allorché si esibì a Sparta, roccaforte del conservatorismo aristocratico non solo politico ma anche culturale, gli furono tagliate alcune corde della cetra che evidentemente superavano il numero tradizionale di sette fissato da Terpandro.35

Nello stesso tempo la parte musicale delle rappresentazioni drammatiche e ditirambiche acquistava sempre maggiore importanza e indipendenza rispetto al

33

Per il Simposio di Platone si veda Platone: Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, a cura di Savino, E. , Milano, 1987 e per la traduzione italiana si veda Platone, tutti gli scritti, a cura di Reale, G. , Milano, 1991.

34

Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di Gallavotti, C., Milano,1974, p.66 : kai\ to\n xoro\n de\ e3na dei= u9polambanei=n tw=n u9pokpitw=n, kai\ mo/rion ei]nai tou= o3lou kai\ sunagwni/zesqai, mh\ w3sper Eu0ripi/dh?, a0ll’w3sper Sofoklei=: toi=j de\ loipoi=j ta\ a0?do/mena <ou0de\n> ma=llon tou= mu/qou h2 a1llhj tragw?di/aj e0sti/v, dio\ e0mbo/lima a1?dousin, prw/tou a1rcantoj 0Aga/qwnoj tou= toiou/tou. : «Il coro, infine, bisogna che assuma la parte di un attore; deve essere un elemento dell’intero, e partecipare all’azione, come fa in Sofocle, e non in Euripide. Nei poeti posteriori, invece, le parti cantate appartengono al racconto come potrebbero appartenere a una tragedia differente; perciò si cantano ormai solo intermezzi e a fare questo cominciò Agatone per prima.» (18,7,45).

35

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203

testo scritto e passava nelle mani di virtuosi professionisti musicali. In questo senso è chiaro che la parola poetica perda quella funzione magica che le era peculiare nei drammi eschilei e soprattutto quella funzione pedagogica e didascalica per cui essa doveva essere sempre subordinata ad un contesto di valore etico-didattico, di pretto stampo aristocratico, di sapore arcaico, pindarico, soloniano e che costituiva l’egida del conservatorismo aristofaneo.36

Al contrario, in Euripide, dove i contesti sociali e politici sono capovolti, dove la distruzione sistematica degli pseudovalori balza fuori da ogni pagina, dove ormai i vocaboli sono spesso spogliati della loro funzionalizzazione etico-politica, è naturale che, parole che nella generazione precedente erano veicoli di messaggi e che, come tale, potevano essere collocate in ben determinati contesti lirico-corali, ora “slittino” in sezioni dialogico-recitate, per di più in bocca a personaggi che avrebbero suscitato sdegno e risentimento alcuni decenni prima nell’arcaica e severa tragedia eschilea, e che ancora producevano scandalo agli occhi di chi, come Aristofane, a quel mondo era nostalgicamente, ma anacronisticamente e antistoricisticamente proteso.37

Certo, la funzione del coro nella tragedia classica è ben diversa da quella dei “cori recitati” usati da Brecht (nel precedente di Piscator), nella messa in scena delle sue opere; ad esempio questi ultimi non rappresentano, o almeno non sempre rappresentano, una parte integrante dei suoi drammi.38

36

Notizie diffuse in proposito si trovano nell’opera fondamentale per la tragedia greca antica di Pickard-Cambridge, A.W. , The Dramatic Festivals of Athens, Oxford (II ed.), 1962.

37

Per il contrasto generazionale Eschilo-Euripide si veda Aristofane, Gli Acarnesi, Le Nuvole, Le Vespe, Gli Uccelli, a cura di Paduano, G. , Milano, 1971, in particolare pagine introduttive XX-XXII, di cui si riportano le importanti parole di Paduano riguardo al finale delle Rane di Aristofane: «Dioniso che riporta Eschilo sulla terra è l’ultimo grido di attaccamento al passato della città a cui è stato tolto il futuro.»

Per il fenomeno di “slittamento” di parole eschilee in contesti lirico-corali, riutilizzate da Euripide con valenza recitata, è fondamentale Di Benedetto, V. , Euripide: teatro e società, p.79 e p.179, che parla esplicitamente di “svilimento” di “alcune forme nominali attestate come specificamente liriche, trattate da Euripide in contesti dialogici-recitati”.

38

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204

Come noto, Schlegel definisce il coro nella tragedia antica come “lo spettatore ideale”39: ma anche laddove il coro non è tra i protagonisti nell’agire e nel patire,

come ad esempio nelle Supplici e nelle Eumenidi di Eschilo, o nelle Troiane e nelle Fenicie di Euripide, bensì compare realmente, come nella maggior parte delle antiche tragedie conservate, come una specie di spettatore di quanto avviene : l’”idealità” attribuitagli da Schlegel non consiste nel suo essere, per ipotesi, al di sopra degli avvenimenti rappresentati, accompagnandoli con considerazioni dettate da una superiore comprensione, ovvero nel costituire “l’espressione del pensiero del poeta”;40 piuttosto, esso è “ideale” solo in quanto

sta a rappresentare il mondo circostante o una sua sezione, ed esprime la sua reazione naturale agli eventi, che tuttavia non per questo è dettata da una superiore visione. Così si produce anche il distacco e, in un certo qual modo, la spinta alla meditazione (gnw/mh). Viene però lasciata una maggiore libertà alla riflessione dello spettatore: essa non viene così orientata unilateralmente in una data direzione voluta dall’autore.41

Sulla scia di questa presunta ideale astrazione del coro dalla vita quotidiana in nome di una più feconda adesione al concetto dell’antica collettività sociale

39

La definizione appare nelle Vorlesungen über Dramatische Kunst und Literatur (Lezioni sull’arte e sulla letteratura drammatica), Kritische Ausgabe, a cura di Amoretti, G.A. , vol.I, p. 63, Bonn und Leipzig, 1923.

40

In questa ottica si colloca l’estetica teatrale del Romanticismo ottocentesco a cui non si sottrare neppure Manzoni , allorché definisce i cori delle sue tragedie come un “cantuccio” lirico che il poeta si riserva personalmente per esprimere la propria visione ideologica e culturale. Così si esprime in proposito nella Prefazione al Conte di Carmagnola, in Manzoni, A. , Le tragedie, a cura di Tellini, G. , Roma-Salerno, 1996, p. 533: «Ora mi è sembrato che, se i Cori dei Greci non sono combinabili cl sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovare lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti nell’idea di quei Cori. Se essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi toglie loro una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato, e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio di essere inconvenienti: non essendo legati colla ordinatura dell’azione, no saranno mal cagione che questa si alteri e si scomponga per farveli stare. Hanno finalmente n altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dov’egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione di introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti; difetto dei più notati degli scrittori drammatici.»

41

Si vedano in proposito le considerazioni di Medda, E. , a proposito del “coro straniato” delle Fenicie di Euripide, in Il coro straniato. Considerazioni sulla voce corale nelle Fenicie di Euripide, “Prometheus” S.l.], p. 119-131, apr. 2014.

(18)

205

dorica, il linguaggio corale si adegua all’altezza della concezione e si traduce soprattutto nella magniloquenza eschilea, sulla base di estesi composti e di un ardito linguaggio metaforico: questi ultimi nell’accezione euripidea subiscono un’evidente banalizzazione di contesto se non di contenuto; è quanto Aristofane, nell’agone poetico delle Rane (v.1059)42 fa dire a Eschilo, cioè che i grandi

pensieri (e quelli del coro lo sono in particolare virtù della sua presunta gnomicità) devono trovare un’espressione linguistica adeguata.43

Al contrario, l’aria dello schiavo frigio nell’Oreste di Euripide, del 408, pressoché coeva alle Fenicie, e i Persiani di Timoteo, danno un’idea di quanto ormai i testi fossero subordinati all’esecuzione musicale e concepiti solo in vista di effetti melodici.44

La musica, a differenza di quella antica, è ora caratterizzata da frequenti cambiamenti di ritmo e di tonalità. La moda fu iniziata da Frinide di Mitilene, che compose no/moi per la cetra e da Melanippide di Melo, il riformatore del ditirambo, poi proseguita a sua volta dall’ateniese Cinesia e da Filosseno di Citera,45 contemporanei di Aristofane che insieme ad altri comici ce ne tramandano la caricatura.46

Un confronto diretto fra il nuovo stile delle ultime opere euripidee e l’opera di Timoteo può essere operato grazie a un papiro del IV sec. a.C. scoperto nel 1902 contenente la parte finale dei Persiani di Timoteo47, opera che, secondo alcuni,

42

Aristofane, Le Rane, a cura di Del Corno, D. , Milano, 1985, p.110-11: a0ll’, w0= kako/daimon, a0na/gkh mega/lwn gnwmw=n kai\ dianoiw=n i1sa kai\ ta\ r9h/mata ti/ktein. («Disgraziato! Per grandi concetti e pensieri occorre dar vita anche a parole di grande proporzione.»)

43

Lesky, A. , Storia della letteratura greca, Op. cit. , vol.I, p.331,

44

Di Benedetto, V. , Euripide: teatro e società, Op.cit. , p.264 n.87 e Feaver, D.D. , The musical setting of Euripides’Orestes, “AJPh” LXXXI, 1960, pp.1-15.

45

Ferrin Sutton, D. , Dithyramb as Dra=ma: Philoxenus of Cythera’s “Cyplops or Galatea”, “Quaderni Urbinati” 13 (42), pp.37-43, 1983.

46

Notizie diffuse su questi autori si rinvengono in Dizionario di antichità classica di Oxford, a cura di Lemprière Hammond N.G. e Hayes Scullard H. , ed.it. a cura di Carpitella M. , Roma, 1981.

47

Il papiro di Berlino è un rotolo di papiro di carattere letterario, recante un'opera del poeta Timoteo di Mileto, i Persiani, risalente al IV secolo a.C. e venne alla luce nel 1902 nei pressi di Abusir, sobborgo di Menfi, nella tomba di un soldato e faceva parte, insieme ad altri oggetti, dell'arredo funebre. (cfr. Marina Scialuga, Introduzione allo studio della filologia classica, pp. 33, 34, Alessandria, 2005).

(19)

206

costituisce un no/moj, secondo altri un ditirambo, ma che in ogni caso è fondamentale per una diretta comprensione dello stile dell’epoca.48

In proposito Clemente Alessandrino riferisce che Timoteo per primo impiegò il coro nel nomo citarodico.49 Se si tiene conto delle tesi sostenute da Schönewolf che il ditirambo neoattico inseriva talvolta monodie nel canto corale, se ne deduce che i due generi si avvicinavano l’uno all’altro e tendevano ad ottenere effetti drammatici.50

Un eccesso grottesco di quest’ultima tendenza è tramandato da Aristotele che riferisce che, nell’esecuzione del ditirambo Scilla, l’auleta afferrava il corifeo per la veste per rendere concretamente l’assalto del mostro.51

Nell’opera di Timoteo la lingua ha un movimento irrequieto e scintillante, ostentazione di esagerato sfarzo lessicale, soprattutto negli attributi, nei quali il poeta mira a fare effetto impiegando ricercati aggettivi composti. Molto evidente è la tendenza a rendere enigmatica l’espressione mediante audaci perifrasi, anticipando così il gusto calligrafico ellenistico. Quello che poteva apparire un difetto saltuario, anche se già palesemente realizzato di certe monodie del tardo Euripide, qui sembra divenuto una norma stilistica perfettamente codificata. Un esempio significativo di questo nuovo stile tardo-euripideo modellato sul ditirambo neoattico è offerto dal cosiddetto “canto della fanciulla” nel prologo a carattere “misto” delle Fenicie euripidee, in cui, dopo i trimetri giambici di

48

Sull’evoluzione del ditirambo nella letteratura greca cfr. Privitera, A. , Il ditirambo da canto cultuale a spettacolo musicale, “Cultura e scuola” 43, pp.55-66, 1972 e Calame, C. , Rito e poesia corale in Grecia, pp.27-37, Roma-Bari, 1977.

49

Strom. I, 16, p.51 St.

50

Shönewolf, H. , Der jungattische Dithyrambos, pp.20 sgg. , Giessen, 1938

51

Aristotele, Dell’arte poetica, a cura di Gallavotti, C., Op.cit. , 26,I,5: po/teron de\ belti/wn mi/mhsij h2 h9 tragikh/, diaporh/sein a1n tij. Ei0 ga/r h9 h9=tton fortikh/, dhlono/ti h9 a3panta mimoume/nh ortikh/, w9j ga\r ou0k ai0sqanome/nwn, a2n mh\ au0to\j prosqh?= pollh\n ki/nhsin kinou=nta: oi9=on oi9 fau=loi au0lhtai/, kulio/menoi a2n di/skon de/h? mimei=sqai, kai\ e3lkontej to\n korufai=on a2n Sku/llan au0lw=sin. («Ora ci resta da dibattere una questione: se è migliore un’opera di mimesi epica oppure tragica. E senza dubbio una mimesi è migliore, se è la meno volgare: così per un pubblico scelto. Ma volgare anche troppo è certamente quella mimesi che riproduce tuto, quasi che il pubblico non possa in realtà comprendere nulla se non ci si mette la persona stessa a gesticolare con molti gesti; come fanno i cattivi suonatori, che per raffigurare un disco si raggomitolano, e quando intonano la Scilla trascinano il corifeo.»)

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207

Giocasta (vv. 1-87) segue una scena commatica tra Antigone che canta e danza in metri lirici ed il Pedagogo che invece non canta, ma parla ritmicamente.52

In tutto questo discorso di innovazioni rientra certamente l’Euripide degli ultimi anni della guerra del Peloponneso e, se delle innovazioni musicali non possiamo costruirci un’idea esauriente (pur possedendo un preziosissimo e raro documento di musica greca, il papiro Rainer della Biblioteca Statale di Vienna con i vv.339-44 del I stasimo dell’Oreste euripideo e la relativa musica, il valore delle cui note sfugge tuttora agli studiosi)53, un’immagine più significativa può essere fornita in proposito dalle innovazioni metriche.54

Esse da un lato tendono ad un recupero di elementi originari della tragedia arcaica, come ad esempio il tentativo di ripristino, sia pure in sezioni di breve estensione, del tetrametro trocaico catalettico55, oppure si volgono all’imitazione di metri già cari ad Eschilo, quali ionici, cretici, e docmi, poco amati da Sofocle, tutto proteso verso la metrica eolo-coriambica dei poeti di Lesbo.

Tuttavia, allorché Aristofane nell’agone drammatico scoppiato nell’Ade fra Eschilo ed Euripide per il primato nell’arte tragica, elenca fra i difetti di quest’ultimo l’ostentazione di una metrica complicata, allude a sistemi metrici

52

In proposito si veda Musso, O. , (a cura di), Euripide, Fenicie, Op.cit. , , p.311, n.18: «Qui inizia il canto della fanciulla (canto “dalla scena”, come lo definisce Aristotele, Poetica, 1452 b 18), che dura, tranne che nei vv.123-124, 141,145-148,168, sino alla fine della scena.»

53

Longman, A. , The musical papyrus. Euripides, Orestes, 332-340, “CQ” XII, pp.61-66, 1962

54

In proposito si veda anche il Papiro di Leida 510, datato alla metà del III sec. a.C. : cfr. M.me Jourdan-Hemmerdinger, Un nouveau papyrus musical d’Euripide, in Comptes rendus de l’Acad. Des Inscript. Et Belles Lettres, pp.292-302, Paris, 1973: antologia di canti lirici dell’Ifigenia in Aulide di Euripide con note musicali. Secondo Gentili (cfr. Gentili, B. , Contaminazione e canto a solo, in Lo spettacolo nel mondo antico, p.10, Roma-Bari, 1977) il papiro consiste in una selezione della tragedia euripidea destinata alla performance di un tragw?do/j accompagnato da coro.

55

Kanz, J. , De tetrametro trochaico, Giessen, 1913, ma notizie significative anche in Gentili, B. , La metrica dei Greci, Messina-Firenze, 1973; più recentemente studi in proposito sono stati effettuati da Martinelli, M.C. ne Gli strumenti del poeta, Elementi di metrica greca, Bologna, 1995, e nello specifico nel capitolo “Il tetrametro trocaico catalettico della tragedia”, pp.119-126, dove, a proposito dei tetrametri trocaici presenti nelle Fenicie (vv.588-637), si cita in particolare il verso 609 a0no/sioj pe/fukaj a0ll’ou0 patri/doj, w9j su/, pole/mioj , a proposito del quale così scrive l’autore: «E’ eccezionalmente ammessa, in coincidenza con nomi propri la realizzazione con due brevi in un elemento libero o di un elemento breve: il cosiddetto dattilo…il citato verso di Euripide presenta ben tre soluzioni, tra cui il fenomeno del “tribraco” in settima sede.»

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ben più complessi in cui l’antica e severa struttura metrica, funzionalizzata a scelte di ordine etico e a criteri stilistici, viene completamente messa in crisi e si assiste spesso ad una varia e duttile polimetria anch’essa succube del nuovo lirismo e subordinata alla musicalità delle parti.56

Un esempio significativo è offerto in proposito dalla presenza nell’ultimo Euripide di numerosi metri bacchiaci, fenomeno per cui appare significativo il IV stasimo delle Fenicie, dove ai vv.1284-95, la pietà del coro delle donne tocca il suo culmine nella trepida invocazione espressa con un dimetro bacchiaco, preceduto e seguito da versi docmiaci.57

A proposito dell’uso dei versi bacchiaci, Aristofane, per una sorta di insanabile paradosso, si presenta, come spesso accade nelle sue commedie, molto vicino al principale bersaglio della sua musa critica e satirica, ossia Euripide. Non a caso il principale rivale delle sue commedie, Cratino,58 aveva già coniato il famoso neologismo eu0ripidaristofani/zein, cioè, parlare alla maniera di Euripide ed Aristofane, proprio nell’associare non solo espressioni linguistiche, ma anche tendenze metriche spesso fortemente parallele fra Euripide ed Aristofane stesso.59 Sempre in quest’ ottica di forte rinnovamento metrico, all’interno delle Fenicie, Euripide sperimenta nuove direttive metriche anche per i versi kata\ da/ktulon, spezzandone l’andamento lento, solenne, austero, tipico del verso epico abbondante di dattili, con l’inserimento di reiziano e reiziano docmiaco, come avviene nella dolorosa monodia di Antigone del commo 1485-1580. La prima parte di questo commo lirico presenta infatti una perfetta rispondenza tra metro e poesia. Il kata\ da/ktulon perde non a caso qui il suo movimento largo e

56

Sulla lirica di Euripide, in particolar modo per l’ultimo periodo, resta fondamentale Breitenbach, W. , Untersuchungen zur Sprache der Euripideischen Lyrik, Stuttgart, 1934.

57

Il dimetro bacchiaco è presente nel v.1290 i0w\ Zeu=, i0w= ga= («ah, Zeus! ah, Terra!» trad. di Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, Op.cit.). Il traduttore stesso nella nota 214 p.258 così si esprime in proposito: «Nei vv.1288-92 Euripide spinge al limite le possibilità della lingua, costruendo una frase ricca di effetti fonici che mescola piani diversi e risulta di conseguenza molto difficile rendere in traduzione.»

58

Fr. 307, Kock

59

Sulle principali direttive estetiche di Aristofane mutiate in particolare dall’ultimo Euripide cfr. Dover, K.J. , Lo stile di Aristofane, “Quad. Urb.” 9, pp.7-23, 1970.

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solenne, tipico dell’epica, per assumere un tono più mosso, più rotto, e adeguarsi così, con le pause simmetricamente introdotte dagli adoni e dai reiziani, al sommesso pianto di Antigone. Le frequenti dieresi, dunque, in seno agli alcmani e fra gli alcmani e l’adonio e il reiziano, hanno una loro ragione poetica: il ritmo si frange e si tronca bruscamente così come brusco e repentino è il mutamento di tono del commo di Antigone. In tutto ciò si ritrovano agevolmente, a giudizio di Gentili, la struttura e lo stile dell’ultimo Euripide, in cui la poesia è funzionalizzata alla musica, che ne diventa l’intrinseco contenuto.60

I sintomi endemici del rivoluzionario sperimentalismo dell’ultimo Euripide sono ravvisabili in varie forme della sua arte nelle ultime tragedie: ad esempio nel già citato “svilimento” di forme liriche all’interno del trimetro giambico recitato la cui percentuale aumenta sensibilmente nelle opere finali, ma ancor più in un altro fenomeno, più circoscritto ma non meno significativo: la tendenza verso la “poesia bella” che caratterizza tutta l’ultima fase della sua produzione lirico-corale.61

Uno degli elementi caratteristici di questo nuovo stile si inquadra, per l’appunto, nella ricerca dell’immagine bella, in quanto elemento decorativo che tende ad isolarsi dal contesto storico-mitico-culturale: da questo punto di vista, lo stacco della lirica euripidea più tarda ( a partire dalle Troiane del 415) rispetto alla sua precedente produzione tragica, appare molto sensibile. Nella sostanza, il carattere di evasione della nuova lirica euripidea, che abbraccia quasi in toto anche il coro delle Fenicie, è confermato da una serie di pezzi lirici dove la ricerca di immagini belle e luminose si accompagna al desiderio che porta verso terre lontane, in modo che la fuga dalla realtà presente si esprime anche in una dimensione spaziale. In proposito alcuni stasimi dell’Elena, dell’Oreste, dell’Ifigenia in Aulide, ma ancor più il “coro straniero” delle Fenicie, si collocano come flashbacks retrospettivi protesi alla rievocazione nostalgica di

60

Gentili, B. , La metrica dei Greci, Op.cit. , p.115 sgg.

61

Questo discorso tiene conto soprattutto di un fondamentale capitolo di Di Benedetto., V. , L’evasione verso la poesia bella, in Euripide: teatro e società, Op.cit. , che, a sua volta, deve molto al contributo di Kranz, W. , Stasimon, Op.cit. , pp. 228-66.

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storie mitiche lontane nel tempo,62 posti sulla stessa linea del vagheggiamento estatico di terre lontane: alla base di ambedue questi fenomeni c’è sempre un atteggiamento di fuga dalla realtà presente. In altri termini, l’evasione verso il passato, associato con il canto e la musica e realizzato attraverso belle immagini, scaturiva dallo stesso atteggiamento che portava Euripide a rifiutare la realtà presente, nel contesto di un confronto con un diverso ideale di vita, solitario ed appartato che egli andava sviluppando e precisando negli ultimi anni della sua esistenza.63

E’ frequente in questi pezzi lirici dell’ultimo Euripide l’utilizzo, portato alle estreme conseguenze tecniche, di alcuni artifici grammaticali e sintattici, come ad esempio in Iph.A. , vv.751 sgg. , e lo stilizzatissimo uso del futuro che, del resto appare singolarmente intonato con l’aspirazione vagheggiata di una realtà percepita come lontana sia nella dimensione spaziale che in quella temporale. Le stesse figure del mito non sono più portatrici di affetti e di passione, ma tendono a diventare elementi compositivi di una rappresentazione esclusivamente decorativa,64 e su esse si può discutere a freddo in modo che il razionalismo viene strumentalizzato in funzione della poetica dell’evasione verso l’immagine preziosa65. Proprio il vagheggiamento di una realtà lontana da quella attuale presente in molti passi lirici dell’ultimo Euripide, incluse le monodie delle Fenicie, può spiegare il fenomeno per cui il discorso tende ad articolarsi in una serie di proposizoni secondarie in una successione di quadri che si avvicendano l’uno dopo l’altro senza soluzioni di continuità: alla base di queste innovative scelte stilistiche si colloca il desiderio di protrarre il più possibile un sogno fortemente vagheggiato.

62

Kranz, W. , Stasimon, Op.cit. , pp.252 sgg.

63

Non a caso Euripide trascorre l’ultimo periodo della sua vita presso la corte del re Archelao a Pella in Macedonia, perché deluso dalla politica ateniese contemporanea, ma già da critici antichi si sa che trascorse da isolato parte della sua esistenza come ci attesta Avezzù nel capitolo “Nella grotta di Salamina”, Op.cit. , pp.264-65

64

Cfr. l’epodo del I stasimo di IA, vv 573 sgg. relativo al mito di Paride, in Euripide, Ifigenia in Tauride-Ifigenia in Aulide, a cura di Ferrari, F. , Milano, 1995, pp.242-3.

65

Notizie significative sull’estetica euripidea si trovano in Snell, B. , Aristofane e l’estetica, pp. 166-89, in La cultura greca e le origine del pensiero europeo, Torino, 1963, in cui Euripide viene visto come l’anticipatore dell’estetica callimachea e della lepto/thj.

(24)

211

In questa ottica di immagine bella, preziosa e ricercata si inquadra anche l’antistrofe del II stasimo delle Fenicie in cui il Coro invoca con epiteti sontuosi al limite di veri e propri a3pac lego/mena la valle “dai petali divini, ricca di fiere” (W zaqe/wn peta/lwn poluqhro/ta-/ton na/poj) del “Citerone nevoso, pupilla di Artemide”(A0rte/midoj xionotro/fon o1mma Kiqairw/n) e dove, con un richiamo lessicale e sintattico all’incipit della Medea66 composta oltre vent’anni

prima, Euripide commisera il Citerone stesso che “mai avrebbe dovuto allevare / l’esposto alla morte, figlio di Giocasta / Edipo, il bimbo rifiutato dalla casa, famoso per le fibule d’oro” (w1felej Oi0dipo/dan qre/yai, bre/foj e1kbolon oi1kwn, / xrusode/toij pero/naij e0pi/samon).

A proposito di questo linguaggio fortemente elevato e calligrafico che si ricollega al succitato discorso relativo alla “poesia bella”, è significativa una nota di Medda: « L’epiteto “auree” è adatto allo stile elevato di questo canto lirico, mentre al v.26 Giocasta con “ferree” poneva l’accento sulla violenza commessa ai danni del proprio figlio.»67

A questo spiccato gusto per la bellezza in quanto tale si accompagna, nell’ultima lirica euripidea, un senso coloristico esasperato per cui i colori diventano parte essenziale dell’immagine bella: l’oro, il rosso e anche il verde sono tra le componenti più importanti della tavolozza, ma anche il bianco colpiva in modo particolare l’immaginazione di Euripide. Quest’ultima si traduceva per l’appunto nell’immagine bella e luminosa e nel desiderio di superare una realtà che il poeta sentiva come costrittiva e ostile.

66

A proposito dell’incipit della Medea euripidea, è evidente la corrispondenza lessicale di alcuni termini tra cui il verbo w1fel’ della Medea e w1felej delle Fenicie, in entrambi i casi con evidente valore a ottativo-augurativo in associazione all’infinito aoristo seguente; così anche per il sostantivo na/paisi della Medea che equivale, in diversa funzione sintattica al na/poj delle Fenicie, nel primo caso in riferimento al monte Pelio, nel secondo al Citerone. Ei1q’w1fel’ 0Argou=j mh\ diapta/sqai ska/foj Ko/lxon e0j ai0=an kuane/aj Sumplhga/daj, mhd’e0n na/paisi Peli/ou pesei=n pote tmhqei=sa peu/kh, mhd’ e0retmw=sai xe/raj a0ndrw=n a0ri/stwn, oi4 to\ pa/gxruson de/raj Peli?/a meth=lqon. (“La nave Argo nel suo viaggio in Cochide non avrebbe dovuto volare attraverso le turchine Simplegadi; mai i pini delle gole del Pelio avrebbero dovuto cadere sotto la scure e fornire di remi le braccia di uomini valorosi, che andarono a prendere il vello d’oro per Pelia” Med. vv. 1-6).

67

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212

Particolarmente significativi in proposito risultano alcuni versi delle Fenicie, in particolare nel commo lirico tra Antigono e l’anziano Pedagogo (vv.168-9): o3ploisi xruse/oisin e0kpreph/j ge/ron,

e9w?/oij o3moia flege/qwn bolai=j a0eli/ou. «Ah, vecchio, come spicca nelle sue armi d’oro splendente come i raggi mattutini del sole.»

A proposito di questi versi, di fondamentale importanza risulta il commento in nota di Medda, che si colloca perfettamente nell’ottica della “poesia bella” di Di Benedetto e nella sfera “neoditirambica” postulata da Kranz: «L’acuta nostalgia di Antigone per il fratello si esprime nel desiderio di essere una nuvola e di poter volare nel cielo sino a raggiungerlo. L’immagine del volo, come è stato messo in evidenza da Di Benedetto 1971, 263 sgg. , trova ampio sviluppo nella lirica delle tragedie euripidee più recenti (cfr. Supp. 618 sgg. , Iph.T. 1089 sgg. , Hel. 1478 sgg. , Or. 882 sgg. ) in connessione con l’espressione del rimpianto per un bene perduto e con il vagheggiamento nostalgico di luoghi lontani e sereni. Essa trae probabilmente ispirazione dalla sfera della poesia ditirambica, un genere che aveva apportato grandi novità in campo musicale negli ultimi decenni del V secolo a.C. e che fornì numerosi spunti per innovazioni formali dell’Euripide degli ultimi anni (cfr. in proposito Kranz 1933, 236 sgg. e Di Benedetto, loc. cit.).»68

Legata a questa immagine del volo e dell’evasione esotica verso terre lontane, si spiega come negli stasimi e nelle monodie dell’ultimo Euripide la danza e il canto abbiano spesso una posizione di grande rilievo,69 ed alla musica venga attribuita una funzione rasserenante (cfr. Hel. v.1346 sgg.) che trasferisce il lamento in una dimensione melodrammatica e operistica, che a sua volta sublima il pa/qoj e svuota il contenuto euristico-semantico attraverso il preziosismo dell’espressione. Qualcosa di analogo è riscontrabile nel IV stasimo delle Fenicie

68

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Le Fenicie, Op.cit. , p.136, n.42.

69

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213

nella reazione di paura e compassione che le donne manifestano di fronte alla sciagura che colpisce Giocasta (tromera\n fri/ka? tromera/n fre/n’e1xw: dia\ sa/rka d’e0ma\n e1leoj e1leoj mate/roj deilai/aj, «ah! ah!, tremante di terrore, tremante ho l’animo: pietà mi trapassa le carni, pietà per la povera madre» vv.1284-86), così singolarmente vicina alle celebri formulazioni di Gorgia e Aristotele sugli effetti della poesia e della rappresentazione tragica.70

4.3 Principali nuclei concettuali delle Fenicie

A questo punto del presente lavoro si ritiene opportuno effettuare un’analisi di tipo semantico-concettuale dell’opera, attraverso la focalizzazione delle tematiche relative alle questioni rilevanti del pensiero euripideo e, più specificamente, delle peculiarità esclusive della tragedia in questione.

Dramma di straordinaria efficacia teatrale e tra le poche che riscossero un immediato successo, le Fenicie è una delle ultime e più amare opere di Euripide. Eteocle e Polinice, figli di Edipo e suoi eredi, decidono di spartirsi il poter su Tebe e di regnare un anno a testa. Terminato il proprio anno, Eteocle rifiuta però di consegnare il trono al fratello che, forte dell’appoggio del suocero Adrasto, re di Argo, pone l’assedio alla città. Affinché Tebe sia salva, occorre però che sia realizzato l’oracolo secondo cui è necessario il sacrificio del figlio di Creonte, Meneceo; al rifiuto del padre, il giovane decide di immolarsi spontaneamente all’insaputa di tutti con un gesto eroico. In questo modo Tebe ottiene la salvezza, ma esito ineluttabile dell’odio tra Eteocle e Polinice sarà il fratricidio, che segna l’ingloriosa fine della dinastia maledetta dei Labdacidi, mentre Edipo, vecchio e cieco, andrà in esilio accompagnato dalla figlia Antigone.

70

Significativa è la nota 36 di Medda E. in “Il coro straniero” in Euripide, Fenicie, Op. cit. , p.27: « Si confrontino i versi citati con Gorg. Hel. 9: th\n poi/hsin a3pasan kai\ nomi/zw kai\ o0noma/zw lo/gon e1xonta me/tron:h9=j tou\j a0kou/ontaj ei0sh=lqe kai\ fri/kh peri/foboj kai\ e1leoj polu/dakruj (“ io giudico e definisco la poesia nel suo insieme un discorso in versi, negli ascoltatori del quale si insinua un brivido di paura e una compassione che suscita pianto abbondante”) e con la celebre teorizzazione di Aristotele, Poet. 1453b.»

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