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Playing is not a game: videogames, passatempo o potenziale pericolo?

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© Copyright 2013 Anno 4, N. 2, giugno 2013, @buse

“PLAYING IS NOT A GAME:

VIDEOGAMES, PASSATEMPO O POTENZIALE PERICOLO?”

di

Antonella Pomilla e Claudio Scolastici

La letteratura inerente la tematica delle forme ludiche di intrattenimento elettronico ed interattivo da diversi decenni propone i risultati inerenti la diffusione dei videogames, così come i vantaggi, gli ambiti applicativi terapeutici ed i pericoli che essi possono rappresentare.

In merito alla diffusione dell’intrattenimento ludico elettronico fra i giovani, ad esempio, secondo l’indagine dell’ISTAT “Bambini e new media: personal computer, internet e videogiochi” riferita al quinquennio 1995-2000, «(nel 2000), la percentuale di giovani fra 6-14 anni che usano i videogiochi è aumentata di 16 punti percentuali rispetto al

1995, passando dal 53,1% al 69,1% (con un incremento del 30%)». Nello specifico, l’incremento all’uso dei

videogiochi si registra tanto nella popolazione maschile quanto in quella femminile: dall’inizio della rilevazione nel 1995 al 2000, i maschi passano dal 65.2% al 79.5%, e le femmine dal 40.3% al 57.8%.

Considerando il criterio geografico, ad inizio e termine del quinquennio «la quota più elevata di ragazzi che utilizzano i

videogiochi continua a registrarsi nelle regioni settentrionali (il 61% nel 1995 ed il 71% nel 2000), ma la crescita più significativa si riscontra al Sud (il 46.5% nel 1995 ed il 67.8% nel 2000) e nelle Isole (il 39.7% ed il 65.0%)».

Comparando l’uso del pc e dei videogiochi, «l’uso esclusivo dei videogiochi è il comportamento più frequente sia per i

bambini di 3-5 anni (19.7%), sia per quelli di 6-10 anni (36.1%)». I ragazzi di 11-14 anni, invece, utilizzano in modo

frequente tanto il computer che i videogiochi, «anche se in questa classe di età il 26.5% dei ragazzi usa esclusivamente

i videogiochi» (ISTAT, 2001).

Tuttavia, in una successiva indagine sempre l’ISTAT mette in discussione la diffusione dei videogiochi tra i giovani fornendo dati contrastanti al precedente studio in riferimento al confronto tra intrattenimento elettronico e giochi tradizionali: l’indagine “La vita quotidiana di bambini e ragazzi”, pubblicata nel novembre 2008, evidenzia come i giovani prediligano attività ludiche tradizionali (bambole, trenini, automobiline), piuttosto che l’intrattenimento elettronico.

Secondo questa indagine infatti, in testa alla graduatoria dei giochi preferiti da bambini tra i 3 ed i 5 anni si trovano le bambole per le femmine (85,6%) e le automobiline, i trenini ed altri similari giochi per i maschi (76,1%). Tra tutte le preferenze considerate nello studio, i videogiochi vengono citati solo al 15/mo posto per le bambine ed al 10/mo posto per i bambini.

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Al di là della possibilità di quantificare l’uso di videogames, con sempre minor frequenza essi appaiono un elemento di poco conto o un divertimento spicciolo praticato da pochi appassionati solitari: basti pensare che ogni anno si svolge nel nostro paese una kermesse itinerante che raccoglie migliaia di persone da ogni dove e nella quale, in sfide e tornei a colpi di console, si può dimostrare la propria bravura1. La manifestazione, oltre ad offrire la possibilità di giocare e sfidarsi in postazioni allestite gratuitamente, nonché presentare in anteprima tutte le novità videoludiche di imminente immissione nel mercato, viene peraltro animata da speciali contest tra cui figura la sfilata dei cosiddetti Cosplayer, persone con l’abitudine di travestirsi con un costume raffigurante un personaggio ben specifico dei fumetti (manga), dei cartoni o dei videogiochi giapponesi, interpretandone il modo di agire e/o gli atteggiamenti. Il termine “cosplay”, contrazione delle parole inglesi costume (“costume”) e play (“interpretare/recitare”), è infatti ben più che un mascheramento carnevalesco da sfoggiare in alcune manifestazioni pubbliche: rappresenta un abituale stile di vita, caro a molti giovani giapponesi, che da più di un decennio ha conquistato anche il nostro paese2.

Stante quanto sopra, vista la forza commerciale rappresentata dall’industria dell’intrattenimento elettronico, si può dunque ritenere lecito il “sospetto” nutrito da chi – genitori, insegnanti, Istituzioni per l’educazione, il sostegno e la difesa dei giovani – ha compito di osservare, controllare ed intervenire sulle nuove dinamiche sociali, al fine di prevedere strategie di prevenzione e contrasto laddove esse divengano dannose o lesive, anche sotto una prospettiva criminologica.

Va da sé che, a margine della questione inerente la loro diffusione, vi è un dibattito che da sempre anima la comunità scientifica e l’opinione pubblica: i videogiochi sono un semplice passatempo, o possono avere un’influenza più profonda su chi ne fa uso? E quest’influenza è positiva o negativa?

La controversia nasce dai riscontri contrastanti che derivano dagli studi: in molti di essi, i videogiochi vengono considerati un mezzo innovativo per lo sviluppo e la condivisione delle abilità prosociali; una nuova forma terapeutica nel sostegno e/o nella cura di alcune disabilità; un’ulteriore spinta allo sviluppo di alcune capacità cognitive. Di contro in altri, i videogiochi o nello specifico alcune categorie, ricevono l’accusa di favorire l’instaurarsi di alcune disabilità o pericoli attinenti ad un incremento dell’aggressività, all’impoverimento cognitivo, alla diminuzione delle capacità comunicative ed interpersonali.

Adottando un atteggiamento privo di pregiudizi nel desiderio di segnalare lo stato dell’arte inerente tale tematica, quanto segue è una sistematica review della letteratura condotta allo scopo di distinguere in: “studi pro videogames”, che sostengono l’attività videoludica nella riscontrata utilità a livello di sviluppo cognitivo, motorio e sociale; e “studi contro i videogames”, che sottolineano invece la pericolosità derivante da un uso eccessivo, continuativo e non controllato dei videogames e/o di alcuni in particolare.

1 La manifestazione prende il nome di Videogames Party e giunge ora alla sua sesta edizione. La tappa più recente si è svolta a Bologna nel fine mese di gennaio 2013.

2 Gli eventi, i contest, i suggerimenti per le tecniche di preparazione di un buon costume, si tramandano tra i cosplayer attraverso le attività, i forum e gli incontri organizzati dalla A.Na.Co, Associazione Nazionale Cosplay, prima nel suo genere, fondata in Italia nel 2003.

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La ricerca è stata effettuata consultando le pubblicazioni scientifiche presenti nella banca dati “PsycInfo” attraverso la selezione delle seguenti parole-chiave: “videogames”, “prosocial behavior”, “aggressive behavior”, “physiological

arousal”, “cognition” e “perception”, digitate singolarmente ed in alcuni casi combinate tra loro (ad esempio:

“videogames AND prosocial behavior”, “videogames AND aggressive behavior”, etc.).

Costituiscono il gruppo degli studi “pro videogames” i riscontri che hanno evidenziato la presenza di:

 migliori prestazioni in capacità di discriminazione e riconoscimento visivo, attentivo e cognitivo da parte di

giocatori abituali di videogiochi d’azione (Green C.S. & Bavelier D, 2003; Green C.S., Li R., & Bavelier D., 2010; Wu S. & Spence I., 2013);

 migliori prestazioni in competenze cognitive quali attenzione, memoria e controllo esecutivo, in videogamers esperti

rispetto a videogamers non abituali (Boot W.R, Kramer A.F., et al., 2008);

 miglioramenti nelle capacità di lettura da parte di bambini dislessici (Franceschini S., Gori S., et al., 2013;

Bavelier D., Green C.S. & Seidenberg M.S., 2013)

 miglioramenti nella plasticità cerebrale e nelle capacità di processamento ed elaborazione delle informazioni,

grazie all’uso di videogiochi d’azione (Achtman R.L., Green C.S. & Bavelier D., 2008; Colzato L.S., van Leeuwen P.J.A, et al., 2010; Anderson A.F. & Bavelier D., 2011; Bavelier D., Green C., Pouget A. & Schrater P., 2012);

 miglioramenti nelle capacità di esecuzione contemporanea e differenziata di compiti (multi-tasking) in giocatori

non abituali (Green C., Sugarman M.A. et al., 2012; Chiappe D., Conger M, et al., 2013), e miglioramenti nelle capacità di esecuzione senza penalizzazione delle capacità di precisione esecutiva (Dye M.G., Green C. & Bavelier D., 2009a; Dye M.G., Green C. & Bavelier D., 2009b; Colzato L, van den Wildenberg W, et al., 2012).

Da un punto di vista metodologico, gli esperimenti condotti nel campo della ricerca si sono basati sul confronto tra giocatori abituali e giocatori non abituali, o sul confronto con un gruppo di controllo in cui venivano variate condizioni o durata delle sessioni di gioco, ed hanno per la maggior parte utilizzato videogiochi afferenti alle categorie dei giochi d’azione, di ruolo e di strategia, ma anche rompicapo e giochi verbali.

I risultati sopra esposti, pur nell’evidenziare la necessità di adottare strategie metodologiche più adeguate quali ad esempio gli studi longitudinali al fine di ridurre l’effetto di casualità dei risultati ottenuti (Kristjànsson À., 2013), confortano i ricercatori poiché evidenziano le potenzialità positive nell’uso dei videogiochi, anche a fini terapeutici e riabilitativi per pazienti con deficit attentivi, di memoria, del linguaggio, di discriminazione visiva ed esecutivi. Infatti, evidenziando gli effetti benefici riscontrati nello sviluppo di capacità cognitive di logica, attenzione, elaborazione e memoria visuo-spaziale, reazione e coordinazione motoria, i ricercatori sottolineano come i videogiochi possano essere utilizzati come strumenti terapeutici e riabilitativi per alcuni disturbi quali malattie cardiovascolari, disturbi psichiatrici (depressione o altri disturbi dell’umore), deficit ortopedici, deficit neurologici (ictus, traumi cerebrali) (Saposnik G. & Levin M., 2011). Nelle sperimentazioni si riscontra infatti: una diminuzione della tensione psicologica, della collera, dell’affaticamento e della confusione, ed all’opposto un aumento dell’energia e del vigore psicofisico.

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Viepiù, alcuni ricercatori hanno ritenuto i videogiochi un prezioso strumento didattico (Pelletier C. & Oliver M., 2006; Pelletier C., 2009): da tempo, un gruppo di lavoro del Centro Studi sull’Infanzia, la Gioventù e i Media della London University rassicura genitori ed insegnanti sul poter considerare i giochi elettronici come «una legittima forma di

cultura» cui i programmi scolastici dovrebbero dedicare spazio, in quanto fautori nell’apprendimento «della struttura delle storie, lo sviluppo dei personaggi e persino nozioni grammaticali». Stesso riscontro proviene da un gruppo di

ricerca italiano, secondo il quale, nel paragone con strumenti tradizionali usati nelle scuole quali la scrittura ed il disegno, la creazione di un videogioco «è un forte momento di espressione di se stessi e di rappresentazione della

realtà», e dunque un importante ausilio didattico (Centro Studi Minori e Media, 2007).

Anche i ricercatori del Laboratorio di Ricerca Multimediale della Pennsylvania State University hanno concordato con i colleghi d’oltremanica: i risultati della loro attività di ricerca, presentati alla 58/ima conferenza annuale dell’International Communication Association di Montreal, attestano come i videogiochi stimolino la creatività e la capacità di risolvere quesiti e problemi, favorendo dunque lo sviluppo di quelle strategie logiche di problem-solving tanto importanti durante l’attività scolastica (Hutton E. & Sundar S., 2008).

Ancora, ed in riferimento al panorama di ricerca nazionale, dallo studio “Cultura del Videogioco: mondo giovanile e mondo adulto a confronto” realizzato in collaborazione tra AESVI ed Istituto IARD3

, si evince come il videogioco sia per le nuove generazioni una “palestra” che introduce all’uso di nuove tecnologie attraverso una pratica sostanzialmente divertente, e come esso crei socialità, divenendo argomento di conversazione e di scambio tra pari. Tutt’altro, dunque, che pratica alienante e solitaria come spesso viene veicolato, bensì mezzo e strumento per “stare insieme” e condividere, fisicamente e virtualmente, le acquisizioni ottenute (anche, in maniera più estesa, attraverso l’uso di blog e forum) (AESVI-IARD, 2006).

Infine i videogiochi, lungi dall’apportare benefici solo alla popolazione giovanile, sono strumento per monitorare, in popolazioni anziane, quelle capacità psicofisiche che subiscono un fisiologico decadimento a causa dell’invecchiamento.

Un gruppo di ricerca dell’Università dell’Illinois, ad esempio, ha preso in considerazione un campione di anziani cui è stato chiesto di giocare per un periodo di 24 ore complessive nell’arco di 8 settimane al videogioco “Rise of Nations”, noto e diffuso gioco di strategia in tempo reale «che richiede al giocatore di memorizzare molte informazioni via via

che procede nel gioco e passare da un elemento strategico ad un altro. Ipotesi dei ricercatori era che il training sul gioco migliorasse le cosiddette “funzioni gestionali”, ovvero la capacità di allocare efficacemente le risorse cognitive tra molteplici compiti ed obiettivi» (Chabris C.F. & Simons D. J., 2010, pag. 298). Lo studio è stato condotto valutando

prima, durante e dopo il training di gioco una batteria di compiti cognitivi che includeva le attività di controllo esecutivo e le abilità visuo-spaziali. Il follow-up ha rilevato nel gruppo dei giocatori, rispetto al gruppo di anziani non giocatori, un significativo miglioramento nelle performance relative alle abilità di controllo esecutivo: capacità di

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pianificazione, programmazione, multitasking e task switching, nonché miglioramenti nelle funzioni di memoria a breve termine, memoria di lavoro e ragionamento. Tutte queste funzioni, che generalmente subiscono un declino con l’avanzare dell’età, sortivano invece un miglioramento come effetto diretto nel training di gioco (Basak C., Boot W.R., Voss M.W. & Krame A.F., 20084).

Analoghi risultati provengono dai ricercatori del Gains Through Gaming Lab del Dipartimento di Psicologia della North Carolina State University: in questo caso è stato coinvolto un campione di 39 soggetti di età compresa tra 60 e 77 anni, cui è stato chiesto di giocare a “World of Warcraft” per circa 2 ore al giorno per un periodo di due settimane. A tale gruppo sperimentale è stato affidato il compito di svolgere un test cognitivo prima dell’inizio della sperimentazione, e nuovamente al termine della stessa. Vi era poi un gruppo di controllo, sempre costituito da soggetti della stessa fascia di età, non impegnati nel videogioco. Confrontando i punteggi dei test cognitivi pre e post sperimentazione ottenuti dai partecipanti dei due gruppi sperimentali e di controllo, i ricercatori hanno riscontrato un generale incremento delle funzioni cognitive nei soggetti del gruppo sperimentale, seppur con punteggi individuali variabili per ogni partecipante. In particolare, il gruppo sperimentale ha ottenuto miglioramenti nelle prestazioni di attenzione ed orientamento spaziale (Whitlock L.A., McLaughlin A.C. & Allaire J.C., 2012).

Infine, in un’altra sperimentazione realizzata in un centro per anziani di Pensacola (Florida), è stato riscontrato un miglioramento del 40% nella frequenza cardiaca degli ospiti impegnati a giocare ad una sorta di bowling virtuale. Per il campione coinvolto miglioravano inoltre: le capacità di attenzione (poiché impegnati a comprendere in un breve lasso di tempo quanto accadeva sul campo di gioco virtuale, era necessario reagire prontamente agli accadimenti); di creatività (come stimolo per il cervello in condizioni di lavoro nuove e sconosciute); e di interazione sociale (che trovava sviluppo nella necessità di gestire alleanze e collaborazioni con i personaggi virtuali che animavano il gioco sullo schermo). Tuttavia, come riferito in precedenza, nonostante l’ampia varietà di risultati positivi in molti altri studi l’attività videoludica viene guardata con sospetto o palese disapprovazione. Vero è che a motivo delle critiche vi sono spesso luoghi comuni e false credenze del tutto o in parte lontane dagli accertamenti scientifici, ma è pur vero che quest’ultimi sono altrettanto importanti ed ecco che qui di seguito verranno esposti.

In primo luogo, per ciò che concerne l’ambito dei danni fisici, la letteratura ha riscontrato che fratture, problemi articolari di varia natura e tendiniti sono le più dirette forme patologiche derivanti da sessioni di gioco intense e di lunga durata, o di incidenti durante l’uso dei dispositivi di gioco: già da tempo gli esperti informano la comunità scientifica e medica del riscontro di tipiche lesioni o danni fisici riscontrati nei propri pazienti avvezzi all’uso delle moderne console, così frequenti da assumere un nome proprio: “Nintendinitis” o “Wiiitis” (Brasington R., 1990; Bonis J., 2007; Eley K.A., 2010).

4 Secondo alcune critiche mosse alla sperimentazione sopra descritta, poiché la stessa non ha posto confronto con i risultati di un training condotto usando un altro videogame della stessa categoria o di un’altra qualsiasi, i risultati ottenuti devono prendersi con il beneficio del dubbio: è infatti possibile che per il gruppo di anziani coinvolti nel training abbia giocato un maggior peso la motivazione a migliorare le proprie prestazioni, in cui all’inizio erano meno abili, per effetto del fatto di sapere di essere coinvolti nella sperimentazione, più che il training su quel particolare tipo di videogioco (Chabris C.F. & Simons D. J., 2010, pag. 298).

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Ancora, esaminando l’impatto delle diverse forme di media elettronici (televisione, computer, videogiochi, telefono) attraverso gli stati di salute/benessere auto-riferiti dai componenti di un campione di 924 adolescenti di età compresa tra i 14 ed i 18 anni circa, i ricercatori hanno rilevato che in particolare l’uso del computer e dei videogiochi influisce negativamente sul benessere e sulla salute. Rilevato che, in media, il campione trascorre quotidianamente 3 ore e 16 minuti nell’uso di apparecchiature elettroniche (128 minuti/giorno nell’uso della televisione; 35 minuti/giorno nell’uso dei videogiochi; 19 minuti/giorno nell’uso del computer e 13 minuti/giorno nell’uso del telefono), associando le esposizioni specifiche e la loro durata con gli stati di salute riferiti, si è riscontrata un’associazione favorevole tra elevato uso del computer e disagio psicologico, nonché tra elevato uso di videogiochi ed aumento degli stati ansiosi e depressivi. Viceversa, l’elevato uso di televisione e telefono non ha ottenuto alcun risultato significativo (Mathers M., Canterford L. et al., 2009).

Considerando la dimensione psicologica ed emotiva, alcuni ricercatori sostengono che gli appassionati di videogiochi possono instaurare una dipendenza del tutto simile a quella dalle droghe, manifestando una forte irritabilità quando non hanno occasione di prendere in mano un joypad (Brian D. & Wiemer-Hastings P., 2005; Grusser S.M., Thalemann R. & Griffiths M.D., 2007; Peters C.S. & Malesky L.A., 2008; Lemmens J.S., Valkenburg P.M. & Jochen P., 2011; Kuss D.J., Louws J. & Wiers R.W., 2012).

Più precisamente, in un articolo pubblicato sul “Lancashire Evening Post”, viene sostenuto che 2 ore trascorse davanti ai videogiochi equivalgono addirittura alla sniffata di una striscia di cocaina. Un dato decisamente forte ma anche discutibile, verso cui i medici pongono l’allarme, in particolare per i più giovani5.

Ancora, secondo lo studio dei ricercatori Arsenault e Picard del Groupe de Recherche “Homo Ludens” dell’Université du Québec di Montréal, si possono distinguere tre differenti profili caratteriologici dei giocatori in base al grado di “immersione” nel gioco, a sua volta causa di difficoltà nel porre limiti temporali all’attività nonché causa di estraneazione dal mondo circostante6:

1. il grado di “immersione sensoriale”, caratteristico di coloro che prediligono giochi di azione immediata, come ad esempio gli sparatutto;

2. il grado di “immersione funzionale”, caratteristico di coloro che prediligono i giochi in cui si sviluppa un particolare attaccamento al personaggio protagonista, così come avviene nei giochi di avventura, tali da sollecitare un insopprimibile desiderio nel continuare la partita al fine di proseguire nell’avventura personale del personaggio;

3. il grado di “immersione sistemico”, caratteristico invece di chi, dedito ai giochi di ruolo o a quelli di strategia in cui si sollecitano particolari abilità motorie o capacità cognitive, viene affascinato dalla possibilità di impadronirsi di regole o competenze e capacità particolari, da usare in modo efficace.

5 http://www.lep.co.uk/lifestyle/what-women-want/gaming-addiction-grips-youngsters-1-773488. 6 http://www.homoludens.uqam.ca/index.php?option=com_content&task=view&id=55&Itemid=63.

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Tuttavia, uno degli elementi maggiormente dibattuto negli studi sui videogiochi riguarda la possibilità di asserire l’esistenza di un rapporto di causalità tra pratica di gioco ed aumento dell’aggressività (Dominik J.R, 1984; Cooper J. & Mackie D., 1986; Graybill D., Strawniak M., Hunter T., & O'Leary M., 1987; Lin S. & Lepper M.R., 1987; Silvern S.B. & Williamson P.A., 1987; Schutte N.S., Malouff J.M., et al. 1988; Fling S., Smith L. et al., 1992; Irwin A.R. & Gross A.M., 1995). Tale tematica, da sempre oggetto di analisi, si rinnova nell’interesse dei ricercatori all’indomani della strage della Columbine High School in Colorado del 20 Aprile 1999, nella quale i due studenti Eric Harris e Dylan Klebold, appassionati del videogioco Doom, imbracciarono le armi contro i propri compagni ed insegnanti uccidendo 13 persone e ferendone altre 24 prima di uccidere se stessi7.

A seguito del citato eclatante episodio, ad esempio, i ricercatori Anderson e Dill si interrogarono sulla possibilità di stabilire se i videogiochi violenti erano o meno un pericolo per la psiche dei giovani. A tal scopo, gli studiosi condussero due studi coinvolgendo un campione complessivo di circa 440 studenti: il primo studio consentì di evidenziare una particolare vulnerabilità all’esposizione ripetuta a videogiochi violenti da parte di soggetti con tratti caratteriali aggressivi, ovvero che durante le interviste avevano riferito dell’adozione di comportamenti aggressivi/delinquenziali nel proprio recente passato, già abituali giocatori di videogiochi violenti durante il periodo scolastico giovanile (medie e scuole superiori). Il secondo studio, condotto dividendo il campione in due gruppi impegnati rispettivamente a giocare con un videogioco violento (Wolfenstein 3D) ed uno non violento (Myst), rivelò come anche una breve esposizione a videogiochi violenti può aumentare temporaneamente il livello di aggressività reattiva e comportamentale. In sostanza, i riscontri di Anderson e Dill evidenziarono come «i videogiochi violenti

forniscono un forum per l’apprendimento di soluzioni aggressive per la risoluzione di situazioni di conflitto»: a lungo

termine, per effetto di un progressivo “rafforzamento” delle acquisizioni, sempre più frequentemente tali modelli comportamentali diverranno accessibili e dunque adottati in varie occasioni della vita reale. La pericolosità di tali dinamiche, sottolineano i ricercatori, risiede nella “natura attiva” del contesto di apprendimento dei videogiochi, che divengono così potenzialmente più pericolosi rispetto all’esposizione alla violenza televisiva o filmica, anche di durata temporale maggiore (Anderson C.A. & Dill K.E., 2000; Sherry J.L, 2001).

Secondo alcuni ricercatori la reale entità degli effetti negativi dei videogiochi violenti sul comportamento, sulla cognizione e sull’affettività è stata sottostimata da studi metodologicamente deboli, mentre studi correlazionali con migliori prassi metodologiche hanno attestato che l’esposizione a videogiochi violenti è correlata in modo significativo con l’incremento dell’eccitazione cardiovascolare e di pensieri e comportamenti di natura aggressiva (Anderson C.A., 2003).

7 La strage della Columbine High School viene preceduta, a breve distanza l’uno dall’altro, da altri due episodi di “school shootings” in cui gli autori furono descritti come abituali giocatori di videogiochi violenti (Anderson C.A. & Bushman B.J., 2001), ed ovvero: la strage dell’Heath High School di Paducah nel Kentucky del 1 dicembre 1997, in cui lo studente 14enne Michael Carneal apre il fuoco su un gruppo di compagni raccolti in preghiera, uccidendone 3 e ferendone altre 5; la strage della Westside Middle School di Jonesboro in Arkansas del 24 marzo 1998, in cui Andrew Golden (11 anni) e Mitchell Johnson (13 anni), dopo aver fatto scattare l’allarme antincendio ed aver atteso l’uscita in fuga da parte dei compagni, aprono il fuoco uccidendo 3 studenti ed 1 insegnante, e ferendo altre 10 persone.

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Per ciò che concerne la correlazione tra esposizione alla violenza nei videogiochi (così come in televisione o al cinema) ed aumento dell’aggressività e dei comportamenti violenti, si deve tuttavia specificare che i risultati più significativi hanno interessato i bambini più piccoli ed i ragazzi più giovani, mentre vi è incoerenza nei risultati laddove gli studi considerano campioni di adolescenti o ragazzi più grandi. In altre parole: vi sono evidenze scientifiche di effetti negativi a breve termine, mentre a lungo termine, con il progredire dell’età, il rapporto di causalità sembra perdere significatività. Ciò dipende certamente dalla natura multifattoriale dell’aggressività stessa e dalle correlate difficoltà nel misurarla, tuttavia anche labili risultati hanno grande importanza in ottica di tutela della salute pubblica (Browne K.D. & Hamilton-Giachritsis C, 2005). Infine, anche nello specifico campo inerente i riscontri offerti dalla letteratura in merito alla correlazione tra l’esposizione ad immagini violente nei film o nei videogames e la commissione di atti delinquenziali e criminosi non vi è uniformità di risultati.

Effettivamente, la letteratura indica che, tra i vari fattori di rischio correlati alla delinquenza ed al crimine – povertà e status socio-economico di degrado; mancanza fisica o emotiva delle figure genitoriali o di accadimento; inadeguatezza delle cure; abusi fisici e psicologici nell’infanzia – si annovera anche una certa suscettibilità individuale alla visione di immagini violente (Browne K.D. & Pennell A.E, 2000; Donohue T.R., Henke L.L. & Morgan I.A., 1988).

Ad esempio, analizzando 40 adolescenti assassini e 200 giovani aggressori sessuali (young sex offenders), Bailey concluse che la ripetuta visione di video pornografici e violenti era un importante fattore caratterizzante i crimini omicidiari e sessuali poi commessi, anche per il fatto, in alcuni casi, che l’autore aveva cercato di imitare nella realtà quanto visto ed “appreso” sullo schermo (Bailey S.M., 1993).

Secondo altri autori, dai riscontri ottenuti da studi di prevalenza quest’ultimo elemento, relativo all’effetto imitativo nella vita reale delle immagini violente fruite dai media, si riscontra in 1 giovane offender su 4 (Surette R., 2002).

Viceversa, un review nordamericana ha concluso che vi è una debole evidenza empirica del fatto che la violenza nei media sia causa di comportamenti criminosi: più precisamente, dei 12 studi sperimentali e quasi-sperimentali inclusi nella rassegna, solo in uno il comportamento criminale era stata identificato come effetto/conseguenza dell’esposizione visiva alla violenza. Per questo motivo, gli autori conclusero che «è praticamente inesistente l’evidenza dell’effetto (della visione di immagini violente) sul comportamento criminale» (Savage J., 2004).

Infatti, più che sulla singola valutazione dell’effetto dato dalla visione di immagini violente sul comportamento delinquenziale, gli studi si sono rivolti all’esame del contesto familiare in generale, evidenziando come sia proprio il fatto di crescere in ambienti familiari violenti a determinare una maggiore suscettibilità alla visione di immagini violente. In altre parole, l’effetto della visione di immagini violente ha valori più significativi in giovani delinquenti cresciuti in ambienti familiari in cui la violenza è parte del contesto affettivo e relazionale (Browne K.D & Pennell A.E., 1998).

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Sulla base di tali riscontri si è specificato anche l’intervento istituzionale: il Governo inglese, infatti, ha sponsorizzato specifici studi volti ad indagare la correlazione tra violenza nei media e crimine, considerando un campione di 82 giovani offenders e 40 non-offenders (Farrington D.P., 1995; Anderson C.A. & Bushman B.J., 2002; Jolliffe D. & Farrington D.P., 2004). L’indagine ha rivelato che i self-report degli offenders riportavano alcuni elementi distintivi nelle abitudini di vita ed in altre misure psicometriche rispetto al sottogruppo di non-offenders: maggior tempo dedicato alla visione di televisione e film, con maggiore prevalenza nella preferenza di film violenti e nell’identificazione in modelli/ruoli violenti; minore empatia; deficitario sviluppo morale; temperamento più aggressivo e percezioni distorte circa la violenza.

Questo risultato è coerente con i riscontri di un altro studio americano che ha mostrato come gli adolescenti aggressivi selezionano preferenzialmente media in cui vi è violenza (ad esempio: la visione di film d’azione violenti, videogiochi violenti, visita di pagine internet contenenti immagini violente), e che questo elemento ha condizionato fortemente il loro successivo comportamento criminoso violento (Slater M.D., Henry K.L., Swaim R.C. & Anderson L.L., 2003).

Considerando tutto ciò, gli autori hanno proposto uno specifico modello per spiegare lo sviluppo del processo di preferenza di contenuti violenti nei media, schematizzato come segue (Browne K.D. & Hamilton-Giachritsis, 2005):

Figura 1: Browne & Pennel Model for the development of preference for violent films

(Browne & Pennell, 2000). Conclusioni

Come si è visto, la review della letteratura non ha fornito risultati unanimi né nel considerare i videogiochi come strumenti utili piuttosto che come potenziali fattori di rischio nell’aumento delle istanze aggressive, né nell’indicare quali dinamiche e quali motivazioni siano alla base dell’eventuale aumento dell’aggressività: secondo alcuni riscontri, quest’ultima sarebbe frutto di una “subliminale” variazione o distorsione dei valori educativi e delle credenze culturali del giocatore operata attraverso le dinamiche del gioco (storia e grafica); secondo altri, i videogiochi condurrebbero ad un diretto “insegnamento” all’uso di violenza in virtù della partecipazione attiva del soggetto, di gran lunga più efficace della comune “violenza assistita” su altri mezzi mediatici.

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Tanto basta per affermare che i videogiochi non hanno, di per sé, un valore positivo o negativo.

Qualsiasi cosa, videogiochi compresi, diventa nociva quando viene usata “male”: senza una supervisione adeguata, per troppo tempo, limitando a se stessi il coinvolgimento in altre attività, limitando i rapporti interpersonali.

Per di più, mentre le evidenze scientifiche in merito alle positività dell’uso di videogiochi non perdono di significatività in sperimentazioni con campioni di età più elevata (vedi quanto riportato in merito alle popolazioni anziane), le evidenze scientifiche inerenti i pericoli vengono considerate significative solo se rapportate al breve termine e a popolazioni più giovani.

In età evolutiva, infatti, sono ancora in atto diversi e fondamentali processi di sviluppo cognitivo ed emotivo-affettivo: a titolo di esempio basti pensare ai percorsi di sviluppo del sentimento, del ragionamento e del comportamento morale.

Per questo motivo, a proposito di supervisione adeguata, non può dirsi superfluo raccomandare ai genitori di assumere, tra gli altri, anche l’importante compito educativo ed affettivo nel far sì che i videogiochi non divengano sostitutivi di attività e metodi fondamentali per lo sviluppo cognitivo e la prosocialità (apprendimento scolastico, lettura, esercizio fisico, giochi tradizionali con i pari, etc..). È compito dei genitori stabilire le modalità attraverso le quali i figli possano usufruire di questo specifico intrattenimento, stabilendo regole precise in età giovanile con l’auspicio che esse vengano seguite anche in giovane età adulta, quando si acquisisce un maggiore senso critico. Tali regole, si specifica, non necessariamente richiedono un atteggiamento repressivo: si hanno sicuramente risultati più proficui con uno stile più collaborativo, del tipo «se finisci presto i tuoi compiti, dopo verrò a giocare con te».

Un altro aspetto che merita di essere menzionato è la necessità che i genitori siano messi al corrente dei sistemi di classificazione che indicano il pubblico a cui ciascun titolo, in base ai suoi contenuti, è adatto. Questo indice, denominato Pan European Game Information (PEGI)8, che per la verità è ben visibile sulle confezioni dei videogiochi, è spesso misconosciuto o ignorato, mentre potrebbe essere un valido supporto nell'orientare gli adulti e coloro che generalmente acquistano i giochi per i più giovani, al fine di scegliere i titoli adatti per i bambini e gli adolescenti.

Ad ogni modo, scopo della ricerca è diffondere sempre quanto scoperto: anche laddove siano stati riscontrati labili risultati negativi, ognuno di esso ha la potenzialità di contribuire alla tutela della salute e della sicurezza pubblica.

8 Il PEGI è stato sviluppato tra il 2001 ed il 2002 da un gruppo di lavoro che, dopo aver analizzato tutti i sistemi nazionali preesistenti, su impulso

dell’Associazione Europea degli Editori di Software Interattivo ISFE (Interactive Software Federation of Europe) e con il sostegno della Commissione Europea, l’ha reso operativo da aprile 2003. La scelta di optare per un sistema unitario a livello europeo è stata inevitabile in considerazione del fatto che la maggior parte dei giochi venduti in Europa sono identici, tranne che per lingua e confezione, e dunque l’Europa oggi è diventata un mercato unico per i videogiochi. Attualmente il PEGI viene applicato a prodotti distribuiti nei seguenti sedici paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito.

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