Diritto delle
Relazioni
Industriali
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colo 1, comma 1, DCB (V
ARESE)
RiceRche Aspetti istituzionali e prassi della contrattazione collettiva tra rinnovamento e tradizione
inteRventi Licenziamento per giustificato motivo oggettivo “organizzativo” Disabilità e malattie croniche Conciliazione e arbitrato nel diritto del lavoro
RelazioniindustRialieRisoRseumane Distribuzione dei dipendenti pubblici in Italia e mobilità
GiuRispRudenzaitaliana Contingentamento dei lavoratori a tempo parziale nell’edilizia I controlli a distanza dopo il Jobs Act Anzianità contributiva e part-time verticale ciclico Il distacco nei gruppi di imprese Infortunio in itinere: l’uso della bicicletta Pubblico impiego e falsa attestazione della presenza in servizio Rito speciale di impugnazione dei licenziamenti e limite delle domande diverse fondate su “identici fatti costitutivi” L’efficacia nel tempo dell’articolo 2103 c.c. riformato dal Jobs Act Il requisito di continuità professionale in ambito di previdenza forense
leGislazione, pRassiamministRativeecontRattazione La reputazione ai tempi delle piattaforme online Responsabilità solidale e direttiva enforcement sul distacco Caporalato: ripristinate in parte le tutele cancellate dal Jobs Act Credito d’imposta per gli investimenti in ricerca
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N. 1/XXVII - 2017
In questo numeroDiritto delle Relazioni Industriali
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Diritto delle Relazioni Industriali
Numero 1/XXVII - 2017. Giuffrè Editore, Milano
L’evoluzione del concetto giuridico di disabilità: verso un’inclusione delle malattie croniche?
Silvia Fernández Martínez
Sommario: 1. Posizione del problema. – 2. Il concetto giuridico di disabilità a livello
europeo: la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea. – 3. Il concetto
giuridico di disabilità nei diversi Paesi europei. – 4. Verso un più ampio concetto
giuridico di disabilità? Conseguenze pratiche. – 5. Conclusioni.
1. Posizione del problema
I dati disponibili circa il numero di persone affette da malattie croniche mostrano come questo sia un fenomeno in continuo aumento (1), so-prattutto nella fascia della popolazione economicamente attiva. Una si-tuazione che ha un effetto negativo sulla presenza nel mercato del lavo-ro (2) in ragione della inabilità o parziale abilità al lavoro causata dalla malattia.
* Dottoranda in Formazione della persona e mercato del lavoro, ADAPT, Università degli Studi di Bergamo.
(1) OECD, Health at a Glance. OECD Indicators, 2015. Ad es., nel Regno Unito, si
prevede che saranno 17 milioni le persone con malattie croniche nei prossimi decenni (cfr. Z. BAJOREK, A. HIND, S. BEVAN, The impact of long term conditions on em-ployment and the wider UK economy, The Work Foundation, 2016, 2). In Italia, il
14,8% della popolazione totale dichiara di soffrire almeno di una malattia cronica grave e il 13,9% afferma di soffrire di 3 o più malattie croniche (cfr. ISTAT, La salute e il ricorso ai servizi sanitari attraverso la crisi. Anno 2012 (media settembre-dicembre). Dati provvisori, 2013.
(2) In Italia, nel 2013, solo il 44% delle persone fra i 15 e i 64 anni che soffrono di
qualsiasi limitazione funzionale, invalidità o malattia grave è occupato, mentre il dato arriva a 55,1% nel resto della popolazione (cfr. MINISTERO DELLA SALUTE E DELLE
POLITICHE SOCIALI, ISTAT, Inclusione sociale delle persone con limitazioni funzionali,
Fino ad oggi, i sistemi nazionali di protezione sociale hanno affrontato i problemi derivanti dall’insorgere delle malattie croniche attraverso il riconoscimento dell’accesso anticipato a pensioni di inabilità, vecchiaia o assegni di invalidità. Tuttavia, scarsa attenzione è stata prestata all’impatto complessivo che tale gestione “passiva” della malattia causa sulle dinamiche del mercato del lavoro, sull’organizzazione del lavoro e nell’ambito delle relazioni industriali. Una recente analisi ha colmato questo vuoto (3) nella letteratura, approfondendo, in particolare, la rela-zione tra malattie croniche e sostenibilità dei sistemi sanitari e di welfa-re, produttività e organizzazione del lavoro, politiche di conciliazione e di pari opportunità e prevenzione, enfatizzando il ruolo fondamentale delle relazioni industriali nel ripensare i concetti giuridici tradizionali come quello di “presenza al lavoro”, “prestazione lavorativa” e “esatto adempimento contrattuale”, che implicherebbe un passaggio culturale e giuridico dalle politiche passive di mero sostegno al reddito a politiche attive orientate all’occupabilità dei malati cronici, operazione che im-plicherebbe a sua volta una riflessione sulla capacità (fisica, ma non so-lo) (4) richiesta al lavoratore per adempire correttamente a quanto de-dotto in contratto e su come misurarla.
Considerando che le malattie croniche possono avere un effetto negati-vo sulla capacità lanegati-vorativa, obiettinegati-vo del presente articolo è quello di studiare in chiave giuridica l’abilità e la disabilità al lavoro dei lavora-tori affetti da tali malattie. A tal fine, si procederà ad un’analisi del concetto giuridico di disabilità a livello europeo (§ 2) per esaminare, in primo luogo, se tutti i casi di effettiva disabilità al lavoro vengano rico-nosciuti come disabilità in termini giuridici e se esistano altre limita-zioni della capacità lavorativa che fuoriescano dall’ambito applicativo del concetto giuridico di disabilità (5). In secondo luogo, verranno esa-minati quei casi nei quali una persona viene considerata dagli attuali si-stemi di welfare come disabile anche quando conservi, in realtà, una capacità lavorativa parziale (6). Da quanto fin qui esposto, si può
(3) M. TIRABOSCHI, Le nuove frontiere dei sistemi di welfare: occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, in q. Rivista, 2015, n. 3.
(4) G. LOY, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, Franco Angeli, 1993, 51.
(5) J.L. GOÑI SEIN, B. RODRÍGUEZ SANZ DE GALDEANO, Adaptación y reubicación laboral de trabajadores con limitaciones psicofísicas, Thomson Reuters Aranzadi,
2015, 34.
scontrare come esista uno squilibrio tra quella che è la disabilità reale al lavoro e la sua certificazione giuridica.
Questo labile confine tra abilità e disabilità al lavoro presenta particola-ri problemi nel caso delle persone con malattie croniche, posto che non tutte reagiscono nello stesso modo alla medesima patologia (7) e che, nella maggioranza dei paesi europei, non esiste a livello giuridico una definizione chiara e condivisa di malattie croniche né una regolazione
ad hoc di questo fenomeno (8).
A fronte di questa situazione, negli ultimi anni si è instaurato a livello europeo un dibattito sulla possibilità (o meno) di far rientrare le malat-tie con effetti a lungo termine nel concetto giuridico di disabilità. Que-sto spiega perché sia importante realizzare un’analisi comparata sul concetto giuridico di disabilità utilizzato a livello internazionale ed eu-ropeo (§§ 2 e 3) con il fine ultimo di verificare se il medesimo ricom-prenda tutti i presupposti di effettiva disabilità al lavoro (e in particola-re il caso delle malattie croniche), o se, al contrario, escluda dal suo ambito applicativo quelle situazioni che in realtà hanno un impatto ne-gativo sulla capacità lavorativa.
Il considerare (o meno) le persone con malattie croniche come disabili presenta ulteriori problematiche se si tiene conto che neanche a livello giuridico esiste un concetto chiaro di disabilità. Vi sono, infatti, defini-zioni differenti sia tra i diversi paesi europei, sia all’interno di uno stes-so ordinamento giuridico. Per questo motivo appare opportuno decidere se il concetto giuridico di disabilità debba adottare un carattere più am-pio per poter ricomprendere l’elevato numero di lavoratori che soffrono di malattie croniche o se, invece, sia più appropriato ragionare sulla possibilità di introdurre forme di tutela alternative per queste persone. La conclusione cui si giunge con il presente articolo, in ragione dei par-ticolari bisogni dei lavoratori con malattie croniche, che non sempre coincidono con quelli dei disabili, è che sembrerebbe più opportuno in-trodurre forme di tutela alternative per queste persone, quali la conside-razione della malattia cronica come causa autonoma di discriminazione.
(7) Peraltro le malattie croniche sono caratterizzate da un’evoluzione intermittente e
imprevedibile in ragione di diversi fattori tali come la reazione alla cure, il contesto sociale, la disponibilità economica, ecc. Ivi, 695.
(8) A. CORRAL, J. DURÁN, I. ISUSI, Employment opportunities for people with chronic diseases, European Foundation for the Improvement of Living and Working
2. Il concetto giuridico di disabilità a livello europeo: la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea
L’inesistenza di una definizione di disabilità comune a livello comuni-tario (9) negli ultimi anni ha portato la Corte di giustizia dell’Unione europea a dover risolvere molteplici questioni pregiudiziali relative a questo tema. Nello specifico, la Corte di giustizia è stata più volte adita sulla possibilità di applicare la normativa in materia di tutela antidi-scriminatoria per disabilità anche ai casi di malattie con effetti prolun-gati nel tempo e sulla possibilità di considerare questa tipologia di ma-lattia come una causa di discriminazione che verrebbe ad aggiungersi alle altre cause di discriminazione vietate previste nella direttiva 2000/78/CE (10).
La posizione della Corte di giustizia circa il concetto di disabilità è cambiata nel corso del tempo: dalla prima sentenza in cui si è pronun-ciata su questo tema, Chacón Navas (11 luglio 2006, causa C-13/05),
alle ultime tre sentenze, HK Danmark (11 aprile 2013, cause riunite
C-335/11 e C-337/11), Kaltoft (18 dicembre 2014, causa C-354/13) e Daouidi (1o dicembre 2016, causa C-395/2015) (11).
Il caso Chacón Navas rileva l’esistenza di una diversità di definizioni
giuridiche di disabilità esistenti nei diversi Stati e segnala che questo concetto deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e unifor-me. Così, definisce la disabilità come «un limite che deriva, in partico-lare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la parte-cipazione della persona considerata alla vita professionale».
Con riferimento alla possibilità di ricomprendere le malattie di lunga durata nel concetto di disabilità agli effetti della direttiva 2000/78/CE,
(9) Questo deriva del fatto che né la direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro
ge-nerale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, né nessun’altra norma contengono una definizione di disabilità in ambito giuridico. (10) Bisogna chiarire sin dall’inizio che le questioni che si sottopongono alla Corte di
giustizia riguardano soltanto l’interpretazione del concetto di disabilità utilizzato nella direttiva 2000/78/CE. Pertanto, l’interpretazione che la Corte di giustizia fornisce su questo concetto avrà effetti soltanto nell’ambito della protezione antidiscriminatoria ma non darà accesso ad altre tutele previste per le persone con disabilità nelle diverse normative, ad es. le prestazioni previdenziali o l’accesso a tutele per l’inserimento la-vorativo.
(11) Come considerazione preliminare si deve segnalare che nella traduzione in
italia-no di queste sentenze si utilizza il termine handicap e non disabilità. Agli effetti che
la Corte di giustizia conclude che, avendo utilizzato il legislatore, nell’articolo 1 della direttiva, il termine handicap e non quello di
malat-tia, è esclusa la possibilità di assimilare entrambe le nozioni. Il tribuna-le è chiaro su questo punto e conclude che non sarebbe opportuno, alla luce del testo letterale della direttiva, affermare che il legislatore voles-se asvoles-segnare una protezione antidiscriminatoria anche alle persone af-fette da malattie: una malattia può dare luogo a disabilità solo se impli-ca menomazioni funzionali di impli-carattere prevedibilmente permanente tali da impedire la partecipazione piena alla vita professionale (12).
A livello concettuale, questa sentenza sta utilizzando il modello medico o individuale di disabilità (13), incentrato sull’individuo disabile e sulle sue limitazioni e che condiziona il riconoscimento di questo status
all’accertamento di una percentuale di invalidità. Anche se la conven-zione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata dalla as-semblea delle Nazioni unite nel dicembre 2006, non era stata ancora ra-tificata, una parte della dottrina ha subito dubitato che l’utilizzo da par-te della Corpar-te di giustizia del modello medico popar-tesse essere conforme alla posizione mantenuta dal resto delle istituzioni dell’Unione europea, che già dal 1996 avevano riconosciuto l’importanza di basare tutte le politiche sul modello sociale di disabilità (14).
Nel 2013 la Corte di giustizia torna a pronunciarsi sul concetto di disa-bilità nella sentenza HK Danmark, nella quale stabilisce che «se una
malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in intera-zione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della direttiva 2000/78».
(12) M.E. CARRIZOSA PRIETO, La tutela del trabajador enfermo en el Estatuto de los Trabajadores, in Civitas – Revista Española de Derecho del Trabajo, 2013, n. 157,
155; M. VIZIOLI, Malattia e handicap di fronte alla Corte di Giustizia, in ADL, 2007,
n. 1; II.
(13) Per un approfondimento sui diversi modelli di disabilità si veda M. OLIVER, Un-derstanding Disability. From Theory to Practice, Palgrave, 1996.
(14) L. WADDINGTON, Case C-13/05, Chacón Navas v. Eurest Colectividades SA, judgment of the Gran Chamber of 11 July 2006, in Common Market Law Review,
Alla luce di questa nuova definizione può sostenersi che la Corte di giustizia stia realizzando un’interpretazione ampia del concetto di disa-bilità che supera la posizione adottata dall’alto tribunale nella preceden-te senpreceden-tenza Chacón Navas (15). Tale interpretazione apre dunque la strada all’inclusione nel concetto di disabilità delle malattie di lunga durata che possono impedire o rendere più difficile la piena partecipa-zione della persona alla vita professionale, anche qualora queste malat-tie non abbiano dato luogo al riconoscimento amministrativo ufficiale di disabilità.
In questa sentenza, la Corte di giustizia non prende in considerazione unicamente le limitazioni causate dalla disabilità e i problemi per la partecipazione alla vita professionale, ma dà speciale rilevanza alle cause di queste limitazioni che possono consistere anche in una malat-tia curabile o incurabile. La Corte di giustizia riconosce in questo caso che la malattia non è necessariamente quella che compare al momento della nascita ma può essere anche quella che sorge in un momento suc-cessivo della vita di una persona. Questo aspetto è stato interpretato come un’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo della diret-tiva 2000/78/CE (16). Seguendo questa interpretazione potrebbero rien-trare nella definizione di disabilità anche le malattie curabili la cui du-rata risulti prevedibilmente lunga (17).
Optando per una equiparazione tra malattie con effetti a lungo termine e disabilità, la Corte di giustizia sta riconoscendo in modo chiaro che, in determinate circostanze, la malattia può essere assimilata alla disabi-lità (18). Tuttavia, la maggior parte della dottrina (19) si è espressa a sfa-vore di questa diretta e automatica interpretazione soprattutto quando la
(15) M.AGLIATA, La Corte di giustizia torna a pronunciarsi sulle nozioni di
“handi-cap” e “soluzioni ragionevoli” ai sensi della direttiva 2000/78/CE, in q. Rivista,
2014, n. 1, 265.
(16) R.M.PÉREZ ANAYA, La obesidad como causa de despido: desde la perspectiva comunitaria, in Revista Internacional y Comparada de Relaciones Laborales y Dere-cho del Empleo, 2015, vol. 3, n. 1, 151.
(17) B. RODRÍGUEZ SANZ DE GALDEANO, La obligación de realizar ajustes razonables del puesto de trabajo a las personas con discapacidad, in Temas Laborales, 2014, n.
127, 92.
(18) L. WADDINGTON, op. cit., 20.
(19) In questo senso, N. BETSCH, The Ring and Skouboe Werge Case: A Reluctant Ac-ceptance of the Social Approach of Disability, in European Labour Law Journal,
malattia di cui si è affetti non provochi limitazioni per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
In realtà, anche se le posizioni appaiono a prima vista contrapposte, la conclusione a cui giungono sembra essere la stessa, dal momento che la questione che si pone la Corte di giustizia non è se malattia e disabilità siano concetti equiparabili (20), quanto piuttosto se sia assimilabile il concetto di disabilità a quello di malattia cronica, che è concetto ben diverso dalla malattia in senso stretto. Di conseguenza, non si pone in dubbio che la malattia in senso stretto non sia assimilabile alla disabili-tà. Per questo motivo, si potrebbe affermare che la Corte di giustizia stia creando una terza categoria concettuale: la malattia cronica (21), che si differenzia sia dalla malattia in senso stretto sia dalla disabilità, e per la quale sarebbe necessario offrire tutele ad hoc.
Tuttavia, la dottrina non è concorde nel ritenere questa sentenza una ve-ra rettificazione di quanto indicato nella sentenza Chacón Navas. La
maggior parte della dottrina (22) ritiene che l’alto tribunale non abbia creato un nuovo concetto di disabilità perché nella definizione che offre non si trovano particolari differenze rispetto al concetto utilizzato nella sentenza Chacón Navas. Questo perché la Corte di giustizia continua ad
esigere la presenza di limitazioni nello svolgimento della prestazione lavorativa derivanti da dolenze di lunga durata con un certo livello mi-nimo di gravità. Questi autori sostengono che la sopracitata sentenza rappresenterebbe soltanto una evoluzione della posizione del tribunale per poter adattarne il ragionamento alla convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Nonostante tutti i dubbi interpretativi sollevati da questa sentenza, la posizione della Corte di giustizia si consolida nella sentenza del 18 di-cembre 2014, Kaltoft, causa C-354/13, anche se in questo caso si fa
specifico riferimento all’obesità. Il tribunale parte dal fatto che non esi-ste a livello europeo una disposizione che contenga un divieto specifico
(20) Nella sentenza, infatti, non viene mai fatta questa affermazione e neppure si legge
che la protezione in materia antidiscriminatoria debba attivarsi automaticamente dal momento della diagnosi della malattia.
(21) B.CUBA VILA, Acerca de la sentencia del Tribunal de Justicia (Sala Segunda) de 11 de abril de 2013: diferencia de trato por discapacidad. Medidas de ajuste razo-nable, in Revista de Información Laboral, 2014, n. 3, 167; A.V. SEMPERE NAVARRO,
Discriminación laboral por enfermedad, in Actualidad Jurídica Aranzadi, 2013, n.
866, 3. Questo ultimo A. la denomina “nueva enfermedad asimilada”.
di discriminazione per obesità e che non sarebbe opportuno ampliare per analogia l’ambito applicativo della direttiva. Per questo motivo sta-bilisce che «il diritto derivato dell’Unione non sancisce neanch’esso un principio di non discriminazione a motivo dell’obesità per quanto ri-guarda l’occupazione e le condizioni di lavoro. In particolare, la diretti-va 2000/78 non menziona l’obesità quale motivo di discriminazione». Anche se il tribunale è chiaro quando afferma che l’obesità non può es-sere considerata come causa autonoma di discriminazione, la fa rientra-re nel concetto di disabilità ai sensi della dirientra-rettiva 2000/78/CE (23) «qualora determini una limitazione, risultante segnatamente da meno-mazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva par-tecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori».
Dopo questa ulteriore sentenza, si può affermare che la Corte di giusti-zia confermi la posizione sostenuta nella sentenza HK Danmark circa la
possibilità di equiparare le malattie che producono effetti a lungo ter-mine – nel caso di specie l’obesità – alla disabilità, sempre nel rispetto dei requisiti stabiliti nella sentenza precedente, vale a dire, che detta malattia dia luogo alla creazione di una serie di barriere che sorgono in conseguenza dell’interazione con la società.
In questa sentenza la Corte di giustizia introduce un’ulteriore precisa-zione: la disabilità oggetto di protezione nella direttiva 2000/78/CE non si riferisce soltanto a quella che impedisce la partecipazione alla vita professionale ma anche a quella che la rende più difficile (24). Il tema delle barriere è centrale e pertanto si potrebbe affermare che il tribunale stia facendo un ulteriore passo in avanti verso l’utilizzo del modello so-ciale di disabilità (25).
In conclusione, si può riscontrare come il cambio d’interpretazione del-la Corte di giustizia sia stato, dunque, condizionato daldel-la ratificazione
(23) P. RIVAS VALLEJO, ¿Es la obesidad causa de discriminación tutelable en el ámbi-to laboral?, in IUSLabor, 2015, n. 1, 22.
(24) J.J.PÉREZ-BENEYTO ABAD, Obesidad, discapacidad y el Tribunal de Justicia de la Unión Europea, in M.D. RAMÍREZ BENDALA (a cura di), Buenas prácticas jurídico-procesales para reducir el gasto social (III), Ediciones Laborum, 2015, 145.
da parte dell’Unione europea della convenzione ONU, avvenuta con decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009.
La ratifica della convenzione segna un importante passaggio (26), per-ché in essa si evidenzia come la disabilità sia un concetto in evoluzione. Tale interpretazione, anche se non da tutti riconosciuta (27), viene fatta propria dalla Corte di giustizia nella sentenza HK Danmark (28), che si orienta, così, verso il modello sociale di disabilità (29).
Una parte della dottrina sostiene, poi, che dalle ultime sentenze emerga un ulteriore cambio nella posizione della Corte, la quale, con le sue de-cisioni starebbe superando il modello sociale di disabilità e, incentran-dosi su quello bio-psico-sociale (30), secondo il quale non è la condi-zione soggettiva a qualificare la disabilità di una persona ma è l’interazione fra la persona e l’ambiente specifico a causa di barriere di diversa natura che possono determinare limitazioni per la partecipazio-ne alla vita professionale.
La Corte di giustizia è stata, poi, chiamata a pronunciarsi ancora sulla nozione di disabilità, in punto di tutela antidiscriminatoria, nella causa
Daouidi, riguardante una questione pregiudiziale presentata da un
tri-bunale spagnolo. In questa sentenza, il tritri-bunale utilizza, ancora una volta, la definizione di disabilità introdotta con la sentenza HK Dan-mark, a riprova di un avvenuto cambiamento di posizione rispetto al
concetto di disabilità cui far riferimento. In questo caso, la Corte di giu-stizia si concentra sull’analisi di uno degli elementi fondamentali della
(26) La Convenzione è stata considerata come la massima espressione della
accetta-zione del modello sociale di disabilità a livello internazionale (cfr. V.PERJU, Impair-ment, Discrimination, and the Legal Construction of Disability in the European Union and the United States, in Cornell International Law Journal, 2011, vol. 44, n.
2, 289).
(27) Alcuni autori come AA.VV., The definition of disability: what is in a name?, in The Lancet, 2006, vol. 368, n. 9543, 2006, 1220, hanno affermato come in realtà la
prospettiva della Convenzione ONU sia in prevalenza medica perché restringe il con-cetto di disabilità a quelle persone che abbiano limitazioni di lunga durata, indipen-dentemente dal loro livello di partecipazione alla vita professionale.
(28) B. RODRÍGUEZ SANZ DE GALDEANO, op. cit., 89.
(29) P. MCTIGUE, From Navas to Kaltoft: The European Court of Justice’s evolving definition of disability and the implications for HIV-positive individuals, in Interna-tional Journal of Discrimination and the Law, 2015, vol. 15, n. 4, 7.
definizione di disabilità, vale a dire la durata della limitazione. Il tribu-nale conclude che sarà il giudice che ha presentato la questione pregiu-diziale a dover accertare se la limitazione della capacità del lavoratore abbia o meno carattere “duraturo”, posto che trattasi di una valutazione prettamente di fatto. La sentenza, tuttavia, già individua alcuni degli in-dizi che consentono di considerare come “duratura” una limitazione e dei quali il tribunale nazionale dovrà tener conto al momento della de-cisione, tra i quali, ad esempio, «la circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell’interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve perio-do». La Corte di giustizia, quando chiamata a pronunciarsi circa il ca-rattere “duraturo” della limitazione, conferisce particolare rilevanza agli elementi oggettivi a disposizione, quali, ad esempio, documenti e certificati redatti sulla base di conoscenze e referti medici. Sebbene questa sentenza sia destinata ad avere un impatto rilevante rispetto al concetto di disabilità utilizzato a livello interno, la sua portata si vede, tuttavia, ridimensionata dal fatto che la decisione ultima sul carattere “duraturo” o meno della limitazione spetti ai tribunali nazionali. Nono-stante sia indubbio che si tratti di una questione assai complessa e si deva, pertanto, prestare particolare attenzione al caso concreto, sarebbe stato auspicabile che la Corte di giustizia avesse fornito indicazioni più precise con riguardo all’accezione da assegnare al termine “duraturo”, evitando, così, di lasciare uno spazio di manovra così ampio ai tribunali nazionali e perseguendo l’obiettivo di garantire l’esistenza di una defi-nizione di disabilità comune a tutti i Paesi dell’Unione europea.
3. Il concetto giuridico di disabilità nei diversi Paesi europei
un carattere più ampio (Regno Unito) e gli altri due nei quali risulta es-sere più restrittiva (Spagna e Italia), con l’obiettivo di decidere quale sia il modello che offra maggiori tutele ai lavoratori con malattie croni-che.
Il quadro giuridico in materia di disabilità risulta, in generale, caratte-rizzato dall’incertezza giuridica. Esistono, infatti, vari dubbi interpreta-tivi circa l’ambito di applicazione soggettivo delle diverse normative, cioè circa l’individuazione chiara di quali siano i soggetti che debbano essere considerati disabili. Questo spiega perché risulti difficile inqua-drare a livello giuridico un fenomeno come quello della disabilità nel quale entrano in gioco definizioni e logiche mediche.
Il primo passaggio consiste nel determinare se nei diversi Paesi oggetto d’analisi esista un’unica definizione di disabilità o se esistano più defi-nizioni nei diversi ambiti del medesimo ordinamento. Da un’analisi comparata si riscontra come all’interno di ogni singolo ordinamento giuridico esistano definizioni di disabilità diverse in funzione della loro finalità (31). Le definizioni di disabilità in ambito antidiscriminatorio, infatti, hanno in generale un carattere più ampio, nel quale si può inclu-dere potenzialmente un numero maggiore di persone. Le definizioni di disabilità nell’ambito della previdenza sociale, invece, risultano essere più restrittive (32). È il caso dell’Italia in cui non esiste un concetto uni-tario di disabilità (33) ma ne esistono due diversi: il primo, di portata generale, nella legge 5 febbraio 1992, n. 104, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappa-te, e il secondo, esclusivamente per l’ambito lavorativo, nella legge 12
marzo 1999, n. 68, Norme per il diritto al lavoro dei disabili. Anche nel
Regno Unito esistono due definizioni di disabilità: una, in ambito di-scriminatorio, nell’Equality Act 2010 e un’altra, nell’ambito della
pre-videnza sociale, nel Social Security Contributions and Benefits Act 1992. Una situazione simile a questi casi si riscontrava anche in Spagna
(31) T. DEGENER, Definition of disability, E.U. Network of Experts on Disability
Di-scrimination, 2004, 5. Nello stesso senso BRUNEL UNIVERSITY (a cura di), Definition of disability in Europe. A comparative analysis, European Commission, 2002, che
realizza un’analisi delle definizioni di disabilità esistenti nei diversi Stati dell’Unione europea.
(32) BRUNEL UNIVERSITY (a cura di), op. cit.
(33) M. BARBERA, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in M. BARBERA (a cura
di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Giuffrè,
prima dell’adozione del Real Decreto Legislativo 1/2013, de 29 de no-viembre, que aprueba el vigente Texto Refundido de la Ley General de derechos de las personas con discapacidad y de su inclusión social.
Questo testo abroga espressamente la Ley 13/1982, de 7 de abril, de in-tegración social de los minusválidos, tesa a facilitare la riabilitazione e
la reintegrazione dei disabili in tutti gli ambiti della società, e la Ley 51/2003, de 2 de diciembre, de igualdad de oportunidades, no discri-minación y accesibilidad universal de las personas con discapacidad,
in materia di parità di trattamento, con l’obiettivo di unificare in un solo testo tutte le disposizioni riguardanti la disabilità sparse in normative diverse. Tuttavia, in Spagna restano vigenti altre disposizioni regola-mentarie (34) che contengono definizioni di disabilità diverse da quella presente nel Real Decreto Legislativo 1/2013 e, pertanto, anche in
que-sto Paese la normativa in materia di disabilità è caratterizzata da un si-gnificativo livello di dispersione/disomogeneità.
Nei tre Paesi analizzati convivono dunque definizioni di disabilità di-verse all’interno dello stesso ordinamento giuridico. Siccome la defini-zione di disabilità usata dalla Corte di giustizia è applicabile unicamen-te all’ambito della tuunicamen-tela antidiscriminatoria, risulta necessario analiz-zare se nei Paesi menzionati esista una definizione unica in questo am-bito e se questa sia conforme o meno alla definizione utilizzata dalla Corte.
L’assenza di un concetto univoco di disabilità nella direttiva 2000/78/CE ha generato, anche dopo la sua trasposizione negli ordina-menti giuridici nazionali, un quadro normativo disomogeneo in materia di protezione antidiscriminatoria in caso di disabilità sia dal punto di vista della definizione stessa di disabilità, sia dal punto di vista degli obblighi che hanno i datori di lavoro nei confronti dei lavoratori con di-sabilità (35). Così, mentre nel Regno Unito esiste un concetto chiaro di disabilità nell’ambito della tutela antidiscriminatoria dell’Equality Act
(34) Real Decreto 1971/1999, de 23 de diciembre, de procedimiento para el recono-cimiento, declaración y calificación del grado de discapacidad; Real Decreto 383/1984, de 1 de febrero, por el que se establece y regula el sistema especial de pre-staciones sociales y económicas previsto en la Ley 13/1982, de 7 de abril, de integra-ción social de los minusválidos.
(35) Per un’analisi della normativa antidiscriminatoria in materia di disabilità si veda
2010, in Italia, la normativa in materia di protezione antidiscriminatoria
contenuta nel decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupa-zione e di condizioni di lavoro, non contiene una definioccupa-zione di
disabili-tà. Per questo motivo, è emerso in Italia il dubbio su quale sia la defini-zione di disabilità da utilizzare: se quella contenuta nella legge n. 104/1992 o quella contenuta nella legge n. 68/1999. Interviene la legge 1o marzo 2006, n. 67, Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni, che risolve la questione nel suo
ar-ticolo 1 stabilendo che avranno diritto alla tutela giudiziaria le persone con disabilità di cui all’articolo 3 della legge n. 104/1992, cioè tutte quelle che rientrano nella definizione di disabilità di ambito generale e non soltanto coloro che hanno accesso alle tutele per l’inclusione lavo-rativa. Per contro, in Spagna, la definizione di disabilità contenuta nel
Real Decreto Legislativo 1/2013, in ragione della non abrogazione di
alcune norme regolamentarie, risulta applicabile soltanto nell’ambito della protezione antidiscriminatoria. Pertanto, può affermarsi che in Spagna, e per questo specifico ambito, esista una definizione ad hoc.
Così, mentre in Spagna e nel Regno Unito il concetto di disabilità si li-mita al solo ambito antidiscriminatorio, in Italia si utilizza anche per accedere alle tutele previste dalla legge n. 104/1992, la quale prevede misure che non hanno natura meramente antidiscriminatoria.
Una volta ultimate queste considerazioni preliminari appare opportuno analizzare gli elementi della definizione di disabilità in ambito antidi-scriminatorio, in particolare, per quanto concerne l’esigenza di accer-tamento di una determinata percentuale di disabilità (o meno) necessa-ria per accedere alle tutele in questo ambito. In generale, le diverse de-finizioni di disabilità nei vari Paesi si incentrano principalmente sugli accertamenti medici e sanitari volti ad attestare la menomazione o la patologia dell’individuo, anche se i requisiti per accedere alle presta-zioni o ai diritti previsti dalle diverse norme variano (36). Così, nel Re-gno Unito non si richiede l’accertamento di una determinata percentua-le di disabilità per l’esistenza della medesima. L’Equality Act (37) stabi-lisce che una persona è disabile quando ha una menomazione fisica o mentale e quando questa menomazione provochi effetti avversi e a lun-go termine nella sua capacità di svolgere le attività quotidiane.
(36) M.C.CIMAGLIA, op. cit., 403.
via, sempre l’Equality Act riporta automaticamente nell’alveo della
di-sabilità determinate malattie quali il cancro, l’HIV o la sclerosi multipla sin dal momento della diagnosi (38), senza necessità di dimostrare la ri-correnza degli elementi definitori della disabilità previsti nell’Equality Act (39). Nel Regno Unito, i tribunali, già prima delle ultime sentenze della Corte di giustizia, avevano interpretato in modo ampio il concetto di disabilità, facendo così rientrare un elevato numero di malattie nel concetto di disabilità (40) (come la dislessia, problemi mentali, depres-sione, sclerosi multipla). Nei casi citati non è necessario che la patolo-gia abbia un effetto avverso nelle attività quotidiane e sia di carattere permanente poiché, trattandosi di malattie dal carattere irreversibile e tali da comportare un’invalidità prevedibilmente permanente, vengono fatte rientrare, in maniera automatica, nel concetto di disabilità (41). Tuttavia, anche nel Regno Unito, là dove la definizione di disabilità è più ampia, non tutte le malattie che incidono negativamente sulla capa-cità lavorativa rientrano nel concetto di disabilità, ma soltanto alcune di quelle caratterizzate dalla loro speciale gravità, quali sono il cancro, la sclerosi multipla e l’HIV.
Una situazione simile a quella del Regno Unito esiste attualmente in Spagna, in cui l’articolo 4 del Real Decreto Legislativo 1/2013, oltre a
riconoscere in maniera automatica la condizione di disabilità alle sone cui viene riscontrato un grado di disabilità pari al 33% o alle per-sone con una invalidità riconosciuta agli effetti della previdenza socia-le, introduce una nuova accezione generica di disabilità nell’ordina-mento giuridico spagnolo. Così il comma 1 dell’articolo 4 stabilisce che «sono persone con disabilità coloro che presentano menomazioni fisi-che, mentali, intellettive o sensoriali, prevedibilmente permanenti le quali, interagendo con barriere di diversa natura, possano impedire la loro piena partecipazione nella società in condizioni di parità con gli al-tri». Questa definizione è chiaramente ispirata alla convenzione ONU e include nel concetto di disabilità persone che non hanno ottenuto il
(38) Schedule 1, Disability: supplementary provision, Part 1, Determination of disabi-lity, § 6.
(39) Per un approfondimento sulla questione si veda S.FERNÁNDEZ MARTÍNEZ, Insi-ghts into cancer and work in the UK. Face to face with Diana Kloss, in ADAPT Inter-national Bulletin, 2016, n. 6.
(40) Cfr. J. LANE, N. VIDEBAEK MUNKHOLM, op. cit., 109.
(41) A.LAWSON, Disability and Employment in the Equality Act 2010: Opportunities
conoscimento di un grado di disabilità pari al 33% o che non hanno un’invalidità permanente, ma alle quali sia riconosciuta una deficienza tale da impedire, in presenza di determinate barriere, la partecipazione piena ed effettiva della persona nella vita professionale (42). Tuttavia, la situazione in Spagna si differenzia da quella esistente nel Regno Unito soprattutto perché i tribunali non hanno ancora recepito questa nuova definizione di disabilità e, pertanto, bisognerà ancora attendere per ca-pire come verrà applicata al caso concreto (43).
Per contro, l’obbligo di accertamento è più chiaro in Italia in cui, anche se la definizione di disabilità della legge n. 104/1992 (44) non richiede che le minorazioni fisiche, psiche o sensoriali comportino l’accerta-mento di una determinata percentuale di disabilità, l’esistenza di queste minorazioni deve essere accertata dalle rispettive commissioni medi-che. Pertanto, l’obbligo d’accertamento, in un certo modo, è presente. A questa considerazione è possibile aggiungere un’ulteriore riflessione. In Spagna e nel Regno Unito, Paesi in cui esiste una definizione di di-sabilità più ampia non soggetta all’accertamento, le persone che vengo-no definite disabili hanvengo-no però accesso soltanto alla protezione antidi-scriminatoria (45), mentre, per poter accedere al resto delle tutele in ma-teria di disabilità dovranno soddisfare i requisiti previsti nelle normati-ve ad hoc, legati alle percentuali di disabilità o invalidità. Pertanto,
neppure nel Regno Unito le persone con cancro, HIV o sclerosi multi-pla avranno acceso automatico alle prestazioni sociali bensì solo alla protezione in materia antidiscriminatoria. Anche se questo rappresenta un primo passo in avanti verso un nuovo concetto di disabilità, persi-stono altri problemi, tra cui, in particolare, la scelta della procedura per accertare l’esistenza di quelle limitazioni che fanno sì che la persona possa essere considerata disabile. Pur in assenza di una procedura am-ministrativa prestabilita, come quelle richieste per accedere alle tutele
(42) D.F.J.LLUCH CORELL, El despido por enfermedad: una nueva lectura de la no-ción de discriminano-ción por discapacidad, in El Derecho, 2014, n. 1, 5.
(43) Cfr. Tribunal Supremo 3 de mayo de 2016, n. 3348/2014. In questa sentenza il
tribunale rifiuta l’idea secondo la quale un licenziamento durante il periodo di com-porto possa essere discriminatorio.
(44) Art. 3: «è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica,
psichi-ca o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è psichi-causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantag-gio sociale o di emarginazione».
previdenziali, le limitazioni dovranno essere comunque oggetto di una qualche forma di accertamento.
Tutte le definizioni di disabilità utilizzate nei diversi Paesi, compreso il Regno Unito, seguono, principalmente, il modello medico di disabilità. Questa concezione della disabilità viene considerata da una parte della dottrina come una forma di esclusione dei disabili dalla società (46). Tuttavia, nel Regno Unito il concetto di disabilità previsto nell’Equality Act e quello utilizzato dai tribunali, è interpretato in modo ampio e
in-clude, in maniera automatica, le persone con determinate malattie cro-niche, circostanza che invece non si verifica negli altri Paesi. Questa in-terpretazione conduce a constatare come il concetto di disabilità esi-stente nel Regno Unito si allontani dal modello medico di disabilità per avvicinarsi al modello sociale (47). Ma, neanche in questo caso esiste una tutela integrale per tutti i lavoratori con malattie croniche, posto che questo riconoscimento automatico si limita a sole tre malattie cro-niche (48), le quali, chiaramente, non rappresentano la totalità delle ma-lattie che incidono in maniera negativa sullo svolgimento della presta-zione lavorativa e che sarebbero egualmente meritevoli di tutela. Per-tanto, neanche l’utilizzo di un concetto più ampio di disabilità in ambi-to antidiscriminaambi-torio sembra essere la soluzione migliore per una vera e reale inclusione lavorativa dei lavoratori con malattie croniche.
Per determinare la portata pratica di questo concetto sarà necessario ve-rificare se il medesimo sia stato utilizzato dai tribunali nazionali. Men-tre l’impatto della dottrina della Corte di giustizia è minore nel Regno Unito, dove già prima delle ultime sentenze si utilizzava un concetto più ampio di disabilità, la posizione esistente in Spagna e in Italia su questo tema sembra, invece, essere destinata a modificarsi. Di recente, in Spagna, dove esistono sentenze dei tribunali di merito che recepisco-no il concetto di disabilità utilizzato dalla Corte di giustizia (49), il Tri-bunal Supremo ha rifiutato di applicare la definizione di disabilità uti-lizzata dalla Corte in un caso di licenziamento durante il periodo di comporto. In Italia, invece, la Corte di Cassazione non ha avuto ancora occasione di pronunciarsi sulla questione. Tuttavia, esiste qualche
(46) M.PASTORE, op. cit., 199.
(47) M.J. GÓMEZ-MILLÁN HERENCIA, Discapacidad, estados de salud y discrimina-ción en el marco jurídico de la igualdad de Reino Unido, in Revista de Informadiscrimina-ción Laboral, 2014, n. 4, 12.
(48) HIV, cancro, sclerosi multipla.
nuncia dei tribunali di merito (50) in cui viene utilizzata la nozione di disabilità così come definita dalla Corte di giustizia nelle sue ultime sentenze.
4. Verso un più ampio concetto giuridico di disabilità? Conse-guenze pratiche
Dall’analisi del concetto di disabilità utilizzato dalla Corte di giustizia, si riscontra come sia emersa una maggiore consapevolezza degli effetti causati dalle malattie croniche in ambito lavorativo e della complessa interazione esistente tra disabilità e malattia (51). L’inclusione delle ma-lattie croniche nel concetto di disabilità consentirebbe ai malati cronici di accedere alla protezione in materia antidiscriminatoria riservata ai disabili e, in particolare, agli accomodamenti ragionevoli e alla tutela contro il licenziamento illegittimo (che verrà dunque qualificato come nullo se basato soltanto sulla malattia del lavoratore). Tuttavia, la Corte di giustizia non offre una risposta esaustiva alla questione: da un lato, secondo la definizione che utilizza, non tutte le tipologie di malattie croniche che incidono in modo negativo sulla capacità lavorativa rien-trerebbero nella categoria di disabilità risultandovi incluse soltanto quelle considerate di gravità maggiore, come ad esempio la sclerosi multipla o il cancro; dall’altro lato, la definizione di disabilità che uti-lizza la Corte risulta applicabile soltanto all’ambito della tutela antidi-scriminatoria e, pertanto, i suoi effetti sarebbero limitati.
Rispetto alla prima questione, il concetto di disabilità utilizzato dalla Corte di giustizia non è così ampio perché non ricomprende tutte le li-mitazioni psicofisiche di cui può soffrire il lavoratore e che hanno rica-dute sul piano lavorativo. Sebbene la Corte abbia fatto un passo in avanti verso un’interpretazione meno restrittiva del concetto di disabili-tà, continua a richiedere la presenza di menomazioni. Tale argomenta-zione può essere addotta per confutare la tesi di coloro che considerano che l’alto tribunale stia utilizzando il modello bio-psico-sociale, la cui assunzione risulta, invece, ancora molto lontana. Più nello specifico la
(50) Trib. Pisa ord. 15 aprile 2015.
(51) M. BELL, Sickness Absence and the Court of Justice: Examining the Role of Fun-damental Rights in EU Employment Law, in European Law Journal, 2015, vol. 21, n.
Corte non risponde a una questione di enorme rilevanza, vale a dire quali siano i casi in cui la malattia cronica dia luogo a limitazioni per-manenti che non rispondono ai criteri medici tradizionali utilizzati per valutare il grado di disabilità (52).
Il tentativo della Corte di giustizia di far rientrare nella categoria della disabilità i lavoratori con determinate malattie croniche finisce, però, per escludere quelle situazioni in cui i lavoratori soffrono di limitazioni che, pur avendo un effetto negativo sullo svolgimento della prestazione lavorativa non danno luogo alla certificazione ufficiale di disabilità per il fatto di non rispondere ai requisiti formalmente richiesti. Le persone che soffrono di queste malattie vivrebbero, dunque, in un limbo giuri-dico (53), dal momento che, da un lato, non possono accedere alle tutele riservate ai disabili, in particolare a quegli accomodamenti ragionevoli che potrebbero consentir loro di conservare il proprio lavoro e, dall’altro, neppure possono svolgere la prestazione lavorativa alle con-dizioni esistenti prima dell’insorgere della malattia, situazione che po-trebbe costituire motivo di licenziamento oggettivo per inidoneità so-pravvenuta (54).
Per superare questa situazione e offrire tutele reali ai lavoratori con ma-lattie croniche, è necessario prendere atto di come la disabilità al lavoro non possa essere rinchiusa nelle gabbie terminologiche imposte dalle varie categorie, essendo suscettibile di ricomprendere qualsiasi situa-zione nella quale il lavoratore riporti una limitasitua-zione psico-fisica o una ridotta capacità lavorativa. Per questo motivo, alcuni autori considerano la disabilità come una nozione mutevole, dipendente dal contesto socia-le, e che, dunque, rende inopportuna una definizione definitiva, statica ed esaustiva (55). Inoltre, anche se l’inclusione delle malattie di lunga durata nel concetto di disabilità può rappresentare per i lavoratori che ne sono affetti un primo passo verso una maggior tutela, in un mondo del lavoro che invecchia e in cui, dunque, sempre più alto risulti il nu-mero di persone affette da queste patologie, non sarebbe sostenibile far rientrare tutte queste persone nella categoria giuridica della disabilità. Peraltro, non sembra che la strada dell’inclusione delle persone con
(52) Come, ad es., il caso in cui una persona sia guarita dal cancro ma continui a
sof-frire i sintomi di una fatica cronica (cfr. N. BETSCH, op. cit., 140).
(53) J.L. GOÑI SEIN, B. RODRÍGUEZ SANZ DE GALDEANO, op. cit., 83.
(54) S. FERNÁNDEZ MARTÍNEZ, Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata, in DRI, 2015, n. 3.
lattie croniche nella categoria della disabilità contribuisca ad aumentare le possibilità di inserimento lavorativo di queste persone se si considera che, secondo gli ultimi dati disponibili relativi al Regno Unito, dove pe-raltro il concetto di disabilità è più ampio, il numero di persone con di-sabilità occupate risulta di gran lunga inferiore rispetto alla media. Al di sopra della media si colloca invece il tasso di occupazione delle per-sone che versano in condizioni di salute sfavorevoli a lungo termine ma che non vengono considerate disabili (56).
Il concetto giuridico tradizionale di disabilità non sembra essere, per-tanto, in grado di fornire risposte adeguate a tutte le diverse ipotesi di abilità lavorativa ridotta o parziale che stanno emergendo nell’attualità. Inoltre, l’inclusione dei malati cronici nella categoria dei disabili sol-tanto agli effetti della tutela antidiscriminatoria implica la convivenza, all’interno di uno stesso ordinamento giuridico, di concetti di disabilità diversi. Questo comporterebbe un’evidente disomogeneità nella catego-ria dei disabili all’interno della quale, dunque, esisterebbero persone che possono accedere alle tutele in materia antidiscriminatoria riservate ai disabili, ma non a quelle in ambito previdenziale o per l’acceso al la-voro. Ne deriverebbe un concetto giuridico di disabilità del tutto incer-to, destinato a variare da normativa a normativa, con tutte le conse-guenze negative che una simile incertezza giuridica porterebbe con sé. Per evitare questo tipo di contraddizioni e per rispondere ai bisogni di tutela delle persone affette da malattie di lunga durata che provocano limitazioni nello svolgimento della prestazione lavorativa senza però arrivare ad ottenere il certificato di disabilità, o che non vengono rico-nosciute automaticamente come disabili al momento della diagnosi, una soluzione potrebbe consistere nell’introduzione della malattia cronica tra le cause di discriminazione vietate dalla direttiva 2000/78/CE. A sostegno di questa argomentazione si potrebbe utilizzare la posizione di quella parte della dottrina che ritiene che la Corte di giustizia nelle ultime sentenze stia creando una terza categoria, quella, cioè, della ma-lattia cronica, la quale dovrebbe, dunque, essere considerata come un concetto autonomo e diverso rispetto a quello di malattia in senso
(56) Solo il 46,1% delle persone con disabilità ha un’occupazione, di fronte alla media
to e di disabilità. La malattia cronica rappresenterebbe, così, una cate-goria a metà strada tra la disabilità e la malattia in senso stretto: una sorta di disabilità non certificabile ufficialmente perché non risponden-te a parametri prefissati. In questi risponden-termini si pronuncia una parrisponden-te mino-ritaria della dottrina (57), la quale afferma che, per concedere la tutela antidiscriminatoria a queste persone, risulterebbe più adeguato conside-rare la malattia come causa di discriminazione autonoma anziché equi-pararla alla disabilità. Questo aprirebbe, però, nuovamente il dibattito circa la natura tassativa o esemplificativa delle cause di discriminazione vietate dalla direttiva 2000/78/CE. Se si opta per la natura esemplifica-tiva di questa norma, la malattia cronica potrebbe rientrare perfettamen-te in quesperfettamen-te cause. In caso contrario, sarebbe opportuno promuovere una riforma della direttiva in tal senso, per proteggere con la dovuta certezza giuridica, un segmento della popolazione che più che mai, e sempre di più in ragione dell’invecchiamento della popolazione, ha bi-sogno di protezione specifica per poter continuare a svolgere la presta-zione lavorativa adattandola alle proprie mutevoli capacità lavorative. Occorre altresì osservare che, sebbene il ricorso alla normativa antidi-scriminatoria sia indispensabile per offrire delle tutele alle persone con malattie croniche, questo non è, tuttavia, sufficiente per garantire il loro pieno inserimento lavorativo. Si tratta, dunque, soltanto di un punto di partenza, al quale dovrebbe però far seguito la creazione di nuovi stru-menti di tutela ad hoc che vadano oltre la protezione
antidiscriminato-ria, quali, ad esempio, l’introduzione di politiche attive e il coinvolgi-mento dello Stato nell’adattare l’ambiente lavorativo alle specifiche ne-cessità di queste persone (58).
Rispetto alla definizione di disabilità più ampia fornita dalla Corte di giustizia, persiste comunque il problema di quale debba essere la moda-lità per riconoscere l’esistenza della disabimoda-lità, anche a prescindere dall’accertamento medico-legale su base percentuale. Sarebbe, infatti, necessario un qualche riconoscimento a livello formale dell’esistenza della disabilità sulla base del quale poter accedere alle rispettive tutele (59). La Corte tuttavia non chiarisce quale debba essere questa procedu-ra. Una possibile soluzione potrebbe essere quella adottata nel Regno Unito, vale a dire il riconoscimento automatico della presenza di
(57) M.E. CARRIZOSA PRIETO, op. cit., 156.
(58) G.LOY, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, cit., 29-36.
lità nel caso di determinate malattie croniche. Eppure, il momento della diagnosi della malattia cronica non sembra essere il momento più ade-guato per determinare se una persona sia disabile o meno, sia dal punto di vista medico sia da quello giuridico.
5. Conclusioni
Ferme restando le differenze riscontrate tra i diversi Paesi, l’analisi a livello comparato del concetto giuridico di disabilità conduce alla con-statazione che non esiste, a livello europeo, una nozione così ampia che sia tale da consentire l’inclusione di tutte quelle malattie croniche che incidono negativamente sulla capacità lavorativa.
La disabilità è stata sì riconosciuta come un concetto in evoluzione (60), ma ancora non tale da ricomprendere tutte le malattie che, in un modo o in un altro, limitino la capacità lavorativa. Per questa ragione, non è possibile affermare che l’attuale concetto di disabilità utilizzato dalla Corte di giustizia offra una tutela antidiscriminatoria a tutti i lavoratori che rientrino nella categoria – molto più ampia – dei malati cronici. Occorre, inoltre, tener presente che il concetto di disabilità al lavoro è più ampio del concetto giuridico di disabilità e può esistere indipenden-temente dal fatto che quest’ultima venga certificata o meno (61). A sua volta, il riconoscimento della disabilità in termini giuridici non implica l’insorgere della disabilità ma si limita ad accertare una situazione che esiste di per sé. Pertanto, possono presentarsi situazioni nelle quali il lavoratore soffra di un’effettiva disabilità al lavoro che però non venga certificata dal punto di vista giuridico. Allo stesso modo, possono veri-ficarsi situazioni in cui una persona sia affetta da una disabilità certifi-cata ma conservi la capacità di svolgere determinati tipi di lavori nelle stesse condizioni delle persone senza disabilità (talvolta anche senza accomodamenti ragionevoli). Questo perché non esistono persone di per sé disabili per il diritto del lavoro: quello che conta non è la capaci-tà soggettiva ma quella oggettiva e quindi non devono valutarsi soltanto
(60) Circostanza che ha portato la Corte di giustizia a rendere meno rigidi i requisiti
per rientrare nella categoria della disabilità.
(61) Il concetto giuridico di disabilità non deve confondersi con la disabilità al lavoro
le caratteristiche psicofisiche ma anche gli elementi correttivi (62) o il tipo di lavoro svolto. Può, infatti, anche verificarsi il caso in cui il lavo-ratore sia totalmente idoneo alla mansione, e ciò in quanto la presenza di una disabilità è irrilevante per determinare l’esistenza, o meno, della capacità lavorativa (63). Nel caso delle malattie croniche, sebbene pos-sano sussistere limitazioni per lo svolgimento della prestazione lavora-tiva, in molti casi, non saranno, però, così gravi da provocare limitazio-ni di carattere permanente in tutti gli ambiti della vita della persona. In queste circostanze, tali malattie e limitazioni non vengono accertate come disabilità.
Da quanto esposto, emerge dunque chiaramente come non sia la assimi-lazione alla disabilità la via migliore per offrire tutele in ambito antidi-scriminatorio ai malati cronici. Converrebbe, piuttosto, optare per altri modelli, come ad esempio la possibilità di considerare la malattia cro-nica in maniera indipendente quale causa di discriminazione autonoma. Se si considera che i lavoratori con malattie croniche non sempre rien-trano nella categoria dei disabili, pare, allora, più opportuno trovare delle soluzioni ad hoc. Per raggiungere questo risultato è necessario
promuovere politiche attive al fine di permettere a queste persone di continuare a svolgere la propria prestazione lavorativa compatibilmente con le proprie capacità. Si supererebbe, in questo modo, anche la ne-cessità di offrire la tutela antidiscriminatoria a questi lavoratori proprio in ragione del fatto che, se le condizioni lavorative consentono di po-tenziare al meglio le proprie capacità (partendo dalla abilità al lavoro e non dalla disabilità), verrebbero a mancare ab origine le condizioni che
sono causa di quei comportamenti discriminatori.
Per offrire una tutela adeguata ai lavoratori con malattie croniche e consentir loro di rimanere attivi nel mercato del lavoro, è necessario procedere a valutazioni di tipo dinamico, che tengano conto non solo delle capacità del lavoratore ma anche dell’ambiente lavorativo, della tipologia contrattuale, del mestiere, e della flessibilità dell’orario di la-voro (64).
Per raggiungere tale obiettivo bisognerà, dunque, sviluppare dei sistemi moderni di valutazione della prestazione lavorativa basati sulla persona,
(62) G. LOY, La disabilità nelle fonti internazionali, in C. LA MACCHIA (a cura di), Di-sabilità e lavoro, Ediesse, 2009, 39.
(63) G.LOY, La capacità fisica nel rapporto di lavoro, cit., 20.
che facciano riferimento al caso specifico. In questi casi, l’ambiente la-vorativo in cui è inserito il malato cronico acquisisce un ruolo fonda-mentale ed occorrerà valutare la possibilità di introdurre adattamenti delle condizioni di lavoro che gli consentano di adempiere, almeno in modo parziale, la prestazione dedotta in contratto.
Le suddette valutazioni dovrebbero essere realizzate in un’ottica pre-ventiva, tale da consentire, per tempo, l’implementazione di misure ri-volte alle persone affette da malattie croniche, affinché queste possano continuare a lavorare, evitando, così, quel calo della produttività che potrebbe giustificare il licenziamento. Nelle cause civilistiche di estin-zione dei contratti, dunque, in consideraestin-zione della particolare tutela di cui le persone affette da malattia cronica devono godere (65), non do-vrebbe essere ammesso lo scioglimento del rapporto di lavoro quando in esso sia coinvolto un lavoratore affetto da malattia cronica.
Sarà necessario, in conclusione, ragionare sulla possibilità di offrire tu-tele alle persone con malattie croniche a prescindere dal fatto che le stesse siano ricomprese in una determinata categoria, e sviluppare mo-delli basati sulla persona e sul caso concreto. Per contro, secondo l’impostazione attuale, è necessario prima accertare la disabilità se-guendo il processo amministrativo prestabilito, per poi accedere alle tu-tele riservate a questa categoria, tra le quali gli accomodamenti ragio-nevoli.
L’evoluzione del concetto giuridico di disabilità: verso un’inclusione delle malat-tie croniche? – Riassunto. Il saggio analizza il concetto giuridico di disabilità per
decidere se le malattie con effetti a lungo termine possano rientrare in questo concet-to. Dopo aver analizzato l’interpretazione fatta dalla Corte di giustizia e anche il concetto di disabilità utilizzato in diversi Paesi dell’Unione europea, non è possibile sostenere che si tratti di un concetto ampio nel quale possano rientrare tutte le tipo-logie di malattie croniche. L’articolo conclude che sarebbe più opportuno introdurre forme di tutele alternative per queste persone, tali come la considerazione della ma-lattia cronica come causa autonoma di discriminazione.
The Evolution of the Legal Concept of Disability to Include Chronic Diseases (Article in Italian) – Summary. This paper analyses the legal notion of “disability”,
(65) R. LAMA, Trent’anni dopo le Sezioni Unite: la Cassazione riesuma l’eccessiva morbilità come giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in RIDL, 2014, n. 4, II,