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LAVORO PERDENDO

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19-06-2020

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CORRIERE DELLA SERA

Scenari Il principio contenuto nell'articolo 1 della nostra

Costituzione sembra essersi appannato nella concreta

realtà del Paese.

È

un

problema che va affrontato

L'IT.AI,IA CHE

STA

PERDENDO

LA

CENTRALITÀ

DEL

LAVORO

di Giovanni Belardelli

Italia è

an-cora una

Re-pubblica «fondata sul lavoro»? Mentre si moltiplica-no i piani,

gli auspici, le promesse, le

commissioni e le riunioni (gli Stati generali, niente

me-no) — in sostanza, le parole

— sulla ripresa economica, è

forse il caso di ripartire da

quel che sosteneva (e

sostie-ne) l'articolo i della nostra

Costituzione. Dal punto di

vi-sta giuridico,

quell'afferma-zione ha sempre avuto un

in-certo significato: bellissima frase, disse subito Piero

Cala-mandrei, ma cosa mai vorrà

dire? Tuttavia, al di là del suo significato costituzionale, che restava alquanto indeter-minato, quel richiamo al la-voro implicava cose

concre-tissime per milioni di italiane

e italiani da poco usciti dalla guerra. Significava la dispo-nibilità a rimboccarsi le ma-niche, dapprima per rico-struire tutto ciò che era stato distrutto e poi per rendere possibile quell'esplosione

collettiva di energie —

dal-l'umile lavoro dell'operaio meridionale trasferitosi al Nord alla creatività di chi progettò e costruì con tempi oggi impensabili un'opera

come l'Autostrada del sole —

che fu all'origine del

miraco-lo economico e del primo

dif-fondersi in Italia della cosid-detta società del benessere.

Ma da allora qualcosa

sem-bra essersi inceppato perché la centralità del lavoro, se è rimasta inalterata nel primo articolo della nostra Carta, si è appannata nella concreta realtà del Paese. Nei giorni scorsi una rilevazione di Eu-rostat ha confermato il dato

— già noto da tempo ma mai

oggetto di una qualche ap-prezzabile discussione

pub-blica — che vede l'Italia

al-l'ultimo posto nella Ue per durata della vita lavorativa:

32 anni contro una media

eu-ropea di quasi 36.

Contempo-raneamente i primi dati sugli effetti economici del lockdown indicano un au-mento non soltanto dei

di-soccupati, largamente

preve-dibile, ma anche del numero

degli inattivi, cioè di quanti

(soprattutto donne) un

lavo-ro hanno perfino rinunciato a cercarlo. La marginalizza-zione del lavoro ha ovvia-mente ragioni economiche e

politiche, che rinviano ai

tan-ti nostri problemi mai

affron-tati benché noti da anni: la

ri-forma della Pubblica ammi-nistrazione, la lotta contro l'evasione fiscale, una seria manutenzione di infrastrut-ture e territori di un Paese

fragile, la piaga di una

giusti-zia lentissima ecc. Ma forse

ha pure — si potrebbe

azzar-dare, soprattutto — ragioni

culturali, riposa cioè su un cambiamento di mentalità

che ci ha reso molto

differen-ti dai nostri connazionali

de-gli anni 50 o 6o.

Sempre più, infatti, siamo andati mettendo al centro delle nostre aspirazioni e dei nostri valori il reddito sepa-rato dal lavoro; forse già a partire dalle lotte sindacali dell'autunno caldo, che pro-clamarono la separazione tra la produttività e i salari, che andavano considerati, si

dis-se, una variabile

indipenden-te. Soprattutto, negli stessi anni ci avrebbero pensato le tante assunzioni a posti pub-blici per fini clientelari ed elettoralistici, nonché le mil-le storture del welfare all'ita-liana, ad alimentare l'idea che si potessero distribuire benefici (anzitutto pensioni-stici) senza farsi vincolare da troppe preoccupazioni ri-guardo alle risorse disponi-bili, quasi avessimo scoperto la via per raggiungere il miti-co Paese di Cuccagna. Da

tempo — quanto meno da

quel giorno del 1992 in cui il

governo Amato si trovò co-stretto a prelevare nottetem-po del denaro dai conti

cor-renti degli italiani — la realtà

si è presa la sua rivincita,

sen-za che sia svanita però quella

diffusa aspirazione a un

red-dito non frutto di lavoro ma di assistenza. Un'aspirazione

che ha trovato poi una

realiz-zazione con i Cinquestelle, dapprima grazie all'appoggio della Lega e poi, cambiato il governo, a quello del Pd che ha evidentemente sottovalu-tato anch'esso l'effetto deva-stante di una misura del ge-nere per quegli italiani che ancora credono nella cultura

del lavoro. Ma che in questa

materia la mentalità del Pae-se sia mutata stanno a dimo-strarlo anche i consensi che

vengono da tempo

accredita-ti alla Lega di Salvini, cioè a

un partito che ha rinunciato a

essere — com'era per la Lega

Nord —il rappresentante di un'etica proiettata fin troppo darwinianamente verso la produzione e il lavoro per as-sumere invece il carattere, con «quota ioo»,

dell'ennesi-ma forza assistenzialista

ita-liana.

L'invecchiamento della po-polazione, e dunque la cen-tralità (anche elettorale) dei pensionati, spiegano almeno in parte questo appannarsi

dell'etica del lavoro. Ma se

non si affronta questo pro-blema, c'è il rischio che an-che tante misure per il

rilan-cio economico, sulla carta

ot-time, restino allo stadio delle

buone intenzioni.

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CORRIERE DELLA SERA

Differenza.

Stiamo mettendo

sempre

più il reddito al centro

delle nostre aspirazioni

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