• Non ci sono risultati.

L'Indice dei libri del mese - A.04 (1987) n.08, ottobre

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "L'Indice dei libri del mese - A.04 (1987) n.08, ottobre"

Copied!
56
0
0

Testo completo

(1)

1

Il Libro del Mese: Memorie di classe, di Zygmunt Bauman

recensito da Marc Ferro e Marco Revelli, con un intervento dell'autore

Mauro Mancia, Romolo Rossi: Freud e Mendelejeff

Gianni Rondolino: Documenti di Roberto Rossellini

(2)

R C S

DIZIONARIO

BIBLIOTECA UNIVERSALE

RIZZOLI

Classici latini e greci

Classici italiani

Classici stranieri Storia

Saggistica Narrativa

Poesia Manuali

-Dizionari

Jean Chevalier - Alain Gheerbrant

DIZIONARIO DEI SIMBOLI DIZIONARIO DEI TERMINI

ECONOMICI

B.M. Quartu

DIZIONARIO DEI SINONIMI E DEI CONTRARI George Byron MAZEPPA Apollonio Rodio LE ARGONAUTICHE Sesto Properzio ELEGIE

Lucio Anneo Seneca

LE CONSOLAZIONI

Plutarco

ALESSANDRO E CESARE

Eschilo

PERSIANI SETTE CONTRO TEBE -SUPPLICI Vittorio Alfieri VITA Cicerone I DOVERI Alessandro Manzoni

STORIA DELLA COLONNA INFAME

Lev Nikolaevic

I RACCONTI DI SEBASTOPOLI

Hernàn Cortés

LA CONQUISTA DEL MESSICO

Erich Kuby

IL TRADIMENTO TEDESCO

Jean Marabini

LA VITA QUOTIDIANA A BERLINO AI TEMPI DI HITLER Jean-Paul Crespelle LA VITA QUOTIDIANA A MONTMARTRE AI TEMPI DI PICASSO Sigmund Freud

L'INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

(3)

! 4

Il Libro del Mese

recensito da Marco Revelli e Marc Ferro, con un intervento dell'autore

6 Maria Luisa Pesante E J. Hobsbawm, T. Ranger L'invenzione della tradizione

Alfredo Salsano Maurice Halbwachs La memoria collettiva

7 Cesare Molinari Pierre Francastel Guardare il teatro

Angela De Lorenzis Paolo Puppa La morte in scena: Rosso di San Secondo

8 Roberto Tessari Dario Fo Manuale minimo dell'attore

Siro Ferrone

9

L'Intervista

Dario Fo risponde ad Anders Stephanson e Daniela Salvioni

Paolo Poli risponde a Claudio Vicentini

La Fabbrica del Libro

12

Premi, premi, di Dario Voltolini

15

Folclore per la letteratura spagnola, di Aldo Ruffinatto

12 Fabrizio Rondolino Sandro Medici Via Po

13 Andrea Ciacchi Jorge Amado Messe di sangue

16 Giulio Schiavoni W. Benjamin, G. Scholem Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940

Cesare Cases E. Rutigliano, G. Schiavoni (a c. di) Caleidoscopio benjaminiano

17 Pietro Montani Roman Jakobson Autoritratto di un linguista

19 Carlo Ferdinando Russo Giorgio Pasquali Scritti filologici I e II

20

Ritratto

Intelligenza di Giorgio Pasquali, di Gennaro Perrotta

2 2 Carmine Ampolo Arnaldo Momigliano Storia e storiografia antica Tra storia e storicismo

Riletture

23

Un collezionista in Egitto, di Sergio Donadoni

24

Antichi documenti, di Paolo Desideri

2 4 Giovanni Filoramo Walter Burkert Mito e rituale in Grecia

2 7 Vincenzo Vita Stefano Rolando Il principe e la parola

2 9 Gianni Rondolino Roberto Rossellini Il mio metodo. Scritti e interviste

Dario Tornasi Tullio Kezich Fellini

3 0 Giovanni Previtali Richard Krautheimer Tre capitali cristiane. Topologia e politica j Roma di Alessandro VII. 1655-1667

Adalgisa Lugli P. Hultén, N. Dumitrescu, A. Istrati Brancusi

3 1 Gian Luigi Vaccarino Franco Modigliani Reddito, interesse, inflazione

3 2 Salvatore Natoli Laura Boella Ernst Bloch. Trame della speranza

Paolo Parrini Ian Hacking Conoscere e sperimentare

3 4 Romolo Rossi Sigmund Freud Sintesi delle Nevrosi di Traslazione

3 5 Mauro Mancia Lettere a Wilhelm Fliess. 1887-1904

36

Libri di Testo

Sara Seccese AA.VV. Una scuola di scrittura

Enzo Da Pozzo Pietro Sismondo La situazione laboratorio

Franco Gabriele Guido Benvenuto insegnare a riassumere

38

Libri per Bambini

Goffredo Fofi AA.VV. La Scala d'Oro

39

Lettere

(4)

N-

8

riNDICF

• I D E I LIBRI D E L M E S E B Ì

Il Libro del Mese

11 proletariato è morto? ma quando, e come?

di Marco Revelli

ZYGMUNT BAUMAN, Memorie di classe. Preistoria e sopravvivenza di un concetto. Einaudi, Torino

1987, ed. orig. 1982, trad. dall'in-glese di Alfredo Salsano, pp. 256, Lit. 26.000.

Ci vuole un certo coraggio ad arri-schiare, in tempi di specialismo esa-sperato e di cultura del frammento, ipotesi sintetiche o teorie generali, tanto più se correlate a risvolti poli-tici fortemente implicati con la con-temporaneità. E Bauman, di corag-gio, deve averne da vendere. Il suo, infatti, è un vero e proprio tentativo di giungere a una teoria generale del-la società industriale, deldel-la sua gene-si, del suo sviluppo e della sua crisi. Tentativo realizzato, per di più, prendendo a mitragliate le tradizio-nali ipotesi storiografiche. Così, la dissoluzione delle società d'Anfien

Regime non deriverebbe affatto,

co-me ha sostenuto a lungo la vulgata marxista, dall'emergere dell'indu-stria e dal diffondersi del modo di produzione capitalistico, ma piutto-sto dall'esplosione demografica del XVIII secolo e dalla mobilità territo-riale di masse sempre più ampie di popolazione che mandarono in crisi le antiche istituzioni di protezione e assistenza a base locale. Così ancora la rivolta operaia che diede origine ai primi embrioni di organizzazione e di coscienza di classe non sarebbe stata opera dei settori più poveri e sfruttati — di coloro, per intenderci, che "non avevano nulla da perdere se non le proprie catene" — ma dei settori privilegiati del lavoro artigia-no, mobilitati proprio dal timore del declassamento e da un senso or-goglioso di "giustizia offesa" per l'e-liminazione delle tradizionali gua-rentigie corporative. Né i fondatori, per così dire, del movimento opera-io potrebbero definirsi a cuor legge-ro come sinceri "plegge-rogressisti", essen-do stati mossi, per lo meno alle ori-gini, più dalla memoria di un passa-to garantipassa-to e cerpassa-to che non dall'a-spirazione ad un futuro segnato dal-la perdita dell'autonomia e del me-stiere; più dall'istinto di conservare che non dalla volontà di innovare.

Certo, a questa lettura a spettro ampio della società moderna — per-ché della "modernità" e della sua cri-tica qui si tratta — Bauman perviene non attraverso una ricerca specifica sul campo ma piuttosto, un po'

post-modernamente, attraverso un

collage di "citazioni"; o meglio

attra-verso una serie di ricostruzioni sto-riografiche e di interpretazioni "par-ziali", montate in successione come birilli, in modo tale che, posta in oscillazione la prima, tutta la fila fi-nisca per seguire. Si comincia con l'E.P. Thompson della crucialità

delle lotte di resistenza nella

Forma-zione della classe operaia in Inghilter-ra (manca però stInghilter-ranamente ogni

ri-ferimento alla storia sociale america-na, da Montgomery a Gutman). Se-gue il Polanyi di The Great

Transfor-mation, con le sue intuizioni

sull'ir-riducibilità del lavoro vivo alla inte-grale dimensione di merce, il

Barrin-gton Moore di Injustice e molta "mi-crofisica del potere" di Foucault, con la sua ossessiva attenzione alla categoria del "disciplinamento". Si passa poi per la teoria di Offe e Rou-ge sul conflitto e sul ruolo dello sta-to come garante della "forma mer-ce" nel capitalismo maturo, per giungere infine alle considerazioni

habermasiane sulla crisi di razionali-tà delle socierazionali-tà industriali contem-poranee e agli scenari postindustriali delineati da Touraine. Di conse-guenza nessun passaggio specifico ri-sulta realmente originale o inedito. Eppure il quadro generale, l'imma-gine globale del percorso della mo-dernità, quale emerge alla fine della lettura, appare comunque affasci-nante e impressioaffasci-nante. Ed è su que-sto, appunto, che conviene soffer-marsi.

Teoria sintetica della genesi, dello sviluppo e della crisi della società in-dustriale, si diceva all'inizio, orga-nizzata in modo tale che ogni seg-mento, ogni quadro interpretativo, risulti fondato e concettualizzato da una teoria particolare. La genesi, ad esempio, ruota intorno a quella che potremmo definire come una "teo-ria del potere", che è anche, in fon-do, la chiave di lettura dell'intero li-bro. La differenza reale tra le società tradizionali e la società moderna non starebbe, secondo Bauman, né nei diversi "modi di produzione" né nei contrapposti sistemi di valori, ma piuttosto e specificamente nella trasformazione qualitativa della struttura del potere e delle forme con cui viene prodotto e garantito l'ordine. In quello che egli definisce come il passaggio dal "potere sovra-no" al "potere disciplinare": da un "ordine basato in primo luogo e so-prattutto sul controllo attraverso lo spazio", proprio di società struttura-te in piccole comunità tra loro sepa-rate da una scarsissima mobilità ter-ritoriale, a un ordine garantito attra-verso il controllo dispotico del tem-po, dei ritmi vitali, dei processi di lavoro, sottratti alle cadenze della natura e divenuti, appunto, campo di esercizio del potere.

Da una forma di potere personale nel soggetto che l'esercitava (il re, il signore feudale) ma in fondo imper-sonale nell'oggetto (il surplus da re-distribuire e non la persona del pro-duttore cui veniva lasciata una natu-rale autonomia), qual era il "potere sovrano", si sarebbe passati dunque a una forma di potere impersonale nell'esercizio (l'astratta logica siste-mica) ma personalissimo nell'ogget-to ("il corpo e l'anima" stessi del sa-lariato, al fine di realizzare una for-ma totale di disciplinamento). Fu ta-le mutamento, secondo Bauman, a

Considerazioni inattuali

di Marc Ferro

"Verso il 1840, la maggior parte della gente

stava meglio di cinquantanni prima, ma ave-va sofferto e continuaave-va a soffrire questo lieve miglioramento come un'esperienza catastrofi-ca". Quest'osservazione dello storico inglese E.P. Thompson costituisce il punto di partenza teorico per Zygmunt Bauman, che se ne serve per analizzare passato e presente delle grandi trasformazioni sociali e anche il modo con cui le società le vivono e le ricordano, senza che questa "memoria" rifletta la "oggettiva" realtà dei fatti. Una duplice domanda, dunque, che un sociologo rivolge e alla realtà dei fenomeni sto-rici e alla loro rappresentazione. Applicata alla

"classe" operaia, la questione assume una di-mensione centrale, perché un buon numero di organizzazioni — sindacati, partiti e così via — parla in suo nome; la classe è un concetto opera-tivo, per analizzare lo sviluppo storico dello scorso secolo e resta tale anche oggi? E ancora — altro corollario: qual è la funzione di questa memoria, in quanto "sopravvivenza del passa-to ", in che senso e come agisce?

Constatiamo, in primo luogo, la pertinenza dei problemi sollevati; essa consente, tra l'altro, di osservare come nel 1760, ma anche alla metà dell'Ottocento e ancora oggi, nell'Europa in corso di industrializzazione, non siano i poveri soprattutto a protestare, ma quelli che sono mi-nacciati di diventarlo. Le ribellioni conserva-trici si oppongono cosi all'utopia rivoluziona-ria. In entrambi i casi interferisce la nostalgia. E ancora un'altra constatazione: nel 1830 come nel 1930 oppure oggi, i lavoratori desiderano controllare il loro lavoro e la loro produzione più di quanto non rivendichino una più giusta

ripartizione del plusvalore. Prima dei sociologi o degli storici, gli artisti — non importa se scrit-tori o cineasti — l'avevano già presentito: quasi

di necessità vien da pensare al René Clair di A

nous la liberté (1931).

Osserva Bauman che i dirigenti, i quali par-lano in nome della "classe operaia " — leaders politici e sindacali, teorici e dottrinari — hanno

trasformato la vera natura del contenzioso che opponeva le "classi". Hanno infatti tentato di sostituire — attraverso le lotte sociali o la rivo-luzione — una società gestita in maniera più giusta e razionale ad una società in cui regnava-no la proprietà e il controllo della produzione. Questa società sarebbe guidata da coloro che si identificano con il lavoro, che non possiedono né terra né capitale ma il sapere e, di conseguen-za, il diritto al controllo. E peraltro strano che l'autore, il quale è legittimamente toccato dal problema del controllo del tempo e dello spazio, non citi neppure una volta Lenin, presso il qua-le il termine "controllo" ritorna come una lan-cinante ossessione. Quello stesso Lenin che rite-neva che "il posto dei buoni operai è in fabbri-ca".

Di fatto, in Bauman, si ritrova tutto un fascio di problemi che sono stati già affrontati da Rizzi, da Burnham e anche da Foucault; la prima analisi tuttavia si deve ad un marxista

contestatario, Makhaiski. come un franco tira-tore egli aveva dimostrato già a partire dal 1900, dunque prima di Korsch, che "il sociali-smo degli intellettuali" costituiva un progetto il quale legittimava il potere dei quadri militanti e di altri professionisti della vita politica (del resto nati per lo più da una ben educata borghe-sia), proprio perché si giudicava e pretendeva d'essere un progetto "scientifico".

Ma la loro autorità non è forse oggi rimessa in questione — s'interroga con ragione Bauman

Intervento

L'ineguaglianza cresce

di Zygmunt Bauman

L'edizione inglese di Memorie di

classe è del 1982. Abbiamo chiesto

a Zygmunt Bauman di aggiorna-re l'analisi a oggi individuando le tendenze più significative dell'ulti-mo quinquennio.

Da quando Memorie di Classe è sta-to scritsta-to, il grado d'ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza (sia all'interno della società occiden-tale, sia su una scala globale) è note-volmente cresciuto. Le politiche monetariste neo-conservatrici, nelle loro forme più o meno esplicite, hanno causato un drastico incre-mento della percentuale della

popo-lazione attualmente dipendente da trasferimenti secondari (welfare).

La sezione tradizionale della classe operaia, ben difesa e sindacalizzata, si è ancora più ristretta; quella che cresce velocemente, è una nuova ca-tegoria di forza-lavoro a tempo par-ziale, precaria, non sindacalizzata e facilmente disponibile, la quale man-ca, a differenza del "nocciolo duro" sindacalizzato e relativamente privi-legiato, di mezzi istituzionalizzati di difesa. La medesima tendenza gene-rale è evidente nelle relazioni inter-statali. Generalmente parlando cre-sce il gap tra nazioni povere e nazio-ni ricche, mentre si assottigliano le prospettive di colmarlo —

partico-larmente se si tiene conto dei cre-scenti debiti del Terzo Mondo. Con i prezzi dei prodotti base e delle ma-terie prime ancora depressi e con co-sti crescenti della tecnologia moder-na, i capitali attualmente comincia-no a muoversi in una direzione op-posta a quella associata con lo svilup-po del capitalismo: le nazioni ricche importano capitale da quelle povere, rendendo così ancora meno probabi-le di prima il livellamento verso l'al-to della ricchezza e dei redditi.

Il decennio in corso non sembra promettere un cambiamento quali-tativo nella distribuzione della ric-chezza a livello nazionale e interna-zionale; esso sta solo rendendo le vecchie tendenze più marcate e i lo-ro effetti meno suscettibili di rettifi-ca. Ci sono nuovi sviluppi, ma altro-ve: nella tecnica di riprodurre l'ine-guaglianza, di disattivare e di privare di potere il dissenso, nell'impedire che i conflitti di interesse divampino in lotte aperte, nell'anticipare e nello sviare la possibile cristallizzazione delle deprivazioni disperse e diffuse

in forze sociali capaci di una azione militante e cosciente. Tra i fattori responsabili della sorprendente coincidenza della crescita dell'ine-guaglianza con la diminuzione in ampiezza ed efficacia pratica della re-sistenza, due sembrano aver assunto essendo particolare importanza: la dialettica della seduzione e dell'op-pressione, e il processo di "banaliz-zazione". Possiamo vedere all'opera entrambi i fattori sia all'interno del-le singodel-le società che su scala plane-taria.

Incominciamo con la dialettica della seduzione e della oppressione: sono due tecniche di controllo socia-le e di integrazione e la loro comune efficacia dipende dal fatto che si pre-sentano assieme, come un'insepara-bile coppia di opzioni. Ognuna di esse rappresenta la sola alternativa all'altra. La seduzione è operata dal mercato dei consumi, il quale rifor-mula i bisogni e i propositi umani in un modo tale che la loro soddisfazio-ne debba sempre includere l'appro-priazione di un prodotto offerto dal

mercato, e rimodella le capacità umane, tecniche e sociali, in una for-ma tale che un loro impiego, per es-sere fruttuoso, necessita a sua volta di strumenti forniti dal mercato. La "seduzione" riarticola i problemi pe-renni dell'identità personale, dell'au-to-asserzione e dell'approvazione so-ciale del sé così che tutti questi com-piti possano essere soddisfatti, ora, con l'aiuto di simboli di distinzione forniti dal mercato, "differenze che fanno la differenza" (Gregory Bate-son).

Tutte queste qualità del mercato consumistico rendono più profonda la dipendenza dei consumatori "se-dotti" senza danneggiare visibilmen-te la loro libertà in quanto consuma-tori, la loro apparente autonomia nel determinare i propri bisogni e i propri obiettivi. Tuttavia, la libertà di tipo consumistico può essere eser-citata solo da coloro che hanno le risorse per partecipare al gioco del mercato. Coloro che non hanno tali

(5)

- r i N D I C F p

8

5

• • D E I L I B R I D E L M E S E ^ H I

precedere e preparare il terreno al "sistema di fabbrica", e non vicever-sa. E fu contro questa nuova struttu-ra (specificamente moderna) del po-tere che si scatenarono i primi con-flitti operai nel tentativo di difende-re e ripristinadifende-re l'antica difende-rete di difende- rela-zioni sociali fondate sulla fedeltà, sulla sicurezza e soprattutto sull'au-tonomia, assurta, per questa via, a valore "tradizionale". Essi rappre-sentarono, in sostanza, la radicale opposizione alla trasformazione del lavoro in merce da parte di lavorato-ri indipendenti che (nuova versione

àeW'Angelus novus benjaminiano)

trovarono nella memoria di un pas-sato per molti versi idealizzato il fondamento della propria inedita identità collettiva e la ragione delle proprie lotte per la trasformazione della società.

Si potrebbe discutere a lungo su queste considerazioni di violento pessimismo circa i caratteri della modernità. In particolare sulla riaf-fiorante apologia dell'antico "potere sovrano" (tutta quell'autonomia, quella tolleranza per le "differenze", quella solidarietà non mi convinco-no affatto). Ciò convinco-non toglie che le conseguenze di un tale approccio, sul piano interpretativo e politico, non siano, come è evidente, di poco conto. Se così fosse, infatti, allora il movimento operaio si configurereb-be come entità costituitasi intera-mente fuori e contro il mercato (e per molti versi fuori e contro la mo-dernità), in antitesi radicale alla logi-ca dello slogi-cambio e al modello derno dell'"uomo acquisitivo", mo-tivato dal perseguimento razionale del massimo vantaggio economico. E di questo, come dire? vizio d'origi-ne sarebbe difficile cancellare del tut-to le tracce al fine di realizzare una normale convivenza negoziale all'in-terno del sistema economico domi-nante.

A questo problema è dedicato, specificamente, il discorso sullo svi-luppo della società industriale, espo-sto con particolare chiarezza nel quarto capitolo e organizzato intor-no a una sintetica "teoria del conflit-to". La battaglia contro il potere di-sciplinare, la "vera" lotta di classe, secondo Bauman, perché combattu-ta contro il pilastro fondamencombattu-tale del nuovo assetto sociale, fu perduta. Sia pure a duro prezzo, si riuscì a spostare sul terreno della "distribu-zione del surplus", anziché su quello della sua produzione, l'oggetto del contendere. Affermatosi il "potere disciplinare" nella sfera della produ-zione in modo così assoluto che ge-rarchie di fabbrica e processi di lavo-ro apparisselavo-ro dotati della stessa ne-cessita dei fenomeni naturali, si potè aprire alla competizione la sfera

del-la distribuzione e del consumo, che rimanevano invece soggetti a criteri discrezionali e infondati.

Contemporaneamente, attraverso decenni di pressione culturale, fu ra-dicato anche nella classe operaia il modello àtW'homo oeconomicus, di-sposto a perseguire la "massimizza-zione dei guadagni e dei possessi" co-me "sostituto dell'autonomia perso-nale e la sola espressione simbolica del gruppo". E quanto Bauman defi-nisce come "l'economicizzazione del conflitto di classe"; la forma "ma-tura" assunta dall'antagonismo so-ciale, così come oggi lo conosciamo, con la centralità dell'organizzazione sindacale e della negoziazione. Esso non ha più come oggetto "il

control-lo del processo di produzione e del corpo e dell'anima dei produttori" (forma di "oblio delle origini") quan-to piutquan-tosquan-to una diversa e più favore-vole redistribuzione della ricchezza prodotta. Ma non per questo — e qui sta la parte più accattivante del di-scorso di Bauman — la contraddizio-ne può dirsi rimossa e la razionalità produttiva definitivamente instaura-ta. Anzi.

L'ultima parte del volume è infat-ti interamente dedicata a un'ampia "teoria della crisi" delle società indu-striali, afflitte da una sorta di ineli-minabile "eterogenesi dei fini" e da un endemico deficit di razionalità, dovuto, in ultima istanza, all'impos-sibilità di realizzare interamente la

"mercificazione del lavoro". Perché, sostiene Bauman, L'economicizza-zione del conflitto" si fonda pur sempre su un espediente: sulla fin-zione che il lavoro sia una merce co-me le altre, co-mentre esso, al contrario di ogni altra merce, posside la parti-colarità di non essere separabile dalla persona fisica del lavoratore. Cosic-ché l'antica istanza di autonomia personale minaccia endemicamente di riemergere e richiede, per essere controllata, la mobilitazione perma-nente di risorse e di apparati sociali sempre più giganteschi e incontrolla-bili: da una parte un'ossessiva coa-zione alla crescita economica, senza la quale non sarebbe più possibile il risarcimento, sul piano del

consu-mo, della perduta autonomia perso-nale; dall'altra un massiccio inter-vento dello stato nell'economia in funzione di stabilizzazione del ciclo, che comporta un'inestricabile com-mistione tra "sotto-sistema econo-mico" e "sotto-sistema politico".

Il risultato è, secondo Bauman, "una pericolosa accumulazione di ir-razionalità". Intanto perché un siste-ma costretto al persiste-manente incre-mento della 'torta' per poterla di volta in volta suddividere in porzio-ni maggiori, vive sull'orlo dell'abis-so. Poi, perché "una volta che il con-flitto di potere è stato trasferito nel-l'area del consumo, è difficile defini-re gli "intedefini-ressi razionali" delle parti in causa, e di fatto le parti stesse": gli orientamenti di una massa di consu-matori, di individui atomizzati iden-tificati ormai solo dal consumo, so-no assai più contraddittori e impre-vedibili di quelli di un aggregato di produttori. Infine perché quella sor-ta di Leviasor-tano addomesticato che è il contemporaneo "stato corporati-vo" — fondato non più sulla forza ma sulla concertazione tra le grandi organizzazioni economiche e sinda-cali e sulla simulazione di un conflit-to di interessi in realtà da tempo dis-solto nella comunità dei fini — è as-sai meno razionale del suo antenato hobbesiano. Finisce per scontentare quegli stessi soggetti alle cui doman-de dominanti intendoman-deva corrispon-dere, generando "una reazione a ogni azione" (le rivolte fiscali di cit-tadini che contemporaneamente pretendono servizi crescenti inse-gnano). Soprattutto accumula ai margini dell'area garantita dall'ac-cordo tra i "gruppi che contano" la rabbia crescente degli emarginati.

Si giunge così all'atto finale. E pro-prio a questo punto esce improvvisa-mente di scena il protagonista che l'autore aveva accompagnato dalla gestazione alla maturità: la classe operaia dei paesi industrializzati, il "Proletariato" della tradizione. E la ribalta si popola di colpo di figure inedite — le "nuove vittime": "i neri, le donne, i giovani, gli anziani", o i popoli poveri del mondo, per i quali una "economicizzazione del conflit-to" su scala planetaria sarebbe trop-po dispendiosa. Sarebbero loro i nuovi soggetti antagonistici che solo moria", contrapposta alla "memoria buona" delle origini, produttrice di senso e di identità), impedirebbe di cogliere, mentre sull'orizzonte si profilano nuovi scenari di crisi: crisi di legittimazione per effetto della ri-volta delle periferie interne contro la simulazione corporativa; "guerra di redistribuzione" come espressione della rivolta delle periferie esterne contro l'egoismo dei paesi sviluppa-ti. Un espediente narrativo, questo,

8>

— nella stessa identica maniera con cui, due secoli prima, era stato contestato il potere sovra-no dei monarchi? Il rinsovra-novamento "liberale", o cosiddetto liberale, di oggi non esprime forse questo passaggio? Tanto più che è lo stato, con i suoi dirigenti politici e con i suoi funzionari e tecnocrati, ad incarnare un'autorità sempre più contestata? Bauman, come si può notare, apre ampie prospettive e le fonda su ben documenta-te analisi storiche. Ad esempio egli dimostra assai bene come si sia passati, dal Sette all'Otto-cento, da una società che gestisce i surplus econo-mici alla gestione, da parte dello stato, delle attività della popolazione, come i conflitti "di classe" siano stati sempre più analizzati in ter-mini di sfruttamento economico (l'aveva magi-stralmente percepito Makhaiski) e come, da mezzo secolo ormai, l'economicismo abbia con-quistato i campi della politica dove ormai tutto è valutato a partire dalla nozione di redditivi-tà.

Ripoliticizzare la vita politica significhereb-be dunque — secondo Bauman che su questo punto è d'accordo con Touraine — tenere conto dell'autonomia del sociale, fare in modo che esso non sia più definito dai professionisti dell'ordi-ne politico, e soltanto da essi. Ci si potrebbe ora domandare se quest'ordine politico non abbia a sua volta marcato la memoria e la coscienza sociale dei gruppi. Indagando la preistoria e la sopravvivenza di un concetto — la classe, la lotta delle classi, ecc. — l'analisi di Bauman non tende anch'essa, a sua volta, a sottostimare la forza conservatrice di questa "falsa memoria", che è controllata per il proprio profitto dalle istituzioni (commemorazioni, storia ufficiale, ecc.)? A confonderla con la memoria sociale, privata, se così si può dire, (cioè non

istituziona-lizzata), senza scorgere che esse interferiscono e che ognuna di esse costituisce una costruzione autonoma che corrisponde a dei bisogni propri? La memoria ufficiale ha conosciuto tante

mani-polazioni che non occorre insistere sulla sua funzione essenzialmente operativa e al servizio di una ideologia oppure di un'istituzione. Ma anche la seconda memoria è illusoria: per esem-pio, alcuni gruppi sociali "dimenticano"le lotte condotte nel passato perché esse non hanno avu-to un esiavu-to positivo. La memoria cancella que-sto passato, assume una funzione di esorcismo.

Sorprende soprattutto in questo libro il siste-ma dei riferimenti. Da Schumpeter a Bottomo-re, passando per Myrdal o per Weber, essi sono datati anche se assumono un tono alla moda con Habermas. In breve, a questo catalogo di riferimenti manca solo la Scuola di Budapest. Voglio dire che, malgrado questa pennellata, l'analisi resta terribilmente inattuale, quanto meno per il presente. Bauman avrebbe potuto aprire le finestre della sua biblioteca, doman-darsi quale effetto, sulla coscienza politica dei cittadini e sulla loro memoria storica, possa esercitare la visione quotidiana della televisione e del cinema. Si ha l'impressione che questo libro avrebbe potuto essere scritto trent'anni fa, prima dell'era dei mass media, prima che la sfida delle etnie, e anche dell'Islam, avessero messo in causa vecchie certezze sul significato della storia, delle classi e delle nazioni. L'euro-centrismo resta il quadro mentale di tutte que-ste riflessioni, e così la visione economicista del mondo. Paradossalmente, mentre le trasforma-zioni demografiche sono utilizzate in modo mi-rabile per analizzare gli inizi della rivoluzione industriale, non ci si occupa affatto del rinasce-re dello stesso fenomeno oggi in America latina, in Africa, ecc. A questo bel libro manca un capitolo conclusivo sul nostro tempo.

(trad. dal francese di Delia Frigessi)

<g

risorse sono "consumatori dimezza-ti", il che nel linguaggio della società dei consumi vuol dire persone a cui non può essere riconosciuta una pro-pria capacità di scelta, a cui non si può attribuire una capacità di com-portamento razionale (di nuovo nel senso consumistico del termine).

I bisogni di queste persone debbo-no essere definiti dall'esterdebbo-no e oc-corre fare attenzione affinché ogni risorsa, che per esse si renda disponi-bile, venga orientata verso questi bi-sogni così come sono stati definiti, per evitare che le risorse vengano usate male. Sono persone che devo-no essere tenute sotto stretto con-trollo da esperti la cui amministra-zione si sostituisce alla razionalità assente nella loro condotta persona-le; controllo che ricorda il famoso tipo "panottico", definito per la pri-ma volta come modello da Jeremy Bentham e analizzato profondamen-te da Foucault. Questo controllo consiste in una sorveglianza

conti-nua, nel monitoraggio della vita quotidiana, nell'eteronomia degli scopi, e soprattutto nel limitare l'a-rea del comportamento autonomo alle scelte più elementari, legate alla mera sopravvivenza. Sia l'ammini-strazione del welfare che quella degli aiuti internazionali vengono gestite in conformità a questo principio di controllo.

Nella loro interazione i due meto-di — meto-di seduzione e meto-di oppressione — si sono dimostrati finora vera-mente efficaci. Qualunque resisten-za possa destare il metodo "sedutti-vo", essa è facilmente neutralizzata fintanto che l'oppressione panottica rimane l'unica alternativa disponibi-le.

L'oppressione, d'altra parte, conti-nua ad auto-perpetuarsi in parte gra-zie alle proprie tecniche panottiche, in parte grazie all'effetto disgregante ed atomizzante dell'opzione sedutti-va tenuta costantemente in serbo come "offerta" alternativa: un'of-ferta che può essere raccolta solo da-gli individui singoli, mai dal

grup-po, o dalla categoria, intesi come un tutto.

La brutalizzazione dei poveri e dei deprivati consiste nell'impiegare i più sofisticati prodotti delle tecnolo-gie avanzate per arrestare, o far re-gredire, il "processo di civilizzazio-ne" tra i dominati. Se coronata da successo, la brutalizzazione impedi-sce efficacemente la mobilitazione degli oppressi contro la loro oppres-sione. Il potenziale per il cambia-mento sociale viene bruciato in guerre insensate, in rivolte maldiret-te, nel vandalismo, nella piccola cri-minalità e in un terrorismo senza scopo — ottenendo così come unico effetto di screditare il cambiamento e di raggruppare sia gli haves che gli

have-nots intorno al medesimo

sten-dardo reazionario della legge e ordi-ne. Alle nazioni povere vengono of-ferte, a condizioni favorevoli, armi moderne con cui tagliarsi reciproca-mente la gola. I benestanti e chi vive nella sicurezza osservano i poveri e gli oppressi che si uccidono e si mu-tilano tra di loro con una ben

dissi-mulata e tuttavia genuina soddisfa-zione; la scena conferma il loro sen-so di superiorità, oltre a rendere quella superiorità stessa, sicura. Essi traggono la medesima soddisfazione alla vista dei poveri che si avvelena-no con le droghe e con l'alcool o che si scottano le dita mentre — stupida-mente — provano il gioco del mer-cato: un gioco che non è stato fatto per loro.

Jeremy Seabrook ha dipinto un quadro sconvolgente dell'impatto brutalizzante del consumismo "af-fluente" sul povero: "Penso a Mi-chelle. A quindici anni i suoi capelli un giorno erano rossi, quello dopo biondi, poi neri lucenti, poi pettina-ti a treccine spettina-tile Afro, poi a raggera, poi intrecciati, e poi tagliati a zero tanto da far risaltare la lucentezza del cranio. Portava un anellino al naso e le orecchie erano forate; sugli abiti scintillanti applicazioni di spec-chi, ceramica o argento. Le labbra erano scarlatte, poi porpora, e poi nere. La sua faccia era di un bianco spettrale, dopo color di pesca, e poi

bronzea come se fosse stata fusa nel metallo. Perseguitata da sogni di fu-ga, se ne andò da casa a sedici anni per stare con il suo ragazzo, che ne aveva ventisei. Disse che se l'avesse-ro riportata a casa si sarebbe uccisa. "Ma ti ho sempre lasciato fare quello che vuoi" — protestò sua madre. "Questo è quello che voglio". A di-ciott'anni ritornò da sua madre, con due bambini, dopo che il suo uomo l'aveva picchiata malamente. Si se-dette nella stanza da letto da cui era scappata due anni prima; dai muri la fissavano ancora le foto sbiadite del-le pop star di ieri. Disse che si senti-va vecchia di cent'anni. Si sentì stan-ca. Aveva provato tutto quello che la vita poteva offrire. Non era rima-sto nient'altro".

L'ineguaglianza che brutalizza le sue vittime non conduce al cambia-mento sociale. Essa alimenta da una parte l'impotenza e la disperazione, dall'altra la presunzione dell'auto-giustificazione.

(6)

Il Libro del Mese

A R M A N D O EDITORE

•221533

Desiderio d'incanto

di Maria Luisa Pesante

che permette a Bauman di saldare in un unico discorso la tradizione più autentica del conflitto operaio con i nuovi movimenti e le tematiche più attuali (dall'ecologismo al nuovo ter-zomondismo). Ma che lascia, in fon-do, a chi l'ha seguito fino ad ora, un po' l'amaro in bocca. O comunque qualche curiosità insoddisfatta. Di quella vicenda avvincente circa i de-stini della "forma merce", sempre in procinto di essere negata dal lavoro vivo e di erodere così alle radici il pilastro del "potere disciplinare", che ci aveva tenuti in sospeso fino al quinto capitolo, che ne è? Questa classe operaia (certo sfidata dall'at-tuale ristrutturazione, e privata della parola se non dello stesso linguaggio dalle logiche consensuali del neocor-porativismo), che scompare come un fiume carsico per lasciar ricompa-rire, qualche pagina a valle, il riga-gnolo dell'emarginazione; questo personaggio-chiave della Grande Narrazione di Bauman, manca in qualche modo, di un degno finale. Se è morto, come è morto? E se non è morto, quale ne è il destino? In fon-do, perché la memoria, così potente, e radicale, quando si trattò del pas-saggio, alla modernità, non potrebbe giocare un ruolo conflittuale anche in questo crepuscolo del mondo mo-derno, e generare nuove identità col-lettive anche al centro dell'impero? O, nell'universo post-moderno, la memoria — per usare il linguaggio-macchina — non può che essere "pe-riferica"?

L'invenzione della tradizione, a

cura di Eric J. Hobsbawm e Te-rence Ranger, Einaudi, Torino 1987, ed. orig. 1983, trad. dall'in-glese di Enrico Basaglia, pp. 295, Lit. 30.000.

Il volume, pubblicato in Inghilter-ra nel 1983, è composto di sette sag-gi, frutto di un convegno organizza-to da "Past and Present". Ai due sag-gi di Hobsbawm (quello

introdutti-gno manipolatorio e la valenza poli-tica di questi processi restano secon-dari per lo storico, trattati con ironi-ca leggerezza da Trevor-Roper e da Morgan con distaccata simpatia per il bisogno della ragione povera ed emarginata di inventarsi miti, dai druidi al nuovo Galles radicale e non conformista: più o meno simpatici impostori, falsi eruditi, avventurieri — se non onesti — innocui.

Ma nel caso indiani analizzato da Cohn e nell'Africa di Ranger si

trat-facile. Sono noti i disastri prodotti nell'agricoltura indiana dell'Otto-cento dalla ristrutturazione dei rap-porti agrari condotta dagli inglesi nel presupposto che gli indiani si trovassero in quella fase della loro storia in cui si trattava di creare la

gentry. In questo volume Ranger

in-siste sul fatto che le consuetudini lo-cali che vengono inventate per le so-cietà africane sono modelli rigidi che ordinano in maniera univoca le identità multiple e le situazioni flui-de, caratterizzate da processi di di-spersione e assimilazione che erano state tipiche del periodo pre-colonia-le: le tribù africane, il consenso col-lettivo, il predominio degli anziani sono una costruzione

tardo-ottocen-Quel che resta del passato

di Alfredo Salsano

MAURICE HALBWACHS, La memoria

colletti-va, Unicopli, Milano 1987, ed. orig. 1968,

trad. dal francese a cura di Paolo Jedlowski, postfazione di Luisa Passerini, pp. 195, Lit.

20.000.

"La memoria collettiva è il ricordo, o l'insie-me dei ricordi, coscienti o no, di una esperienza vissuta e/o mitificata da una collettività viven-te della cui identità fa parviven-te inviven-tegranviven-te il senso del passato" (P. Nora). La definizione, adottata dalla cosiddetta nouvelle histoire, discende di-rettamente dall'opera di Maurice Halbwachs (1877-1945), che del resto fu vicino a L. Febvre e M. Bloch all'epoca della fondazione delle "An-nales". Il libro ora tradotto in italiano fu pub-blicato postumo nel 1950, ed è il punto di arri-vo di una riflessione che si potrà trovare analiz-zata e discussa nel recentissimo Mémoire et

société di G. Namer (Klincksieck, Paris 1987).

Questa riflessione muove dalla problematica delle rappresentazioni collettive di Durkheim ed è nello stesso tempo, come sottolinea P. Jed-lowski nell'introduzione, uno sforzo per fare i conti con Bergson, che di Halbwachs fu professo-re al liceo Henri IVsolo pochi anni prima della pubblicazione di Matière et mémoire (1896). In effetti, Halbwachs capovolge completamente la concezione di Bergson per cui le immagini degli avvenimenti trascorsi sono raccolte inte-gralmente nella parte inconscia del nostro spiri-to: alla memoria come funzione psicologica del singolo individuo, egli contrappone la memoria collettiva — la memoria del gruppo — come "il quadro che consente il funzionamento della me-moria del singolo".

Si capisce l'interesse di queste posizioni per gli storici sociali, e in particolare per gli studiosi di storia orale, peraltro tentati, come L.

Passeri-ni nella postfazione, di sviluppare la concezione di Halbwachs riprendendo spunti del pensiero di Jung giustamente giudicati più vitali dell'i-postatizzazione dell'inconscio collettivo, quale

il concetto di individuazione ("le riorganizza-zioni della memoria collettiva di cui parlava Halbwachs sono in ultima analisi frutto del lavoro di individuazione"). Ma forse ancora più interessanti sono proprio i limiti del pensiero di Halbwachs che spingerebbero piuttosto in altra direzione, soprattutto perché non si può certo dare per risolto il problema dei rapporti tra "memoria collettiva e memoria storica" (cap. II). Per Halbwachs, la memoria collettiva è quel che resta del passato vissuto dei gruppi, e cessa con essi; la memoria storica comincia nel mo-mento in cui la memoria sociale si estingue. Pertanto, mentre ci sono più memorie colletti-ve, la storia è una. E chiaro che egli si riferiva a una storia narrativa poi superata dalla storia-problema; ma la questione resta mal posta. Vi-sta come memoria degli storici, e dei loro letto-ri, anche la vecchia storia narrativa è moltepli-ce; d'altra parte, com'è noto, la nouvelle histoire ha recuperato la narrazione... Proprio la lettura del libro di un sociologo come Z. Bauman, non accaso autore anche ai Hermeneutics and

So-cial Science (Hutchinson, London 1978),

forni-sce in proposito un ottimo terreno di discussio-ne: trattandosi di "memorie di classe", il livello pertinente non è certo quello del rapporto tra memoria individuale e memoria collettiva, ma quello dell'analisi dei linguaggi che di volta in volta esprimono dei rapporti tra gruppi. E l'uso dello stesso termine concettualizzato nei discorsi sindacali, politici, sociologici ecc. pone problemi di interpretazione che non hanno più niente a che fare né con la memoria collettiva né con la storia narrativa.

vo su "come si inventa una tradizio-ne" e quello conclusivo su tradizioni e genesi dell'identità di massa in Eu-ropa) si affiancano due saggi sulle tradizioni inventate della frangia cel-tica dell'Inghilterra, Galles e Scozia; due saggi sull'uso politico della tradi-zione i aue contesti di dominio colo-niale, India e Africa; e un'analisi del-l'invenzione dei rituali monarchici e imperiali inglesi a partire dagli anni '80 dell'Ottocento. Questa classifica-zione dei saggi per contenuto non dà però ragione né della diversità dei problemi affrontati dagli autori, né del diverso senso in cui essi di fatto o esplicitamente intendono l'inven-zione di tradizioni come problema storico. Trevor-Roper e Morgan compiono in sostanza un disvela-mento — o una ricostruzione, se si preferisce — dell'imbroglio e dell'au-to-inganno attraverso cui, dall'in-venzione del gonnellino scozzese al-la riscoperta dei celti, vengono co-struite tra fine Settecento e Ottocen-to identità culturali regionali ai mar-gini del centro dell'impero. Il

dise-ta invece di un preciso e mirato uso di tradizioni inventate per governare le società locali. Ciò che i dominato-ri si inventano è in pdominato-rimo luogo il passato-presente delle società domi-nate. Si potrebbe dire che questa è una conseguenza quasi inevitabile della scelta di costruire il governo dell'impero principalmente come

indirect mie. Gli inglesi — perché

soprattutto di loro si tratta, ma per il caso africano anche i tedeschi — de-vono identificare un linguaggio poli-tico e una convenzione sociologica attraverso cui comunicare con i pro-pri sudditi stranieri. La via che si presentò come più ovvia fu quella di attribuire alle società indiane e afri-cane un passato — su cui si vedeva irrigidito il presente — in qualche modo analogo al passato delle socie-tà europee, esprimibile nelle catego-rie che proprio allora si stavano co-struendo per interpretare questo passato. Questo rendeva la comuni-cazione amministrabile, e la strada del mutamento-progresso pre-trac-ciata e identificabile, anche se non

tesca, che si completa e raggiunge il suo culmine negli anni '20 e '30 del Novecento. "La reificazione colo-niale della consuetudine locale pro-dusse una situazione assai diversa da quella pre-coloniale. Al libero flusso pre-coloniale degli uomini e delle idee si sostituì una società locale, mi-crocosmica, condizionata dalla con-suetudine" (p. 244). Chiunque abbia ascoltato autorevoli intellettuali del-lo Zimbabwe dichiarare agli intervi-statori della televisione inglese che l'idea di Mugabe di istituire il partito unico è ottima perché corrisponde alle vecchie tradizioni africane capi-rà il senso dell'invito di Ranger agli storici, e a quelli africani in partico-lare, ad "affrancarsi dall'illusione che la consuetudine africana registrata dagli amministratori e da molti an-tropologi possa fornire la benché minima indicazione sul passato del-l'Africa" (p. 251).

Per l'India Cohn ha scelto di con-centrare l'attenzione sull'Assemblea imperiale del 1877, un caso emble-matico di rappresentazione rituale

dell'autorità. Il rito, che nel saggio di Ranger è una parte del complesso sistema di interazione reale tra do-minati e dominatori, diventa qui il tema emblematico dell'invenzione della tradizione, e tale è anche nei saggi di Hobsbawm di Cannadine. Che cosa ci spiega l'analisi del rito? Nel saggio di Cohn assai poco: il rito è analizzato come espressione delle intenzioni politiche degli ammini-stratori inglesi — e in particolare del viceré Lord Lytton — e della socio-logia dell'India che essi avevano in mente. Ma la dinamica del rito è mu-ta; la sua interpretazione deriva inte-ramente dalla consueta documenta-zione scritta — dispacci ufficiali e corrispondenze. Né viene detto nul-la sulnul-la reazione dei diversi gruppi indiani coinvolti nella cerimonia. Cannadine è molto chiaro sul come sono stati costruiti i rituali della mo-narchia inglese, assai reticente sul perché. Con un po' di esagerazione si potrebbe dire che dimostra in ma-niera assai convincente che "il mille-nario cerimoniale" della monarchia inglese è un'invenzione dei media di oggi, non che Elgar cercasse di far credere che Land of Hope and Glory fosse un'antica melodia sassone; né quali interessi e bisogni fossero die-tro la nuova cerimonialità.

(7)

Tra spettacolo e arte

di Cesare Molinari

PIERRE FRANCASTEL, Guardare il

teatro, Il Mulino, Bologna 1987,

a cura di Fabrizio Cruciani, trad. dal francese di Brunella Torre-sin, pp. 240, Lit. 20.000.

I saggi raccolti in questo volume sotto un titolo fuorviarne e incon-gruo sono stati scritti da Pierre Fran-castel tra il 1952 e il 1967, in un pe-riodo quindi successivo alla sua ope-ra forse di maggiore impegno

Peintu-re et Société, che risale al 1951 (trad.

it. Lo spazio figurativo dal

Rinasci-mento al cubismo, Einaudi 1967).

Del primo capitolo di Peinture et

So-ciété, quello intitolato La nascita di uno spazio, alcuni saggi di Guardare il teatro possono essere per qualche

verso considerati continuazione e complemento. Il primo e l'ultimo hanno carattere più squisitamente metodologico e teorico, l'uno ver-tendo sul ruolo e sul significato delle arti visive nel quadro generale di un'epoca e di una civiltà, mentre l'al-tro esamina il rapporto spaziale e co-municativo tra il pubblico e la scena. I rimanenti lavori hanno invece ca-rattere storico, anche se considera-zioni di ordine generale, teorico e filosofico si intrecciano fittamente con l'esposizione e l'interpretazione dei fatti e dei fenomeni: il tema quasi esclusivo (con un'unica, ma poco ri-levante eccezione) ne è l'arte italiana del Quattrocento vista nei suoi rap-porti con la cultura, la società e, be-ninteso, lo spettacolo. Ci sono inol-tre 16 schede (tratte proprio da

Pein-ture et Société), commento ad

altret-tante riproduzioni di opere partico-larmente significative, le quali però, in quanto materiale illustrativo, sa-rebbe proprio meglio che non ci fos-sero, tanto sono assurdamente inde-cifrabili.

Sarà bene comunque incominciare proprio dall'ultimo saggio, perché è l'unico che ha per soggetto primario il teatro e perché il suo titolo (Il

tea-tro è un'arte visiva?) richiama

abba-stanza esplicitamente, ma senza ci-tarli, analoghi titoli di C.L. Rag-ghiami, risalenti peraltro agli anni tra il 1933 e il 1950. Francastel vi afferma appunto che il teatro è un'arte "fondamentalmente" visiva, in quanto non si dà senza la visualiz-zazione (ma la visualizvisualiz-zazione di qualcosa: il testo), ma soprattutto ri-prende e sviluppa una distinzione che era già apparsa occasionalmente più di una volta nel corso del libro, la distinzione fra teatro e spettacolo: il teatro è senza dubbio spettacolo, ma non lo esaurisce, e il rapporto qualitativo e quantitativo fra teatro e spettacolo va determinato e valutato storicamente. Si può dire anzi che il teatro, quale lo ha conosciuto l'età contemporanea, erigendolo quasi a ipostasi assoluta dell'idea stessa di teatro, composto di scena cubica e di sala all'italiana, è una creazione ab-bastanza recente: risale, per quanto riguarda la scena, ai primi anni del Cinquecento, ed è stato istituziona-lizzato, nella sua complessa integri-tà, nei due secoli successivi.

Non sembra, quest'ultima, un'i-dea del tutto nuova, neppure per gli anni in cui scriveva Francastel. An-zi, era materia corrente della storio-grafia evoluzionista di origine positi-va, l'ammissione che nei secoli bui dell'alto Medioevo il teatro fosse scomparso dal quadro della civiltà occidentale, per riapparire poco pri-ma del Mille nel convento di San Gallo con i tropi del monaco Tutilo-ne — quasi una seconda nascita, che ripeteva la prima nella conche reli-giosa da cui il teatro avrebbe tratto origine (dionisiaca nell'antica Atene, cristiana nell'Europa medievale). Tuttavia la coincidenza è più

appa-rente che reale: quegli storici allude-vano ad una presunta morte e resur-rezione del dramma; Francastel si ri-ferisce all'edificio teatrale, e in parti-colare alla scena. Ne consegue che per tutto il corso del basso Medioe-vo, e ancora nel Quattrocento, il rapporto fra teatro e spettacolo è de-cisamente squilibrato a vantaggio di quest'ultimo, ove nello spettacolo sono compresi cortei e processioni, feste folkloristiche e cortigiane,

ta-bleaux vivants e le più diverse

mani-dei Quattrocento, l'elaborazione di gran parte dei motivi che saranno assunti e sviluppati in termini figura-tivi dalla pittura proto-rinascimenta-le. In duplice ordine: tematico e og-gettuale. Nell'ordine tematico lo spettacolo allestisce drammatica-mente, nella paraliturgia festiva e nelle processioni, come nei misteri, la narrazione evangelica e agiografi-ca: i pittori non si rivolgono quindi direttamente ai testi, ma ai testi in quanto già formalmente mediati dal-lo spettacodal-lo; come d'altra parte gli spettacoli profani propongono al-l'arte figurativa visualizzazioni di nuovi riti paganeggianti.

Nell'ordine oggettuale il ragiona-mento è forse più complesso:

sull'i-Figlioccio di Pirandello

di Angela De Lorenzis

PAOLO PUPPA, La morte in scena: Rosso di San

Secondo, Guida, Napoli 1986, pp. 191, Lit.

16.000.

In occasione del centenario della nascita di Rosso di San Secondo, che fu uno degli esponen-ti più significaesponen-tivi del teatro italiano tra le due guerre, Paolo Puppa ripropone i testi di due commedie particolarmente rappresentative del-l'opera dello scrittore (Marionette, che

passio-ne!, del 1918, e Lo spirito della morte, del

1929), introducendoli con un ampio saggio in cui ripercorre l'intero itinerario artistico del drammaturgo.

Stimato da Pirandello, che rappresenta per lui una sorta di padrino letterario, Rosso di San Secondo risponde al prototipo dell'artista senza radici che stabilitosi in un primo tempo a Ro-ma compie lunghi viaggi per l'Europa e vive per molti anni in Germania sviluppando uno stile di scrittura particolarissimo che rimarrà forte-mente impregnato dagli umori di oltre confine. Attraverso numerose provocazioni e sollecita-zioni sorrette da una copiosa rete di note biblio-grafiche Puppa individua lucidamente gli ele-menti di contaminazione con le avanguardie storiche che permettono di riportare i temi e le figure di Rosso di San Secondo al più vasto

clima europeo: dalla tradizione neogotica di fi-ne Ottocento al futurismo, dai reciproci sottili scambi con l'opera dello stesso Pirandello fino alle determinanti suggestioni dell'espressioni-smo tedesco e alla tardiva, ma estremamente precisa, influenza esercitata sulla parte più

seni-le della sua produzione dalseni-le direttive dell'ideo-logia fascista.

In questa prospettiva Marionette, che

pas-sione! e Lo spirito della morte costituiscono i

due punti di riferimento essenziali per

com-prendere lo sviluppo dello stile drammaturgico di Rosso di San Secondo. Mentre nella prima commedia, che impone l'autore trentunenne al-l'attenzione del pubblico italiano, le contraddi-, zioni irrisolte e le dilacerazioni tra coppie anti-tetiche quali passione-saggezza, morte-riso pene-trano la scrittura scenica e animano ancora la dialettica indispensabile alla sopravvivenza del-la dinamica teatrale, avvicinandosi all'epoca della stesura dello Spirito della morte Rosso di San Secondo si allontana dalla solidità delle forme oggettive e si rifugia in un mondo di figure spettrali, in cui la dimensione

allucinato-ria si fa scudo contro la mateallucinato-ria che sembra dissolversi nelle nebbie e nei crepuscoli delle sce-ne surreali. Il Personaggio, già ridotto a mera etichetta in Marionette, che passione!, dove peraltro si suicida simbolicamente in scena, assi-ste nello Spirito della morte alla definitiva

pol-verizzazione dell'Altro e la sua solitudine deli-rante diventa metafora di un'inquietante ri-nuncia alla comunicazione e dell'impossibilità della drammaturgia di basarsi sul dialogo. Que-sta commedia rappresenta così una sorta di spartiacque simbolico rispetto all'opera successi-va di Rosso di San Secondo che, condizionata dall'ideologia del regime, è tesa verso una nuo-va, artificiale apertura a paesaggi più limpidi ed edificanti ed al ricupero consolatorio dei miti di una classicità rivisitata.

dell'avere tra spettacolo e arte figura-tiva, né di un rovesciamento (del re-sto già preventivamente effettuato da Emile Màle) delle tesi del Kernod-le (From art to theatre, 1944), anche se certe forzature e perfino certi ab-bagli (il raggio della stella scambiato per l'asta di sostegno di una nuvola

nell'Adorazione dei Magi del

Mante-gna) possono farlo credere. Si tratta invece di riconoscere nello spettaco-lo un piano di realtà "intermedia" e già organizzata culturalmente, che si propone allo sguardo del pittore, il quale la interpreta figurativamente così come interpreta la realtà percet-tiva e naturale, poiché il realismo non consiste nella riproduzione di una presunta oggettività, ma nella convergenza interpretativa di una determinata epoca o di un determi-nato gruppo sociale. All'allestimen-to di questa realtà intermedia hanno concorso nel Quattrocento non sol-tanto volontà artistiche, ma altresì volontà ideologiche e politiche. In particolare nella Firenze del Magni-fico Lorenzo c'è stato un grande sforzo per costituire questo piano dello spettacolo a livello popolare non più sulla base della ritualità pa-raliturgica cristiana, ma invece sulla base di una nuova ritualità neo-paga-na: le feste di maggio, alla cui rivisi-tazione e rifondazione concorsero, a livello letterario, le canzoni del Poli-ziano e dello stesso Lorenzo, costi-tuirono l'epicentro di questo sforzo, che, se fosse riuscito e se avesse dura-to, avrebbe potuto sviluppare l'ispi-razione popolare e liberale del Rina-scimento, a scapito di quella aristo-cratica e autoritaria, che finì per trionfare e che trovò la sua espressio-ne teatrale espressio-nella scenografia prospet-tica serliana e nel teatro al chiuso. A queste feste guardò tra gli altri Botti-celli, dandone una magica interpre-tazione pittorica nella Primavera.

Una cosa deve essere chiara: que-sto libro non è un libro di que-storia del teatro, né di metodologia dello spet-tacolo. E non perché l'attenzione concessa al teatro e allo spettacolo sia di poca rilevanza, tutt'altro; ma perche il punto di vista che l'autore assume in tutti i saggi che lo costitui-scono (tranne l'ultimo), il piano del-lo spettacodel-lo, non vi è intermedio tra la realtà percettiva e la figurazio-ne in forza di una struttura oggetti-va, ma semplicemente per il fatto che l'autore assume il punto di vista degli artisti figurativi. Avesse assun-to quello degli allestiassun-tori di spettaco-li il piano intermedio sarebbe stato costituito dalle arti plastiche, attra-verso cui gli allestitori hanno pure, certamente, guardato alla realta. Né si tratta di un errore o di scarsa dut-tilità, ma di una scelta precisa e re-sponsabile.

festazioni civili e religiose. Quest'i-dea, ricavata in gran parte dall'anali-si delle ponderose ricerche del D'Ancona, e che avrebbe potuto es-sere approfondita ed estesa sulla base di altre, non meno miracolose ricer-che come quella del Chambers

(Me-dioeval Stage, 1901), è uno dei più

validi e importanti puntelli dei saggi di carattere storico. Essa è forse per-seguita con un eccesso di coerenza, proprio perché basata sull'identifica-zione di teatro e scena cubica all'ita-liana: si finisce per non distinguere più fra le manifestazioni spettacolari ricordate sopra e le Sacre Rappresen-tazioni (o i Misteri), che invece non possono essere esiliate dal territorio del teatro propriamente detto, se non in forza di una definizione trop-po storicamente limitata. Ma per il discorso di Francastel questa distin-zione può anche non essere conside-rata decisiva. La tesi centrale del suo ragionamento storico è infatti che nell'area dello spettacolo (o del tea-tro più lo spettacolo, se si preferisce) ha luogo, nel corso del Medioevo e

dea di oggetto Francastel è ritornato spesso nel corso della sua opera, e soprattutto in Art et technique, 1956

(L'arte e la civiltà moderna,

Feltri-nelli 1959), dove discute a lungo del-l'arte industriale e quindi dei suoi prodotti appunto oggettuali. Distin-gue, anche se in modo non sistemati-co, tra oggetto materiale, oggetto plastico, oggetto figurativo e oggetto di civiltà, attribuendo a quest'ultimo il significato più ampio. Nel Medioe-vo e nei primo Rinascimento lo spet-tacolo crea tutta una serie di oggetti di civiltà, dalle mansiones scenografi-che dei Misteri, scenografi-che permettono la duplice visione esterno-interno, agli accessori come le nuvole, le mandor-le, gli stendardi e via dicendo. Tutti questi oggetti vengono, con varie funzioni, assunti dall'arte pittorica e ridotti a oggetti figurativi, perdendo il loro valore utilitario per accentua-re quello più squisitamente simboli-co. Essi formano un sistema al di fuori del quale il loro significato non è più comprensibile. Non si tratta semplicemente del conto del dare e

1=1

EDIZIONI I.AVQRQI

Leo Marx

LA MACCHINA

NEL GIARDINO

Tecnologia e ideale pastorale in America

Un'analisi ormai classica del conflitto tra valori

dell'industrializzazione e mito dell'America

«giar-dino».

(8)

INTERVISTA AjCffljgk

Nemici come prima

anticoncezionale pei il maschio

IL PILLOLO

RAZZA

PREDONA

RAPPORTO SULLA PROSTITUZIONE IN ITALIA

Lucciole

-«•sa cogliono svolta di Gorbaciov, INCHIESTA Dopo la strage di Ravenna i giovimi e il lavoro novo

ANTA VOGLIA

rjujujilsaiiiflsi» Mbiliiiiis

» mmm

PROIBITO

mw> imw *ljijj,i""i,mfr

CRAXJ O NON CRAXI

Questo è il problema ["MISI, ITUGMIÉT ^fc«»Iura,!ifa, sslwti i t e v f e j k w i a , »,te

MUSSOL LÒ-JIJHPJ, 3-JIJÙ

mcc 740

L Espresso. La realtà in formazio

Riferimenti

Documenti correlati

commisurata alla brevità della vita) è volutamente specialistica o comun- que opera di uno spirito che si ad- dentra in vie segrete senza chiedersi che cosa ne possa uscire. Ma

innumerevoli segni, è già una garan- zia. Sempre con la necessaria ironia, ci si può rivolgere ad altri — come dice Segre — e ad altri ancora. Giacché mi sembra vero che &#34;il

talia medievale in cui sono presentati, regione per regione, i risultati più significativi dei rin- venimenti di età post-classica; il tutto è interval- lato dall'inserimento

La metapsicologia freudiana rice- ve un'attenzione tutta particolare. La prima topica freudiana con l'in- conscio, preconscio e coscienza, vie- ne presentata come il modello

Arte e Letteratura • GIULIO CARLO ARGAN, storico e critico, LEONARDO BENEVOLO, dell'Università di Roma, ANDRÉ CHASTEL, del Collège de France, DAVID DAICHES, dell'Università

Fròlich ricostruiva e riproponeva l'immagine politica ed umana della Luxemburg in questo libro del 1939; il testo fu riedito nel 1948 con una nuova prefazione, che indicava in lei

Il muratore Lorenzo &#34;detestava la Ger- mania, i tedeschi, il loro cibo, la loro parlata, la loro guerra; ma quando lo misero a tirare su muri di protezione contro le bombe,

hanno percepito tutto il fermento degli anni '60 come una minaccia al privilegio. I liberals sono sempre stati favorevoli alle politiche aggressive verso il Terzo Mondo, non solo nel