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Festeggiamenti in onore della Madonna delle Indulgenze a

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Academic year: 2022

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Festeggiamenti in onore della Madonna delle Indulgenze a S.Elia F.Rapido

Festeggiamenti in onore della Madonna delle Indulgenze a S.Elia F.Rapido

Festeggiamenti in onore della Madonna delle Indulgenze

L u n e d ì 1 ° m a g g i o s i s o n o c o n c l u s i i t r a d i z i o n a l i festeggiamenti in onore della Madonna delle Indulgenze che hanno visto un ricchissimo programma civile-religioso nelle giornate del 29-30 aprile e 1° maggio. La festività, che si tiene due settimane dopo la Pasqua, si è aperta giovedì sera con la celebrazione del triduo in onore di Maria, mentre il programma civile prevedeva, nella serata del sabato, la prova canora dei bambini delle “PICOLLE STELLE” preparati da Andrea Pinchera a quarant’anni dalla prima edizione.

Il programma religioso, oltre al triduo che, come già innanzi detto, è iniziato nella serata del giovedì, ha avuto il suo apice con la celebrazione eucaristica delle 8,30 della domenica mattina con la Messa solenne concelebrata da Don William Di Cicco e Don Remo Marandola, animata dall’ottimo coro “G.BOZZELLI”. Dopo la celebrazione eucaristica la preziosa statua della Madonna è stata portata in processione da parte di una folla di fedeli nel vicino Santuario benedettino di CASALUCENSE ove c’è un’altra statua a Lei dedicata. Durante il cammino il parroco ha invitato tutti i fedeli in processione ad accompagnare la Madonna con il cuore di pellegrini e non soltanto con i passi.

A conclusione della celebrazione eucaristica è stata molto gradita l’esortazione di S.E. il Vescovo Mons. Gerardo Antonazzo sulla bellezza della Madonna che chiede anche a noi

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la bellezza interiore fatta di grazia e di misericordia .

Nella serata della domenica alle ore 20,30 la statua della Madonna ha fatto ritorno a S.Elia F.Rapido accompagnata da una folla devota che ha affidato a Lei ogni speranza di grazia e di misericordia. Ad attenderla alle porte del paese una moltitudine di devoti, con Mons. Vescovo e i sacerdoti Don Lucio Marandola, Don Michele Frentusca, Don Claudio ed una dozzina di Frati dell’Immacolata che hanno fatto l’intero percorso dal Santuario al paese sino all’arrivo alla Chiesa di S.Sebastiano ove è la statua è stata esposta ai fedeli sino a notte inoltrata.

Il programma civile della domenica si è concluso, invece, con il concerto bandistico della CITTA’ DI SQUINZANO (LE) che ha raccolto moltissimi apprezzamenti e gradimenti tra la numerosa folla intervenuta; mentre il programma di lunedì 1° Maggio si è aperto alle ore 15,30 con i tradizionali giochi popolari tra i quali ha fatto spicco quello delle “Pignatte”, il classico

“palo della cuccagna”, la gara degli spaghetti ultra piccanti che debbono essere mangiati senza posate con le mani legate dietro, e quello del “Mammoccio” che rievoca l’antico gioco popolare della giostra medioevale dove i concorrenti, in corsa, debbono cercare di centrare, con un cuneo di legno, il piccolo foro ricavato nel braccio del Mammoccio girevole, stando attenti all’altro braccio che, girando all’impatto, può dare loro un solenne ceffone dietro le spalle.

Ad concludendum, il concerto di Silvia Mezzanotte, con l’estrazione dei biglietti della ricca lotteria, e gli ormai rinomati e famosi fuochi artificiali.

Maurizio & Simona

Album foto festività della Madonna delle Indulgenze

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

A S. Angelo in Th. 23 nuovi Cresimati

A S. Angelo in Th. 23 nuovi Cresimati

La II domenica di Pasqua, Domenica della Divina Misericordia, dopo l’emozionante cerimonia della Benedizione da parte del Vescovo Gerardo Antonazzo della restaurata statua della Madonna della Pietà e dopo la Processione che solennemente l’ha portata dal santuario sul colle nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista al centro del paese (Vedi Articolo), si è svolta la solenne Celebrazione Eucaristica, presieduta dal Vescovo, con il conferimento del Sacramento della Confermazione. La comunità parrocchiale si è stretta intorno ai suoi simboli di fede ed ha partecipato in pienezza ad entrambi i momenti.

Ventitre ragazzi della Parrocchia: Anna Chiara, Camilla, Simone, Emanuel, Emanuela, Giulia, Valeria, Giorgio, Lorenza, Davide, Luca, Andrea, Lisa, Samuele, Cristian, Giulia, Enea, Enzo, Davide, Francesca, Gabriele, Eliseo, Pamela, hanno preso posto nei primi banchi, insieme ai loro padrini e madrine. Più in là erano i genitori, anche loro trepidanti ed emozionati come i loro adolescenti figli. E’ stata una catechista a presentare al Vescovo i cresimandi, attestando che si sono preparati a questo momento frequentando per due anni gli

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incontri di catechesi con interesse e partecipazione. “Li affidiamo alle sue preghiere perché possano, con la forza dello Spirito che stanno per ricevere, essere sempre testimoni dell’Amore di Dio in ogni situazione della loro vita”.

Il Vescovo li ha accolti come sempre dialogando con loro e rivolgendosi a loro direttamente, stimolandoli a prendere sempre più coscienza, con gioia e responsabilità, di quello che stavano facendo. Infatti, ponendo loro le domande di rito, non lo ha fatto in modo solo formale e dovuto, ma con tutta la carica di convinzione e di stimolo possibile. Ed essi hanno risposto con voce chiara e decisa affermando la loro volontà di ricevere lo Spirito Santo per diventare cristiani più adulti e consapevoli.

Nella bellissima e intensa omelia, Antonazzo ha saputo magistralmente coniugare i brani liturgici del giorno con la situazione che si viveva in quel momento, la Cresima e la presenza sia della statua tanto amata della Madonna della Pietà sia del quadro dell’Amore Misericordioso, scendendo alla concretezza della vita. E proprio su questa espressione si è soffermato a riflettere: questa parola, pietà, è spesso usata in accezioni negative, ha osservato. “Fare pietà”, per esempio, è un’espressione che significa che quella persona non vale niente; peggio ancora quando si dice: non avere pietà, che significa essere crudeli. Pensate, ha detto, alla parabola del Buon Samaritano: di fronte all’uomo pestato a sangue, alcuni passano senza badarci, l’unico ad “avere pietà” e a soccorrere il malcapitato è il Samaritano che passava di là.

Se “avere pietà” significa solo dire “Poverino!” senza portare alcun beneficio, si scivola in un vuoto pietismo.

Nell’Antico Testamento, ha proseguito il Vescovo, c’è ripetutamente una bellissima espressione riferita a Dio: per es. nell’Esodo si dice “Dio guardò l’afflizione del suo popolo e usò misericordia“, cioè Dio agisce, prende l’iniziativa, entra nella storia e decide di aiutare il suo popolo.

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Ecco, ha fatto notare, questo “usare misericordia”, che è l’agire di Dio, è anche il significato della Madonna della Pietà. Guardiamo la statua, ha invitato, in questa rappresentazione Maria accoglie il dolore del Figlio-Dio, si piega su di lui e si lascia piagare dal dolore di Cristo. E’

un’icona importante, soprattutto oggi, in cui spesso l’indifferenza uccide più del dolore. Maria ci insegna come fare attenzione, mettersi in ascolto, accogliere il dolore degli altri. Se volete capire cosa vuol dire avere pietà e usare misericordia, guardate questa Madre.

Una seconda icona della misericordia ce la offre il Vangelo.

Gesù, nella sera di Pasqua, entra nel Cenacolo dove erano 10 apostoli (mancavano Giuda e Tommaso) e dice “Pace a voi!” e mostra le sue piaghe. Cosa avremmo fatto noi, traditi dagli amici? avremmo sicuramente… presentato il conto; Gesù no, mostra le piaghe.

Una terza icona è quella del vangelo odierno (Gv 20, 19-31):

dopo otto giorni Gesù torna nel Cenacolo con le stesse parole e chiama Tommaso per nome, proprio come fra poco voi cresimandi sarete chiamati per nome uno per uno. Gesù non rimprovera Tommaso, l’incredulo, lo invita ad avvicinarsi e lo incoraggia e Tommaso risponde con una bella professione di fede. Dove si copre la distanza, rifiorisce l’amicizia.

A questo punto il Vescovo Antonazzo ha voluto fare ai giovani tre consegne: 1. imparate la tenerezza. Impregnati dall’amore di Gesù, cercate di ascoltare il dolore dei vostri amici prima che succedano cose tremende, non siate crudeli e non ripetete gli errori degli adulti. Usate pietà, ascoltate anche il silenzio di un compagno, un amico, forse è ferito dentro. 2.

Evitiamo le ostilità, le dichiarazioni di guerra, usiamo il perdono, come Gesù, lanciamo un messaggio di riconciliazione.

3. Come Tommaso, diventiamo prossimi, in famiglia, tra famiglie, persone, amici, sciogliamo la diffidenza, i pettegolezzi, le ostilità. Facciamoci prossimi. Da oggi dipende anche da voi. Ricevendo lo Spirito ricevete nel vostro

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c u o r e u n a t r a s f u s i o n e d i A m o r e , p i e t à , t e n e r e z z a , misericordia.

Subito dopo c’è stato il rito suggestivo della preghiera di invocazione dello Spirito, dell’imposizione delle mani e della Crismazione. Ogni ragazzo, chiamato per nome e accompagnato dal padrino o madrina, ha ricevuto dal Vescovo sulla sua f r o n t e i l s a c r o C r i s m a i n s i e m e a l l ’ a f f e t t o e all’incoraggiamento, in un momento indimenticabile.

La lunga, densa e significativa mattinata di S. Angelo in Theodice si è conclusa in modo festoso ed il Parroco, Don Nello, ha dichiarato: “Al termine di questa giornata, in cui abbiamo celebrato il Trecentesimo Anniversario del primo segno miracoloso della Madonna della Pietà, una sola parola voglio rivolgere a Dio, alla Vergine Maria e a tutta la nostra comunità di Sant’Angelo: GRAZIE”.

Adriana Letta

Foto di Loredana Fargnoli Vedi ALBUM FOTO

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

Omelia per l’Ammissione agli ordini di Andrea Pantone

DISCEPOLI DI UNA PIETRA DI SCARTO

Omelia per l’Ammissione agli ordini di Andrea Pantone 21 aprile 2017

L’intensa luce della Pasqua continua ad illuminare il cammino dei discepoli, e la gioia del sepolcro dalla porta aperta restituisce all’umanità una speranza nuova, un’esistenza che non ha ormai paura né del dolore né della morte. Carissimo Andrea, dalla Parola celebrata in questa liturgia riceviamo la linfa di un pensiero fecondo e audace allo stesso tempo, per riflettere in modo speciale sul tuo cammino vocazionale. La scena evangelica si svolge sulle rive del lago di Tiberiade, e ripropone un dejà vu. Il brano giovanneo (Gv 21, 1-14) esordisce dichiarando che Gesù si “manifestò di nuovo ai discepoli”. La sottolineatura “di nuovo” ci obbliga a

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collegare questo evento con quanto i discepoli avevano già vissuto. Il quadro, pertanto, fa supporre un’analoga vicenda vocazionale. Gli eventi della passione del Maestro avevano provocato contraccolpi piuttosto drammatici nelle aspettative e nella fiducia dei discepoli. Era necessario rincuorare il loro stato d’animo perché l’afflizione non affossasse la s e q u e l a . L ’ i n c o n t r o c o n i l R i s o r t o è p r e s e n t a t o dall’evangelista come una “manifestazione” del Signore. In fondo, ogni storia vocazionale può testimoniare una speciale

“rivelazione” del Signore: è Lui che ci viene incontro, per cogliere di sorpresa la persona cercata; è Lui che entra dentro le nostre occupazioni per porre fine alle molte domande. La sua manifestazione è come un atto di consegna della sua volontà, un dono che Gesù fa di se stesso a quanti invita alla sua sequela. Pertanto, meritano attenzione alcuni particolari aspetti.

Il vuoto

C o s a p r e c e d e l ’ i n c o n t r o c o n i l S i g n o r e ? L a n o s t r a inquietudine, il nostro vuoto interiore, espresso bene dalla tristezza della pesca mancata: “Quella notte non presero nulla”. Le reti vuote per un pescatore sono un chiaro fallimento! Il giorno che segue sarà particolarmente grigio.

Ancora oggi, il Signore intercetta i nostri “vuoti”, i nostri

“nulla”, il fastidio delle reti vuote. Gesù ci parla nei nostri disagi, nelle nostre domande più profonde, nelle insoddisfazioni che ci turbano, nei pensieri che non ci danno pace, nelle nostre turbolenze spirituali. Il Risorto ci fa capire che evitarlo, e decidere nella nostra vita senza di Lui non ha senso, non dà frutto, non porta a nessun risultato, lascia vuote le nostre reti, ci condanna alla delusione dell’incompiutezza e a un senso di reale frustrazione.

La confusione

L e n o s t r e d o m a n d e n o n t r o v a n o f a c i l i r i s p o s t e n é

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semplicistiche soluzioni. Anzi, sembrano gettarci in uno stato confusionale: pensando di fare tutto da soli, non sappiamo riconoscere il Signore presente: “Non si erano accorti che era Gesù”. Nel marasma delle nostre confusioni, rischiamo di perdere di vista proprio il Signore. C’è, poi, uno stato confusionale che può seguire alla scoperta del progetto di Dio. La chiara percezione che sia proprio il Signore a chiederci qualcosa di più grande rispetto alle scelte

“ordinarie” ci getta nella paura e nel disordine. La tentazione di resistere ai suoi progetti ci porta a depistare ogni possibilità di ascolto della sua parola e del suo invito

“Seguimi”.

Nell’uno e nell’altro caso, la confusione può essere sciolta dal discernimento vocazionale. Da soli, non siamo in grado di fare chiarezza. Penso soprattutto all’aiuto che possono offrire i nostri maestri spirituali, in primis i sacerdoti di riferimento nelle nostre parrocchie. E’ proprio questo il loro primo compito e dovere, quello di offrirsi come accompagnatori vocazionali.

L’evidenza

Il Signore non si arrende di fronte alla nostra confusione. Ci provoca. E’ come se dicesse: almeno provaci; affronta di petto la tua situazione, prendi in mano la tua storia e lascia parlare il cuore. E’ inutile girarci intorno. Quando poi il nostro vuoto è riempito dall’incontro con Lui, non ci sembra vero ma è proprio il Signore: come resistergli? Non è illusione, non è un abbaglio, non un’esaltazione religiosa, non è un inganno, è proprio Lui. Che stupenda certezza:

“Dominus est”. Allora tutto diventa irresistibile e irrefrenabile: “Simon Pietro, appena udì che era il Signore,

…si gettò in mare” per raggiungere la riva il prima possibile.

Prima o poi si crolla, e ci si getta a braccia aperte per correre incontro a Colui che ci è apparso sulla riva dei nostri sogni e dei nostri progetti. Adesso si può ripartire

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insieme con Lui e guardare lontano, molto lontano, sino a comprendere in pienezza il senso della nostra vita, fino al suo ultimo respiro. A questo punto, la sua manifestazione si fa attrazione: il suo amore non ci lascia indifferenti, tocca le corde più intime dei nostri affetti, fino alla decisione spontanea e travolgente del nostro Sì. Da parroco, ricevetti proprio la notte di un giovedì santo il Sì di un giovane il quale mi consegnava la sua resa a Dio con queste parole:

“Questa notte, mentre pregavo ho sentito di dover dire ormai al Signore: Mi arrendo; hai vinto tu”. Ora è prete.

La confidenza

Il discepolo che accoglie la chiamata del Signore, ne diventa intimo e familiare: “Nessuno dei discepoli osava domandargli:

chi sei?, perché sapevano bene che era il Signore”. Se lo conosci non lo eviti, non lo abbandoni più. Il tuo amore per Lui è poca cosa rispetto alla soverchiante abbondanza della sua tenerezza per te. Una tenerezza che spesso si fa perdono, misericordia, pazienza rispetto alle nostre lentezze e fragilità. Chi incontra il Signore e vi aderisce, condivide la medesima intimità dell’apostolo Giovanni, il discepolo che Gesù amava, sempre il primo a raccogliere le confidenze del Maestro e il primo a riconoscere il suo volto sulle rive del lago. L’amicizia spirituale con il Signore ci permette di posare il nostro capo sul suo petto, di penetrare i suoi affetti e pensieri, di condividere le sue gioie e le sue amarezze. La chiamata alla sua sequela ci educa al silenzio e al raccoglimento, all’ascolto e alla contemplazione: è il godimento estatico di chi sa di ricevere da Lui l’amore più grande.

Lo scarto

“Questo Gesù è la pietra che è stata scartata da voi, costruttori”. Siamo discepoli di una “pietra di scarto”, divenuta però testata d’angolo. Questo pensiero ci conserva

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nell’umiltà, per non dimenticare mai che siamo chiamati a costruire con pietre di scarto valorizzando le fragilità dei più umili, deboli, poveri, perché “non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili” (1Cor 1,26). La pietra angolare è solo Lui. Cosicchè,

“alla fine del tempo, dopo le turbolenze e i marosi della storia, l’ultima opera d’arte di Dio sarà plasmata con gli scarti di umanità, che emergono splendenti dal fango del mondo. Impiegando una metafora ardita, potremmo pensare ad un’immensa opera di riciclaggio del materiale di scarto: i corpi offesi dalla miseria e dall’esclusione, sfigurati dalla malattia e dalla vecchiaia, segnati dalle ferite della vita e tornati alla polvere saranno riconoscibili solo agli occhi amorosi di Dio (M. Gronchi).

+ Gerardo Antonazzo

Solenne Pontificale di Pasqua a Cassino

Solenne Pontificale di Pasqua a Cassino

Il Vescovo celebra nella Chiesa Madre e “regala” l’indulgenza

plenaria

Un solenne Pontificale di Pasqua è stato officiato dal Vescovo Gerardo Antonazzo nella Chiesa Madre a Cassino alle 11.30, in

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una chiesa affollata di fedeli attenti e gioiosi. Giunto un po’ prima dell’orario, il Vescovo, che aveva celebrato già ad Aquino, entrando accompagnato da Don William Di Cicco, ha salutato cordialmente molte persone, il Sindaco D’Alessandro, i bambini, poi è entrato in sacrestia a prepararsi per la celebrazione. Messa particolarmente solenne, animata e g r e g i a m e n t e d a l C o r o p a r r o c c h i a l e , i n i z i a t a c o n l’incensazione dell’altare e del Cero pasquale inaugurato nella veglia della sera prima e dall’aspersione dei fedeli con l’acqua benedetta anch’essa nella veglia pasquale: è la Pasqua di Resurrezione del Signore, il perno attorno a cui ruota tutta la vita cristiana e l’esistenza stessa della Chiesa, perché “questo è il giorno che ha fatto il Signore:

rallegriamoci ed esultiamo”.

Dopo la lettura dei brani liturgici e la Sequenza di Pasqua, il Vescovo ha ripreso proprio da quest’ultima una frase da cui far partire la sua riflessione: Scimus Christum surrexisse a mortuis vere, Sappiamo per certo che Cristo è veramente risorto. E subito dopo l’ha ripetuta in forma di domanda al popolo e ad ognuno: ma noi crediamo a questo?, dimostrando, nel prosieguo del discorso, che in base al racconto degli apostoli e a dati oggettivi possiamo davvero credere che Cristo è risorto. La certezza della fede, ha affermato, non è una eredità passiva ma ogni giorno deve essere riconquistata, come fanno gli apostoli nella pagina evangelica di Giovanni (20, 1-9), che corrono al sepolcro per sapere, comprendere, verificare personalmente che cosa è successo, per non subire la verità. La fede è una questione personale. Di fronte al dubbio bisogna cercare le prove, come nel sistema giudiziario si fa nell’incidente probatorio. Se abbiamo la certezza che il Signore è risorto, possiamo mai annunciarlo senza che la nostra vita cambi? E’ proprio questo evento, ha concluso Antonazzo, che dà senso e speranza al nostro vivere.

Al termine della celebrazione il Parroco, Don Salvatore Papiro, ha voluto ringraziare il Vescovo per essere venuto a

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celebrare la Pasqua, parole sottolineate dai fedeli con un lungo applauso, ed ha anche annunciato che la Parrocchia parteciperà alla grande giornata diocesana programmata per il 1° maggio alla Basilica santuario di Canneto. Il Vescovo ha ringraziato a sua volta, formulando auguri pasquali per tutta la parrocchia e la città, rivolgendo con sensibilità un particolare pensiero agli anziani, ai malati e a coloro che soffrono.

Prima della Benedizione finale, il Diacono Don Luigi Evangelista ha annunciato che il Vescovo, a nome del Romano Pontefice, avrebbe “impartito la benedizione con l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli che, animati da sincero pentimento, confessati e comunicati, hanno partecipato a questa celebrazione”, chiedendo loro di pregare Dio “per il beatissimo nostro Papa Francesco, per il nostro Vescovo Gerardo, per la santa Madre Chiesa” e di impegnarsi “a vivere santamente in piena comunione con Dio e con i fratelli”. Gioia grande per tale onore, che ha concluso degnamente la celebrazione pasquale. Infine aria di festa con lo scambio di auguri fra tutti i presenti. La gioia della Pasqua è davvero contagiosa.

Adriana Letta

Per vedere le foto vedi ALBUM FOTO PONTIFICALE CASSINO

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

Omelia per la Pasqua

CON IL FIATO SOSPESO

Omelia per la Pasqua

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16 aprile 2017

Il Signore è veramente risorto? perchè crederci? le donne e gli apostoli sono testimoni credibili, o manipolatori della verità? Resta la questione di fondo: quali sono le prove, se ci sono, dell’evento storico della risurrezione di Gesù? Le tante domande, i molti dubbi, gli interrogativi più turbolenti incrociano una sola risposta: “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere”. Così recita solennemente la “Sequenza pasquale”, restituendo alla nostra inquietudine la sua fondata e fondamentale certezza: il Signore è veramente risorto!

La promessa del terzo giorno

Gesù aveva ripetutamente annunciato la sua sofferenza e la sua morte, insieme con la gioia del terzo giorno: “Cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere” (Mc 8,31). Tale annuncio e relativa promessa sarà ripetuto più volte. Manterrà Dio le sue promesse? Gli ultimi drammatici eventi sembrano togliere ogni speranza: “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”

(Lc 24, 21). I fatti, dunque, sembrano smentire le parole del Maestro. Il dubbio è legittimo. E questi dubbi non possono non riguardare anche la nostra fede.

Incidente probatorio

Proviamo a riprendere alcuni elementi decisivi per sciogliere ogni incertezza, e penetrare con entusiasmo la novità del

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fatto cristiano. Nei processi giudiziari per accelerare i tempi delle indagini e favorire la certezza della verità si chiede spesso il cosiddetto “incidente probatorio”. In genere, si tratta della ricostruzione di una possibile prova a supporto della verità da stabilire durante il dibattito processuale. L’incidente probatorio è un istituto procedurale pensato per acquisire una prova, o più prove, prima dell’inizio della fase dibattimentale. Ebbene, l’incidente probatorio che dimostra la verità della risurrezione ricostruisce diverse prove a favore della verità dell’evento che riguarda Gesù di Nazareth. Nella ricostruzione dell’incidente probatorio a favore della risurrezione emergono due prove per la fondatezza della fede pasquale: la scoperta della tomba vuota e la vita della comunità cristiana.

Il masso del sepolcro

Di fronte all’enigma della morte si resta con il fiato sospeso. Dietro la domanda delle donne che si recano al sepolcro di buon mattino (Mc 16,3. “Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?”) si nasconde la paura di dover ammettere che il Signore è morto davvero. Rimuovere la pietra tombale significa misurarsi inevitabilmente e tristemente con l’enigma della sua morte, perciò con il fallimento delle sue parole. Ci vuole coraggio nel dover ammettere che è tutto finito. Ogni promessa è tradita.

Rotolare quel masso significa rimetterci la faccia rispetto alle parole dell’uomo di Nazareth. Varcare quella soglia significava accettare di entrare nel nulla, nel vuoto terribile lasciato dalla Croce.

Invece qualcuno ha già risposto alle molte paure, e ha disposto la soluzione di ogni dilemma: il masso viene trovato ribaltato, quel luogo è stato decisamente trasfigurato. Il sepolcro non viene trovato “vuoto”, ma abitato dagli angeli che annunciano la vittoria della Vita. Il sepolcro non

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accoglie più la morte ma annuncia la vittoria sulla morte, la sconfitta di ogni paura: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto” (Lc 24,5-6). E’ ormai aperto il mistero della vita che non muore più. Dio è entrato per primo in quel sepolcro come Signore della Vita, perché Lui “non è il Dio dei morti ma dei viventi” (Mt 22,32) .

Dinanzi ad ogni luogo-esperienza di morte, il Signore ci invita a non piangere, ma a credere nella possibilità della vita: “Non lasciamoci imprigionare dalla tentazione di rimanere soli e sfiduciati a piangerci addosso per quello che ci succede; non cediamo alla logica inutile e inconcludente della paura, al ripetere rassegnato che va tutto male e niente è più come una volta. Questa è l’atmosfera del sepolcro; il Signore desidera invece aprire la via della vita, quella dell’incontro con Lui, della fiducia in Lui, della risurrezione del cuore” (Papa Francesco, 2 aprile 2017).

La comunità del Risorto

La seconda prova della verità della risurrezione di Gesù ci riporta alla storia della Chiesa, almeno per una duplice ragione.

Primo. La Chiesa ha trasmesso in modo forte e convinto la centralità della risurrezione, fondamento della fede di ogni discepolo: “Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede (1Cor 15,14).

Quindi vediamo che se la resurrezione non fosse accaduta, non ci sarebbe stato un modo plausibile per spiegare le origini della fede cristiana. Da subito, quindi da sempre, i credenti hanno legato all’evento della risurrezione del Signore la ragion d’essere del loro riunirsi, del loro essere comunità, del vivere come Chiesa di Cristo. Non per altre ragioni o per interessi mondani. L’apostolo Paolo dichiarerà di aver

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ricevuto e aver trasmesso il kerygma, cioè l’annuncio della Pasqua di Cristo: “A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15,3-5).

Secondo. Vediamo che la Chiesa storica, nel suo cammino lungo i secoli, ha dovuto affrontare molte difficoltà, risolvere problemi, dipanare momenti confusi e tristi. “La Chiesa concreta è spesso contestata o rifiutata come peccatrice; è proprio per la stessa ragione si continuarono a fondare chiesuole nuove, spacciandole per la vera e la santa Chiesa, per l’autentica Chiesa di Dio e del suo Cristo [ ]. La pretesa di santità da essa elevata non è forse una pura e semplice presunzione, che dimostra precisamente il contrario della sua smodata pretesa?” (K. Rahner, La Chiesa dei peccatori). La Chiesa nonostante i suoi errori umani, anche gravi, e le debolezze anche disastrose dei suoi membri, resta pur sempre

“santa” nel suo insieme in quanto Corpo mistico di Cristo, anche se composta da peccatori. Se ininterrotta resta la catena dei peccati dei suoi membri, altrettanto ininterrotta resta la cordata della santità. Per la grazia di questa santità, la Chiesa, nonostante tutto, non potrà mai cadere nella defezione della fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio.

+ Gerardo Antonazzo

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Meditazione per il Venerdì Santo

IL FINE-VITA DI OGNI CROCE

Meditazione per il Venerdì Santo Sora, 14 aprile 2017

Sulla croce di Cristo, il morire di Dio abbraccia il dolore di ogni uomo, in un connubio di intensa oscurità (Mt 27,45: “Si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio”), drammatizzata dallo squarcio della terra e delle rocce (cfr.

v. 51). La scena così descritta intende catturare l’attenzione del lettore sul pesante evento della morte segnata da sofferenza fisica e morale. E’ il fine-vita dell’uomo-Dio sul legno dell’ingiusta condanna, per un “inciucio” del Sinedrio.

Gesù non è sottoposto a un cieco destino, ma consapevole di una missione d’amore alla quale non solo non si sottrae, ma deliberatamente si “consegna”: “Chi cercate? Gli risposero:

Gesù, il Nazareno. Disse loro Gesù: Sono io!” (Gv 18,4-5).

Un oscuro rimprovero

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Sulla croce Gesù grida: non per la paura di morire, né per il dolore fisico procurato dalla cattiveria umana. La ragione che lo strazia è la sospetta lontananza del Padre. Gesù sembra perdere ogni speranza; invece dell’invocazione filiale, Egli

“rimprovera”: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”.

Durante la sua vita terrena Gesù aveva insegnato a invocare Dio come “Padre”. Così ai discepoli: “Quando pregate, dite.

Padre nostro…” (Mt 6,9). Sulla croce assistiamo ad un momento difficile, faticoso, nel quale Gesù sembra regredire nel suo affetto filiale. Non più Padre, ma un Dio drammaticamente silenzioso e “assente”. Gesù quasi prende le distanze, gli sembra di non riconosce più il volto del Padre. Lui, il Figlio si trova nella bufera della confusione, ed esprime la sua disperazione nel cuore del dubbio più lancinante. Il suo lamento riprende le parole del Salmo 22, grido di desolazione. Gesù si sente abbandonato da tutti, soprattutto dal Padre. La scena conserva tutta la sua intensità drammatica. Quale solitudine più amara e velenosa di quella di un Figlio in altri momenti dichiarato come “amato” dal Padre;

ma ora da Lui abbandonato!

Ogni dolore merita le giuste domande. Il cristiano guarda in faccia la sofferenza, e sa chiamarla per nome. Il dolore dell’uomo e il dolore di Dio si incontrano sulla Croce, in un conturbante reciproco intreccio. Il grido di Gesù è anche il nostro. E’ l’ora dell’abbandono e della solitudine assordante.

E’ il momento in cui ci sentiamo traditi. Perché proprio a me?

Perché un così duro accanimento del male nella mia vita?

Perché il dolore di tanti innocenti, mentre i perversi prosperano? Nell’abisso dell’impotenza umana sperimentiamo una distanza incolmabile dall’Amore di Dio. Resta il grido dell’imprecazione, del perché esistenziale di chi si trova di fronte all’assurdo. Dolore e solitudine degli affetti sono una combinazione al vetriolo. La ragione umana non può evitare l’assurdo, il quale conserva il potere di essere un ‘perché’

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inesauribile, e l’onore di restare pur sempre una domanda.

Quale ragione può giustificare il dolore? Sottomessi alla sua atrocità, non resta che contestare, fino alla disperazione, fino al rifiuto della vita. Nei racconti della passione secondo il vangelo di s. Marco e di s. Matteo l’ultima parola di Gesù è l’ultimo grido del “perché?”.

Una lezione di fiducia

Nel vangelo di Luca, invece, nell’ora della sua prova il Dio Crocifisso raccoglie la preghiera del ladrone. Pentito, invoca in extremis il ”paradiso” della misericordia e della salvezza.

Da questi, Gesù sembra raccogliere una lezione di fiducia . Forse. Certo è che, subito dopo, Gesù si consegna al Padre, recuperando l’ affetto filiale. E gridando a gran voce, celebra l’atto sublime del suo abbandono: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo spirò” (Lc 23, 46).

Muore da “figlio”, non da disperato, non da condannato, non da maledetto! Il suo abbandono fra le braccia del Padre rende

“salvifica” l’offerta della sua vita divina. E’, questa, l’eutanasia degli affetti: è’ il dolce morire fra le braccia della tenerezza paterna; è il fine-vita accerchiato dalla tenerezza di chi ci ama. Il fine-vita di Gesù è il morire da Figlio amato. E’ di questo fine-vita che abbiamo ansiosamente bisogno, per recuperare la speranza nella dura stagione del dolore. Di solitudine, invece, si può solo morire disperati.

Stabant

Il dolore di Gesù è illuminato dall’amore del Padre, ma anche dall’affetto della Madre. Nella pietà popolare si canta il dolore di Maria, ai piedi della croce, con le strofe dello

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Stabat Mater. Il verbo stabat al singolare non viene dal vangelo. Sotto la croce del Signore c’è una presenza plurale:

Stabant. “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleope e Maria di Magdala (Gv 19,25). Gesù è accerchiato dagli affetti più cari. Il

“morire bene” non sempre significa morire senza dolore. La dignità del fine-vita non dipende da come si muore, ma con chi si muore. Gesù non muore senza nessuno, come se non morisse per nessuno. La Madre, altre donne, e il “discepolo che Gesù amava”, sono accanto al suo morire lancinante, per trasmettere il potere lenitivo degli affetti. E’ l’amore della Madre, di familiari e amici, ad aiutare il Figlio a morire

“dolcemente” con la cura palliativa degli affetti delle persone più care. Maria ama Gesù, e resta con Lui nel momento più difficile e imbarazzante per non fargli mancare la sua materna dolcezza. Ella continua a credere e ad amare quel Figlio. Le parole profetiche dell’anziano Simeone non può dimenticarle: Maria aveva offerto a Dio il suo Bambino nel Tempio, ora lo offre al Padre, morente sulla croce.

“Come ogni persona ferita dalla sofferenza e dal rifiuto, colpita dal disonore, Gesù ha avuto bisogno di consolazione, di forza, e dell’energia vitale che scaturisce dalla comunione con una persona amata” (J. Vanier). Nell’ora della morte si può “guarire” dal dolore con la terapia degli affetti.

Purtroppo, sono molte le storie di disabili, di anziani, di malati terminali, di minori, il cui stato di sofferenza è aggravato terribilmente dal sentirsi abbandonati, rifiutati, esclusi e ignorati. Lo ‘stabant’ del quarto vangelo ha aiutato Gesù a morire fra le braccia accoglienti di qualcuno.

Non è il dolore ad uccidere, ma l’indifferenza.

+ Gerardo Antonazzo

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Dopo l’errore, dare la possibilità di redimersi.

Questa è la Pasqua

Dopo l’errore, dare la possibilità di redimersi. Questa è la Pasqua

Il vescovo Antonazzo celebra il Precetto Pasquale nel Tribunale di

Cassino

Tribunale di Cassino, aula di Corte di Assise, martedì 11 aprile, ore 12.00: convergono numerosi in questa direzione da ogni dove e sono magistrati, avvocati, amministrativi, dipendenti del Tribunale, c’è anche Presidente Vicario del Tribunale dott. Massimo Capurso, sta per iniziare la celebrazione ma stavolta non di un processo, bensì di una Liturgia Eucaristica. E’ il Precetto Pasquale, una tradizione ormai consolidata ed è venuto, come di consueto, il Vescovo diocesano Gerardo Antonazzo, accompagnato da Don Benedetto Minchella, nel cui territorio parrocchiale insiste il Tribunale e, a servire all’altare e guidare i canti, Francesco Paolo Vennitti.

L’atmosfera si fa raccolta, l’aula è divenuta un’oasi di pace, c’è disposizione all’ascolto e alla meditazione, tacitate per un po’ le tante faccende che assorbono abitualmente mente ed energie.

Il Vescovo lo nota, lo sottolinea e anzi, collegandosi al brano evangelico dell’Ultima Cena appena letto (Gv

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13,21-33.36-38), paragona quest’aula al Cenacolo. Risaltano due personaggi, per illuminarci sulla qualità della nostra vita cristiana ed umana, ha osservato. Uno è Pietro che, al momento della lavanda dei piedi, voleva rifiutare, ma in realtà il suo è un atto non di rispetto ma di paura: lo stile del servizio che Gesù mostra lavando i piedi ai suoi, significa “sporcarsi le mani”, impegnarsi, e Pietro non prende impegni.

L’altro personaggio, centrale nel brano letto, è Giuda, figura molto più complessa. Ma, ha continuato Antonazzo, mentre Pietro sulle prime reagisce, poi rimane nel Cenacolo con Gesù;

ci vuole disponibilità a voler bene al Signore. Giuda invece esce, si mette fuori. Poi Gesù fa una denuncia che sorprende gli apostoli: “Uno di voi mi tradirà”, non dice chi, perché vuol dare importanza non al nome ma alla gravità del gesto. E’

comunque uno dei dodici, che sono stati con Gesù, a cui ha voluto bene, ha lavato i piedi. Quando gli chiedono chi è, dice: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E’ significativo questo gesto, spiega il Vescovo Gerardo, perché chi ospitava lo riservava all’ospite di riguardo come espressione di massimo rispetto. Vuol dire che Gesù sta offrendo a Giuda ancora una possibilità, lo tratta da ospite di riguardo pur di abbattere l’odio che Giuda porta dentro, ma lui non la raccoglie e abbandona tutti, è un disperato che non trova altra soluzione che la via di fuga.

“Era notte”, dice il Vangelo: non è Giuda che entra nella notte, ma la notte che è entrata in lui. Questa pagina, di spessore straordinario, nota ancora Antonazzo, ci invita a fare come Gesù, che secondo giustizia mette sì in luce l’errore compiuto, ma con l’altra mano offre il perdono.

Perdono non senza giustizia.

Gesù non riesce a far tornare indietro Giuda. Anche per noi talvolta i tentativi di riconciliazione falliscono, ma l’importante è dare a chiunque, dopo l’errore, la possibilità di redimersi. Questa è la Pasqua. L’offerta del perdono,

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cercare di ripristinare con la salvezza del perdono, la possibilità di ricominciare ancora una volta, questa è Pasqua, vera salvezza.

Al termine della Celebrazione il Presidente Vicario dott.

Capurso ha usato parole di ringraziamento per il Vescovo Antonazzo per “aver portato in questo Tribunale la sua parola”, perché è importante fermarsi a riflettere. Lo scambio di auguri pasquali ha concluso un incontro denso di significato.

Adriana Letta

ALBUM FOTOGRAFICO PRECETTO PASQUALE IN TRIBUNALE

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

Omelia per la domenica delle Palme

Un Dio strano, ma non estraneo

Omelia per la domenica delle Palme 9 aprile 2017

“Questa assemblea liturgica è preludio alla Pasqua del Signore”. Queste parole della liturgia orientano, dunque, lo spirito della nostra preghiera agli eventi che daranno

“compimento al mistero della sua morte e risurrezione”. Un repentino mutamento di scena e di clima spirituale ci farà passare dai rami della festa all’albero della croce. Gli inni e i canti delle folla esultante, le grida e gli schiamazzi di bimbi e ragazzi, lasceranno il posto al grido del dolore, quello dell’Uomo della Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La domenica delle Palme diventa immediatamente domenica di Passione. La gioia della Città santa per il Messia si tramuta da lì a poco nel dolore del Messia per Gerusalemme, anticipato nel lamento per l’ostinato rifiuto:

“Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto

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raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Mt 23, 37).

La scelta paradossale di Dio

E’ davvero strano il Signore, agisce contro ogni logica pur di non restare estraneo ai nostri problemi: “Cristo Gesù, pur e s s e n d o n e l l a c o n d i z i o n e d i D i o , n o n r i t e n n e u n privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”(Fil 2, 5-7). Non trattiene per sé la natura divina, a voler conservare le distanze dalla condizione umana. Quella di Dio è davvero una scelta assurda, incomprensibile. Il suo è un errore imperdonabile? Ci lascia sorpresi, perché Lui che poteva evitare il dolore, di proposito lo sceglie; mentre l’uomo, che di certo non sceglie il dolore, non riesce ad evitarlo. Dio decide di non restare a guardare. Preferisce essere “strano”, non capito e non creduto, piuttosto che restare estraneo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in E g i t t o e h o u d i t o i l s u o g r i d o [ … ] : c o n o s c o l e s u e sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto”

(Es 3, 7-8). Dio non fa finta di non vedere, non fa finta di non soffrire e non resiste alla “tentazione” di sporcarsi le mani: freme di compassione, prende l’iniziativa e decide di

‘scendere’ per intervenire e liberare, non certo per fare del male. Nella kenosis (abbassamento-umiliazione) di Cristo, Dio condivide tutto della condizione umana: il peccato no, ma il dolore sì! Anzi, tutto sembra finalizzato alla partecipazione al dolore dell’uomo. Perché? Perché la maledizione del peccato, causa di ogni dolore inflitto all’umanità e all’intera creazione, non poteva essere risolta e salvata se non con il dolore di Dio. Lui fa realmente sua la nostra maledizione, nell’anima e nel corpo. Per noi il dolore è una costrizione, per Lui è scelta d’amore. Decisione libera e consapevole. Si consegna volontariamente al dolore, con una

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libertà sovrana: “Gesù si fece innanzi e disse loro: ‘Chi cercate?’. Gli risposero: ‘Gesù, il Nazareno’. Disse loro Gesù: “Sono io!” (Gv 18,4-5).

Dolore salvifico

Se la domanda sul dolore dell’uomo è difficile, molto più complicata è la questione del dolore di Dio. Non ci turba solo la domanda: perché l’uomo soffre? ma ci inquieta perché Dio ha scelto di soffrire. E’ ammissibile un Dio sofferente? Avrebbe potuto salvarci dalla maledizione del peccato in modo diverso:

“Se tu sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (Mt 27, 40).

Non lo fa! Non si lascia tentare. La Croce, di cui le palme sono preludio, è una “passione d’amore” nel senso che parla di un dolore che è segno di amore. Scrive Bruno Forte: “La croce è dunque il luogo in cui Dio parla nel silenzio: quel silenzio della sofferenza umana, che è diventata per amore la sua sofferenza! [ ]Il Dio cristiano soffre perché ama, ed ama in quanto soffre [ ]. Nella morte di croce il Figlio è entrato nella ‘fine’ dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, della sua tristezza, della sua solitudine, della sua oscurità”.

La consegna del dolore

Nel momento estremo del tormento, le tenebre del Calvario si illuminano di una luce imprevedibile; nell’ora estrema dell’abbandono da parte del Padre, Cristo trasfigura l’imprecazione in preghiera di abbandono a Lui e sigilla la sua totale consegna: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”(Lc 23,44). Nella triste condizione del fallimento, ogni uomo e donna non potrà non sentirsi intimamente unito a chi, anche Lui abbandonato, solo con se stesso, si sente tradito, angosciato. Come chi lotta, giorno dopo giorno, per

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mantenere viva la speranza, e giungere a sentire Dio non più un nemico, ma un Padre buono che, allargando anche Lui le braccia, mi abbraccia per accogliere lo strazio della mia disperazione, e trasfigurarlo in sacrificio d’amore, farmaco di guarigione interiore.

Grazie al dolore di Gesù crocifisso anche il dolore dell’uomo cambia volto, cambia significato. Se il nostro dolore fosse condannato all’assurdo non sarebbe altro che una tragedia, un peso insopportabile. Se invece la sofferenza è trasfigurata dal dolore di Dio, l’oscurità terribile dell’angoscia è perforata dal raggio della luminosità del Crocifisso: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Il dolore umano dei nostri lamenti ci trapassa l’intimo e ci distrugge; invece, il dolore consegnato nelle mani perforate di Cristo, ci risana e ci fa sentire parte di un mistero universale d’amore e di guarigione. Nel soffrire con Cristo diventa possibile trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire. “Il dolore – scrive don Gnocchi – non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri”; esso “ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti”.

+ Gerardo Antonazzo

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Precetto Pasquale in caserma

Precetto Pasquale in caserma

Il Vescovo Antonazzo celebra a Cassino la Messa per l’80°

Reggimento “Roma”

Precetto Pasquale nella caserma dell’80° Reggimento R.A.V.

“Roma” di Cassino giovedì 6 aprile. A presiedere la celebrazione, il Vescovo, mons. Gerardo Antonazzo, a concelebrare con lui il cerimoniere Don William Di Cicco ed il cappellano militare Don Mauro. Gremito il salone adibito a chiesa per l’occasione, militari, personale della Caserma, Autorità civili, tra cui il Sindaco di Cassino Carlo Maria D’Alessandro, e militari, oltre che rappresentanti delle associazioni combattentistiche e d’arma; ad animare la liturgia la Corale polifonica del Comune di Ausonia.

Il cappellano della caserma, Don Mauro, ha porto il saluto iniziale di ringraziamento al Vescovo e a tutti gli intervenuti, con un pensiero anche a coloro che non ci sono più ma che hanno fatto parte della grande compagine dell’80°

Reggimento “Roma”.

Iniziata la celebrazione in questo “preludio” di Pasqua, dei militari hanno proclamato le letture del giorno, su cui si è soffermato il Vescovo Antonazzo nell’omelia. Ponendo al centro la figura di Abramo, personaggio importante ed emblematico, presentato già molto anziano e senza figli, cosa che nella mentalità diffusa era considerato un disonore ed una maledizione, il Vescovo ha fatto notare come Dio interviene in questa storia con una proposta di alleanza perenne e una

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promessa, umanamente incredibile: diventerai padre di una moltitudine di nazioni e, a lui pastore e non proprietario di terre, promette: la terra dove sei forestiero, tutta la terra di Canaan, la darò in possesso per sempre a te e alla tua discendenza dopo di te. Unica condizione che pone Dio: Da parte tua devi essere fedele alla mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione (Gen 17,3-9). Ecco, ha fatto notare il Vescovo, due sono gli aspetti da considerare: la promessa e la fedeltà. Due dimensioni particolari anche per la vita di tutti noi. Dio è il Dio delle promesse, sogna e aiuta a sognare cose belle, nobili, di valore. Noi siamo meritevoli di promesse perché capaci di fedeltà. Lo abbiamo chiesto, ha aggiunto, nella preghiera iniziale della Messa: questa tua famiglia che ha posto in te ogni speranza, resti fedele all’impegno del Battesimo, e ottenga in premio l’eredità promessa. A volte si è frettolosi nell’esigere ma senza responsabilità, nel pretendere ma senza impegnarsi. Dio vuole un rapporto di reciprocità, basato sulla continuità tra promessa e fedeltà:

lo possiamo ripensare in ogni ambito di vita, nella vita di coppia, di amicizia, nell’attività professionale, nei ruoli di responsabilità. Non può che far bene a noi e a tutti. Ogni fedeltà merita le promesse che quell’impegno comporta e ogni promessa esige la nostra fedeltà. Di questo abbiamo bisogno tutti i giorni, la persona fedele è anche affidabile. Allora avvicinandoci alla Pasqua, restiamo fedeli ai nostri impegni, e meriteremo ciò che Dio ci promette.

Prima della benedizione conclusiva, impartita dal Vescovo, il Comandante del Reggimento, col. Francesco D’Ercole, ha letto la toccante Preghiera della Patria: tutti hanno ascoltato partecipi sull’attenti. Terminata la celebrazione, il col.

D’Ercole ha pronunciato parole di ringraziamento per il vescovo e per i presenti, ricordando i Caduti ed invitando tutti, sulla scia delle parole del vescovo e riferendosi anche ai gravi e preoccupanti fatti accaduti in Siria, ad andare incontro alla Pasqua in modo più attento e consapevole,

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prendendosi tempo per pensare e meditare e ricercando la pace.

A lui ha risposto Antonazzo, augurando a sua volta una Santa Pasqua, che “porti santità nella vita di tutti”.

Adriana Letta

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

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Orientamenti e sperimentazioni pastorali

Orientamenti e sperimentazioni pastorali

L’accordo tra la Diocesi ed il Centro di Orientamento Pastorale (COP)

Un accordo di cooperazione al fine di orientamenti, programmi di ricerca, conferenze, convegni ed altri percorsi di sperimentazione pastorali.

Il 3 aprile alle ore 16.30, presso la sede del COP in via Aurelia 481 in Roma, si sono incontrati per la firma d’intesa, il vescovo Domenico Sigalini (ordinario della diocesi di Palestrina e Presidente del Cop) ed il vescovo Gerardo A n t o n a z z o ( o r d i n a r i o d e l l a d i o c e s i d i Sora–Cassino–Aquino–Pontecorvo). Unitamente ai due vescovi a seguire concretamente questo progetto di collaborazione sono don Antonio Mastrantuono e il dott. Fortunato Ammendolia, per il Cop, mentre don Domenico Buffone e l’ing. Riccardo Petricca sono delegati per la Diocesi sorana. Come si legge nel documento, l’accordo ha l’intento di instaurare e consolidare relazioni finalizzate agli orientamenti, alla ricerca e alla sperimentazione pastorale con particolare attenzione al Magistero pontificio, alle scienze umane e tecniche (tecnica come ambiente). Concretamente, ci si avvarrà dell’innovativo strumento che è “Pastorale Digitale”, realtà già avviata e in crescita nella Diocesi.

L’esperienza di Pastorale Digitale, che va inserita nel quadro più ampio della pastorale per le Comunicazioni Sociali, definita secondo il linguaggio di Firenze 2015 è un “uscire”,

“annunciare”, “abitare”, “evangelizzare” e “trasfigurare”

della Chiesa nel web: ciò contribuisce a un’azione trasversale tra le macro aree della pastorale tradizionale, note come

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catechesi, liturgia e carità. Da una pastorale di settore al camminare insieme (sinodalità), quindi. L’accordo vedrà l’applicazione primaria in ambiti come iniziazione cristiana, famiglia, dialogo interculturare ed ecumenismo, religiosità popolare.

Proprio la Pastorale digitale può far crescere la “sensibilità ecclesiale” e “potenziare la rete di comunione della diocesi”.

Ne è convinto il vescovo Antonazzo che ha riconosciuto in essa non solo un formidabile strumento di pastorale integrata ma anche una promozione per vivere in modo “meno faticoso”

l’accorpamento alla diocesi, avvenuto poco più di due anni fa, del territorio precedentemente appartenente all’abbazia territoriale di Montecassino. Il digitale «ha favorito sia il processo di conoscenza delle varie realtà, sia da parte delle singole parrocchie della vita della diocesi». «A noi – ha precisato il vescovo – non interessa mettere in rete, ma mettere in comunione attraverso la rete». «Questa è la direzione giusta» ha rimarcato il vescovo Antonazzo, dal momento che «stare fuori dal digitale significa stare fuori dalla storia». Piuttosto, «il problema è come starci dentro da cristiani, come Chiesa, veicolando su Internet contenuti belli e significativi». Stando sempre attenti, ha concluso, a evitare di spersonalizzare la pastorale digitale, ricordando quanto dice la Dei Verbum, ovvero che con la Rivelazione Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici.

Alessandro Rea

Foto Riccardo Petricca

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

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La Prima Guerra Mondiale e l’Alta Terra di Lavoro

La Prima Guerra Mondiale e l’Alta Terra di Lavoro

Presentato il libro di Gaetano De Angelis Curtis, Presidente CDSC, un’opera di grande valore, che recupera la memoria

storica di un periodo un po’ dimenticato

Pubblico delle grandi occasioni nella sala degli Abati a Cassino venerdì 31 marzo per una nuova iniziativa del CDSC (Centro Documentazione e Studi Cassinati – Onlus), la presentazione del libro del suo Presidente Gaetano De Angelis Curtis “La Prima Guerra Mondiale e l’Alta Terra di Lavoro – I caduti e la memoria“, edito con il patrocinio ed il contributo del Consiglio Regionale del Lazio e dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Un’opera di grande valore storico, frutto di un lavoro immane di ricerca, documentazione, verifica, portato avanti per anni e che ora vede la luce e segna certamente un riferimento importante per tutto il territorio.

Il giornalista Fernando Riccardi, moderatore, annunciato che il Prefetto Zarrilli aveva avvertito di non poter essere presente, ha dato subito la parola al Sindaco di Cassino Carlo Maria D’Alessandro, che nel porgere il suo saluto ha ringraziato l’Autore e ribadito l’importanza di Cassino come fulcro di un vasto territorio, la Terra di lavoro, con un ineludibile ruolo non solo nella seconda guerra mondiale, più celebrata e rievocata, ma anche nella prima e che non bisogna scappare dal passato ma utilizzarlo come base per costruire il futuro.

Il Vescovo diocesano Gerardo Antonazzo ha riaffermato l’alto valore educativo del recupero della memoria storica. Il libro,

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ha osservato, in un primo momento può scoraggiare, ma se si inizia a leggere, non lo si lascia più. In particolare si è soffermato sul capitolo che parla di “Chiesa e guerra”, in cui si mostra il coinvolgimento della Chiesa, seppure inizialmente neutrale, nel sostegno alla mobilitazione civile, nell’assistenza religiosa ed economica della popolazione locale. In particolare il libro richiama la figura dell’Abate Gregorio Diamare, ordinario di Montecassino, segnalato al Presidente del Consiglio Salandra tra i vescovi “meritevoli di ringraziamento”. L’Abate si trasferì in città e proprio nel palazzo abbaziale ci fu il centro organizzativo per rispondere meglio alle necessità, emergenze e invocazioni della gente di Cassino, tanto che gli fu poi conferita la Medaglia d’Oro per tutta l’attività svolta durante e dopo la guerra in favore dei soldati, delle famiglie e degli orfani. Tutto ciò, ha concluso Antonazzo, è una linfa vitale che non può non lasciare traccia e continua a scorrere in profondità e qualifica e identifica la cittadinanza. Queste energie vitali servono ancora oggi nelle emergenze e a farci trovare convergenti là dove c’è una questione sociale. Cassino lo ha dimostrato e lo dimostra ancora se mantiene la memoria storica ravvivando il passato nel presente.

Tutti concordi gli altri saluti istituzionali. Il Col.

Francesco D’Ercole, Comandante 80° Reggimento RAV Lazio, ringraziando e complimentandosi con l’Autore, si è soffermato sul capitolo dedicato ai prigionieri austro-ungarici e al Campo di concentramento di Caira-Cassino, in cui le condizioni di vita erano abbastanza buone e costituiscono ancora oggi un esempio di umanità e civiltà.

Prendendo spunto da ciò, Marino Fardelli, Consigliere della Regione Lazio, ha suggerito una riflessione comune perché le istituzioni dialoghino, al di là delle appartenenze politiche e, al fine di conservare e consegnare ai giovani la memoria storica, provino a fare squadra e ideare un modo di valorizzare l’ex Campo di concentramento, anziché venderlo e

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snaturarlo. Ha invitato pertanto le istituzioni presenti, anche quelle culturali, a pensare ad un diverso modo di utilizzo e valorizzazione di questo monumento storico.

Il Rettore dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, prof. Giovanni Betta, dicendosi orgoglioso che il simbolo dell’Ateneo sia su un libro così importante per aiutare la memoria e trovando “splendido” vedere la sala piena, a dimostrazione che la Città “ha memoria”, ha ringraziato l’Autore, sottolineando che per conservare davvero la memoria occorrono i libri più che le pubblicazioni online, per tramandare ai giovani riflessioni, ricerche e studi.

La presentazione del libro è toccata, e non poteva essere altrimenti, alla prof.ssa Silvana Casmirri, Docente emerito di Storia contemporanea dell’Ateneo cassinate, e lo ha fatto da par suo, riuscendo a coniugare perfettamente la necessità di sintesi con la chiarezza e la consegna ai presenti di che cosa il libro contiene e rappresenta e in che modo. De Angelis Curtis, ha detto, si è attenuto ad una documentazione sconfinata, vagliata con cura ed estrema attenzione. La Premessa, che fa da introduzione all’opera, è come un piccolo libro a sé stante, in essa si sente una certa pietas, perché l’Autore coniuga il suo interesse di studioso con l’amore per la sua terra. Parla del contributo della gente della Terra di Lavoro alla Prima Guerra Mondiale, che fu di fatto la prima guerra “nazionale” per l’Italia, guerra di massa, totale, col coinvolgimento dei civili. La prima parte verte appunto sui civili, coinvolti in una serie di compiti, obblighi e sacrifici per “sostenere la patria in armi”, dare supporto ai combattenti, padri, mariti, figli al fronte. Essenziale il ruolo dei Prefetti per organizzare comitati, provinciali e comunali, per l’assistenza. Nel libro si dà poi rilievo alla emersione dell’elemento femminile sulla scena pubblica:

l’ingresso delle donne nelle fabbriche e in ogni tipo di lavoro, ma soprattutto le donne sono il perno del sostegno nei comitati comunali di assistenza civile, organizzano uffici

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notizie, spedizioni di pacchi-viveri ai prigionieri, di indumenti di lana, che lavorano personalmente, si mobilitano nella scuola per la refezione dei figli dei richiamati e degli orfani, sempre più numerosi, promuovono raccolta fondi. Ci sono le borghesi Dame visitatrici, mentre le donne del popolo sferruzzano. La Casmirri indica molti paragrafi analitici ricchi di note, che ricostruiscono bene la situazione, come pure il coinvolgimento della classe politica dirigente dell’epoca nei Comitati di assistenza civile e anche religiosa. Altro aspetto messo molto bene in luce nel libro, avverte la relatrice, sono le lotte sociali, gli scioperi e le proteste sociali negli anni 1916-’17.

Illustrando la struttura del volume, la prof.ssa Casmirri sottolinea anche, a guerra finita, le conseguenze negative e l’opera di ricostruzione del tessuto sociale, l’organizzazione per gli orfani e l’avvio della fase della memoria, con celebrazioni e monumenti, variazioni di toponomastica, in una sorta di “iconografia del dolore”. In tali pagine, ha osservato, si sente la partecipazione affettiva dell’Autore.

La seconda parte del libro, ha proseguito la storica, è un’opera mastodontica, che raccoglie dati per ogni Comune, in ordine alfabetico, ed elenca caduti, reduci, monumenti, vicissitudini, con tre preziose tabelle comparative dei dati.

Insomma quest’opera ci obbliga moralmente a ricordare e a continuare a studiare, ha concluso, tra gli applausi la relatrice.

Gaetano De Angelis Curtis ha ringraziato tutti i presenti ed in particolar modo i soci e gli amici del CDSC che l’hanno aiutato e supportato nel lungo lavoro di ricerca in un “sforzo collettivo”.

Un pomeriggio davvero ricco e interessante, all’altezza di un libro destinato a rappresentare un pilastro della storia e della cultura del territorio.

Adriana Letta

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Source: DiocesiSora.It – Vescovo

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Obiezione di coscienza in ambito medico

Se ne è discusso a Cassino in un convegno organizzato in università

dal prof. Vincenzo Baldini, Direttore del “Laboratorio dei

diritti fondamentali”

Un Convegno come un laboratorio, quello svoltosi venerdì 24 marzo nel Campus universitario della Folcara a Cassino sul tema “Il diritto all’obiezione di coscienza in ambito medico:

implicazioni di ordine medico, deontologico e giuridico“. Un tema di grandissima attualità, su cui il dibattito, anche in seguito a recenti fatti di cronaca, si è riacceso potente. Al tavolo dei relatori, oltre al prof. Baldini che faceva da moderatore e coordinatore dei lavori, rappresentanti di tendenze diverse, in ambito etico, giuridico, filosofico e medico, che si sono confrontati in un dialogo proficuo e certamente da portare avanti.

Il primo al quale, dopo un’adeguata introduzione per inquadrare l’argomento, il prof. Baldini ha dato la parola è stato il Vescovo Gerardo Antonazzo, che si è addentrato ad analizzare il significato antropologico dell’obiezione di coscienza in un orizzonte valoriale. Per spiegare come nasce e si giustifica il conflitto tra la libera coscienza e la legge, ha chiarito due questioni preliminari: la distinzione tra etica (molto più universale, legata intrinsecamente alla struttura della persona) e morale (più immediatamente legata ad una confessione religiosa); ed il significato preciso della coscienza. Quando si dice “agire secondo coscienza”, ha

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affermato, bisogna distinguere una coscienza psicologica (consapevolezza dell’azione umana nel suo compiersi) e coscienza morale, cioè consapevolezza del valore morale o etico dell’azione. Ponendo la domanda: perché la persona nell’agire deve seguire la propria coscienza? perché la sua libertà deve essere vincolata all’etica o alla morale? Il valore umano, ha risposto, si fonda sull’entità ontologica della persona. Il giudizio della ragione, se è certo, retto e sincero, crea un’istanza etica, per es. non uccidere e quindi rispetto della vita. La ragione, così, non è costrittiva, al contrario: libera la persona da ogni manipolazione o costrizione e la rende capace di agire secondo coscienza.

Dunque, l’uomo trascende se stesso, perché segue un criterio che lo supera, la sua ragione è legata ad una verità oggettiva, che egli ritrova, riconosce e a cui aderisce, e che riguarda questioni umane che si impongono ad una valutazione seria e serena. Perciò il tentativo di strumentalizzazione per es. della medicina contro una verità oggettiva “obbliga” la coscienza a ribellarsi. Un’altra acuta osservazione del Vescovo ha riguardato il “bene comune” che, ha detto, non coincide necessariamente con il “bene della maggioranza”, perché il bene comune è la ricerca per mettere ogni persona nelle condizioni di poter portare a perfezionamento il proprio essere, la propria vita. Le condizioni essenziali e obiettive che lo Stato deve garantire per legge sono: difendere la vita di tutti, specialmente dei più indifesi e fragili, e non imporre a nessuno di togliere la vita ad altri, tanto meno al medico di prestare la propria opera a tal fine.

E’ dentro questo orizzonte valoriale che il rispetto della vita deve essere garantito ad ogni uomo ed esso non può essere mai strumentalizzato o manipolato. La vita umana, inoltre, non è solo fisicità (comune a tutti gli esseri animati), ma è corporeità (propria dell’uomo) irriducibilmente unita alla spiritualità come una cosa sola. Il corpo, manifestazione della persona, ha rilevanza etica e morale e partecipa della

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dignità propria della persona umana, è soggetto e non oggetto e non può essere manipolato da padroni o arbitri.

Mons. Pietro Florio, Rettore del Seminario Arcivescovile di Benevento e Docente di Diritto canonico presso lo Studio Teologico di Benevento, ha parlato sul conflitto che si crea tra norma positiva posta da una società o uno Stato, e coscienza, che rifiuta di osservare una legge ritenuta ingiusta. L’obiettore, ha notato, intende affermare tre cose:

c’è un valore più grande della legge positiva; la coscienza viene prima della legge; la persona ha il diritto di valutare la norma. E’ evidente alla ragione umana, libera da pregiudizi, che esistono dei valori inerenti alla persona umana, che sono stati sempre riconosciuti nella storia, anche se attuati in modi diversi. Ha citato esempi precristiani, l’Antigone di Sofocle si appella contro il tiranno a “leggi non scritte e immutabili che ci sono sempre state” e alla definizione di “legge naturale” di Cicerone. L’obiezione di coscienza, ha concluso, è un diritto soggettivo e inalienabile della persona umana, anche se non fosse riconosciuto dalla legge.

Il prof. Fausto Pellecchia, docente di Filosofia teoretica dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, dichiarando che il filosofo vola più basso, col “volo della civetta”, ha portato il discorso sul recente caso del concorso all’ospedale S. Camillo di Roma per l’assunzione di due medici non obiettori di coscienza per garantire il servizio previsto dalla Legge 194 di IVG. Asserendo che non esiste un codice morale condiviso da tutti, ha illustrato le due ipotesi riguardo la legge 194, che sono state avanzate. Una, massimalista, sostenuta da Micromedia, propone addirittura l’abrogazione del diritto di obiezione di coscienza; l’altra, minimale, avanzata dall’associazione “Noi Chiesa”, propone una modifica alla legge inserendo per i medici obiettori servizi alternativi obbligatori e gratuiti.

Per chiarire i termini della questione relativa alla L. 194 e

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al caso “S. Camillo”, la dott.ssa Maria Cristina Carbone, Dottore di ricerca in “La tutela dei diritti fondamentali”, ha proposto un’analisi ragionata del testo del bando di concorso e della legge stessa. A rappresentare il punto di vista medico, è stato il Dott. Donato Limongelli, dell’Azienda Sanitaria Ospedaliera di Benevento e capostruttura del reparto di IVG, Interruzione Volontaria di Gravidanza.

E’ chiaro che da tanti contributi autorevoli non poteva che essere stimolato il dibattito, che infatti c’è stato e, come ha osservato il prof. Baldini, è stato un vero “laboratorio”, un cammino di confronto e di dialogo, di riflessione e conoscenza. E questo è già sicuramente un grande risultato.

C o n l ’ a u s p i c i o c h e i l c o n f r o n t o p o s s a p r o s e g u i r e proficuamente.

Adriana Letta

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