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Disabilità: i diritti della persona, i doveri del gestore

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Disabilità: i diritti della persona, i doveri del gestore

written by Redazione | 9 Novembre 2020

Davvero importanti sono i regali che il nuoto può fare alle persone con disabilità, sotto il profilo psico-motorio donando scampoli di un’autonomia utile e produttiva nelle piccole e grandi difficoltà della vita di tutti i giorni. E quel sorriso, quel divertimento, quel clima ricreativo accanto ad altri che costituisce una imprescindibile dose di fiducia in se stessi e nel prossimo.

È il Presidente del Comitato italiano paralimpico Luca Pancalli a ricordarci che l’acqua rappresenta l’ambiente naturale in cui meglio riusciamo ad esaltare le nostre capacità e ad appiattire le diversità soprattutto ove queste, nel connotato negativo, non costituiscono sinonimo di arricchimento quanto piuttosto di esclusione, financo emarginazione.

In questo spazio si prova a fare chiarezza su alcuni profili che attengono alla sfera dei diritti della persona disabile che si affaccia ad un impianto natatorio, e a quella dei doveri in capo a chi gestisce l’impianto medesimo nel momento in cui un disabile chiede di poter nuotare.

È bene sottolineare subito la distinzione, non sempre agevole da cogliere, tra

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handicap, disabilità e invalidità civile, onde sgombrare definitivamente il campo da qualsiasi dubbio interpretativo per chi non ha la dimestichezza quotidiana e professionale con queste situazioni.

Parlare di handicap significa fare riferimento alla nota Legge-quadro 104 del 5 febbraio 1992 quanto ad assistenza, integrazione sociale e diritti. In qualità di legge-quadro fissa i principi fondamentali della materia lasciando poi alle Regioni l’adozione di una normativa di dettaglio. Una legge fondamentale per il riconoscimento di tutele giuridiche alle persone disabili, e anche ai loro familiari, nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti di libertà e di autonomia. E che si applica anche agli stranieri e agli apolidi residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale.

Chi può essere definito persona handicappata ai sensi di questa legge? Trattasi di persone con minorazione fisica, psichica o sensoriale, in forma stabile o progressiva, la quale costituisce causa di difficoltà di apprendimento, di relazione sociale o di integrazione lavorativa, ed in ogni caso tale da generare uno svantaggio sociale fino alla forma più pesante della emarginazione. Uno stato il cui accertamento compete alle commissioni mediche presso le Aziende sanitarie locali. Merita menzione il comma 2 dell’art. 23 in cui si pone a carico delle Regioni, dei Comuni e del CONI la fruibilità delle strutture sportive da parte di persone handicappate, ciascuno per gli impianti di propria competenza e con eliminazione di barriere architettoniche.

Il riconoscimento della situazione di handicap non dà luogo a provvidenze economiche ma ad una serie di agevolazioni come ad esempio i permessi lavorativi per il lavoratore disabile e per il familiare che si occupa della sua assistenza.

Con il termine invalidità civile il riferimento va a persone, maggiorenni o di minore età, le cui limitazioni anatomiche-fisiche (uditive-visive) ovvero psichiche- i n t e l l e t t i v e r e n d o n o d i f f i c o l t o s o l o s v o l g i m e n t o d i a z i o n i quotidiane. L’accertamento da parte di commissioni delle Aziende sanitarie produce un riconoscimento di invalidità espressa in misura percentuale in una forbice che va da un minimo del 33% ad un massimo del 100%. Il Decreto legislativo n. 509 del 1988 valuta la residua capacità lavorativa del soggetto con menomazione per il quale, quindi, neppure una invalidità del 100% (con o senza indennità di accompagnamento) preclude un inserimento nel mondo del

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lavoro quantomeno a priori.

Il riconoscimento di un’invalidità civile dà luogo a benefici economici in misura ovviamente proporzionale alla percentuale riconosciuta. Si badi bene: la diversità nei criteri di valutazione dell’invalidità civile e dell’handicap fa sì che anche in presenza di una invalidità non del 100% vi sia comunque un handicap riconosciuto in tutte le ipotesi in cui la patologia precluda di fatto al soggetto una vita di relazione sociale e di inserimento nel tessuto sociale. Si pensi ad alcune ipotesi di epilessia che seppur non riconosciute al 100% come invalidità civile rendono di fatto difficile se non impossibile una piena e normale vita sociale. La diversità di criterio identificativo rende le due situazioni non interdipendenti onde la presenza dell’una non impone quella dell’altra: può sussistere il riconoscimento di handicap grave pur in assenza di invalidità civile certificata.

Diversamente l’accertamento della disabilità è finalizzato alla collocazione lavorativa del soggetto in questione, la più adatta alle sue capacità attuali e potenziali così come valutate dalla commissione medica dell’Azienda sanitaria.

La Legge n. 68 del 1999 prevede il collocamento obbligatorio di persone con disabilità nelle aziende che occupano più di 15 dipendenti.

Ora, torniamo al nostro impianto natatorio, al nostro gestore. La distinzione fin qui sottolineata come rileva? Intanto da un punto di vista meramente nozionistico perché non guasta mai la conoscenza di ciò che si incontra nelle persone che attraversano il nostro percorso professionale.

Ove l’impianto natatorio abbia natura privatistica la politica perseguita da chi ne ha la proprietà fa la differenza. Una volta messe al bando tutte le barriere architettoniche all’interno dell’impianto (dicasi spogliatoi, docce, piano vasca) quale obbligo di legge (Decreto Ministeriale 14 giugno 1989 n. 236), sceglierà se dotarsi o meno degli strumenti indispensabili al nuoto disabili come il sollevatore per chi ha difficoltà deambulatorie, ovvero se organizzare o meno corsi specifici con personale specializzato. Spesso la scelta gestionale si indirizza verso attività fisioterapiche-riabilitative all’interno dell’impianto per le quali la domanda è sempre molto alta, sono molto redditizie e poco invasive.

Ove la struttura sia comunale cambiano le cose e dobbiamo appellarci al contenuto, sovra citato, dell’art. 23 comma 2 Legge 104 ove è compito specifico, tra gli altri soggetti pubblici, del Comune di consentire alle persone disabili

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l’accesso agli impianti sportivi di sua competenza. Questo non può che significare in primis eliminazione di barriere architettoniche in tutto l’impianto a partire dalle porte di accesso, spogliatoio, bagni: munirsi di maniglioni a parete per appoggio e di impianti doccia adattati. Quanto al piano vasca occorre munirsi di sollevatore quale ausilio indispensabile per portare l’utente dalla sedia a rotelle fin dentro la vasca, e viceversa, in maniera lenta e sicura. La piscina potrà assumere personale specializzato FINP, FISDIR, fisioterapico-riabilitativo, organizzando al proprio interno corsi di nuoto adattati potendo sfruttare, ove possibile, vasche di altezze e temperature diverse utili a seconda dell’età e della patologia.

Senza dimenticare, qualunque sia la natura dell’impianto natatorio, la predisposizione di specifici parcheggi destinati a chi è munito di relativo tesserino rilasciato dalle autorità locali per la sosta nell’imminenza del portone di entrata.

Nel momento in cui la persona disabile si rivolge alla segreteria della piscina, ove possibile personalmente, oppure in compagnia di chi ne ha cura, una volta dichiarato il suo stato, autocertificato compilando la modulistica predisposta dalla segreteria, gli verranno elencate tutte le opportunità che quell’impianto è in grado di offrirgli come per qualunque altro utente, nel pieno rispetto della sua diversità e dei suoi bisogni concreti.

L’Amministrazione comunale partecipa dell’attività dell’impianto natatorio dato in gestione in diverse forme che attengono alla struttura dell’impianto e alla sua manutenzione (generalmente straordinaria), nonché attraverso un sostegno economico per il settore della disabilità come contributo alle famiglie o ristoro al gestore per le spese sostenute al fine di garantire il servizio migliore possibile.

Il tema fin qui trattato legittima una digressione di specie perché può essere interessante cogliere il rilievo e l’evoluzione socio-culturale dei termini che si usano abitualmente in modo del tutto indifferente.

Qui entra prepotentemente in gioco l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) alla quale si deve la definizione di handicap comunemente accettata a partire dal 1980 (ICD – International classificazione of diseases) intesa quale condizione di svantaggio sociale per un soggetto che presenti una menomazione impeditiva di una vita normale per la sua età.

Nel 1999 l’OMS realizza una nuova classificazione internazionale (ICIDH-2,

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International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap) in cui la menomazione diviene l’esteriorizzazione di una patologia, le disabilità si trasformano in attività personali e la parola handicap sparisce completamente per essere sostituita dal concetto di partecipazione sociale limitata dalla menomazione.

Nel 2001 l’OMS compie un passo avanti determinante con una classificazione innovativa e multidisciplinare alla cui stesura hanno partecipato 192 Paesi tra cui l’Italia: ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) quale Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute.

Mentre in passato veniva dato ampio spazio all’individuo con le sue malattie, menomazioni, handicap quali elementi negativi produttivi di un deficit, ora si analizzano le varie dimensioni esistenziali dell’individuo: lo stato di salute, il contesto familiare e lavorativo (culturalmente aperto, inclusivo, facilitante o chiuso e ghettizzante), le abilità e risorse residue. Quindi il percorso evolutivo passa da una prospettiva meramente medico-sanitaria, concentrata sul deficit e le carenze del soggetto, ad una bio-psico-sociale in cui la disabilità multidimensionale nasce dal connubio tra stato di salute e le barriere del contesto sociale in cui la persona si trova a vivere. Una disabilità quale fenomeno dinamico ed interattivo tra salute e parametri ambientali.

Si è fuori perciò da una visione ghettizzante e pietistica per cogliere la pienezza dell’individuo in sé nella sua dignità così come riconosciuta e tutelata nella Grundnorm dell’art. 2 della Costituzione.

Se poi è il termine da usare quello che ci preme, una volta posta al centro la persona nella sua unicità e nelle sue reali potenzialità, credo che dire disabile/disabilità sia la cosa preferibile, obiettiva, fuor di retorica, e decisamente la più usata nel linguaggio comune e degli addetti ai lavori, anche a livello internazionale.

Maria Cristina Giuliodori

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Avvocata, dottoressa di ricerca, collaboratrice alla cattedra di Diritto privato e diritto dello sport presso l’Università di Macerata.

Istruttrice di nuoto FIN/FINP/FISDIR Ph. @ShotPot @Pexels

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