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1 GENNAIO
CAMMINARE
Anno XXXIII - Numero I Gennaio 2021 - Poste Italiane Spa - Spediz. in abb. postale D.L.
In q ue st o nu m er o
20
21 1 G EN N A IO
Mario De Maio
CARI AMICI
parole 2021
DIZIONARIO Carezza
1
Thich Nhat Hanh
CAMMINARE e meditare
2
Economy of Francesco
ECONOMIA
giovane e inclusiva
6
Aldo Zanchetta
SAMUEL RUIZ el caminante
8
BOEZ
55 GIORNI per ripartire
12
Lucia Capuzzi
IN FUGA dal Salvador
22
Chiara Ghilardi
MARIA LUISA grazie di tutto
25
Mauro Caputo
NO BORDERS attraverso i Balcani
26
15
NOTIZIE
Chiesa e società
19/20
a cura di Claudiu Hotico
LIBRI
Cambiamo strada
27
a cura di
Pier Dario Marzi
CINEMA
L’isola delle rose
29
a cura della redazione
LIBRI BIMBI
Filosofare con i bambini
31
ru br ic he
Mario De Maio
32
Chiesa del Cebreiro
POESIE
Preghiera del pellegrino
18
S
ono tanti i benefici per la salute generati dal camminare. I medici consigliano di camminare trenta minuti al giorno per prevenire e curare problemi articolari, cardiaci e polmonari. Senza contare gli effetti del camminare sulla mente: siriducono gli stati ansiosi e depressivi e si sviluppa la creatività. Pare addirittura che il camminare allunghi la vita.
Tuttavia sappiamo per esperienza quanto sia difficile essere fedeli a questa pratica. Ci potrebbe aiutare il considerarla una medicina da prendere giornalmente.
Possiamo pensare il camminare anche come una metafora del vivere:
è bello immaginare la nostra esistenza come una lunga camminata.
Quando si intraprende il cammino lungo una strada sconosciuta, sono tanti gli imprevisti che si possono incontrare: alcuni belli, altri meno graditi. Il cammino diventa più facile e piacevole quando si fa in
compagnia di amici. Le opportunità allora diventano tante. Ci si possono scambiare opinioni, preoccupazioni, esporre problemi. Le soluzioni creative saranno più evidenti e numerose.
La presenza rassicurante e affettuosa degli amici e delle persone che ci amano, permette di
andare più spediti verso la meta.
Abbiamo spesso parlato, in queste pagine, di accogliere l’inedito:
camminando s’apre cammino.
Questa bella espressione di Antonio Machado, all’inizio del nuovo anno, esprime una profonda fiducia nella vita e potrebbe fare da sottofondo alla difficile impresa del vivere quotidiano.
Cari amici,
il camminare è una metafora del vivere, una lunga strada sconosciuta verso la meta.
Mario de Maio
Camminando s’apre cammino
(A. Machado)
L
a meditazione camminata può essere molto piacevole. Camminiamo lentamente, da soli o in compagnia, possibilmente in un bel posto.Meditazione camminata significa gustare la camminata, camminare non per arrivare, ma semplicemente per camminare. Lo scopo è radicarsi nel presente e, consapevoli di respirare e di camminare, gustare ogni passo. Perciò dobbiamo scrollarci di dosso ansie e preoccupazioni, non pensare al futuro, non pensare al passato, ma solo gustare l’attimo presente. Possiamo farlo tenendo per mano un bambino. Camminiamo, un passo dopo l’altro, come se fossimo le persone più
felici del mondo. Noi camminiamo
continuamente, ma di solito lo facciamo correndo, e in questo modo lasciamo sulla Terra impronte di ansia e di dolore. Quando
camminiamo, dovremmo farlo in modo da lasciare solo impronte di pace e di serenità. Tutti possiamo farlo, a patto di volerlo fare.
Ogni bambino può farlo.
Se ci è possibile fare un passo così, potremo farne due, e poi tre, quattro, cinque. Con un solo passo di pace e di felicità
contribuiamo alla pace e alla felicità di tutto il genere umano. La meditazione camminata è una pratica meravigliosa.
Quando pratichiamo all’aperto, camminiamo un
po’ più lentamente del solito e coordiniamo la respirazione con i passi.
Per esempio, facciamo tre passi inspirando e tre passi espirando. Possiamo aggiungere le parole: «In, in, in. Out, out, out». «In» ci aiuta a identificare
l’inspirazione. Chiamare una cosa con il suo nome la rende più vera, è come dire il nome di un amico.
Se i vostri polmoni richiedono quattro passi invece di tre, dategliene pure quattro. Se ne bastano due, dategliene due. La durata
dell’inspirazione non deve necessariamente essere identica a quella
dell’espirazione. Per esempio potete fare tre passi a ogni inspirazione e quattro a ogni espirazione.
Se camminando vi sentite
felici, tranquilli e gioiosi, la vostra pratica è corretta.
Siate consapevoli del contatto tra i vostri piedi e la Terra. Camminate come se baciaste la Terra con i piedi. Le abbiamo fatto tanto male. è venuto il momento di prendercene cura. Portiamo la nostra pace e la nostra calma sulla superficie della Terra, e impariamo ad amare con lei. Camminiamo con questo spirito. Di tanto in tanto, quando vediamo una cosa bella, possiamo fermarci a guardarla: può
Camminare e meditare
lasciare impronte di pace e di serenità sulla nostra Terra Thich
Nhat Hanh
THICH NHAT HANHOrdinato monaco a 16 anni, è un maestro zen vietnamita, poeta e pacifista.
Ha applicato la visione buddhista a ogni aspetto della società: l’istruzione, l’economia, la tecnologia e la crisi ambientale.
Ha saputo offrire una traduzione moderna dei principali testi buddhisti.
Oggi ha 94 anni e vive nella comunità di Plum Village, da lui fondata.
Per saperne di più:
www.plumvillage.org/it
Non camminare dietro a me, potrei non condurti. Non camminarmi davanti, potrei non seguirti. Cammina soltanto accanto a me e sii mio amico. (Albert Camus)
essere un albero, un fiore, bambini che giocano.
Mentre guardiamo, continuiamo a seguire il respiro, per non perdere il bel fiore e non farci risucchiare dai nostri pensieri. Quando vogliamo riprendere a camminare, ricominciamo da capo.
Ogni passo farà nascere una brezza, che ci ristora nel corpo e nella mente.
Ogni passo fa sbocciare un fiore sotto i nostri piedi.
Possiamo farlo solo se non pensiamo al futuro o al passato, se sappiamo che la vita va cercata solo nell’attimo presente.
SENZA SCOPO
In Occidente, c’è una forte motivazione al successo.
La gente sa cosa vuole e va dritta al suo scopo. Può essere utile, ma nel frattempo il piacere di vivere va perduto.
C’è un termine buddhista che si può tradurre con
“senza desiderio” o “senza scopo”. Significa non porsi alcuna meta da
raggiungere, perché dentro di sé c’è già tutto. Quando facciamo la meditazione camminata, non ci
proponiamo di arrivare da nessuna parte. Ci limitiamo a fare passi sereni, lieti. Se pensiamo continuamente al futuro, agli obiettivi che vogliamo raggiungere, perdiamo i nostri passi. Lo stesso vale per la
meditazione seduta. Ci sediamo per goderci la seduta, non per ottenere qualcosa. è un punto molto importante. Ogni istante di meditazione ci restituisce alla vita, perciò quando ci sediamo dovremmo gustare la nostra seduta dal principio alla fine.
Dovremmo mangiare un mandarino, bere una tazza di té o praticare la
meditazione camminata
“senza scopo”.
Spesso ci diciamo: «Non restare a guardare, agisci!». Ma praticando la consapevolezza facciamo una scoperta insolita.
Scopriamo che può essere più utile l’opposto: «Non PLUM VILLAGE, MONASTERO BUDDHISTA
Plum Village è stato fondato nel 1982 dal maestro zen Thich Nhat Hanh (Thay) in una piccola cascina rustica e oggi è il più grande monastero buddhista d’Europa con circa 200 monaci e monache che vivono ed esercitano [la vita monastica] in quattro borghi sparsi nei dintorni, nella campagna francese.
A Plum Village la consapevolezza si intreccia con tutte le attività giornaliere; i monaci e le monache godono di periodi di silenzio, meditazione, riposo, lavoro
consapevole e gioco. Tutti coloro che arrivano al Plum Village sono invitati a partecipare alle attività in comune del loro borgo – preparare i pasti, pulire o lavare i piatti - come modalità per imparare a coltivare gioia e
consapevolezza.
Ogni anno il Plum Village accoglie migliaia di persone da tutto il mondo che praticano la meditazione e si recano al Plum Village per sperimentare l’arte della
consapevolezza in un clima di vita comune.
Nel mondo – Europa, Stati Uniti ed Asia – ci sono altri otto centri di pratica monastica nella tradizione del Plum Village fondati da Thich Nhat Hanh.
(dal sito internet www.plumvillage.org)
agire soltanto, guarda!».
Per vedere chiaramente dobbiamo imparare a fermarci. Sulle prime,
“fermarsi” può sembrare una forma di resistenza alla vita moderna, ma non lo è. Non è una semplice reazione, è un modo di vivere. La sopravvivenza del genere umano dipende dalla nostra capacità di smettere di correre.
Abbiamo più di cinquantamila bombe nucleari, eppure non riusciamo a smettere di produrne altre. “Fermarsi”
non implica solo arrestare il male, ma anche favorire il bene, la guarigione. Ecco lo scopo della nostra pratica: non eludere la vita, ma sperimentare e
testimoniare che si può essere felici adesso come nel futuro.
Il fondamento della felicità è la consapevolezza. La condizione essenziale per essere felici è la coscienza di esserlo. Se non siamo consapevoli di essere
felici, non lo siamo veramente. Quando abbiamo il mal di denti, sappiamo che non averlo è una cosa magnifica. Però, quando non abbiamo il mal di denti, ancora non siamo felici. Il non-maldidenti è un’esperienza
Piedi, perché li voglio se ho ali per volare? (Frida Kahlo) piacevolissima. I motivi di gioia sono tanti, senza consapevolezza non sapremo apprezzarli.
Praticando la consapevolezza
impariamo a proteggere con amore queste cose belle. Prendendoci cura del
presente, ci prendiamo cura del futuro. Lavorare per un futuro di pace è lavorare per la pace nell’attimo presente.
I brani sono tratti dal libro La pace è ogni passo (Ubaldini editore, Roma, 1993)
T
he Economy of Francesco, iniziativa voluta da papa Francesco, si è svolta ad Assisi dal 19 al 22 novembre. Circa duemila giovani imprenditori ed economisti under 35 da 115 paesi si sono “riuniti online”per dare vita a uno spazio generativo, a una fucina che ripensasse radicalmente l’economia mettendola al servizio dell’umanità. Tutto è stato pensato sulla scia della lettera di convocazione di papa Francesco (maggio 2019): impostare
«un’economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo
depreda».
Il lavoro preparatorio ha toccato dodici “villaggi
tematici” di riflessione: lavoro e cura; management e dono;
finanza e umanità;
agricoltura e giustizia;
energia e povertà; profitto e vocazione; policies for happiness (politiche per la felicità); CO2 della
disuguaglianza; business e pace; “economia è donna”;
imprese in transizione; vita e stili di vita.
Anche se da qualcuno è stata chiamata «l’altra Davos», più che una
proposta in contrapposizione al summit dell’economia del profitto, The Economy of Francesco è stata un insieme di proposte per un cambio di paradigma, per una nuova economia che metta al centro la persona, i più deboli, i poveri.
«L’obiettivo ultimo è recuperare la tradizione di pensiero dell’economia
civile, che nasce nel periodo dell’Illuminismo», ha
sottolineato Luigino Bruni, responsabile scientifico dell’evento. E Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha aggiunto:
«Dobbiamo recuperare lo spirito francescano per un’economia dal volto umano», che parta da tre punti: distinguere tra valore e prezzo dei beni, consapevoli che ci sono beni relazionali e ambientali che non hanno un prezzo ma un immenso valore; mettere la finanza al servizio del progresso liberandola dalla autoreferenzialità;
recuperare la dimensione espressiva del lavoro che consenta alla persona di esprimere la sua personalità e il suo carisma.
In apertura dell’evento i
giovani imprenditori hanno presentato una moltitudine di progetti ideati nel corso dei mesi di lavoro a distanza.
Tra i tanti, Michael Walter, un ragazzo australiano di 31 anni, ha presentato Yellow arrow (Freccia gialla), un programma per aiutare i giovani a esercitare la leadership di se stessi e trovare la direzione verso cui orientare la propria vita.
«Quello che ho imparato sino ad oggi è che la comunità è una creatura fragile di cui prendersi cura»
e che «la via giusta per se stessi è un valore anche per chi ci circonda».
Un “progetto dolce” è stato presentato da Joaquín Orellana Busandri, per gli amici Joaco, un ragazzo argentino di 21 anni, studente di legge, che ha fondato un’impresa del
Economia giovane e inclusiva
duemila giovani imprenditori da tutto il mondo convocati da papa Francesco Economy
of Francesco
Non c’è niente come tornare in un luogo che non è cambiato, per rendersi conto di quanto sei cambiato. (Nelson Mandela)
cioccolato, con la finalità di far felici gli altri e se stesso.
«Un’economia in cui il profitto non sia l’unico fondamento e obiettivo, un’economia dove conta come viene realizzato un prodotto, dove viene realizzato e da chi (l’ambiente, le persone), dove conta che il cliente non rimanga soltanto soddisfatto, ma sia felice. L’economia può essere davvero un motore trasformativo della vita sociale, il luogo dove sperimentare una cultura della comunione, dell’amore concreto e della felicità».
Tra i numerosi relatori internazionali, l’economista Jeffrey Sachs ha parlato di Gioia perfetta: tre proposte per lasciare che la vita fiorisca, presentando un indice per valutare il
benessere dei bambini. Raul Caruso ha trattato il delicato rapporto tra economia e pace, mentre Muhammad Yunus, premio Nobel per la Pace 2006, ha parlato di Finanza e umanità: una via verso un’ecologia integrale,
sottolineando come «la pandemia di Covid-19 ha rivelato tutte le debolezze del sistema attuale. è il momento di chiederci:
vogliamo tornare indietro o è il momento giusto per seguire la direzione opposta: un mondo senza inquinamento, senza concentrazione della ricchezza, senza disoccupazione massiccia?».
Vandana Shiva, attivista ambientale e membro del Forum Internazionale sulla Globalizzazione, ha aggiunto che «l’economia dovrebbe prendersi cura della nostra casa comune.
Se lavoriamo in armonia con la natura, creiamo benessere. Le parole chiave devono essere: distribuzione locale, cibo sano, restituire alla Terra ciò che la Terra ci dà, condivisione. Lo spirito sia quello della gratitudine, del servizio, della cura».
Papa Francesco ha concluso i lavori con un videomessaggio inviato ai
partecipanti. «è tempo di osare. Avviate nuovi processi con gli ultimi, non lasciatevi schiacciare dalla storia». «Urge una diversa narrazione economica», i giovani non devono fermarsi alle teorie ma «incidere concretamente nelle città e università, nel lavoro e nel sindacato, nelle imprese e nei movimenti, negli uffici pubblici e privati con intelligenza, impegno e convinzione, per arrivare al nucleo e al cuore dove si elaborano e si decidono i temi e i paradigmi».
Francesco ha insistito sulla necessità di costruire una cultura dell’incontro, opposta alla cultura dello scarto così diffusa oggi, che coinvolga in prima persona i poveri: «Occorre accettare strutturalmente che i poveri hanno la dignità sufficiente per sedersi ai nostri incontri, partecipare alle nostre discussioni e portare il pane alle loro case. […] Non pensiamo per loro,
pensiamo con loro. E da loro impariamo a far avanzare
modelli economici che andranno a vantaggio di tutti, perché l’impostazione strutturale e decisionale sarà determinata dallo sviluppo umano integrale, così ben elaborato dalla dottrina sociale della Chiesa».
La dichiarazione finale e l’impegno comune dei giovani con cui si è chiusa l’assise sono un appello
«agli economisti,
imprenditori, decisori politici, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini del mondo». I dodici punti del manifesto richiamano il mettere al centro la custodia dei beni comuni, il diritto al lavoro dignitoso per tutti, l’abolizione dei paradisi fiscali, il dare vita a nuove istituzioni finanziarie
democratiche, l’introduzione di un comitato etico
indipendente nella
governance delle banche e delle imprese, il garantire un’istruzione di qualità a tutti i bambini e un no deciso alla guerra.
F
ece molta strada“Monsignor” Samuel Ruiz, “principe della Chiesa” eletto vescovo della diocesi di San Cristòbal de Las Casas a soli 35 anni (il più giovane nel Messico), prima di diventare “don Sam”, il pastore in cammino lungo le strade del Chiapas per incontrare gli indios.
Il suo miglior biografo, Carlos Fazio, scrive di lui: «Figlio di immigrati clandestini negli Stati Uniti, venne ordinato sacerdote a Roma, nel 1949.
Dieci anni dopo, Giovanni XXIII lo nominò vescovo di San Cristobal. Era stato educato per essere un vescovo tradizionale, di potere. Ma iniziando a percorrere la diocesi, quella realtà di miseria e di
privazioni lo colpì
profondamente. Erano tempi in cui si praticava un
indigenismo paternalista, nel quale l’indio era oggetto dell’azione pastorale. Grazie al concilio Vaticano II
cominciò a intuire che quello non era il suo cammino di pastore. Fu il percorrere i sentieri reali della Selva Lacandona che lo condusse alla conversione. Non poté restare indifferente di fronte a tanta oppressione, miseria, fame, discriminazione e morte. […] Visse la conversione come un continuum, convertendosi continuamente nel corso di 40 anni. Non fu un cammino facile. Dovette lasciare indietro inerzie, onori, comodità. […] Lo
chiamavano el caminante.
Gli indios del Chiapas lo videro giungere nei loro villaggi, instancabile, sul suo cavallo “Sette Leghe”, in jeep o a dorso di mulo, o più
semplicemente a piedi».
Il vescovo Samuel Ruiz si trovò a essere protagonista di drammatici avvenimenti storici. I territori della sua diocesi furono teatro dell’insurrezione indigena
“zapatista” del 1° gennaio 1994, a seguito della quale fu chiamato a svolgere
un’impegnativa mediazione fra Stato e insorti.
Del suo operato di vescovo resta, nel patrimonio della Chiesa cattolica universale, la creazione di una Chiesa
“india”, sulla scia del rinnovamento operato dal concilio Vaticano II e dei fermenti sociali in tumultuosa crescita ovunque.
Può essere annoverato nella schiera dei “padri” della Chiesa latinoamericana, storicamente minoritaria ma ricca di voci significative nel corso dei secoli.
Samuel Ruiz, el caminante
il vescovo che creò la Chiesa “india” nel Chiapas messicano Aldo
Zanchetta
ALDO ZANCHETTAIngegnere chimico, ha lavorato
nell’innovazione delle tecnologie per la lavorazione di sostanze pericolose per l’uomo e per l’ambiente.
Profondo conoscitore di diverse realtà indigene del continente
latinoamericano.
Su questo tema ha curato alcuni libri, come anche sul pensiero di Ivan Illich.
interrogando creava persone, le “prendeva in considerazione”, non erano oggetto delle sue decisioni.
Don Sam fu un grande tessitore, un grande costruttore di ponti e di consensi, un costruttore di persone tramite la parola condivisa».
Ruiz ricordava spesso: «La domanda che Dio ci farà alla fine della nostra esistenza sarà: da quale parte siamo stati? Chi abbiamo difeso?
Quali abbiamo scelto?
Domande che nessuno, neppure i potenti, potranno eludere alla fine della loro vita.» Un altro suo biografo, John Womak jr., scrive:
«Mentre organizzava la nuova azione pastorale per gli indigeni, il vescovo Ruiz a volte si domandava se era consapevole di ciò che stava facendo.» Per questo propose a una commissione di sabios (sapienti) indigeni della sua diocesi di riflettere sull’operato della Chiesa nelle loro comunità.
Analfabeti che parlavano solo la lingua tzeltal, dopo qualche tempo tornarono senza la risposta attesa, ma con tre domande che a loro volta ponevano al vescovo:
«Il Dio del vescovo poteva salvare solo le anime o anche i corpi?».
«La parola di Dio è come una semente che può essere trovata dovunque, ed
è il seme di salvezza. Non è possibile pensare che queste sementi si trovino là dove viviamo, sulle montagne o nelle foreste?».
«Voi avete vissuto con noi e condiviso le nostre vite.
Noi vi consideriamo nostri fratelli e nostre sorelle.
Avete voi il desiderio di
restare nostri fratelli e sorelle per sempre?». […]
Pablo Romo, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori, ha scritto di lui: «Don Samuel domandava,
generava nell’altro la parola, rendendolo importante nel pronunciarla.
Di fatto don Samuel
Il vescovo Samuel Ruiz durante una celebrazione con una comunità india
delle cime e dei borghi, delle foreste che coprono il 70% del territorio. Il
messaggio che lanciano è quello del riscatto di queste terre spesso dimenticate ma così ricche di biodiversità, memoria, storia e varietà culturali, di giovani intraprendenti, tornati a vivere di agricoltura nei
borghi e a ridare anima alle comunità e alle montagne.
I tre giovani propongono un approccio al camminare che vuol essere seme di cam- biamento, che cura e di- fende il Sentiero e la sua gente. Il loro camminare è legato a un turismo lento, al- l’interazione con il territorio, al coinvolgimento delle per-
sone che incontrano lungo il percorso per condividerne alcuni tratti o per parteci- pare agli eventi culturali che organizzano e punteggiano la loro strada.
Sentiero Italia
Va’ sentiero, 7000 km in lentezza
riscattare territori dimenticati e incontrare le esperienze di giovani intraprendenti
S
entiero Italia, unendo tutte le catene montuose della penisola, è il trekking più lungo del mondo. Lo tracciarono un gruppo di appassionati di montagna nel 1983 e sulla carta rimase fino al 2016 quando tre giovani lo scoprirono e decisero di percorrerlo nella sua interezza: 7.000 km da Trieste alla Puglia e ancora avanti attraverso i sentieri di Sicilia e Sardegna. Yuri, Sara e Giacomo hanno denominato Va’ Sentiero questo loro progetto e il 1°maggio 2019 si sono messi in marcia, partendo da Muggia (Trieste). La loro avventura durerà quindici mesi, da percorrere in tre tappe e tre anni diversi, con il proposito di dare voce alle montagne, al lato più segreto dell’Italia, quello
Il video documenta la prima tappa, lunga 3.548 km, conclusa a Visso (Marche)
il 30 novembre 2019.
I
o questo viaggio lo faccio per me. Vogliodimostrarmi che sono migliore di quello che sono stato in passato.
Una volta che ho dimostrato questo a me stesso, che io ce la posso fare, quella sarà la
dimostrazione per tutti gli altri». Francesco confida a Kekko, suo campagno di viaggio, le aspettative che nutre pensando ai 900 km che dovrà percorrere a piedi da Roma a Santa Maria di Leuca, lungo la via Francigena del Sud.
Non sono liberi Francesco e Kekko, come non lo sono gli altri quattro ragazzi che fanno parte della comitiva:
Maria, Alessandro, Omar e Matteo. Partono da tanti anni di carcere inflitti loro per trascorsi criminali. Ma sono stati scelti per partecipare, attraverso questo lungo cammino, a un programma di
riabilitazione attraverso un regime di “pena
alternativa”: quella di compiere il cammino, appunto. Già sperimentato in diversi paesi europei, il cammino come dispositivo di recupero ha dato risultati positivi abbattendo
notevolemente i casi di recidiva.
La storia di questi sei ragazzi è stata raccontata dalla serie tv Boez - Andiamo via, andata in onda su Rai3 circa un anno fa e ora disponibile su RaiPlay, che in dieci puntate accompagna i 55 giorni di cammino del gruppo sulla via Francigena del Sud.
Le immagini narrano una strada a volte impervia per la pioggia, che fa attaccare il fango alle scarpe, o per i saliscendi delle colline, che fanno diventare il fiato corto e faticoso. Ma
soprattutto mostra come la via verso se stessi sia molto più accidentata, più pesante dello zaino, più asfissiante del caldo. Poco alla volta, dai trascorsi dei ragazzi emergono dolore, chiusure, violenza e solitudine che accendono talvolta la miccia di conflitti, incomprensioni,
trasgressioni e frustrazione.
Poco a poco, però, i ragazzi imparano a confrontarsi tra loro e a costruire uno spirito di gruppo che li aiuta a intravedere la via del riscatto, che si apre passo dopo passo. Nel percorso sono sostenuti
dall’accompagnamento paziente di una guida escursionistica (Marco Saverio Loperfido,
insegnante di filosofia con
55 giorni di cammino per ripartire
sei giovani detenuti scontano la loro pena percorrendo la via Francigena del Sud Boez
Andiamo via
BOEZ - ANDIAMO VIA
Coproduzione Rai Fiction e Stemal Entertainment Autori: Roberta Cortella e Paola Pannicelli.
Regia: Roberta Cortella e Marco Leopardi.
Con: Omar Ben Aoun, Maria Cristea, Francesco Dinoi, Alessandro Paglialonga, Matteo Santoro, Francesco Tafuno.
Educatrice di Comunità:
Ilaria D’Appollonio.
Guida escursionistica:
Marco Saverio Loperfido.
Le strade sono state fatte per i viaggi, non per le destinazioni. (Confucio)
cammino li forma e ispira per il futuro. La storia personale di ognuno inizia a profilarsi come un insieme che integra il passato nero e malavitoso con la fiducia in un futuro che può essere diverso, fatto di luci e speranza di vita buona. E tutto questo grazie all’aderenza al presente del cammino.
Maria, unica femmina in una famiglia in cui l’affetto era riservato ai figli maschi, ha avuto presto il destino segnato. A 14 anni
«l’hanno sposata», poi costretta a rubare. Un giorno Maria è scappata dalle imposizioni di suo padre e ha abbandonato le tradizioni della comunità Rom, ha cominciato a vivere di espedienti, finché un giorno venne accolta dalla Comunità Il fiore del deserto di Roma. Affronta il cammino con un tenace desiderio di libertà, alla ricerca di una vita serena e onesta insieme alla sua bambina di due anni alla
quale pensa tutte le sere.
Alessandro ha sempre inseguito il soldo facile ma la vita violenta di strada gli ha spento le emozioni.
Vede il cammino come un’opportunità per ricostruire se stesso e fuggire la vita passata che gli «fa schifo». Pronto a mettersi in gioco chiede aiuto alla guida per comprendere le radici del suo razzismo e tentare di superarlo.
Omar è nato e cresciuto in una città industriale della provincia lombarda, sin da ragazzino trascorre le giornate per strada entrando e uscendo dal carcere minorile. Il cammino è per lui una nuova sfida, che gli dà maggiore sicurezza e forza per restare sulla retta via, mentre per il futuro sogna di fare il barista e rimettersi con la sua ragazza.
Francesco è cresciuto all’ombra del padre, boss della malavita locale in
Puglia, alle spalle un lungo curriculum di reati e tanti anni di galera. Con lo spirito di leader e la capacità di essere autorevole con gli altri, dimostra di essere un punto di riferimento per tutti. Sogna di riallacciare gli affetti più cari
riconciliandosi con le sue due figlie e di gestire un ristorante.
Kekko, ironico e allegro, sta finendo di scontare la sua pena in una casa famiglia. Segnato sin dall’infanzia da violenze e privazioni, sogna di ritrovare il proprio sé che ha perso da tanto tempo.
Infine Matteo, timido e di poche parole, è segnato dalla morte della mamma che lo ha lasciato
completamente solo al mondo. Dopo cinque anni di carcere, il cammino rappresenta la possibilità di uscire definitivamente dalla cella e tornare a vedere il cielo, ad assaporare la libertà.
un dottorato in sociologia) e dalla capacità di
smorzare i conflitti di un’educatrice di comunità, Ilaria D’Appollonio.
Una nuova
consapevolezza di sé e del mondo, l’immaginare che un’altra vita sia possibile, poco alla volta, mettono radici nel cuore di ognuno dei protagonisti.
Stare sul percorso, essere fedeli all’oggi della via con caparbietà e impegno, sperimentare l’ospitalità gratuita di coloro che mettono a loro
disposizione una doccia, un letto, un piatto di pasta, o semplicemente rivolgono loro una parola amichevole di sostegno e
incoraggiamento, consente di ricucire il passato con il futuro. E ognuno lo fa a modo suo.
Il denominatore comune dei sei ragazzi è un passato fatto di muri e sbarre, fuori e dentro ai loro cuori, che si sgretola poco alla volta mentre il
D IZ IO N AR IO U
na parola calda e familiare, che è dimostrazione di affetto e benevolenza, attraverso parole, gesti, sguardi, ma soprattutto con il leggero tocco della mano sul volto di una persona cui si vuole bene. La carezza è cibo per il corpo e per la mente, soprattutto nei primissimi tempi di vita quando è essenziale alla sopravvivenza eall’equilibrato sviluppo psicofisico.
Un gesto semplice e umile, dimostrazione in atti o parole di un modo di essere affettuoso.
La carezza non riesce ad astrarsi, a restare in una dimensione riposta e interiore, esiste solo come espressione concreta.
Un gesto di contatto, di tenerezza istintiva, discreta, basato su una parola enorme: “caro”, ovvero amato, secondo l’origine indoeuropea del termine.
Dalle origini duecentesche che definivano carezza ogni moina, ogni festa, ogni attenzione, attraversando i secoli questa parola si è venuta caratterizzando come il tocco leggero della mano che passa su un corpo caro con affetto, benevolenza, sensualità.
Nel nostro tempo sono tanti gli artisti che hanno usato questa parola per esprimere i loro versi canori. Nelle vetrine, dietro ai bistrot/
ogni carezza della notte è quasi amor (Gianna Nannini), E dal pugno chiuso / Una carezza nascerà (Adriano Celentano); Angoli di tenerezza / dentro a una carezza quasi vera (Enrico Ruggeri); C’è uno zingaro nascosto dentro un cane senza razza / Se lo incontrerai per strada non negargli una carezza (Alex Britti).
Ma soprattutto è la psicologia ad avere indagato il messaggio presente nella carezza.
E ad affermare che la carezza, quando è sincera, esprime piacere sia in chi la riceve sia in chi la dà, che si manifesti in gesto, parola, sguardo, postura, intonazione della voce. E tuttavia il suo valore positivo può trasformarsi in negativo quando contenga un intento manipolatorio o velare un’offesa.
Ogni comunicazione umana può essere considerata una carezza, positiva o negativa che sia; sicché quando non si ottengono carezze piacevoli, se ne cercano di spiacevoli perché non si può vivere senza. Tutto ciò riguarda non soltanto le relazioni
interpersonali, ma anche il colloquio interiore di ciascuno, che può essere caratterizzato da carezze positive, quali l’autoriconoscimento e l’autostima, o negative, quali il giudizio e il biasimo verso se stessi.
CAR EZZA car ezza
Se si contempla il cielo,
alla fine il cielo arriva.
PO E SI A
Quand'anche avessi percorso tutti i sentieri, superato montagne e valli da est a ovest,
se non ho scoperto la libertà di essere me stesso, allora non sono ancora arrivato.
Quand'anche avessi condiviso tutti i miei beni con persone di altre lingue e culture;
quand'anche avessi per amici dei pellegrini dell'altra parte del mondo
e dormito negli stessi alloggi dei santi e dei principi, se, domani, non sono capace di perdonare al mio
vicino, allora non sono ancora arrivato.
Quand'anche avessi portato il mio sacco dal primo all'ultimo giorno e sostenuto i pellegrini a corto di forze,
o ceduto il mio letto a qualcuno arrivato dopo di me, donato la mia borraccia senza alcuna contropartita, se, di ritorno a casa e al lavoro
non sono capace di seminare attorno a me la fratellanza, la felicità, l'unità e la pace,
allora non sono ancora arrivato.
Quand'anche avessi ogni giorno mangiato e bevuto a sazietà,
a disposizione tutte le sere un tetto e una doccia, ricevuto delle cure per le mie ferite,
se non ho visto in tutto questo l'amore di Dio, allora non sono ancora arrivato.
Quand'anche avessi visitato tutti i monumenti e ammirato i più bei tramonti,
imparato a dire buongiorno in tutte le lingue, gustato l'acqua di tutte le fontane,
se non ho indovinato chi è Colui che, senza nulla attendere in cambio, mi offre tanta bellezza e tanta pace,
allora non sono ancora arrivato.
Se adesso smetto di camminare sulla tua strada, di proseguire la mia ricerca e di vivere in coerenza
con ciò che ho imparato;
se, d'ora in avanti, non vedo in ogni persona, amico o nemico,
un compagno di strada;
se, ancora oggi, il Dio di Gesù di Nazareth non è per me il solo Dio della mia vita, allora non sono ancora arrivato.
Preghiera del pellegrino
Testo affisso nella chiesa del Cebreiro (Spagna) sul Cam- mino di Compostella.
Trasmesso da Pe- tere Florence van der Heijde.
Traduzione di Gia- como Tessaro.
g g g UE E VOLONTARIATO
Da Padova 2020 a Berlino 2021
verso la “Carta dei valori”
Il 5 dicembre, Giornata mondiale del volontariato, è coinciso quest’anno con la chiusura dell’evento Padova capitale europea del volontariato, promosso dalla Unione Europea e inaugurato dal presidente Mattarella il 7 febbraio, ispirato dallo slogan Ricuciamo l’Italia.
Nell’anno del coronavirus, i volontari con grande senso di comunità si sono messi in prima linea, con gesti di solidarietà concreta, a servizio della città e del paese. Oltre 400 organizzazioni di volontariato e circa 2300 volontari under 35 hanno iniziato a ricucire il nostro Paese attraverso collaborazione e condivisione, a cominciare dal dialogo tra volontari e dalla relazione tra le varie associazioni. «Vogliamo ricostruire insieme un'Europa chiedendo ai leader di mettere il volontariato al centro delle strategie politiche», ha dichiarato Emanuele Alecci, presidente del Centro Servizi Volontariato di Padova, ente coordinatore. Per questo sono stati creati modelli e protocolli di collaborazione tra il mondo del volontariato
e le istituzioni, affinché prestino maggiore attenzione alle fragilità e alla cura delle solitudini. «Un’azione efficace si ha quando operano in sintonia istituzioni, imprese e Chiesa, oltre ai volontari», aggiunge Alecci.
Ora il testimone passa a Berlino 2021, prossima capitale europea del volontariato, ma in Italia il lavoro di ricucitura continua con due impegni. Il primo riguarda la costruzione di reti: «L’idea è di fare di ogni quartiere un borgo, costruendo risposte di prossimità per questa seconda fase dell’emergenza sanitaria». Il secondo riguarda la “Carta dei valori” del volontariato (pronta a gennaio), una bussola scritta dopo un lungo processo di ascolto e condivisione.
g g g IRPINIA 1980
Memorie dal cratere
storia sociale del terremoto
Il 23 novembre 1980 è una data tragica per il Meridione d’Italia. Il terremoto dell'Irpinia ha lasciato solchi profondi nella vita delle persone e nella storia di tantissime comunità, paesi e borghi.
Memorie dal cratere. Storia sociale del terremoto in Irpinia (Editpress, Firenze
2020) non è una storia convenzionale ma un racconto che guarda il terremoto e gli sviluppi successivi attraverso gli occhi dei testimoni diretti o dei loro eredi.
La metodologia scelta da Gabriele Ivo Moscaritolo, studioso di Scienze Sociali, è quella della storia orale. L’autore è
interessato non tanto a raccontare «cosa è successo», ma a ricostruire un senso, una memoria di cosa si è vissuto e di come il terremoto è visto oggi da coloro che l'hanno subito e dalle generazioni successive.
Moscaritolo compie lunghi dialoghi con quaranta persone, in uno di raggio di ricerca limitato a due località della provincia di Avellino: Sant’Angelo dei Lombardi e Conza della Campania. I due comuni, poco distanti l’uno dall’altro, hanno affrontato in modo diverso lo stesso evento storico: uno ha fatto prevalere il recupero di ciò che è stato, l’altro la rifondazione ex novo.
C'è un altro binario importante sul quale il libro viaggia. La visione soggettiva degli intervistati è integrata da un rigoroso lavoro di documentazione storica, negli archivi istituzionali che hanno registrato il sisma dell’Irpinia. Partendo dal reale, evitando di parlare di un passato mitico, l'autore intreccia i due binari che si sostengono a vicenda: storia e memoria. «Con il mio libro vorrei dare un senso altro a questa storia, fare in modo che sia metabolizzata e resti
CHIESA E SOCIETÀ
notizie
la memoria delle persone», ha dichiarato Moscaritolo in un'intervista al portale Orticalab di Avellino.
g g g PELLEGRINI DI IERI E DI OGGI
In cammino verso la verità
di Andrea Bellavita (Ediciclo) Piccoli passi alla ricerca della verità (Ediciclo editore), del filosofo e teologo Andrea Bellavite, raccoglie le
considerazioni di un appassionato viandante. Ad accendere le sue riflessioni l’incontro a Gorizia, in una sera di pioggia battente, con un uomo sulla cinquantina che si ripara sotto la pensilina di un portone. Alla richiesta se avesse bisogno di aiuto, l’uomo estrasse dallo zaino un foglio protetto da una copertina di plastica, firmato dal vescovo di Tarbes presso Lourdes, sul quale era scritto che quell’uomo di nome Francois era diretto a piedi a
Gerusalemme, non poteva parlare con nessuno, possedeva solo un cambio di vestiario e un biglietto di ritorno Telaviv- Parigi da utilizzare entro un anno.
Francois è un pellegrino del XX secolo, ma
senza quel biglietto aereo potrebbe essere del Medioevo, con lo zaino in spalla e chissà quali fardelli dentro, che viene accompagnato al vicino ostello della gioventù, gli viene offerta la cena, il pernottamento e un bicchiere di merlot.
g g g DDL ZAN
A tutela dei diritti individuali
contro transfobia e disabilità
Il 4 novembre la Camera dei Deputati, a scrutinio segreto, ha approvato con 265 voti a favore, 193 contro e 1 astenuto, la proposta di legge «Misure di
prevenzione e contrasto
della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sulla disabilità».
Il DDL Zan (dal nome del deputato PD relatore del testo), che ha subìto modifiche ed emendamenti nel suo iter legislativo, aggiunge tra i reati di propaganda e istigazione quelli «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla
disabilità» e considera circostanze aggravanti le discriminazioni riguardanti questi ambiti. Inoltre istituisce la
«Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia»
(il 17 maggio) con lo scopo di
«promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere». A tal fine le scuole e altre amministrazioni pubbliche dovranno inserire nei loro programmi «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile». L’Ufficio per il contrasto delle discriminazioni che opera presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri dovrà organizzare una strategia di durata triennale di prevenzione e contrasto delle discriminazioni, per motivi legati all'orientamento sessuale e all'identità di genere. Infine il penultimo articolo della proposta di legge prevede una dotazione di 4 milioni di euro per creare centri contro le discriminazioni, motivate dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere, che offriranno assistenza legale, sanitaria, psicologica, e anche alloggio e vitto alle vittime dei reati di odio e discriminazione.
notizie notizie
CHIESA E SOCIETÀ
V
iaggiando in treno ho ascoltato un dialogo fra due giovani che si chiedevano reciprocamente quale scuola stesserofrequentando per avere un lavoro sicuro, una volta diventati adulti. Il loro colloquio era velato da un certo pessimismo. Il primo diceva che le possibilità di trovare un lavoro
dipendente sono
praticamente nulle, perché in questo periodo di crisi non si assume, ma al contrario la tendenza è a licenziare. L’altro ragazzo, un po’ più adulto e maturo, gli ha risposto: «Sai qual è la mia reazione a tutto questo? è che alla fine ho scelto di studiare ciò a cui mi sento più portato e che mi piace di più. Ho deciso
di studiare come diventare regista».
Quando si parla di lavoro per i giovani, spesso questo termine viene associato ad altri vocaboli:
vocazione e attitudine.
Quella della vocazione è una materia delicatissima.
Riguarda il senso della vita, le nostre aspirazioni.
Per essere colta nella sua profondità, bisogna
interrogare le parti più intime di noi. Bisogna affinare l’udito della nostra anima per riuscire a sentire quali sono le spinte più profonde delle nostre attitudini.
Quali sono le condizioni che favoriscono una risposta compiuta alla propria vocazione? La prima è l’ampiezza delle
opportunità che ci vengono offerte. Tali opportunità dipendono dal reddito familiare, dal livello di istruzione e dalla classe sociale a cui si appartiene.
Non basta però avere delle buone opportunità, per essere sicuri di rispondere alla propria chiamata. Occorre che tali opportunità vengano colte nel migliore dei modi.
Ci sono dimensioni interne alla persona e dimensioni a lei esterne che possono facilitare una buona risposta alla propria vocazione. Il primo fattore è una motivazione
sufficientemente forte a rispondere a ciò a cui ci si sente chiamati. Questo accresce la probabilità di trovare l’occupazione che meglio risponde ai nostri
bisogni e alla nostra vocazione. è poi
necessario avere la forza di volontà per impegnarsi.
Tale possibilità è nelle nostre mani.
Imparare a vivere il proprio lavoro come risposta a una chiamata profonda è la condizione affinché l’esperienza lavorativa possa diventare fonte di soddisfazione e di felicità.
(M.D.M.)
Rubrica Giovani
Freccia gialla: lavoro come vocazione
considerare il lavoro come una scelta che riguarda il senso della vita
M
i chiamo Eduardo.Vivo in una
baraccopoli di San Salvador. Sono partito a ottobre». Il 16enne non precisa dove sia diretto.
Non è necessario. La meta da queste parti è sempre la stessa: El Norte, l’El
Dorado Usa. Eduardo, però, non è mai arrivato a
destinazione. Dopo una gincana in bus, 200 chilometri a piedi e 800 dollari di “mancia” al trafficante, stremato, Eduardo si è consegnato alle autorità messicane. Ha compiuto 17 anni in un centro di reclusione prima di essere rimpatriato. è stato, comunque, più fortunato dei tanti,
tantissimi compatrioti che si sono persi nel cammino. Un numero crescente anno dopo anno, a causa
dell’incremento record della violenza nel «Pollicino d’America».
Le principali responsabili sono le maras. Queste gang criminali sono mafie dei poveri rispetto alle grandi organizzazioni messicane. Il loro peso, tuttavia, ricade come un macigno sui settori più
fragili. Le estorsioni sono la principale fonte di
finanziamento delle maras.
Nelle zone da loro
controllate – ovvero tutte le baraccopoli – ambulanti, autisti dei bus, lustrascarpe – chiunque svolga
un’attività economica che, da queste parti, è quasi sempre informale – deve pagare il “pizzo”. Quando non ce la fa, restano due opzioni: essere ammazzato o fuggire. Alle estorsioni, si somma il reclutamento forzato da parte delle gang.
Tutto ciò non sarebbe possibile se in Salvador non ci fosse oltre il 90 per cento di impunità, la corruzione non fosse endemica e la criminalità organizzata non avesse catturato interi pezzi di istituzioni. Il governo del presidente Nayib Bukele, in
carica da due anni, parla di una diminuzione degli omicidi nel Paese. Dallo scorso gennaio ci sono stati circa 1.300 omicidi, in media tre al giorno. Tanti, ma molti meno rispetto a qualche anno fa, quando le vittime quotidiane
superavano quota dieci.
Alcuni esperti, però, dubitano delle cifre ufficiali e segnalano un incremento delle scomparse, una forma di assassinii occulti.
Di certo, inoltre, il potere delle maras non è diminuito.
A confermarlo una recente ricerca delle Agenzie Onu per l’Infanzia e i Rifugiati – Unicef e Acnur –, che ha denunciato un aumento re- cord della migrazione da El Salvador, Honduras e Gua- temala. Oltre 800mila per- sone di questi Paesi hanno
In fuga dal Salvador
migliaia di giovani tentano di sottrarsi alla violenza della mafia e dei narcotrafficanti Lucia
Capuzzi
LUCIA CAPUZZI
Giornalista del quotidiano Avvenire, redazione esteri, è inviata per l’America Latina. Autrice di numerosi saggi dedicati al continente sudamericano, ha
recentemente pubblicato Frontiera Amazzonia (con Stefania Falasca) per EMI.
Viaggiatore, sono le tue orme il cammino e niente più;
Viaggiatore, non c’è cammino, si fa il cammino camminando.
Camminando si fa il cammino, e volgendo lo sguardo indietro si vede il sentiero che mai
dovrai tornare a calpestare.
Viaggiatore non c’è cammino solo scie nel mare.
(Antonio Machado)
dovuto cambiare casa o città o nazione nel corso del 2019. A fuggire non sono più giovani uomini in cerca di fortuna ma minori, che ri- fiutano di arruolarsi nelle bande, o famiglie intere. Nel 2020, la pandemia ha con- gelato, per alcuni mesi, le partenze. Dall’inizio dell’au- tunno, però, sono riprese, come rivelano i fermi alla frontiera fra Usa e Messico.
Solo nel tratto di confine dell’Arizona, a ottobre 2020 gli agenti hanno intercettato il 30 per cento di persone in più rispetto al mese prece- dente. E i numeri rischiano di crescere ulteriormente nell’immediato futuro se- condo gli analisti.
Se le conseguenze sanita- rie del Covid in America centrale sono state relativa- mente contenute, le restri- zioni hanno devastato l’economia già molto fragile.
A questo si sommano le di- struzioni delle infrastrutture causate dal duplice ura- gano ¬– Eta e Iota – che si è abbattuto sulla regione tra
la fine di ottobre e la metà di novembre. Sarà questa la grande sfida per Joe Biden.
Il neo-presidente, in carica dal 20 gennaio, ha pro- messo di eliminare le politi- che più controverse del predecessore Donald Trump. Un nuovo incre- mento degli arrivi, però, po- trebbe spingerlo alla cautela per evitare critiche da parte dell’elettorato più conservatore, che potrebbe portarlo alla paralisi come Barack Obama. Se vorrà evitarlo, Biden dovrà pen- sare in un’ottica di lungo pe- riodo, rilanciando i piani di sviluppo con il Centro Ame- rica e ampliando le possibi- lità di migrazione legale. A partire dal nodo mai risolto della legalizzazione di 11 milioni di indocumentados che lavorano in nero da anni, spesso decenni, negli Usa. Da George Bush a Bill Clinton a Obama, molti ci hanno provato. Invano. Ora tocca a Biden e questa po- trebbe essere la prova del fuoco della sua Amministra- zione.
MARIANELLA GARCIA VILLAS di Anselmo Palini Ristampa: AVE, 2020 Prefazione: Raniero La Valle
Postfazione: Linda Bimbi
«Questo libro ripercorre, con grande partecipazione emotiva e con sapiente pe- netrazione di fatti e circo- stanze, la vicenda umana, politica e religiosa di Marianella García Villas, avvocata dei poveri e sorella degli oppressi, uccisa a 34 anni in El Salvador» (dalla prefazione di Raniero La Valle).
In qualità di presidente della Commissione per i diritti umani del suo Paese, Marianella venne più volte in Ita- lia a chiedere la solidarietà e il sostegno delle forze po- litiche, sindacali e sociali del nostro Paese, come pure si recò in altri Stati e alla Commissione Onu per i diritti umani.
Per questa sua opera di instancabile denuncia dei massacri e delle violenze perpetrate dalla giunta mili- tare al potere in Salvador, la voce di Marianella venne messa a tacere per sempre.
Poche settimane dopo il suo assassinio, Marianella venne ricordata a Roma, in Campidoglio, alla presenza del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del presidente della Camera Nilde Jotti. In tale occasione le relazioni principali vennero affidate al senatore Ra- niero La Valle e a mons. Luigi Bettazzi.
La figura di Marianella è stata presto dimenticata sia a livello internazionale che nel suo Paese. Questo lavoro intende rappresentare un contributo affinché si possa togliere dall’oblio il sacrificio di Marianella e ravvivare la memoria di questa martire della giustizia e della pace.
dell'altro, come un dono reciproco che inquieta e fa crescere, dall'inizio alla fine del loro cammino insieme...
una grande testimonianza per noi coppie e famiglie un pochino più giovani.
Maria Luisa Borgheresi era nata il 4 aprile 1938 nella città viareggina, dopo la laurea in tedesco e alcuni anni di insegnamento, aveva conosciuto Giovanni alla scuola media Barsanti del quartiere l'Isolotto di Firenze, dove lui insegnava religione: passione per l'insegnamento e particolare attenzione per i ragazzi con situazioni più difficili, hanno caratterizzato i suoi anni di lavoro nella scuola, come al funerale hanno ricordato alcune sue colleghe. In parrocchia si è occupata in particolare della catechesi, dell'accompagnamento dei
fidanzati al matrimonio e del commento al vangelo della domenica sul bollettino della comunità: la sua profondità e il suo spirito critico nella ricerca di una fede
autentica, ha stimolato e fatto crescere molti “figlie e figli” e, come ricordava don Graziano commentando il
Vangelo della IV domenica di Avvento, ha permesso allo Spirito di renderla feconda. La sua tenerezza premurosa e accogliente ha continuato a stupire fino all'ultimo, telefonando puntualmente per fare gli auguri di compleanno e onomastico agli amici.
Chiara Ghilardi
Maria Luisa, grazie di tutto...
assidua frequentatrice dei convegni di Ore undici, grande amica di fratel Arturo
N
el primo mattino del 18 dicembre Maria Luisa «ha lasciato la vita» - come ha scritto Giovanni poco dopo la sua“partenza” - e il 20 dicembre l'abbiamo salutata con un funerale che assomigliava più a una festa all'aperto, nel giardino della
parrocchia, dove 43 anni fa lei e Giovanni avevano celebrato il loro matrimonio.
“Maria Luisa e Giovanni”
ormai erano un tutt'uno e i loro nomi venivano
pronunciati insieme come un'unità inseparabile, da quel lontano 24 settembre 1977, quando furono sposati da don Rolando Menesini, prete operaio, nella
comunità parrocchiale della Narività di Maria a Bicchio, quartiere di Viareggio. Uniti sì, ma rispettosi e attenti a
valorizzare l'uno la diversità Maria Luisa con il marito Giovanni e fratel Arturo a Foz do Iguaçu
N
on ci sono solo gli sbarchi a Lampedusa ripresi dai media di tutto il mondo, i veri migranti invisibili sono quelli della rotta balcanica che nessuno fa vedere e sono molti di più (5.000 quelli accertati nel 2019). Questa fuga nei boschi verso l'Europa è al centro di un docu-film dal tocco poetico, Noborders. Flusso di coscienza di Mauro Caputo.
Questa opera piena di umanità verso migranti che vengono da lontano (Pakistan, Siria, Iran, Algeria, Tunisia, Nepal e Bangladesh) racconta del loro lunghissimo viaggio sulla rotta dei Balcani che si arresta nei 242 km di confine Italia-Slovenia, dove centinaia di persone, ogni giorno, entrano in Italia non prima di essersi liberate da ogni traccia di identità che potrebbe essere oggetto di respingimento.
Abbandonano anche le loro medicine e ogni documento rilasciato nei centri accoglienza dove sono stati ospitati, portandosi solo un piccolo zainetto con lo stretto necessario.
«In realtà da noi stanno pochissimo – ha detto il regista all’Ansa –, cercano di raggiungere Francia, Germania e Spagna che sono in genere le loro mete. La stessa polizia non ha troppo interesse a fermarli, a controllarli, perché sa che sono solo di passaggio». Se fossero fermati, aggiunge Caputo, «occorrerebbero traduttori, avvocati, tutto un iter complicato. Nonostante questo, la popolazione di Trieste comincia ad essere sensibile al fenomeno». Certo - aggiunge - è più facile individuare e contare quelli che arrivano coi
barconi, ma la rotta balcanica esiste e nessuno se ne accorge troppo".
Nel film non c’è nessuna
testimonianza, nessuna intervista; a parlare solo una voce fuori campo che segue le tracce nei boschi lasciate da questo esercito di invisibili pronti a distruggere ogni cosa del proprio passato pur di iniziare una nuova vita in Europa. La tipologia dei migranti in fuga è la stessa di quella degli sbarchi: «La maggior parte sono
maschi adulti, meno donne e solo qualche bambino, anche se ultimamente ci sono più famiglie in fuga sulla rotta balcanica». Una frase è ripetuta più volte dalla voce fuori campo a rimarcare l'inevitabilità del fenomeno: «Non si può fermare un fiume».
Vale a dire nessuno pensi di poter mettere una diga a questo esodo.
«Una persona su 97 è in questo momento in fuga, almeno secondo i dati Onu», afferma Caputo.
No borders attraverso i Balcani
la vita e la storia della prima donna italiana che scelse la vita solitaria Mauro
Caputo
CAMBIAMO STRADA
a cura di Claudiu Hotico
C
omplexus ovvero “tessuto insieme”. Questo concetto ha interessato per tanti anni lo studio del sociologo e filosofofrancese Edgar Morin, una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea. Anche nel saggio Cambiamo strada. Le 15 lezioni del coronavirus (Raffaello Cortina, Milano 2020), Morin sceglie questa parola per descrivere le
complicatissime interconnessioni - sanitaria, economica, ambientale, sociale, ecc. - che caratterizzano il tempo in cui imperversa il
Coronavirus a livello globale. Morin constata come «prima rivelazione di questa crisi» che tutto è in
relazione, che tutto ciò che pensavamo di poter interpretare separatamente è connesso.
L’autore individua, nella prima parte del libro, 15 lezioni che il
Coronavirus ci ha insegnato sin dal lockdown di primavera. Siamo stati messi di fronte a noi stessi, davanti allo specchio e chiederci: qual è il mio stile di vita? Quali sono i miei desideri, i miei bisogni reali? Quali le vere priorità della mia vita? Prima
del Coronavirus la nostra fragilità era dimenticata, la nostra precarietà occultata. Ora la riscopriamo e constatiamo che il mito dell’uomo
«padrone e possessore della Natura» è crollato. Scopriamo l’incertezza delle nostre vite e il nostro rapporto con la morte, che per tanto tempo la modernità laica aveva rimosso.
A livello sociale sono emerse le carenze di pensiero e di azione politica. La politica aveva favorito il neoliberismo, il capitale a discapito del lavoro, aveva sacrificato
prevenzione e precauzione in nome della reddittività e della
competitività.
Pochi i lampi positivi che la pandemia svela, come il risveglio della solidarietà assopita da tempo.
Ma non è una solidarietà tra Stati, ma tra singoli o piccoli gruppi organizzati più o meno
spontaneamente. Basta pensare ai primi due mesi della pandemia quando, con poche eccezioni, ogni
libri
CLAUDIU HOTICO Laureato in Teologia all’Università Gregoriana di Roma e in Servizio sociale alla Lumsa, lavora in una storica libreria cattolica e collabora con l’associazione Ore undici da molti anni.
paese europeo andava per conto suo e la solidarietà era pressoché assente.
Come si esce da una tale
situazione piena di sfide sul piano esistenziale, politico, della
democrazia, del digitale,
dell’economia, dell’ecologia? Ci sono due possibili esiti: o si stimola l’immaginazione e la creatività nella ricerca di nuove soluzioni oppure si cerca il ritorno a una passata
stabilità e l’adesione a una salvezza provvidenziale.
Con la speranza e l’utopia negli occhi il “giovane” novantanovenne filosofo francese non auspica la regressione ma tratteggia un cambio di strada che ritiene vitale.
«Una via è indispensabile»
esordisce nella seconda parte del libro. L’autore evita la parola
“rivoluzione”, che evoca le nefaste rivoluzioni sovietica e maoista, e anche l'espressione “progetto di società” che considera statica e inadatta a una società in continuo mutamento.
La nuova via proposta tocca riforme e cambiamenti che devono
soddisfare tre bisogni: rigenerare la politica, umanizzare la società e produrre un umanesimo rigenerato.
Qui ci soffermiano soltanto sulle
riforme in campo politico proposte da Morin sia a livello nazionale che mondiale. L’autore auspica si lavori a coniugare globalizzazione e de- globalizzazione, crescita e
decrescita, sviluppo e inviluppo. La globalizzazione va regolata, è necessario si umanizzi e non sia soltanto tecno-economica, mentre la de-globalizzazione deve essere il volano, per i singoli paesi,
dell’autonomia nei settori vitali:
alimentare, sanitario, energetico.
Per quanto riguarda i beni Morin auspica una crescita di quelli
essenziali (servizi pubblici: trasporti, scuola, salute, ecc.) e una
decrescita dell’economia del frivolo e dell'illusorio. Lo sviluppo deve estendersi dalla sfera tecnica ed economica a quella della cultura, mentre l’inviluppo deve riguardare la comunità e la solidarietà. Lo
sviluppo dei beni materiali ha senso se l’Io è avvolto in un Noi fatto di convivialità, comprensione degli altri, amicizia, nota l’autore.
Quanto alla riforma dello Stato – l’autore si riferisce alla Francia ma gli stessi mali colpiscono anche l’Italia –, Morin propone alcuni principi di riorganizzazione che curino la burocratizzazione ed eliminino i privilegi. Si potrà sanare
lo Stato solo generando
responsabilità nelle persone con un sistema che tenga uniti centralismo, policentrismo e acentrismo
(concessione di libertà in casi imprevisti e in condizioni critiche).
Allo stesso modo bisogna fare combinando gerarchia, poliarchia e anarchia (non intesa come
disordine ma come organizzazione spontanea tra individui e gruppi).
Morin infine ritiene indispensabile passare dalla democrazia
parlamentare a quella partecipativa e, a livello globale, riformare le istituzioni esistenti (v. ONU) e crearne di nuove. Solo con la coscienza di appartenere alla comunità umana si potrà dar vita a una nuova “civilizzazione antropica”
(Alberto Asor Rosa), a un nuovo umanesimo.
EDGAR MORIN
Filosofo, antropologo, sociologo.
Pseudonimo di Edgar Nahoum.
L’8 luglio 2020 ha compiuto 99 anni.
L’ISOLA DELLE ROSE
C
amminare, viaggiare, fuggire:sì, ma dove? In un mondo sempre più globalizzato c’è chi si muove per disperazione e sofferenza e c’è chi si muove per curiosità ed evasione. Il turismo
vorace e onnivoro è il contraltare della migrazione per fame. Nella stessa spiaggia si possono
incontrare il bagnante e il naufrago, il benestante e il disperato. Mai come in questo momento sentiremmo il bisogno di muoverci per ritrovare una libertà che abbiamo perso, per riprendere contatto con un mondo che pare essersi chiuso. E allora il sogno della fuga e della libertà sono forse molle ideali di un viaggio che al momento ci è precluso. Così un film leggero e fresco come L’incredibile storia dell’isola delle rose, può apparire veramente come un
miraggio che ci mostra una possibile fuga verso qualcosa che non esiste.
L’isola che non c’è verso cui vola Peter Pan si è effettivamente materializzata nel 1968 a opera di uno strambo personaggio, Giorgio Rosa (un eccellente Elio Germano), che unendo le proprie conoscenze scientifiche di ingegnere e un
profondo desiderio di libertà, ebbe la
stravagante idea di creare un’isola artificiale, fuori dalle acque
territoriali, che divenisse un luogo assolutamente libero da ogni ingerenza politica e statuale. Rosa creò un piccolo stato autonomo, costruito come una piccola
piattaformam in ferro e cemento, a sei miglia e mezzo dalla costa di Rimini. Di questa strampalata esperienza racconta il film di Sidney Sibilia che sta allietando in
streaming le tristi serate di questo dicembre. D’improvviso ci troviamo catapultati nel ‘68 ma i personaggi che animano la vicenda sono tutto fuor che fricchettoni e sessantottini nel senso “politico” del termine. Anzi Giorgio e il suo compare Maurizio (Leonardo Lidi) sono l’esatto opposto: bravi ragazzi in giacca e cravatta che si laureano e vivono in un mondo a parte, ignari del maggio francese e delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Ma quando il loro sogno, personale,
cinema
PIER DARIOMARZI Docente di storia e filosofia nelle scuole secondarie superiori.
Appassionato di cinema, collabora con l’associazione Ezechiele 25,17 di Lucca.
regia: Sidney Sibilia
interpreti: Elio Germano, Matilda De Angelis, Frncois Cluzet, Fabrizio Bentivoglio, Luca Zingaretti produzione: Italia, Netflix, 2020
estemporaneo e quasi naif – tra l’altro decidono di adottare
l’esperanto come lingua dell’isola – si concretizza, ecco che la realtà irrompe; da una parte con l’invasione pacifica di giovani modaioli che approfittano della piattaforma in acque neutrali per vivere l’ebbrezza della trasgressione; dall’altra con lo sguardo di governanti e osservatori politici che vedono con
preoccupazione un esperimento che mette in discussione il senso di appartenenza alla nazione e, in ultimo, minerebbe alle fondamenta il senso dell’istituzione statale che vede compromessa la sua
imprenscindibilità. Sergio e la sua strampalata banda di nerd e fuoriusciti fugge dalla realtà prendendo il mare aperto dove si ritaglia uno spazio assolutamente autonomo e libero.
Luca Zingaretti e Fabrizio Bentivoglio, con i toni della
commedia brillante, tratteggiano le figure dell’allora presidente della repubblica Leone e del ministro degli interni Restivo, due avvoltoi pronti ad avventarsi sulla preda ignara – per la verità non troppo perché Rosa si rivolge alle Nazioni Unite per
ottenere riconoscimento ufficiale – di
aver creato un caso diplomatico molto delicato. Nel film, che
ripercorre con minuzia di particolari gli esiti e gli sviluppi di quella vicenda, sentiamo parlare di diritto positivo e di diritto naturale, di leggi che sono inevitabilmente provvisorie e di giustizia naturale che invece dovrebbe essere valida a ogni latitudine ed epoca. Così la libertà che non nuoccia agli altri dovrebbe essere un diritto naturale sacrosanto che è sì espresso a chiare lettere nelle costituzioni di mezzo mondo, ma che non può, nel diritto positivo, essere assoluto e anzi deve rifiutare, come in questo caso, di scendere a compromessi con chi quelle libertà potrebbe esercitarle in un modo anticonvenzionale. L’isola delle rose è un modello utopico di vita sociale senza convenzioni e restrizioni, seppure i suoi fondatori infine si diano una forma istituzionale, seppur minuscola, come se l’uomo non potesse fare a meno di regolare la propria esistenza secondo i principi del diritto e della proprietà. A quel punto però lo scontro con lo Stato è inevitabile e destinato all’insuccesso.
Una fotografia solare da cinema Anni Sessanta, la simpatica e tutt’altro che banale costruzione dei personaggi, l’interesse per una
vicenda vera pur nella sua assurdità, rendono questo film un gradevole esempio di cinema leggero che può allietare, mostrandoci un orizzonte verso cui guardare provando a riassaporare l’aria della libertà perduta.
cinema
FILOSOFARE CON I BAMBINI
cento parole della filosofia spiegate ai bambini dallo scrittore Tahar Ben Jelloun
tanti, vengono presentati concetti quali il pensiero, il bene, la bellezza, la violenza, la democrazia,
l’amicizia, lo straniero, la paura, l’intelligenza artificiale, la pedofilia, la religione, la libertà di coscienza...
L’autore racconta storie, aneddoti o fatti di attualità che svelano i concetti che desidera comunicare. A
conclusione di ogni lemma c’è la rubrica «A te la parola» che provoca i bambini con un pensiero o una domanda.
I bambini sono invitati a pensare con la propria testa, a riflettere su ciò che viene loro presentato, a non farsi condizionare da stereotipi e a imparare a distinguere il vero. Tahar Ben Jelloun li incoraggia a cogliere la bellezza della vita a partire dalla fiducia in se stessi, dando libero sfogo alla fantasia, all’umorismo, all’immaginazione, alla generosità.
Perciò il libro ha un forte carattere pedagogico, è costruito per far apprendere ai bambini nuovi termini e concetti, ma allo stesso tempo
vuole svegliare le coscienze e dare loro un po’ di saggezza. L’ultimo vocabolo è dedicato al tema dell’ambiente, con la fiducia che siano proprio i bambini filosofi a
“salvare il mondo”.
A rendere il libro piacevole c’è il corredo di illustrazioni di Hubert Poirot-Bourdain.
libri bimbi
S
piegare ai bambini «che cos’è la filosofia», potrebbe essere un'impresa ardua, non ispirata. Non così per Tahar Ben Jelloun, noto romanziere e scrittore francese di origini marocchine, che ha sviluppato la predilezione e la passione di illustrare ai bambini concetti e fenomeni difficili come l’islam, il terrorismo, il razzismo.Durante il lockdown di primavera, l’autore si è dedicato alla scrittura de La filosofia spiegata ai bambini, appena pubblicato in Italia per i tipi di La nave di Teseo.
Convinto che il Coronavirus inviti a porci domande elementari - sul bene, il male, la giustizia, l’amore, lo stare insieme, la natura -, l’autore si focalizza sulla filosofia, materia che per eccellenza apre sempre,
innumerevoli quesiti. Ai bambini, filosofi in erba, bravissimi a fare domande, Ben Jelloun propone un percorso alla scoperta di cento concetti filosofici comunemente utilizzati nella vita quotidiana. Tra i
IL CELLULARE IN MANO AI FIGLI
accompagnare i figli all’uso corretto del telefonino è utile e necessario
Caro don Mario,
ho due figlioli, uno di sei e uno di dieci anni. Finora non abbiamo permesso che avessero un cellulare a
disposizione. Da tempo il più grande vorrebbe ricevere in dono un cellulare tutto per lui. Questo gli permetterebbe di rimanere in contatto con i suoi amici e compagni di scuola e di avere nello stesso tempo l’autonomia di fare delle ricerche.
Io e mio marito siamo sempre stati contrari, ma adesso ci domandiamo se non sia il caso di accontentare la sua richiesta. Siamo preoccupati che occupi tutto il suo tempo e soprattutto possa arrivare a siti non adatti alla sua età.
Rossella
Cara Rossella,
il problema che lei pone è comune a molte famiglie. Il cellulare è diventato molto diffuso e, riconosciamolo, anche di grande utilità per tutti. Quotidianamente ci
avvantaggiamo di questo piccolo e potente strumento. Lo stesso problema, molti anni fa, era collegato all’uso del telefono di casa. Credo che la soluzione sia nel superare le nostre perplessità e nell’accompagnare i figli nell’uso corretto del telefonino. Loro non hanno bisogno dei nostri insegnamenti per quello che riguarda la tecnologia, anzi sono loro più esperti di noi. L’aspetto da curare è quello di aiutarli a fare le giuste scelte, a conoscere i pericoli in cui possono incorrere e come difendersi da essi. Il telefonino è una finestra aperta sul mondo, può offrire informazioni in modo veloce e impensabile in altri tempi. Noi
frequentavamo le biblioteche. Oggi i ragazzi sanno trovare ciò che serve per le loro ricerche in breve tempo, attraverso internet. Ma come tutti gli strumenti, anche il telefonino va usato con discrezione e non deve monopolizzare la maggior parte del tempo. Sarà nostro impegno far gustare ai ragazzi il piacere di una buona lettura, della visita di un museo o di lunghe camminate all’aria aperta. Aggiungo che le ore passate a scuola o sui libri debbono essere compensate dallo sport, per esempio dal calcio tanto amato dai ragazzi, e da feste e incontri con i loro coetanei.
don Mario
lettere
Parole O_Stili ha lanciato la campagna
#pallediNatale per responsabilizzare genitori e insegnanti