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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO, Numero 329 del 30 settembre 2010 VERSO IL 2 OTTOBRE SULLA VIA DELLA NONVIOLENZA

Roberto Mancini, Ordinario di filosofia teoretica, Università di Macerata

Aprirsi alla mite verità

Seguire la luce

Penso con emozione a Gandhi, alla sua vita - e anche al cammino di quanti, in altre situazioni, hanno comunicato lo stesso amore politico nonviolento - come a una luce che squarcia il buio della civilta' della competizione, della fame, del denaro e del potere. E quando la luce ti raggiunge, tu devi entrarci, seguirla, lasciare che trasformi l'esistenza e la convivenza. La luce comunicata da Mohandas Karamchand Gandhi mi pare anzitutto una rivelazione della vita vera, quella che da' senso e credibilita' al termine "felicita'", che poi significa: vita buona comune, condivisa, al punto che nessuno ne e' escluso.

Per noi oggi la nonviolenza e' il nome di un risveglio e di una ricerca che impegna tutta la vita, anche se si tratta di una ricerca ancora cosi' allo stadio iniziale, tanto che ci manca una parola che non abbia piu' solo il prefisso negativo. "Nonviolenza" non vuol dire rinuncia, astensione, ma l'energia specifica che scaturisce dalla libera adesione a una verita' che e' amore puro, senza ambiguita' ed esclusivismi. Di solito,

paradossalmente, e' la nonviolenza a essere sotto giudizio: accusata di astrattezza, di irresponsabilita', di utopismo. Ma, se abbiamo conservato anche in grado minimo il principio di realta', allora si capisce subito che non e' la nonviolenza a essere sotto giudizio, ma devono esserlo le logiche preponderanti in un mondo come quello attuale: quelle che inseguono la potenza, la vittoria su qualcuno, quella del contagio del terrore, quella che immagina la societa' come un mercato globale che ha potere di vita e di morte sulle persone e sui popoli.

La scelta della vera efficacia

La nonviolenza e' questione etica concretissima, operativa, politica, economica, comportamentale, ma e' sempre anche questione veritativa, metafisica, antropologica, teologica. Perche' l'umanita', per vedere la realta', per vedersi, per riconoscere il valore di ognuno e di tutti, della natura e del futuro, deve sperare. Ha il bisogno di vedere un orizzonte. Allora hanno luogo le fioriture dell'intelligenza e della misericordia, le rinascite culturali, il dispiegamento delle forze etiche e dei movimenti civili, l'elaborazione di programmi politici. Allora hanno nuovo impulso i veri processi educativi e tutte le dinamiche di umanizzazione.

La nonviolenza come pace in atto, pace anticipata e intessuta passo dopo passo e' una speranza che non ha ancora trovato la sua comprensione adeguata, una speranza che, travisata, fa paura a quanti confidano di piu' nella potenza e nelle sue distruzioni. Ma resta una speranza che e' immanente alla condizione umana: quella del compimento, della liberazione, della nascita del mondo come comunione tra i viventi. L'alternativa tra logica della potenza e logica dell'armonia, tra paura e misericordia, tra indifferenza e responsabilita', tra angoscia e consolazione attiva non e' affatto ovvia, non e' facilmente riconoscibile nella esistenza quotidiana e nella vita pubblica. Non si tratta di parlare bene della pace e male della guerra, anche se a volte siamo cosi' persi che gia' questo sarebbe un primo risultato. Si tratta di capire, di dialogare, di scegliere, di agire, di convivere diversamente. Fino a comprendere che la scelta della nonviolenza e' la scelta della vera efficacia, dell'unica specifica energia che puo' cambiare e trasfigurare il mondo e noi stessi.

La responsabilità di pensare

Per chi e' disposto a tentare questa ricerca, la nonviolenza appare come una via, il metodo della pace, quel percorso che ci conduce fuori dalla razionalita' vittimaria che si presenta sempre come se fosse ovvia e necessaria. Per pensare in modo davvero critico e libero bisogna non concludere, ma iniziare la riflessione discutendo il luogo comune fissato dal criterio seguente: tanta nonviolenza quanto e' possibile, tanta violenza quanto e' necessario. Su questa banalita' tutti si direbbero d'accordo. Ma un simile criterio serve solo a espellere la nonviolenza dalla quotidianita' e dalla storia, riducendo l'idea al mero non uccidere. Il passo successivo, in questa banalizzazione, consiste nel ripetere la solita distinzione tra nonviolenza "assoluta" e

"relativa". Ma e' un falso problema, come Gandhi ricorda spesso. In realta' la vera distinzione e' tra

nonviolenza evocata, ideologica (sempre astratta e contraddittoria), e nonviolenza reale, l'espressione della maturazione in noi di un amore piu' grande degli amori che abbiamo conosciuto e sperimentato.

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Di solito non si vede che la nonviolenza e', parlando per formule, non solo adesione al non uccidere, ma anche impegno a non lasciar uccidere, perche' e' la via di costruzione fedele di una giustizia intera, l'unica che meriti questo nome. E' la giustizia che riscatta le vittime senza produrne altre, e' la giustizia che, invece di colpire qualcuno, risana le situazioni e le esistenze. E' la giustizia secondo l'infinita dignita' umana e secondo la cura per il valore del mondo. Ecco perche', di fatto, la scelta della nonviolenza e i frutti dell'amore politico nonviolento compaiono nella storia proprio nelle situazioni estreme.

La nonviolenza non e' mera tattica, strategia, oppure ideologia fanatica. E' umile trasfigurazione

dell'esistenza. Ed e' - sia detto con tutta la memoria anche degli aspetti miserabili del nostro modo abituale di vivere - violenza risanata. Voglio dire che l'essere umano ha un attaccamento alla vita, a se', a cio' che considera "proprieta'" sua, tale da esprimere una sorta di "amore" distorto, violento, distruttivo. La

guarigione del nostro modo di amare sta nella svolta della mitezza, della nonviolenza, della passione per la giustizia intera, della fedelta' alla vocazione universale che ci invita alla felicita' condivisa.

L'efficacia dell'agire nonviolento non viene mai, naturalmente, dall'acquisizione di strumenti di potenza, ma sorge dal movimento di condivisione della vita di quanti sono ultimi, intoccabili, respinti, esuberi, sconfitti.

Alcuni, personalmente, possono cambiare la loro vita in questo senso. Ma bisogna pure chiedersi che cosa voglia dire questo se a vivere in tal modo non saranno solo singoli o piccole comunita', ma ampi soggetti collettivi e istituzioni? Quale politica, quale economia, quali forme di azione e di organizzazione ci sono richieste? La desolazione della vita pubblica in Italia oggi - ma anche in Europa e in molte parti del mondo - si deve soprattutto al fatto che chi dovrebbe opporsi all'iniquita' trionfante ha rinunciato alla speranza, al pensiero critico, alla responsabilita' verso la vita comune, allo sviluppo della democrazia. Quando ascolto i discorsi di rappresentanti delle forze politiche, dal centro-sinistra alla sinistra radicale, mi chiedo se potranno rendersi conto, in tempi brevi, della loro mancanza di visione, di passione, di tensione verso l'orizzonte di liberazione che unisce, crea intesa e coesione e non permette piu' di perdersi in narcisismi e polemiche irreali.

Aprirsi alla mite verita' del mondo e della vita

Gandhi ha mostrato anche come la scelta della nonviolenza, se e' profondamente radicata in una persona o in una comunita', viene generata dalla disponibilita' a seguire una verita' essenziale. A seguire la luce. Qui alcuni usano il nome "Dio" per saturare ogni domanda e ogni ricerca, altri lo usano per liquidare la questione.

L'effetto e' lo stesso. Ma a tutti, qualunque sia l'orientamento di ciascuno, Gandhi chiede tuttora di considerare seriamente la questione della propria relazione con la verita'. E la questione diventa molto concreta quando si smette di identificarla con il mito dei fanatici o con la chimera in cui si risolverebbe secondo gli scettici.

Tutti i testimoni della nonviolenza hanno indicato che non si tratta di una verita' fittizia, ideologica, oppressiva ed esclusiva, ma di una verita' che non tollera monopoli e imperialismi, una verita' liberante e ospitale, che non si da' come oggetto, come concetto o come dogma, ma come Comunione vivente da cui nessuno puo' essere escluso. Si capisce allora che l'adesione libera a una verita' mite e ospitale con tutti non spinge all'astrazione o al fanatismo, bensi' a trasformare l'esistenza e la convivenza seguendo la

consapevolezza cosi' sintetizzata da Maria Zambrano: "la condizione umana e' tale per cui basta umiliare, rinnegare o far soffrire un uomo - se stessi o qualcun altro - perche' ogni uomo ne soffra. In ogni uomo ci sono tutti gli uomini" (Maria Zambrano, Persona e democrazia, Milano, Mondadori, 2000, p. 86).

Il confronto con la possibilita' di Dio

D'altra parte, in effetti la scelta della nonviolenza come disponibilita' alla relazione con la verita' chiede anche di affrontare la questione teologica o del divino. Molti pensatori, testimoni della nonviolenza, molti operatori di pace hanno dichiarato che per loro vivere e anche agire politicamente liberi dalla violenza significava fare un'esperienza del Dio vivente. Questa traccia si puo' trovare nell'induismo, nell'ebraismo, nell'islam, nel cristianesimo, nel buddismo, in altre fedi ancora e pure nell'ateismo che riconosce di dover ereditare la speranza coltivata nella fede.

In queste testimonianze non emerge un Dio ricattatorio e oppressivo, non si dice che chi non crede secondo una certa religione non puo' avere accesso alla nonviolenza. Questa condizione non e' imposta a nessuno.

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Non si puo' prescrivere a qualcuno, sulla soglia della scelta della nonviolenza, di aderire alla fede oppure di metterla da parte. Sta di fatto che per lo piu' ci si trova a parlare di questo nella condizione per cui gli uomini conoscono le religioni, ma non Dio. A me basta ricordare che, se un Dio davvero esiste:

- e' quello che sta tra gli intoccabili e gli esclusi (induismo) e che umilmente abita in ciascuno di noi ed e' proprio per questo, dice Gandhi, che non dobbiamo avere paura gli uni degli altri,

- e' quello che ascolta il grido del suo popolo e sostiene l'orfano e la vedova e che infine asciughera' le lacrime su ogni volto (Is 25, 8) (ebraismo),

- e' quello che tra punire e farsi uccidere si lascia uccidere trasformando anche il morire in un atto d'amore (cristianesimo),

- e' quello che non solo ha, ma e' misericordia e, come tale, invita a un'unica lotta, quella interiore per vincere la tentazione del male (islam),

- e' quello dell'ateo che, seguendo fino in fondo la passione per la giustizia, giunge a dire, come fece Max Horkheimer: "la ragione critica sa che non c'e' nessun Dio, ma crede in Lui" (M. Horkheimer, Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1988, vol. XIV, p. 508).

La coscienza di ognuno prendera' posizione sulla questione di Dio o di nessun Dio, ma in ogni caso oggi, in Italia, tocca a noi la responsabilita' di dare vita a un movimento nonviolento ampio, coeso, corale, guarito dal culto dell'identita' e fedele alla responsabilita' verso la societa' intera. Un movimento che liberi il Paese e tolga le soggettivita' sane dalla dispersione e dalla disperazione, in modo che anche l'Italia possa contribuire alla costruzione di quel giusto, onnicratico e mite ordine del mondo che ancora ci manca.

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