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C ONCLUSIONI

4.1. Risultati

Alla luce delle principali caratteristiche che i sistemi numerali presentano tra le lingue del mondo e delle peculiarità dei sistemi lituano e lettone esaminati in apertura (Capitolo 1), la parte operativa di questo studio ha preso le mosse da alcune domande (§2.2). Ci si è chiesto, nel complesso, se esista qualche relazione fra l’ uso e la funzione dei numerali in un sistema- lingua. La funzione è il tratto più evidente dei due, poiché a renderla manifesta ci sono l’ aspetto morfologico, le procedure di formazione, l’ architettura aritmetica del sistema, e così via; ad esempio, di solito le unità fondamentali sono espresse da numerali semplici, le basi anch’ esse da numerali semplici che entrano in costrutti moltiplicativi, le unità delle serie superiori sono indicate da numerali composti o complessi, ecc. Tutto questo rende evidente che i sistemi numerali hanno una struttura articolata su vari livelli gerarchici. L’ uso invece è un tratto assai meno evidente; per poterlo studiare è neccessario “ estrarlo” , cosa che si è fatta attraverso lo spoglio dei corpora.

Una prima domanda era semplicemente se la distribuzione di frequenza dei numerali apparisse casuale, o se al contrario mostrasse qualche regolarità. I dati (v. Graff. 2.1-2.23) evidenziano con chiarezza che la distribuzione in entrambe le lingue non è casuale. Emerge una regolarità d’ uso caratterizzata da tre aspetti principali:

1) l’ alta frequenza dei primi tre numerali in diverse serie, specialmente

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nei cardinali fondamentali (1, 2, 3) e negli ordinali (1°, 2°, 3°);

2) un andamento decrescente più o meno regolare dagli elementi più bassi ai più alti di ciascuna serie;

3) la presenza di picchi di frequenza.

Il primo aspetto è reso visibile anche dalle linee del valore medio riportate nei Graff. 2.1, 2.2, 2.16, 2.17. Soltanto i primi tre numerali si trovano al di sopra di essa, mentre tutti gli altri restano al di sotto.

Il secondo aspetto è piuttosto evidente anche a colpo d’ occhio, ma, nei casi in cui lo è meno, mi sono fatto aiutare dalle linee di tendenza (funzione automatica del programma da me utilizzato che evidenzia la direzione principale di orientamento dei dati), v. Graff. 2.4, 2.7, 2.9, ecc. Si è così visto che obbediscono a questa regolarità tutte le serie ad eccezione di 21-29 e 10°-90° in lettone. Tali eccezioni però non hanno il peso di controprove, dal momento che i valori delle F per questi numerali sono talmente bassi da non permettere di dire alcunché al loro proposito. Si noti che a causa della stessa scarsità di dati ho dovuto prescindere anche da alcune serie che invece avrebbero confermato la regolarità, p. es. 11°-19°

in lettone (Graf. 2.21).

Infine la presenza di picchi (Graff. 2.24-2.25) non è tanto evidente all’ interno di una singola serie, quanto nel passaggio da una serie a un’ altra. Per esempio in entrambe le lingue il 10 ha un picco di frequenza particolarmente rilevante rispetto al 9 (ultimo elemento della serie 1-9) e all’ 11 (primo elemento della serie 11-19). Ci sono comunque anche dei picchi notevoli interni alle serie, p. es. il 500 (Graf. 2.7), il 12 e il 15 (Graff. 2.9-2.10), il 24 e il 25 (Graf. 2.11-2.12).

Non emergono differenze macroscopiche fra le distribuzioni di

frequenza nelle due lingue. Pur basandosi su dati quantitativamente

diversi, i due modelli di distribuzione si assomigliano. La differenza

principale si incontra con i peculiari del pluralia tantum. Essi sono

praticamente assenti nel corpus lettone, mentre mostrano una notevole

vitalità in lituano. Questo conferma empiricamente ciò che le grammatiche

lettoni vanno segnalando da anni: questa sotto-categoria di numerali sta

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scomparendo dall’ uso per essere soppiantata dalle forme cardinali fondamentali.

Questi dati, nei tre aspetti sopra elencati, sono in sostanziale accordo con i pochi studi analoghi condotti su altre lingue (in primis Dehaene & Mehler, 1992). Occorre però sottolineare che rispetto a quelli, qui si è presa in esame una quantità maggiore di dati. In particolare, è la prima volta che vengono analizzate le frequenze d’ uso dei cardinali 21-29, delle centinaia, degli ordinali delle decine, degli ordinali delle potenze della base, dei peculiari dei pluralia tantum e dei collettivi. I riscontri con le altre lingue spingono a ipotizzare che esista qualche condizionamento generale, o universale, che guida l’ uso dei numerali.

L’ analisi condotta dimostra che per spiegare gran parte dei dati è necessario richiamare motivazioni di tipo cognitivo-psicologico. L’ alta frequenza dei primi tre numerali trova una spiegazione plausibile nel subitizing (§2.5.1.1), ovvero quella proprietà innata che gli uomini e altre specie animali hanno di riconoscere immediatamente – cioè senza contare – insiemi di piccole quantità fino a 3/4 elementi.

L’ andamento decrescente invece potrebbe spiegarsi, secondo quanto suggeriscono Dehaene & Mehler (1992), con la legge di Fechner (§2.5.2), in base alla quale la rappresentazione mentale dei concetti numerici è più accurata per le quantità basse e si riduce con il crescere della quantità.

Sullo sfondo di entrambe queste spiegazioni sta l’ ipotesi che la frequenza d’ uso dei numerali rifletta l’ importanza o salienza che quei numeri hanno per il parlante. L’ idea è che ciò che è più importante sia più presente nella lingua. Sia il subitizing che la legge di Fechner dicono che la mente umana è predisposta per dare “ pesi” diversi ai concetti numerici, privilegiando i più bassi.

Si noti che nel parlare di numeri “ bassi” o “ alti” il termine di riferimento è sempre la serie. Il che tira in ballo l’ architettura gerarchica del sistema. 10 è oggettivamente più alto di 9, ma anche molto più frequente di esso. Infatti il 9 è “ alto” nella propria serie (1-9), mentre 10 è

“ basso” in quanto primo elemento della serie delle decine. Perciò 10

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occupa nella serie delle decine il ruolo che 1 svolge in quello delle unità. La frequenza d’ uso evidenzia perfettamente questo fatto. La domanda se uso e funzione dei numerali siano collegati trova quindi una risposta decisamente affermativa. Si può dire che se non sapessimo nulla del sistema in questione, solo osservando le frequenze dei suoi elementi si capirebbe quali sono le unità fondamentali, la base, ecc. Infatti i picchi di frequenza si collocano spesso in corrispondenza di numeri tondi, cioè strutturalmente importanti (la base principale, i suoi multipli e le sue potenze).

Il fatto che ci siano dei picchi di frequenza è spiegabile alla luce delle limitazioni cognitive dell’ uomo. Se dal punto di vista matematico l’ insieme dei numeri è una successione omogenea e infinita di elementi ottenuti per aggiunta di una unità, l’ uomo ha bisogno di una mappatura più articolata;

ha bisogno di creare struttura e gerarchia, ha bisogno di punti di riferimento cognitivo, in questo come in altri domini (cfr. Rosch, 1975).

Quanto emerso fin qui sembra puntare verso un’ alta generalizzabilità dei risultati. Penso che le determinazioni di tipo psicologico attribuiscano ad alcune quantità una “ salienza naturale” (§2.5.4) di cui forse si troverebbe traccia in qualsiasi lingua. Quello che però probabilmente non è universale è l’ aspetto specifico che questa mappatura assume nelle diverse lingue.

I picchi sottolineano una “ salienza culturale” che non è intrinseca alle quantità stesse, ma che dipende dal sistema linguistico e culturale di riferimento. Non c’ è nulla nella cardinalità 10 di più saliente della cardinalità 11, se non il fatto che la lingua e la cultura sono decimali. Un esempio evidente di pressione culturale si manifesta nell’ alta frequenza, tanto in lituano quanto in lettone, del 12 e del 15. Ho argomentato che l’ importanza di queste quantità si lega da vicino a pratiche e convenzioni sociali quali la misurazione del tempo. Invece l’ alta frequenza dei numerali decimali si lega a motivazioni sia culturali in senso lato (p. es. il denaro si conta in base 10) che linguistiche (lituano e lettone sono lingue decimali).

È ragionevole ipotizzare che i parlanti di una lingua non decimale

abbiano una diversa mappatura cognitiva nell’ ambito del numero,

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determinata appunto dalla struttura del proprio sistema numerale. Questo mi porta a formulare un’ ipotesi di “ relativismo moderato” . Io credo che la lingua influenzi la cognizione dei parlanti nel dominio del numero. Per dimostrarlo occorrerebbe condurre un’ analisi del genere su una lingua puramente non decimale. Tuttavia, ritengo anche che quella della lingua sia un’ influenza di secondo livello. Infatti le lingue non “ si inventano”

decimali, o duodecimali, o vigesimali dal nulla e senza ragione. Su un livello più profondo e remoto, all’ origine dei diversi sistemi numerali e delle pratiche di conteggio si trova uno stesso fondamento cognitivo, cioè il corpo umano. Il modello corporeo è in grado di spiegare in termini di numeri anatomici la motivazione di tutte le basi attestate fra le lingue del mondo. Per di più, si sposa perfettamente con ciò che sappiamo sulla storia del numero e con i dati etimologici.

L’ etimologia dei numerali tra le lingue del mondo, quando si riesce a risalire a dei significati pre-numerici, mostra frequentissimi rimandi alle pratiche di conteggio digitale e/o corporeo.

1

Quando l’ uomo ha iniziato a gestire il numero, lo ha fatto dapprima associando gli oggetti che voleva contare ad altri elementi mutuati da un insieme-modello, per esempio tacche su legno, nodi su corda, file di pietre, ecc. Ancora più spesso ha utilizzato come insieme-modello il proprio corpo, per esempio associando ogni oggetto contato a un dito, e “ chiamandolo” con qualche nome che in origine non aveva significato numerico (p. es. “ dito piccolo” ). L’ Africa, ad esempio, è molto ricca di lingue trasparenti in tal senso.

2

Le lingue indoeuropee invece da questo punto di vista sono “ opache” . Ciò però non

1 Oltre ai lavori già citati in precedenza, si veda anche Majewicz (1984).

2 Ad esempio Heine (1997: 20-21) riporta che il sistema mamvu (famiglia nilo- sahariana, parlata nella Repubblica Democratica del Congo) ha numerali opachi per 1- 5, ma dal 6 in poi ha forme trasparenti nelle quali si vede la presenza della mano (p.

es. 6 = elí qodè relí, alla lettera ‘ la mano afferra uno’ ), del piede (p. es. qarú qodè relí,

alla lettera ‘ il piede afferra uno’ ) e dell’ intero corpo umano (p. es. 20 = múdo ngburú

relí ‘ una persona intera’ ). Inoltre anche in sistemi etimologicamente trasparenti, la

nozione di ‘ mano’ può rimanere implicita, p. es. in sotho (famiglia niger-congo, parlata

in Sud Africa) il verbo selɛla! o talɛla! ‘ salta!’ indica il 6, mostrando dunque che esso è

concettualizzato come il “ salto” da una mano all’ altra (ibid.).

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significa che anche i nostri progenitori non abbiano imparato a contare sulle dita delle mani. Anzi, la presenza della mano nel sistema numerale indoeuropeo è cosa certa, anche se le interpretazioni al riguardo sono divergenti.

3

Per citare solo un’ ipotesi tra le più note, ricordo che secondo Szemerényi (1960: 69) pie. *deṃt ‘ 10’ sarebbe un composto di *de ‘ 2’ +

*kont- ‘ mano’ , cfr. germ.c. *χanðuz > ted. Hand. Si è obiettato che se il 10 fosse stato “ due mani” , i proto-indoeuropei avrebbero usato la parola

“ mano” flessa al duale, anziché un simile composto. Ma proprio questa struttura indicherebbe una procedura moltiplicativa in cui *kont- funziona da base: 10 = 2×mano/5. Ciò testimonierebbe il passaggio da lessema referenziale a indicatore di quantità (numerale). Nei termini di Gvozdanović (1999b), si tratta del passaggio da icone a simboli; ovvero da una relazione tra segno e denotato di tipo associativo ad una di tipo arbitrario.

4

Procedimenti analoghi sono attestati in molte lingue del mondo. I numerali che fanno da base, a differenza degli altri, saranno stati concettualizzati a partire da referenti rivestiti di un qualche valore collettivo,

5

com’ è il caso della mano, o di due mani. Per cui il numero 5 non è (solo) la somma delle prime 5 unità, ma esso stesso una unità di livello superiore. Del fatto che il 5 si collochi concettualmente e storicamente su un piano diverso rispetto alle unità precedenti rimarrebbe

3 Diverse ipotesi riguardo al nome ie. della mano e ai suoi rapporti col sistema numerale sono esposte nei lavori di Markey (1984), Horowitz (1992), Schwartz (1992).

4 Lo stadio dell’ icona è quello in cui ad esempio il 5 è chiamato mano perché essa rappresenta iconicamente quella quantità. L’ opacizzazione semantica fa venire meno la morivazione e favorisce il passaggio da icone a simboli, cioè ad un rapporto arbitrario fra il segno mano e il denotato ‘ 5’ . «In language-internal developments, bases may develop lexically from icons into symbols through shifts, but not vice versa»

(Gvozdanović , 1999b: 105).

5 Si veda l’ ipotesi di Polomé (1968), secondo cui pie. *penk

w

e è da collegare all’ itt.

panku- ‘ tutto, totale, completo, totalità’ . La totalità espressa da questa forma sarebbe

semanticamente motivata dalla connessione con la mano: «a morpheme {penk

w

-},

applying to the whole hand when all five fingers are being counted, may be assumed

in the case of ‘ 5’ » (ibid.: 100).

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traccia nella nota frattura che, nel pie. ricostruito, separa i numerali 1-4 (forme flesse) dal 5 e i numerali seguenti (invariabili).

È ragionevole immaginare che questi antichi numerali collettivi (p. es.

mano > unità di 5 elementi) e i loro multipli (p. es. 2×mano > unità di 10 elementi) fossero caratterizzati da tratti sostantivali, tra cui la reggenza partitiva del quantificato (del tipo “ una manciata di...” , “ due manciate di...” ). Questa ipotesi non è del tutto speculativa. Per citare un esempio tra i più “ antichi” possibili, un’ interpretazione di pie. *kṃtóm 100 è che provenga con aplologia da un composto *kṃkṃtóm < *(d)kṃkṃtóm, cioè

“ dieci di dieci” , ovvero «a decad of decads» (Szemerényi, 1960); ciò dimostrerebbe la reggenza partitiva del 10 in quanto “ decina” , o unità di livello superiore.

Quanto vado dicendo riporta all’ ipotesi dell’ origine sostantivale dei numerali tondi, ipotesi che, come si è visto (§3.3.2.2), non manca di argomenti. Secondo questa visione, «the higher numerals are nouns pressed into service as numerals» (Corbett, 1983: 245). Per questo motivo, sempre secondo Corbett, analizzando sincronicamente un sistema numerale si osserva che i numerali dai tratti più sostantivali sono quelli più alti (e tondi, cioè i multipli e/o le potenze della base).

L’ analisi condotta nel Capitolo 3 mostra che le lingue baltiche portano argomenti a favore di questa ipotesi. Infatti il quadro della morfosintassi numerale che si ricostruisce per il XVI secolo evidenzia una chiara differenziazione fra numerali simil-aggettivali (la serie 1-9) e simil- sostantivali (i numerali tondi). All’ epoca delle prime attestazioni, tutti i numerali tondi nelle due lingue hanno tratti decisamente sostantivali. Dal punto di vista morfologico, i numerali tondi sono forme flessibili e hanno paradigmi nominali. Dal punto di vista sintattico, essi fanno richiesta del genitivo del quantificato secondo quello che ho chiamato modello partitivo. Uno dei risultati di questo lavoro è stato mostrare che tale modello si può individuare anche in lettone antico, nonostante i documenti sembrino attestarlo solo in una fase più recente (§3.3.2).

Lo studio dell’ evoluzione diacronica di tali sistemi mostra l’ azione di

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un mutamento morfologico orientato alla riduzione di forme flesse in forme ridotte (p. es. deš imtis > deš imt, lett. desmits > desmit). Il fenomeno ha riguardato in modo limitato il lituano e più esteso il lettone. Tra l’ altro la ricostruzione degli stadi di questo processo fa vedere come esso non abbia agito casualmente, ma secondo il criterio del valore crescente. In altre parole, la riduzione ha colpito prima il 10, poi il 100, poi il 1.000 (v. Tab.

3.9). In lituano la riduzione si è fermata solo al primo gradino.

Nei numerali tondi, i tratti più sostantivali sono arcaici. Passando in rassegna la sintassi numerale di varie famiglie linguistiche, ho mostrato la diffusione del modello partitivo e ho sottolineato come esso sia un tratto

“ recessivo” . Non è un caso che sia maggiormente attestato fra le lingue antiche, mentre i prosecutori moderni o lo hanno sostituito completamente (p. es. l’ inglese) oppure lo hanno perso in parte, mantenendolo solo per i numerali più alti (p. es. l’ italiano, dove è conservato solo a partire da un milione). Si noti come anche la perdita del modello partitivo non agisce casualmente, ma procede secondo il valore numerico crescente, cioè colpendo prima i numerali tondi più bassi (p. es. 10, 100), poi quelli più alti. Se questo quadro è corretto, allora le lingue baltiche si caratterizzano nel panorama indoeuropeo per una fortissima tenuta del sistema, dove ancora il 10 fa richiesta del genitivo.

I fenomeni di mutamento osservabili vanno in generale nella direzione

della de-sostantivizzazione degli elementi simil-sostantivali. La cosa che

non trova ancora risposta è perché tali fenomeni sembrino agire seguendo

un percorso che va dai più bassi ai più alti. Ebbene, una possibile chiave di

lettura chiama nuovamente in ballo la frequenza d’ uso. Gli studi sulla

grammaticalizzazione hanno dimostrato che la frequenza si correla

positivamente al grado di grammaticalizzazione. «The more frequently an

item is employed, the more likely it is to lose properties characteristic of

its category and to develop into some other category» (Heine, 1997: 31). I

nostri dati mostrano esattamente che, fra i numerali tondi, 10 è il più

utilizzato, seguito da 100, da 1.000 e così via. Certo, i miei dati si

riferiscono alla lingua contemporanea, mentre i mutamenti sono avvenuti

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secoli fa. Ma se la motivazione di una simile distribuzione di frequenza dipende, come ho detto, dalla struttura decimale della lingua, allora si può ben credere che così fosse anche in passato.

4.2. “ Per una concezione processuale” dei sistemi numerali

Voglio concludere questo lavoro con delle ultime considerazioni di portata generale. Alla luce dei molti aspetti emersi in queste pagine, sembra che la storia dei sistemi numerali, la loro struttura e i meccanismi di mutamento si lascino riassumere in due direttrici: gradazione e gerarchia.

Gvozdanović (1999b) parla di ordering e ranking, dove il primo termine prevede la sola addizione, mentre il secondo anche la moltiplicazione (e dunque le basi). Il ranking, osserva giustamente, ha a che fare con la gerarchia, o con un ordinamento di livelli. Invece l’ ordinamento sul piano delle unità può essere meglio interpretato entro il paradagima teorico dei princìpi di ordinamento lessicale come un esempio di gradazione.

Non sempre viene sottolineato che quello dei numerali è forse il settore del lessico più rigidamente strutturato; esso è organizzato in base a un principio di ordinamento forte, cioè la serie dei numeri (naturali).

Lungo la sua dimensione orizzontale, quella dei numerali può essere letta come una gradazione regolarizzata (cfr. Simone, 1997: 485), cioè priva di lacune (tutti i posti della scala sono occupati da un elemento) e paradigmaticamente forte (ad ogni gradino della scala corrisponde, salvo rare eccezioni, un solo elemento). La scala in questo caso va da 0 a infinito (v. Fig. 4.1).

Fig. 4.1. I numerali come gradazione regolarizzata.

È una possibilità del lessico delle lingue quella di investire parole comuni di valori specifici, così da trasformarle in termini tecnici. Un noto esempio

1 2 3

0 1 2 3 4 5 +∞

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sono i giudizi scolastici, dove distinto ha un significato tecnico preciso (buono < distinto < ottimo) più ristretto di quello che ha nell’ uso corrente.

Ciò avviene, ricorda ancora Simone (1997: 486), attraverso un processo di stipulazione del significato. Ora, un momento imprescindibile della storia dell’ istituzione del lessico numerale di una lingua, cioè il passaggio da icone a simboli, può essere letto proprio come una stipulazione del significato avvenuta in epoca remota. Gli “ scavi” etimologici possono gettare qualche luce su tali processi avvenuti nella notte dei tempi.

Quella della gradazione regolarizzata rappresenta solo una dimensione, diciamo sintagmatica, ma ve n’ è poi un’ altra, paradigmatica, che è la gerarchia. Essa si sovrappone alla gradazione articolandola su più livelli. Proiettando una simile ipotesi su un piano cartesiano, la gradazione si troverebbe sulle ascisse e la gerarchia sulle ordinate (Fig. 4.2). La storia dei sistemi numerali può essere allora letta entro queste coordinate.

Ma non è ancora tutto; la chiave di lettura ci è offerta da un

concetto trasversale, quasi una “ terza dimensione” che dà profondità alla

griglia interpretativa qui proposta. Si tratta della processualità, quella

che Riccardo Ambrosini raccomandava per la ricostruzione linguistica in

generale: «non si faranno [… ] notevoli progressi sino a quando un sistema

riduttivo come questo [… ] non cederà il luogo all’ ipotesi di una serie di

processi, o almeno non si considereranno i processi diacronici come

trasformazioni facoltative di sistemi dialetticamente articolati» (Ambrosini,

1974: 30-31, corsivo mio). Dunque, la ricostruzione si propone non tanto di

stabilire “ un” sistema delinandone uno stadio puntuale, statico e

idealmente originario – giacché «la lingua [… ] non è un sistema solo, ma

una gerarchia di sistemi» (ibid.: 21) – , quanto piuttosto di ripercorrere le

tappe di un percorso non rettilineo e articolato, in ogni suo punto, su più

livelli.

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Fig. 4.2. Lo sviluppo dei numerali come processualità fra gradazione e gerarchia.

Riprendendo in mano per un’ ultima volta i risultati di questo studio, vorrei sottolineare che essi si prestano ad essere letti in questa prospettiva processuale e pluridimensionale. Si collocherebbero sul piano orizzontale della gradazione l’ andamento decrescente nella frequenza dei numerali di ogni serie e le proprietà morfosintattiche di tipo aggettivale dei numerali semplici; sul piano verticale della gerarchia invece si troverebbero i picchi di frequenza e le caratteristiche morfosintattiche di tipo sostantivale dei numerali tondi.

gradazione

ge ra rc hi a

unità di 1° livello base principale unità di secondo livello multipli della base

proc essu alità

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