“La natura e le caratteristiche dell’
interdittiva antimafia” – TAR Calabria –
Reggio Calabria – sentenza del 14 settembre 2020 – n. 541
L’ interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste.
Il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un
ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento
finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere ‘più probabile che non’, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica
amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, ‘a condotta libera’, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento
discrezionale dell’autorità amministrativa, che ‘può’ – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.
Pubblicato il 14/09/2020
N. 00541/2020 REG.PROV.COLL.
N. 00389/2017 REG.RIC.
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 389 del 2017, proposto da
-OMISSIS-, in proprio e nella qualità di legale rappresentante della -OMISSIS-,
rappresentati e difesi dall’avvocato Leo Stilo, con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia;
contro
Prefettura di Reggio Calabria – Ufficio Territoriale del Governo, in persona del Prefetto, legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro, legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Reggio Calabria, via del Plebiscito, n. 15;
per l’annullamento
– della informativa interdittiva prot. int. 0033403 del 16 marzo 2017, emessa dalla Prefettura di Reggio Calabria – Ufficio Territoriale del Governo – Area I, ai sensi degli artt. 84, 91 del D.Lgs. 159/2011 nei confronti della - OMISSIS-;
– del “diniego di iscrizione nell’elenco fornitori di beni, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list), istituto presso questa Prefettura ai sensi del DPCM 18 aprile 2013, non ricorrendo le condizioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. b) del citato DPCM”
adottato con la predetta informativa;
– delle misure di cui all’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24.06.2014, n.
90, convertito, con modificazioni, della legge 11.08.2014, n. 114 eventualmente adottate e di cui ad oggi l’odierno ricorrente non ha avuto contezza;
– avverso, altresì, ogni atto pregresso, collegato e presupposto in quanto diretto ad impedire alla società odierno ricorrente di potere svolgere attività contrattuale con la P.A.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 10 giugno 2020, tenuta con le modalità di cui all’art. 84, co. 5, d.l. n. 18/2020, conv. in l. n. 27/2020, il dott. Alberto
Romeo;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso notificato il 23.5.2017, e ritualmente depositato il successivo 21.6, -OMISSIS- ha impugnato l’informazione antimafia a contenuto interdittivo indicata in epigrafe, denunciandone l’illegittimità, all’esito di una disamina in fatto degli elementi posti a relativo fondamento, per violazione di legge ed eccesso di potere.
1.1. Quanto alla prima doglianza, contesta l’idoneità degli anzidetti
elementi a sorreggere la valutazione prefettizia in ordine al rilevato rischio di permeabilità dell’impresa a possibili condizionamenti della criminalità
organizzata, lamentando l’insussistenza delle condizioni prescritte dal d.lgs. n.
159/2011, essendo state erroneamente interpretate le circostanze ‘indiziarie’ da cui detto rischio è stato desunto.
1.2. L’eccesso di potere in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione procedente viene invece dedotto dalle figure sintomatiche della manifesta contraddittorietà intrinseca ed estrinseca, dell’illogicità manifesta, del
travisamento dei fatti e/o della carenza dei presupposti del provvedimento, denunciandosi, ancora una volta, l’inadeguatezza degli elementi addotti a
sostegno del paventato pericolo di condizionamento della gestione aziendale da parte della criminalità organizzata ad integrare compiutamente i presupposti richiesti dal corpus normativo disciplinante la materia.
2. In data 29.6.2017 si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, contestando integralmente, con articolate controdeduzioni, corredate da documentazione, le doglianze avversarie, ed invocando pertanto il rigetto del ricorso e della spiegata domanda cautelare.
3. Respinta all’esito dell’udienza camerale del 5.7.2017, in vista della quale il ricorrente depositava una memoria difensiva, la domanda cautelare di
sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, sul rilievo
dell’insussistenza del richiesto fumus boni juris, il ricorso è stato posto in decisione all’udienza del 10.6.2020, tenuta senza discussione orale ai sensi dell’art. 84, co. 5, d.l. n. 18/2020.
4. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
Le censure sviluppate dalla ricorrente, che si prestano ad una valutazione unitaria essendo tra loro strettamente connesse, risultano insufficienti a
sovvertire la pregnanza del quadro indiziario ricostruito dalla Prefettura di Reggio Calabria a carico dell’impresa ricorrente.
L’impianto motivazionale dell’interdittiva resiste infatti alle critiche della difesa, poggiando su una valutazione complessiva degli elementi fattuali da cui è stato desunto il paventato rischio di condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata, che possono sinteticamente riepilogarsi nei termini che seguono.
4.1. Il dato principale valorizzato dall’Amministrazione concerne
l’acquisizione da parte della società ricorrente, in data 2.7.2014 (a meno di due mesi dalla relativa costituzione), di un ramo d’azienda dalla società ‘-OMISSIS-’, destinataria di certificazione interdittiva antimafia emessa dalla medesima Prefettura il 5.2.2010 e confermata in sede giurisdizionale (sent. di questo TAR n. 45/11 del 15.12.2010, confermata in appello con sentenza n. 5478/2011 del 5.10.2011). Valenza pregnante è accordata ancora alla circostanza che il socio amministratore dell’anzidetta società interdetta, -OMISSIS- (al quale figurano direttamente riconducibili le ragioni della disposta interdittiva), è cugino
paterno di primo grado del ricorrente, in compagnia del quale è stato
controllato dai Carabinieri di Locri e di Bianco nel corso del medesimo anno (2014). Analogo significato viene poi ascritto al fatto che la moglie convivente del predetto -OMISSIS-, già dipendente dal 5.4.2010 al 31.1.2014 della anzidetta -OMISSIS-, risulta passata alle dipendenze della società ricorrente dal 1°.9.2015.
La stessa è inoltre socia accomandante di una distinta società (-OMISSIS-), di cui fa parte lo stesso -OMISSIS- quale socio accomandatario, avente sede legale coincidente con quella della stessa -OMISSIS-, emergendo dunque plurime cointeressenze tra la società interdetta ed altre società aventi composizione personale parzialmente sovrapponibile.
4.2. Un ulteriore elemento è stato poi addotto ad integrazione del
contenuto motivazionale dell’interdittiva con l’atto di costituzione in giudizio della resistente, ivi evidenziandosi una circostanza ‘a carico’ non menzionata nel provvedimento impugnato, riguardante la persona dell’altro socio della citata -OMISSIS-. Ed infatti la difesa erariale ha rilevato come “l’altro soggetto titolare della Società cedente il ramo d’azienda, sia stato destinatario il
28/03/2017 di ordinanza cautelare (sub specie obbligo di dimora) per delitti aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito in legge n. 203/1991, con riferimento a due distinte ipotesi di reato”.
A tal riguardo – in disparte, perché superflua, qualsiasi riflessione sulla vexata quaestio della ammissibilità dell’integrazione postuma, ed in
particolare in corso di giudizio, della motivazione del provvedimento impugnato – è sufficiente rilevare che parte ricorrente, per tramite della memoria
depositata il 4.7.2017, ha di fatto neutralizzato la valenza dimostrativa (peraltro di dubbia utilizzabilità anche sotto il profilo strettamente temporale)
dell’elemento in questione, depositando infatti l’ordinanza del Tribunale del riesame di Reggio Calabria che ha annullato, per difetto del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, in relazione ad entrambe le contestazioni cautelari, il provvedimento restrittivo de quo, revocando conseguentemente la misura coercitiva applicata dal G.i.p. a -OMISSIS-.
5. Fatta questa precisazione, e delineato così, per grandi linee, il complesso degli elementi fondante la valutazione prefettizia, si rivela utile anteporre al vaglio delle doglianze difensive una, parimenti sintetica, ricognizione dei principi elaborati dalla giurisprudenza sulla materia che qui occupa, limitatamente agli aspetti che in questa sede precipuamente rilevano.
Tre sono i canoni interpretativi a cui il Collegio, uniformandosi alla costante e recente giurisprudenza invalsa in materia, intende, in particolare, richiamarsi.
Il primo risiede nella costante affermazione secondo cui “l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima
anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma
solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste” (cfr. T.A.R. Reggio
Calabria, 3 giugno 2020, n. 412; Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2020, n. 1651). In tale prospettiva si è rimarcato che “il pericolo di infiltrazione mafiosa deve
essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere ‘più probabile che non’, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa”
(C.G.A.16 marzo 2020 n. 165; cfr. anche C. St., sez. III, 26 aprile 2020 n. 2651;
Id., 30 gennaio 2019, n. 758; Id., n. 6105/2019). Nella stessa decisione, ancora sul profilo delle regole di giudizio, il giudice d’appello siciliano ha avuto cura di precisare che “il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla
legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che
consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo
antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal
legislatore (art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd.
delitti spia), mentre altri, ‘a condotta libera’, sono lasciati al prudente e
motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che ‘può’ – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non
definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”.
Il secondo principio qui pertinente attiene ancora al versante delle regole di giudizio che devono orientare il sindacato giudiziale sulle interdittive, risultando utile ricordare come “la verifica della legittimità dell’informativa vada effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e dei fatti che, visti nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo
mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (quale è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle
informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio” (C. St., sez. III, n. 4548/2020 e n.
4168/2020). Nella stessa prospettiva la giurisprudenza ha reiteratamente
affermato che “ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri” (C. St., III, n. 2343/2018). Sempre il supremo Consesso della giustizia amministrativa ha poi avuto modo di soffermarsi sul significato da ascrivere alla regola valutativa reiteratamente menzionata, affermando che:
“Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare
un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (C. St., sez. III, n.
4483/2017).
L’ultimo principio di interesse attiene infine al delicato profilo dei rapporti di parentela, a cui riguardo la giurisprudenza, con orientamento progressivamente consolidatosi, è ferma nel sostenere che “quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del ‘più probabile che non’, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto” (C. St., sez. III, n. 2248/2018,).
6. Orbene, nella vicenda di specie l’amministrazione risulta aver fatto sapiente applicazione delle esposte coordinate interpretative, desumendo, con procedimento inferenziale immune dai denunciati vizi di irragionevolezza e contraddittorietà, il tentativo di condizionamento dell’impresa ricorrente dai sopra menzionati elementi, globalmente e complessivamente considerati.
Per come sopra rilevato, infatti, la società ricorrente, all’indomani della relativa costituzione, si è resa cessionaria di un ramo d’azienda di altra società destinataria, qualche anno prima, di interdittiva antimafia, divenuta definitiva a seguito del rigetto dell’impugnativa da parte di questo Tribunale, con decisione confermata in sede d’appello. Non può pertanto, sotto questo primo profilo,
reputarsi irragionevole o poco plausibile l’assunto, che integra in definitiva l’architrave dell’impianto motivazionale dell’interdittiva, che la società - OMISSIS- sia stata costituita per proseguire nell’attività imprenditoriale –
coincidendone infatti, almeno in parte, l’oggetto sociale (v. contratto d’affitto) – preclusa nei rapporti con la P.A. alla cedente interdetta, tenuto conto peraltro dei significativi profili di cointeressenza soggettiva ed economica riscontrati – e puntualmente valorizzati dalla Prefettura – tra le due compagini (il rapporto di parentela tra il ricorrente ed il cugino amministratore della società -OMISSIS- interdetta; le relative accertate frequentazioni; il rapporto di lavoro della moglie di quest’ultimo con la società ricorrente; le cointeressenze economiche attuali di detti soggetti con l’altro socio della società interdetta).
Le circostanze illustrate convergono, dunque, in termini gravi, precisi e concordanti, nel formare un quadro indiziario più che sufficiente – in base alla pertinente regola causale del ‘più probabile che non’ – a ingenerare un
ragionevole convincimento sulla sussistenza di un condizionamento mafioso in capo all’impresa ricorrente; convincimento che non sembra in alcun modo
risentire, in termini di indebolimento del procedimento inferenziale che ne sta a fondamento, delle critiche, pur articolate, spinte dalla difesa.
6.1. A questo riguardo, in conformità ai rilievi mossi da parte resistente, va peraltro rimarcato come non risponda affatto al tenore testuale del
provvedimento impugnato l’assunto, predicato in ricorso, secondo cui l’interdittiva sarebbe stata adottata all’esito di un giudizio prognostico a connotazione negativa, fondato sulla ‘impossibilità di escludere’ (“…non è possibile escludere il condizionamento da parte della criminalità
organizzata …”) il pericolo di infiltrazione mafiosa, come tale divergente da quello prescritto in questo contesto procedimentale dalle pertinenti disposizioni del codice antimafia. E’ vero, al contrario, che l’informativa prefettizia ha
ritenuto positivamente sussistente il pericolo legittimante la comminazione dell’interdittiva, essendosi dato atto, alla luce dell’istruttoria compiuta, della sussistenza, in termini positivi e secondo l’ordinaria regola di giudizio da impiegarsi in subiecta materia, del “pericolo che la ditta richiedente corra il rischio di essere controllata o infiltrata dalla criminalità organizzata”.
7. Proprio la coerente applicazione alla vicenda di specie delle poc’anzi esposte coordinate ermeneutiche permette allora di avvedersi dell’infondatezza delle doglianze difensive, registrandosi peraltro nel ricorso il tentativo di
parcellizazione degli elementi fondanti la valutazione prefettizia, evidentemente volto a svalutarne, mediante una considerazione appunto atomistica e non già complessiva, il relativo significato dimostrativo; operazione, questa, che, per quanto insegnato dalla giurisprudenza (v. supra), appare segnatamente estranea al significato e alla finalità di prevenzione dell’istituto. La
considerazione della relativa ratio nonché la corretta esegesi dei presupposti normativi cui ne è subordinata l’operatività, per come enucleati dalla
giurisprudenza sopra richiamata, confortano appieno, in definitiva, una valutazione negativa sulle critiche espresse dalla difesa, posto che le
circostanze indiziarie enucleate nella motivazione del provvedimento appaiono senz’altro idonee, nella lettura unitaria e coerente fornitane
dall’Amministrazione procedente, a sorreggere l’affermazione del ravvisato pericolo di infiltrazione o di condizionamento da parte della criminalità organizzata nell’impresa ricorrente.
Ed infatti, per un primo verso del tutto congrua appare la valenza pregiudizievole ascritta alla cessione di un ramo d’azienda in favore della
società ricorrente da parte di altra persona giuridica destinataria, qualche anno prima, di un’analoga comunicazione interdittiva, motivata peraltro sulle
frequentazioni controindicate dell’amministratore, e non già di soggetti ad altro titolo operanti nel relativo organigramma.
Il significato sfavorevole desumibile da tale operazione risulta viepiù accentuato ove si ponga mente al fatto che tale cessione risulta intervenuta subito dopo la costituzione della società ricorrente (la società è stata iscritta alla camera di commercio il 13.5.2014 e la cessione siglata il 2.7.2014), palesandosi così, in maniera difficilmente controvertibile, una evidente ‘continuità’ aziendale tra le attività dei due soggetti giuridici, come se la seconda fosse stata
costituita ad hoc per proseguire nell’esercizio dell’attività – peraltro
merceologicamente identica (v. contratto d’affitto) – preclusa alla prima nei rapporti con la pubblica amministrazione per effetto dell’interdittiva emessa a suo carico.
Tale prospettazione trova d’altro canto conferma in plurime ulteriori circostanze, enunciate puntualmente nell’atto impugnato, rilevando in tal senso, anzitutto, la relazione di parentela tra l’amministratore della società interdetta ed il legale rappresentante del nuovo soggetto giuridico cessionario del ramo aziendale (ricorrente), essendo il primo cugino paterno del secondo.
Ancora, le frequentazioni tra i due registrate nell’attualità dai Carabinieri in almeno due distinte occasioni; ed ulteriormente il transito di un dipendente – e non uno qualunque, trattandosi della moglie dell’amministratore della società interdetta – dall’una all’altra realtà societaria, avendo essa lavorato dapprima con la società del marito -OMISSIS- e poi con quella cessionaria del ramo aziendale scorporato da quest’ultima. E rivestendo peraltro la medesima ruoli sociali in altre compagini societarie partecipate dall’altro socio della citata - OMISSIS- (-OMISSIS-), ed aventi analoga sede legale.
8. A fronte di tali emergenze, ribadito che la ragione fondante l’interdittiva a carico di quest’ultima società – confermata in sede giurisdizionale e mai
sottoposta e riesame – era stata rintracciata nelle frequentazioni controindicate dell’amministratore cugino dell’odierno ricorrente, emerge allora
incontestabilmente la debolezza delle doglianze difensive, accomunate dall’asserita inidoneità degli elementi in questione a sorreggere il giudizio fondante l’interdittiva.
Proprio la ‘definitività’ del provvedimento emesso a carico della -OMISSIS-, con conseguente paralizzazione della possibilità di intrattenere relazioni
contrattuali con la P.A., da un lato giustifica il convincimento, implicito nella motivazione del provvedimento, che la -OMISSIS- possa essere stata creata per garantire continuità operativa alla prima in ambito pubblico. Rendendo,
dall’altro lato, del tutto irrilevante il contestato profilo della mancata verifica in sede istruttoria della persistente attualità delle controindicazioni che avevano giustificato l’adozione dell’interdittiva nei confronti dell’anzidetta società cedente. Difatti, che quelle frequentazioni di -OMISSIS- con soggetti ritenuti a quell’epoca contigui ad ambienti di criminalità organizzata vi siano state è dato che qui rileva nella sua dimensione per così dire ‘storica’, e che avrebbe potuto essere posto in discussione solo nell’ambito delle vicende riguardanti quel procedimento, tramite gli strumenti di reclamo di natura amministrativa o
giurisdizionale, quest’ultimo peraltro esperito con esito negativo. Che -OMISSIS- non sia stato nelle more, cioè tra il 2010, anno dell’interdittiva nei confronti della società di cui era amministratore, e il 2014, anno della costituzione della - OMISSIS-, o sino al momento dell’adozione dell’interdittiva a carico di
quest’ultima, raggiunto da pregiudizi penali di sorta, connessi o meno a quelle controindicate frequentazioni, appare quindi circostanza del tutto ininfluente, essendo invece stato correttamente valutato dall’Amministrazione procedente il solo fattore ‘attualizzante’ della sicura frequentazione tra i due cugini (cioè tra lo stesso e il ricorrente) nel mese di novembre 2014, cioè dopo la costituzione della società ricorrente e l’affitto d’azienda di cui si è detto.
Non poteva ritenersi, dunque, gravare sull’Amministrazione alcuna verifica in ordine alla condizione personale del predetto -OMISSIS-, rilevando in questo contesto procedimentale il suo status di socio e amministratore di società destinataria di interdittiva antimafia (definitiva), le ragioni strettamente
connesse alla sua persona poste a relativo fondamento (diversamente avrebbe potuto opinarsi ove le ‘controindicazioni’ avessero riguardato altro componente della compagine sociale o, a fortiori, un mero dipendente), la cessione di un ramo d’azienda in favore di altro soggetto giuridico ed infine il legame di
parentela ed il rapporto di frequentazione con il ricorrente. Fattori, questi, che globalmente considerati, in conformità agli insegnamenti giurisprudenziali sopra ricordati, rendono incensurabile la valutazione discrezionale compiuta
dall’Amministrazione, la quale ha fatto senz’altro buon governo delle regole
normative che disciplinano la materia.
Né, d’altronde, vale a scalfire la coerenza e la linearità dell’anzidetta valutazione l’omessa considerazione, da parte dell’Amministrazione, del
licenziamento, in data 15.12.2016, della sig.ra -OMISSIS-, moglie di -OMISSIS-, risultando detta iniziativa assunta appena tre mesi prima dell’adozione
dell’informativa e non potendo dunque valere, per come sostenuto nel ricorso, a recidere la pregnanza del rapporto, desunto da tutti i rimanenti dati sopra
passati in rassegna, tra -OMISSIS- e il ricorrente e, specularmente, tra la società del primo interdetta nel 2010 e quella colpita dall’interdittiva che qui occupa (d’altro canto sul profilo in questione non è dato sapere quando siano state inoltrate alla Prefettura le richieste da parte della Suap e del Comune di Sant’Agata del Bianco volte ad ottenere il rilascio della comunicazione antimafia, non potendo perciò escludersi che il licenziamento sia avvenuto proprio in conseguenza dell’instaurazione di un rapporto con dette PP.AA.).
9. In conclusione, l’impugnata interdittiva appare sorretta da adeguata motivazione atta ad esternare convincenti elementi fattuali che consentono di affermare, su un piano necessariamente prognostico, la sussistenza del pericolo di ingerenza della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale della
ricorrente e di un quadro indiziario complessivamente ed unitariamente valutato dal quale può ragionevolmente desumersi “più probabile che non”
l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.
10. La ritenuta legittimità dell’interdittiva solleva dall’esame delle doglianze afferenti agli ulteriori provvedimenti oggetto di gravame, incentrate, come di consueto, sul solo nesso di derivazione logico-giuridica dalla prima.
11. Alla luce delle considerazioni suesposte il ricorso va dunque respinto.
12. Le spese seguono la soccombenza e vanno poste a carico di parte ricorrente nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria, Sezione Staccata di Reggio Calabria, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna parte ricorrente al pagamento, in favore del Ministero resistente, delle spese di giudizio che liquida in € 1.000,00 (mille/00) oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi
altro dato idoneo ad identificare il ricorrente e gli altri soggetti menzionati in sentenza.
Così deciso in Reggio Calabria nella camera di consiglio del giorno 10 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Caterina Criscenti, Presidente
Agata Gabriella Caudullo, Referendario Alberto Romeo, Referendario, Estensore