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CAP.5. Controllo integrato delle endoparassitosi bovine

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CAP.5.

Controllo integrato delle endoparassitosi

bovine

La lotta alle parassitosi nella concezione moderna si fonda sulla consapevolezza del fatto che è impossibile raggiungere la totale eliminazione dei parassiti (Duval, 1994; Neary, 1996). Pertanto è auspicabile realizzare una “infezione controllata” che non pregiudichi il benessere e la produttività degli animali, ma che stimoli anzi un certo grado di resistenza, permettendo inoltre di ottenere il miglior risultato possibile col minimo impiego di farmaci di sintesi (Ambrosi, 1995).

Uno stimolo importante allo sviluppo di metodiche alternative all’uso dei farmaci tradizionali è data dalla rapidità stessa con cui si instaura la resistenza verso queste sostanze antielmintiche (Pritchard, 1990; Waller, 1997; Williams, 1997; Waller 1999; Taylor et al., 2001; Waller e Thamsborg, 2004) e dall’obbiettivo di liberarsi dalla loro dipendenza nella lotta ai parassiti (Roderick e Hovi, 1999), visti anche gli enormi costi da investire nella ricerca di nuove molecole più efficaci (Williams, 1997). Inoltre, la crescente sensibilità dell’opinione pubblica alle problematiche ambientali ed all’ecotossicità di molti chemioterapici ad azione antiparassitaria (Halley et al., 1993), tra i quali ad esempio le avermectine (Williams, 1997; Alawa, et al., 2003), associata alla domanda dei consumatori di prodotti privi di residui chimici (Wall, 1992; Strong, 1993; Donald, 1994) e la limitazione dell’impiego di antielmintici di sintesi negli allevamenti biologici (Cabaret, 2002), rappresentano un’ulteriore spinta alla valutazione di misure alternative volte al controllo delle malattie parassitarie, con l’implementazione di strategie che tengano conto delle suddette mutate esigenze. E’ da tali considerazioni che, particolarmente nell’ambito del metodo biologico, si applica il “controllo integrato”, un tipo di controllo delle malattie parassitarie che utilizza

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sia interventi sull’animale che sull’ambiente al fine di valorizzare le risorse naturali ed i meccanismi di regolazione dell’ecosistema. L’OILB (Organisation internationale de lutte biologique et integrée contre les animaux et les plantes nuisibles) definisce il controllo integrato come una strategia con la quale si mantengono le popolazioni di organismi nocivi al di sotto della soglia di tolleranza, sfruttando i meccanismi naturali di regolazione ed utilizzando metodi di difesa accettabili dal punto di vista ecologico, economico e tossicologico.

Presupposti fondamentali per il successo di questo tipo di controllo sono il rispetto del benessere degli animali, l’uso di norme igieniche (lavaggio e disinfezione delle strutture e attrezzature, uso razionale della lettiera) ed il contemporaneo controllo delle patologie intercorrenti.

Le principali strategie di controllo integrato si basano sui seguenti punti: •Management dei pascoli e dei ricoveri

•Alimentazione •Resistenza genetica •Controllo biologico

•Terapia allopatica e interventi terapeutici alternativi: omeopatia e fitoterapia Le diverse tecniche utilizzate nel controllo integrato possono essere finalizzate sia a ridurre la possibilità di contatto tra parassita e ospite, sia ad aumentare la capacità di quest’ultimo di rispondere efficacemente ad una infezione parassitaria.

5.1.Gestione del pascolo

Con tale definizione ci si riferisce alle pratiche zootecnico-agronomiche di cui possiamo disporre per diminuire il rischio epidemiologico offerto dai pascoli riguardo le endoparassitosi (Waller, 1997; Waller, 1999, Waller e Thamsborg, 2004). Ambrosi (1995) sostiene che la popolazione parassitaria nell’animale ospite è spesso proporzionale alla carica parassitaria infestante assunta dall’ambiente, mentre la contaminazione ambientale è proporzionale a sua volta alla carica infettante dell’ospite. Quindi, in definitiva, l’incremento esponenziale della popolazione parassitaria si verifica solo nell’insieme animali-ambiente che, per

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fattori limitanti tale incremento sono allora di due ordini: fattori limitanti endogeni, propri dell’animale ospite ed espressione del suo sistema immunitario, essi determinano il grado di pressione “ endozoica” sul parassita (Nansen, 1988). Vi sono poi i fattori limitanti esogeni, ambientali, che determinano il grado di pressione “esozoica” (Nansen, 1988). La gestione dei pascoli può aumentare il grado di pressione “esozoica” sui parassiti. Essa è stata particolarmente studiata per la profilassi delle strongilosi gastrointestinali, ma non è priva di effetti anche sulle forme di resistenza di altri parassiti. Il management dei pascoli (Schillhorn Van Veeen, 1997; Waller, 1997; Vercruysse et al., 1999; Thamsborg et al., 1999; Waller, 1999; Cabaret, 2002) può essere articolato in:

-interventi agrotecnici e cure agronomiche sui terreni adibiti a pascolo, in modo tale da allestire una lavorazione in grado di influire negativamente sulla fase libera del ciclo biologico del parassita;

-misure preventive, basate sull’introduzione di animali non infetti in aree non contaminate (Barger, 1997; Thamsborg et al., 1999);

-misure evasive, rappresentate dallo spostamento degli animali in aree non a rischio di infezione in caso di condizioni di potenziale infestione (Barger, 1997; Thamsborg et al., 1999);

-misure di “diluizione”, traduzione letterale dell’anglosassone “dilution strategies”, che si riferisce all’uso di pratiche finalizzate a ridurre la carica infettante del pascolo per unità di animali sensibili (Barger, 1997; Thamsborg et al., 1999);

-densità di animali per unità di superficie, anche come carico istantaneo;

-ritmo di pascolamento giornaliero e stagionale, quindi management del bestiame con l’intento di non esporli alla carica infestante del pascolo nei momenti in cui essa è più elevata.

5.1.1.Interventi agronomici

In questo caso si sfrutta la forte influenza negativa di alcuni fattori ambientali, quali il basso grado di umidità relativa, l’esposizione alla luce solare diretta, le basse o le alte temperature, la necessità di ossigeno e di altri fattori ancora, sulla possibilità di sviluppo e sulla vitalità degli stadi ambientali dei parassiti (Ambrosi,

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1995). Semplice conseguenza di questo, pertanto, è la possibilità di sfruttare, per quanto possibile, le caratteristiche dell’habitat aziendale a nostro vantaggio offrendo ai parassiti un ecosistema non idoneo a permettere la loro evoluzione verso lo stadio infettante oppure capace di determinarne la morte. In tale contesto si collocano le pratiche di aratura, fresatura e tecniche simili capaci di interrare le larve e le uova degli elminti o le cisti ed oocisti protozoarie; gli sfalci e la risemina della cotica erbosa che impediscono lo sviluppo incongruo di essenze non pabulari capaci di proteggere questi stadi parassitari dall’azione diretta del sole; formazioni di opportuni canali di scolo che riducono l’umidità del terreno ed altro ancora. Al fine di un controllo delle parassitosi, si ipotizza anche che piante con effetto antiparassitario, ad esempio alcune essenze vegetali ricche di tannini condensati ed appetite dagli animali (sulla) (Niezen, 1995), possano essere coltivate ed inserite nel programma alimentare degli animali da reddito costantemente o solo nei momenti di necessità (Thamsborg et al., 2002).

5.1.2. Rotazione dei pascoli

Per porre in atto le misure preventive ed evasive si può ricorrere ad un frazionamento del pascolo con accesso a rotazione nei vari settori. La lottizzazione dello spazio a disposizione deve essere, però, studiata in relazione a diversi fattori tra i quali soprattutto il numero di animali, che non deve essere eccessivo ma neppure sottostimato; seguono poi, ma non per importanza, il rispetto dei tempi di massima permanenza del bestiame nella medesima parcella per un tempo non superiore al tempo medio di sviluppo degli stadi infettanti, tempo che dipende a sua volta dalle condizioni climatiche ambientali (Ambrosi, 1995). Infine, i tempi di sospensione dall’utilizzo di ciascuna unità pascolativa devono essere sufficienti per ritenere assente o comunque diradata la popolazione parassitaria sul pascolo. Con l’attenta valutazione della densità di animali per unità di superficie pascolativa, si può controllare il livello di contaminazione del pascolo e, quindi, della carica parassitaria degli animali. Non serve però solo la valutazione del carico medio, cioè il numero dei capi diviso per il numero di ettari di pascolo, ma anche, e spesso soprattutto, quella del carico istantaneo rappresentato dal numero dei capi effettivamente pascolanti in un dato momento su un dato punto del pascolo. Le tecniche di diluizione sono suggerite da promettenti studi condotti in Nord Europa

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riguardanti il pascolo promiscuo di animali di specie diverse o appartenenti alla stessa specie ma di età diverse, ad esempio vitelli nella prima stagione di pascolo e bovini adulti (Jordan et al., 1988; Nansen et al., 1990). Il presupposto su cui poggiano entrambe le metodiche è che gli animali refrattari o resistenti sono eliminatori di cariche fecali nulle o basse e quindi meno in grado di contaminare l’ambiente dove vivono i soggetti più sensibili. Nel caso del pascolamento promiscuo tra bovini di età diverse, potrebbe incidere anche la differente abitudine pascolativa che porterebbe i capi più adulti a ingerire le parti più infestate delle piante (più a contatto con il terreno) ed i giovani quelle meno infestate (Nansen et al., 1990).

5.1.3. Ritmo di pascolamento giornaliero e stagionale

Come conseguenza della loro maggiore sensibilità ad alcuni fattori ambientali, quali scarsa umidità relativa (UR) e raggi solari diretti, le larve infestanti di alcuni parassiti, soprattutto quelle degli strongili gastrointestinali che sono dotate di notevole motilità, si localizzano nelle parti basse delle piante durante il giorno per poi muoversi sugli steli d’erba al calare del sole (Casarosa, 1985; Ambrosi, 1995; Urquhart et al., 1998). Si deduce quindi che la possibilità di ingerire queste larve è maggiore all’alba ed al tramonto: logica conseguenza è perciò di evitare, qualora il management del bestiame preveda una stabulazione notturna, una precoce uscita mattutina e un tardivo rientro serale degli animali al pascolo. Questa stessa pratica consente di evitare anche l’infezione da Dicrocoelium dendriticum, un trematode a localizzazione epatica. Un approccio analogo può essere applicato in un’azienda con ristallo autunnale degli animali. Così concepito, questo intervento aziendale può ragionevolmente rappresentare un efficace mezzo per il controllo di queste parassitosi.

In Svezia è stato dimostrato che gli strongili gastrointestinali rappresentano il principale problema dei bovini da latte. Per il controllo di questi parassiti sono stati messi in atto diversi metodi: cambio del pascolo con le stagioni, uso promiscuo o alternato dello stesso pascolo da parte di animali di specie diversa; oltre a queste procedure viene associata una integrazione alimentare in primavera (Svensson et al., 2000; Dimander, 2003).

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In Danimarca, per il controllo degli strongili gastrointestinali dei bovini gli animali vengono spostati su nuovi pascoli molte volte e si associa una integrazione alimentare in primavera (Githigia, 2001).

Comunque, nei paesi del nord Europa il controllo della strongilosi gastrointestinale dei bovini solo con la gestione del pascolo è possibile anche perché la stagione di pascolo è breve. Nei paesi in cui gli animali pascolano per tutto l’anno la gestione del pascolo può non essere sufficiente quando utilizzato come unico mezzo di controllo (Urquhart., 1998).

Un altro metodo che si è rivelato utile in Francia è il pascolo misto dei bovini con gli ovini: Ex. Area di pascolo divisa in due settori principali, una per le pecore dallo svezzamento degli agnelli al parto e l’altra per i bovini e gli agnelli. Dopo il parto si fa il cambio dei settori. L’area destinata agli agnelli è poi divisa in parcelle su cui gli agnelli sostano per 1-2 settimane e non vi tornano prima di 60 giorni, intervallo in cui le parcelle sono utilizzate solo dai bovini.

Altri sistemi utilizzati per i ruminanti prevedono di alternare capre e pecore con i bovini sui pascoli ad intervalli di 2-6 mesi; infatti, generalmente il pascolo misto di bovini e pecore si è rivelato una forma di controllo molto efficace (Waller, 1997) sia nelle zone temperate (Barger and Southcott, 1978; Vaarst et al., 1996; Barger, 1997; Barger, 1999; Thamsborg, 1999) che in quelle a clima tropicale (Aumont et al., 1995).

Riguardo ai tempi stimati per lo sfruttamento si suppone che una mandria utilizza la stessa parcella per un tempo non superiore al tempo medio di sviluppo delle larve infestanti dalle prime feci, periodo quindi che dipende dalla stagione e dalle condizioni ambientali. In genere con temperature medie di 9-12°C lo sfruttamento del pascolo è consigliato per circa un mese. Con valori medi di 10-13°C si suppone l’utilizzo dell’appezzamento considerato per 3 settimane circa, con temperature superiori (15-20°C) la permanenza del pascolo deve essere limitata a due settimane, ridotta a meno di 10 giorni a 22°C e a meno di una settimana con temperature medie di 24-25°C, prevedendo la riutilizzazione della stessa parcella dopo un periodo di tre mesi- un anno, ma che può essere utilizzata da animali di specie diversa (Ambrosi, 1995).

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5.2. Alimentazione

Holmes (1993) ha descritto come un’alimentazione curata e ben calibrata abbia effetti benefici sull’organismo animale rafforzando le difese immunitarie e svolgendo quindi un ruolo preventivo verso l’insorgenza di svariate patologie. In numerosi studi, infatti, si sottolinea l’importanza delle proteine nell’alimentazione per il mantenimento dell’immunità dell’animale ospite nei confronti dell’infestazione da nematodi (Coop e Kyriazakis, 1999; Kyriazakis et al., 2006). E’ inoltre dimostrato che un livello nutritivo ottimale è capace di ridurre le perdite produttive e la mortalità dei capi dovute ai parassiti negli animali da reddito (Coop et al. 2001; Thamsborg et al. 1999; Waller, 1997), influenzando positivamente sia la resistenza che la resilienza. In considerazione di quanto detto, l’alimentazione degli animali può rappresentare una valida alternativa alla chemioprofilassi per il controllo delle parassitosi. Essa può influire sullo sviluppo e sulle conseguenze del parassitismo in diversi modi:

-aumentando la capacità dell’animale ospite di superare gli effetti negativi del parassitismo (resilienza);

-migliorando la capacità dell’ospite di contenere ed eventualmente superare il parassitismo (resistenza) limitando lo stabilirsi, il grado di crescita, la fecondità e/o la persistenza di una popolazione parassitaria;

-contenendo composti ad effetto antielmintico diretto.

A questo proposito la somministrazione di integrazioni alimentari “strategiche”, in particolare alle categorie più sensibili dell’allevamento come i giovani e le femmine adulte nel periodo del periparto (gravidanza e lattazione), può apportare benefici a lungo termine (Donaldson, 1998; Kahn et al., 1999). Alcuni studi hanno rilevato una diminuzione sensibile di UPG nei campioni fecali ed un aumento dell’eliminazione di parassiti adulti proporzionale all’integrazione alimentare di proteine, sali minerali (fosforo) ed oligoelementi (selenio, molibdeno e zinco) (Coop e Field, 1988; Coop et al., 2001)

Nei ruminanti, gli alimenti dovrebbero comprendere quelle componenti dietetiche che promuovono una efficiente funzionalità ruminale determinando un più elevato

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assorbimento delle sostanze nutritive ed una aumentata produzione proteica da parte della flora ruminale. Ciò determina un aumento delle proteine digerite ed assorbite nell’intestino tenue (Coop et al., 1997). In questo modo non solo aumenta la produttività, ma gli animali acquistano anche una maggiore capacità di superare gli effetti negativi dovuti ai parassiti (Abbott et al. , 1988; Coop e Holmes, 1996; Coop e Kyriazakis, 1999; Coop e Kyriazakis, 2001). Un importante argomento è rappresentato dall’interazione tra i minerali e gli oligoelementi e la resistenza degli animali da reddito ai parassiti. Un aumento del contenuto di fosforo nella dieta di pecore sperimentalmente infettate con Trichostrongylus vitrinus, un nematode a localizzazione intestinale, è risultata capace di ridurre del 50% le UPG (Uova Per Grammo di feci) e dell’89% il numero di esemplari di questa specie parassitaria (Coop e Field, 1988; Coop e Kyriazakis, 2001). Questi risultati fanno ipotizzare un effetto antielmintico diretto di questo minerale o, più probabilmente, essi possono riflettere alcuni cambiamenti metabolici derivanti da un basso assorbimento di fosforo negli animali parassitati (Coop e Field, 1988; Bown et al., 1989). Il molibdeno è un oligoelemento che si è dimostrato capace di influenzare la popolazione degli strongili gastroenterici nelle pecore (Suttle, 1992), sia con un effetto diretto sul metabolismo dei nematodi, sia per la sua possibile capacità di aumentare la risposta infiammatoria nella mucosa intestinale (Coop e Kyriazakis, 1999; Coop e Kyriazakis, 2001). Anche il cobalto ed il selenio sembrano possedere una certa attività antielmintica che però deve essere confermata da altri studi. Si ricorda, infine, l’importanza dell’assunzione del colostro da parte dei mammiferi che sembra proteggere i neonati in particolare dalle infezioni protozoarie prevenendo, ad esempio, la possibilità di comparsa di forme cliniche di criptosporidiosi e rendendoli refrattari nel periodo neonatale a molte malattie protozoarie.

Tra i composti di origine vegetale che negli ultimi anni sono stati studiati per le loro proprietà antielmintiche, possono essere inseriti i tannini condensati (Waghorn, 1987; Waghorn et al., 1997; Butter et al., 1999; Kahn e Diaz-Hernandez, 1999; Butter et al., 2000; Molan, 2000; Athanasiadou et al., 2001; Paolini et al., 2003). I tannini sono un gruppo eterogeneo di composti fenolici, naturalmente presenti in diverse varietà di essenze foraggiere consumate dagli animali, così

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come nel legno di alcune piante; vengono considerati delle difese chimiche contro i patogeni, quali i funghi, o gli erbivori stessi date le loro proprietà tossiche che possiedono ed il loro sapore sgradevole (Mueller e Harvey, 1999; Coop e Kyriazakis, 2001). Essi possono essere distinti in due gruppi principali, quello dei tannini idrolizzabili e quello dei tannini condensati (Coop e Kyriazakis, 2001).

Una caratteristica importante che deriva dalle particolari strutture così formate, è quella di poter generare dei legami stabili con le proteine vegetali a pH compresi tra 3,5 e 7,5 (Mueller e Harvey, 1999). Queste peculiarità sono la base per ipotizzare un utilizzo dei tannini nell’alimentazione animale, in particolare dei ruminanti domestici, finalizzato ad incrementare il flusso di proteine non degradate ruminalmente (by-pass) e quindi anche di aminoacidi essenziali (Waghorn et al., 1997). I tannini, tuttavia, possono avere anche degli effetti tossici e negativi sulla salute dei ruminanti se somministrati ad alte concentrazioni; comunque non vi sono effetti negativi con concentrazioni medie riscontrabili nella sulla (Hedysarum coronarium) (Niezen, 1995) o nel ginestrino (Lotus corniculatus) (Markey, 2003).

Un aspetto importante dei tannini condensati è rappresentato dal contributo positivo che tali sostanze possono avere nel controllo delle parassitosi. L’alimentazione con foraggi contenenti questi composti possono limitare gli effetti negativi della strongilosi gastroenterica, come i fenomeni diarroici o il dimagrimento, nonché limitare lo stesso sviluppo dei parassiti.

È stato osservato come pecore parassitate e alimentate con tannini condensati mostrino una riduzione nell’eliminazione di uova degli strongili gastrointestinali con le feci (UPG) (Niezen, 1998).

Non viene esclusa, però, la possibilità di un’azione indiretta che questi composti fenolici possano generare, come ad esempio inducendo cambiamenti fisiologici o biochimici a livello gastrointestinale.

Il fatto stesso di rendere disponibile delle proteine non degradate ruminalmente e degli aminoacidi essenziali sembra aiutare sostanzialmente l’animale a tollerare l’infezione, inducendo una risposta immunitaria più efficiente e limitando la perdita di proteine dovuta agli effetti patogeni di questi parassiti.

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Secondo degli studi effettuati in vitro, l’attività antielmintica dei tannini sarebbe da ricercare nella loro capacità di legare le sostanze proteiche, da cui deriva una limitazione per la nutrizione dei parassiti, sia larve che adulti, portandoli alla morte (Athanasiadou et al., 2001). Tra l’altro, l’assunzione diretta dei tannini condensati porterebbe alla formazione di complessi molecolari direttamente sulla mucosa intestinale e sulla cuticola dei parassiti, determinandone la lisi. La riduzione delle Uova Per Grammo (UPG) eliminate con le feci degli animali sono osservabili dopo un periodo di 2-7 giorni di somministrazione dei tannini condensati.

E’ stato inoltre osservato che le specie elmintiche a localizzazione abomasale subiscono in misura più limitata l’azione dei tannini (Coop et al., 1995).

La riduzione delle UPG è osservabile già dopo due giorni dalla somministrazione, paragonabile al periodo d’azione dei tradizionali farmaci antielmintici. Resta però il fatto che, se per i farmaci si può ottenere una riduzione del 95-100%, con l’utilizzo dei tannini ci si può attendere una diminuzione più limitata e contenuta, pari a circa il 30%.

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5.3. Resistenza genetica

Secondo alcuni autori, la suscettibilità degli animali alle parassitosi sarebbe il prodotto di diversi fattori, tra di essi i più importanti sono gli effetti dell’ambiente e della genetica (Frisch, 1981); pertanto anche la resistenza verso gli elminti si fonderebbe su una moderata base ereditaria (Stear e Murray, 1994). Tale espressione indica la capacità propria di un soggetto o di un intero gruppo di animali a manifestare resistenza o resilienza verso un dato parassita (Waller, 1997).

La selezione e la scelta delle razze o, all’interno di uno stesso allevamento, degli individui che mostrano una resistenza naturale alle endoparassitosi, rappresenta un mezzo che attualmente viene ritenuto molto utile per il controllo di queste malattie (Eady, 1997; Waller, 1999), soprattutto di quelle causate da specie, quali i nematodi responsabili di strongilosi gastrointestinale, che hanno sviluppato farmaco-resistenza. Pertanto, la resistenza genetica alle endoparassitosi, soprattutto quando utilizzata in associazione ad altri metodi di controllo, quali la gestione del pascolo, l’alimentazione, il controllo biologico ed i vaccini, può rappresentare una valida alternativa all’uso dei farmaci a scopo profilattico. I criteri utilizzati per individuare razze o linee genetiche resistenti sono rappresentati dal carico parassitario più basso dei soggetti resistenti rispetto agli altri soggetti nelle stesse condizioni (Waller, 1999), dalla capacità dei soggetti resistenti di interferire negativamente con lo sviluppo, la fertilità e la vitalità dei parassiti ed, infine, dal grado di ripetibilità e di ereditabilità del carattere resistenza (Vercruysse et al., 1998; Detilleux, 2001; Kahn et al., 2003). In passato è stata molto valutata la possibilità di selezionare linee genetiche e la variazione genetica della resistenza dell’ospite tra razze diverse è stata ben documentata, in particolare per alcuni nematodi dei ruminanti (Cabaret and Gruner, 1988).

Alcune razze mostrano una resistenza naturale a specifiche endo-parassitosi, siano esse causate da protozoi che da elminti; generalmente le razze autoctone e poco selezionate risultano le più resistenti, ne sono un esempio l’alta resistenza alle infestioni da Fasciola gigantica della pecora Indonesiana a coda sottile e alle infestioni dell’ixodide Boophilus micropilus dei bovini Bos indicus (Robers et al.,

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1997). Studi comparati hanno riconosciuto una maggior resistenza ai nematodi gastrointestinali da parte di Bos taurus rispetto a Bos indicus (Suarez et al., 1995). E’ ampiamente riconosciuta anche la tripanotolleranza dei bovini N’dama e West African Shorthon. Ciò consente a questo unico gruppo di animali domestici di sopravvivere all’infezione dei tripanosomi trasmessi dalla mosca Tsè-Tsè, come gli animali selvatici indigeni africani. Studi specifici hanno dimostrato come tale fenomeno sia imputabile a meccanismi immunogenetici (Poli e Rognoni, 1989). Una resistenza ai nematodi è stata evidenziata nelle razze ovine Red Masai in Africa orientale (Preston e Allonby, 1978), nella Florida Native, nella Blackbelly e St. Croix (Courtney et al., 1984). A livello europeo, troviamo esempi di resistenza alle infestioni di alcune razze autoctone, è il caso della Scottish Blackface e della Lacaune (Gray, 1991; Baker et al., 1992), così come in ambito nazionale grazie ad uno studio condotto su ovini di razza Sarda è stato messo in evidenza come nel periodo osservato il 15 % dei soggetti esaminati riportasse risultati di copronegatività (Scala et al., 1993). Altri studi svolti in Toscana sulla pecora Massese (Giuliotti et. al., 2001,Giuliotti et al., 2003) ha cercato di mettere in relazione la FEC (Faecal Egg Count) con l’ematocrito degli animali esaminati, avanzando l’ipotesi di una possibile resistenza genetica nei confronti degli strongili gastrointestinali. Riguardo la selezione dei capi resistenti agli strongili gastrointestinali all’interno di uno stesso allevamento, alcuni studi hanno mostrato che, in linea generale, negli animali di uno stesso allevamento i parassiti non sono distribuiti in modo uniforme ma alcuni animali presentano un carico parassitario elevato, la maggior parte degli animali presenta un carico medio, infine, alcuni individui possono non risultare parassitati o presentare un carico molto basso (Waller, 1999). Risulta pertanto utile la selezione di questi ultimi animali per creare delle linee genetiche resistenti, dal momento che il carattere resistenza presenta una ereditabilità del 20-30% (Vercuysse t al., 1998). Per i nematodi gastro-intestinali recentemente sono stati condotti numerosi studi volti ad individuare i geni che ne modulano la resistenza. Alcune di queste ricerche si sono basate sul metodo del “gene candidato” che consiste nell’analizzare statisticamente l’associazione esistente tra il polimorfismo ad un locus e l’espressione del carattere considerato (Carta e Scala, 2004), ciò ha permesso di

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evidenziare l’associazione tra la presenza di particolari alleli e la resistenza ai nematodi nel locus IgE (Clarke et al., 2001) o MHC ovar (Crawford et al., 1997; Coltman et al., 2001).

In definitiva si può affermare che la genetica ed in particolare la selezione fondata sulla conoscenza diretta dei geni implicati, potrebbe rappresentare in futuro uno strumento importante nel controllo delle ingestioni parassitarie, contribuendo alla creazione di popolazioni naturalmente poco suscettibili con vantaggi per la valorizzazione di produzioni salubri e biologiche (Carta e Scala, 2004).

Altra tecnica è quella del “genome scan” che analizza tutto il genoma, attraverso il ricorso a loci marcatori neutrali e permette di captare numerose informazioni sugli alleli, valutando l’associazione tra il polimorfismo a questi loci e l’espressione fenotipica del carattere (Behnke, 2000; Iraqi, 2003; Carta e Scala, 2004). Tale metodo è stato applicato nell’ambito di un progetto di ricerca europeo dove sono state misurate le upg per i nematodi gastro-intestinali e parallelamente sono stati effettuati studi genetici su tre popolazioni ovine distinte, la razza Churra in Spagna, incroci tra due linee di Blackface nel Regno Unito e in Sardegna su incroci di Sarda e Lacaune (Scala et al., 2002).

L’espressione della resistenza ai nematodi gastrointestinali è accompagnata da una diminuzione delle upg (Luffau et al., 1981), dovuta alla riduzione della fecondità dei parassiti femmine (Gasbarre et al., 1990; Aumont et al., 1991) o alla riduzione nella percentuale delle larve che riescono a maturare a forme adulte (Altaif e Dargie, 1978; Gruner, 2002) e della capacità da parte dell’ospite di mantenere un certo livello invariato di produttività (resilienza) (Albers et al., 1987).

Le strategie da attuare per questo scopo sono riassumibili nei punti seguenti: -scelta ed utilizzo di razze autoctone;

-selezione dei capi resistenti all’interno dell’allevamento principalmente con la stima delle UPG, tenendo presente però che spesso si instaura una correlazione negativa tra resistenza e produttività;

-valutazione delle razze resistenti.

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Il controllo biologico delle malattie parassitarie può essere definito come un metodo ecologico concepito dall’uomo al fine di diminuire le popolazioni parassitarie ambientali ad un livello non dannoso oppure a portare l’intensità parassitaria negli animali ad un livello tale da non avere manifestazioni cliniche e perdite di produttività (Gronvold et al., 1996). Tale metodo quindi si basa sull’utilizzo di antagonisti viventi (predatori, parassiti, parassitoidi o patogeni) dei parassiti o degli ospiti intermedi invertebrati dei parassiti, al fine di controllare le popolazioni parassitarie. E’ chiaro che, oltre ad ottenere una riduzione della popolazione parassitaria nell’animale ospite, si ha anche una conseguente riduzione dell’uso di farmaci (Larsen, 1999; Waller, 2003).

In pratica questo tipo di controllo non ha come oggetto la popolazione parassitaria interna agli animali ospiti vertebrati, ma gli stadi ambientali dei parassiti. Molti dei principali parassiti degli animali da reddito, infatti, presentano degli stadi ambientali, liberi o all’interno di ospiti intermedi invertebrati, nel proprio ciclo biologico. Come esempi di stadi liberi nell’ambiente si possono indicare le oocisti dei coccidi, le larve degli strongili gastrointestinali, di Strongyloides sp. e di Dictyocaulus sp. Molti dei cestodi degli erbivori, i piccoli strongili a localizzazione broncopolmonare ed i distomi (Fasciola epatica, D. dendriticum e paramfistomidi) presentano, invece, alcune fasi del proprio ciclo biologico in ospiti intermedi invertebrati. Riguardo i protozoi di importanza veterinaria, non ci sono esempi di controllo biologico, però, indirettamente, alcuni protozoi trasmessi da artropodi, ad esempio quelli del genere Babesia, possono essere controllati con il controllo biologico dei loro ospiti vettori.

Riguardo gli elminti, invece, si possono ad esempio utilizzare uccelli acquatici, quali pivieri, beccaccini e anatidi- e terrestri, quali oche e tacchini- che si nutrono dei molluschi gasteropodi ospiti intermedi rispettivamente di F. hepatica e D. dendriticum. Nel controllo biologico sono inoltre impiegati numerosi batteri, protozoi, funghi, vermi terricoli, turbellari ed artropodi coprofagi, tra tutti però quelli più studiati e utilizzati sono i funghi nematopatogeni ed in particolare la specie Duddingtonia flagrans (Gronvold et al., 1993; Gronvold et al., 1996; Waller, 2001; Faedo et al., 2002). Questa specie, infatti, in numerosi esperimenti in vitro ed in vivo eseguiti in un gran numero di paesi (Danimarca, Inghilterra, Francia,

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Stati Uniti, Messico e Brasile) è risultata capace di determinare una riduzione pari al 70%-90% della contaminazione ambientale da parte delle forme larvali a vita libera degli strongili gastrointestinali (Nansen et al., 1996; Waller et al., 1994) e polmonari (Thamsborg, 1999) dei bovini e altri ruminanti domestici. Interessante proprietà di D. flagrans è la resistenza dimostrata alla digestione nel tubo gastroenterico, permettendo in tal modo una sua somministrazione con il cibo o l’acqua di bevanda e la sua concentrazione nelle feci degli animali (Faedo et al., 2002).

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5.5. Benessere animale

Quando parliamo di controllo delle malattie parassitarie intendiamo spesso un insieme di interventi da attuarsi contemporaneamente, ognuna di queste tecniche incide in misura molto più o meno grande sulla carica infettante richiedendo l’ausilio di altre per avere un effetto tangibile. II fine del controllo attualmente, inoltre, è quello di ottenere una ridotta prevalenza ed intensità di una malattia parassitaria in modo da permettere agli animali di esercitare un’azione di contrasto implementando le proprie difese immunitarie e, di conseguenza, la propria capacità di risposta alle successive infezioni.

Dobbiamo però porre attenzione ad una evidenza tattica quando intraprendiamo una lotta di questo tipo: l’animale che deve fronteggiare una parassitosi deve essere messo nelle condizioni ottimali per farlo. Infatti è noto che il sistema immunitario è fortemente influenzato e modulato dall’ambiente esterno che ne può valorizzare l’effetto o reprimere la sua forza reattiva. E’ infatti nota la capacità immuno-depressiva che ogni stress endogeno od esogeno comporta (Aguggini et al., 1998). Ecco quindi che, per un efficace controllo, risulta necessario assicurare all’animale un buon grado di benessere per non innescare meccanismi endogeni che limitino le sue potenzialità di difesa. Un attento rispetto delle esigenze fisiche, etologiche e psichiche dell’animale contribuisce così a non vanificare tutti gli altri interventi di controllo finalizzati ad abbassare la carica parassitaria attraverso una stimolazione immunitaria degli animali. Ad esempio, è necessario che le strutture utilizzate per la stabulazione degli animali rispondano alle esigenze comportamentali della specie ed offrano una superficie adeguata per dormire, spostarsi e nutrirsi. I ricoveri devono avere, inoltre, adeguati livelli di insolazione, riscaldamento ed aerazione.

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5.6. Medicina non convenzionale

5.6.1 Omeopatia

L’omeopatia viene definita come medicina “integrata” intendendo con tale espressione un particolare intervento terapeutico che può rivelarsi utile in molti casi, anche in appoggio a tecniche tradizionali. La medicina omeopatica, nata dalle riflessioni di Hahnemann (1775-1843), viene concepito come un metodo terapeutico naturale che utilizza rimedi vegetali, animali e minerali. L’omeopatia secondo i suoi cultori, non sopprime i sintomi della malattia, ma ne cura le radici profonde a livello dell’intero organismo, tiene conto delle sue cause prossime e lontane, studia il terreno su cui è sviluppata, ovvero la costituzione del malato, il suo temperamento, la sua predisposizione ad ammalarsi e lo stesso ambiente in cui vive (Negro, 1996).

In omeopatia l’andamento dei sintomi, dall’esterno verso l’interno (dagli organi meno a quelli più importanti), e la relativa guarigione in senso inverso, centrifuga, viene chiamata Legge di Hering (Verdone, 1999).

5.6.2 Fitoterapia

La fitoterapia è un metodo terapeutico che impiega piante fresche o essiccate, o i loro estratti naturali. Numerose sono le piante con effetto antiparassitario che crescono sia in zone temperate che tropicali. A questo proposito la School of Biological Science dell’Università di Aberdeen ha individuato un elenco di piante da impiegare come fitoterapici nella lotta alle parassitosi, tra queste Artemisia herba-alba ed Hedera helix risultano attive contro Haemonchus contortus, Artemisia cina è invece attiva contro Dictyocaulus viviparus e Bunostomum. La cucurbitacina, principio attivo contenuto nei semi di cucurbitacea, è attivo contro H.contortus, mentre la miscela disemi di cumino, anice e ginepro risulta efficace per D. viviparus .

Risultano efficaci su Fasciola hepatica Pinus marittima e Dyopteris filix-mas (Cabaret et. al., 2002), mentre sono numerose le piante che hanno effetto sui nematodi: Ginko biloba, Hypericum perforatum, allium sativum, Vaccinium macrocarpum, Echinacea purpurea, E.angustifolia, E.pallida, menta piperita, Serenoa repens, Nicotiana tabacum (Cabaret et al., 2002). Attualmente è stata

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valutata l’efficacia antielmintica di poche di queste piante secondo metodi rigorosamente scientifici pertanto si necessita di ulteriori approfondimenti(Carta e Scala, 2004).

A tal riguardo è esemplificativo lo studio in vivo che ha rilevato gli effetti di quattro piante africane sugli strongili gastroenterici dei bovini, paragonandoli all’effetto del trattamento con Levamisole: quest’ultimo mostrava un’efficacia del 97% contro il 45% di Terminalia glaicescens, il 38% di Vermonia amigdalina, il 15% di Solanum aculeastrum e il 71% di Khaya anthotheca (Cabaret, 2002).

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