VII
Introduzione
«Pronti a rubarmi la fiaccola non appena sarò nella fossa»1.
1. La morte e il funerale di Carducci
Carducci muore nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1907. A luglio avrebbe compiuto settantadue anni. La morte, tutt’altro che inaspettata, mette fine a un’infermità che progressivamente gli aveva impedito di scrivere, di leggere, di parlare.
Il corpo del poeta viene composto nello studio della sua casa di via del Piombo, alle mura di Porta Mazzini. Ai piedi del feretro è deposta una corona d’alloro; alle spalle, due alti candelabri; tutt’attorno rami d’alloro e sulle gambe il tricolore e alcuni fiori recisi. Fanno da sfondo i libri della sua biblioteca; non c’è una croce, né altri simboli religiosi. La fascia massonica che gli era stata messa a tracolla viene tagliata e tolta alla notizia dell’arrivo del conte di Torino, rappresentante del re; infine un’altra fascia, donata da un “fratello”, gli viene posta sul petto2.
Da subito una processione di familiari, amici, allievi e notabili rende omaggio alle spoglie del poeta. La mattina del 16 febbraio giungono a casa Carducci i telegrammi di cordoglio del re, della regina madre Margherita, delle più alte cariche dello stato. A Roma, in parlamento, Giuseppe Marcora, presidente della Camera dei deputati, e Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio, esprimono il cordoglio delle istituzioni per la «perdita del maggior poeta dell’Italia nuova»3; poi la seduta viene sospesa in
segno di lutto. In segno di lutto si chiudono le scuole, le università, i teatri.
Le esequie, laiche, si svolgono due giorni più tardi, la mattina del 18 febbraio. I bolognesi partecipano in massa. Arrivano persone da tutta Italia. Sono numerosissime le rappresentanze delle logge massoniche, delle associazioni politiche e delle società dei lavoratori, dai braccianti agli operai, ognuna con le proprie bandiere e le proprie insegne.
Il corteo funebre si snoda da casa Carducci, passando per piazza San Petronio, fino a porta Sant’Isaia. Da qui solo i congiunti e i più intimi proseguono verso la
1 Nelo Risi - Giosue Carducci, in Nuove interviste impossibili, a c. di Alberto Arbasini, Milano, Bompiani,
1976, pp. 216-7.
2 Sul valore del funerale laico per la propaganda massonica si veda FERDINANDO CORDOVA,
Massoneria e politica in Italia (1892-1908), Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 322, 195n e FULVIO CONTI,
Massoneria e religioni civili. Cultura laica e liturgie politiche tra il XVIII e il XX secolo, Bologna, il Mulino,
2009, pp. 167-85 e pp. 229-34.
3 Commemorazione di Giosue Carducci, Camera dei Deputati, tornata del 16 febbraio 1907, in GIOSUE
CARDUCCI, Discorsi parlamentari, con un saggio di Roberto Balzani, Bologna, il Mulino, 2004, pp. 81-4: 82.
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Certosa, dove il feretro è deposto in una cella. Per tutta la notte gli studenti dell’Alma
mater e di altri atenei italiani si danno il cambio per vegliare il Maestro4; solamente al
mattino sarà sepolto vicino alle tombe della madre e dei figlioletti Francesco e Dante. L’impatto mediatico dei funerali di Carducci è eccezionale. La stampa, che generalmente esce listata a lutto, propone per giorni reportages, cronache e ricordi; con un indugio particolare, attraverso fotoracconti e disegni, insiste sui ritratti senili e sulle fattezze del defunto. L’immagine di Carducci morto, nel suo studio, in mezzo ai suoi libri, è una delle più insistentemente proposte. Le testate di rilievo nazionale e orientamento moderato – in primis il «Corriere della Sera» – fissano un’iconografia centrata sul grande vecchio, sul suo contegno, sulla sua severità. Diversa è l’immagine data dai quotidiani di sinistra e d’orientamento socialista: il loro Carducci è quello giovane, barricadiero e satanico degli anni Sessanta, del decennio, cioè, che lo aveva visto protagonista delle lotte garibaldine, democratiche e anticlericali. I diversi Carducci offerti dalla carta stampata preludono alla bagarre di letture contrastanti che sarebbe di lì a poco scoppiata5.
2. Fare i conti con il morto
Ad attrarre l’attenzione dei giornali è anche la partecipazione alle esequie dei discepoli di Carducci, e di due su tutti: Pascoli e d’Annunzio. Tra loro si cerca l’erede, il continuatore.
2.1. Pascoli
A Pascoli si riconosce, almeno in un primo momento, il ruolo di cerimoniere funebre e di successore; del resto, già due anni prima era succeduto a Carducci sulla cattedra bolognese. È lui il referente più immediato, considerando oltretutto che
4 Tra loro c’è anche Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887 – Gorizia, 17 ottobre 1910), che
fa parte della delegazione studentesca dell’Università di Firenze. Il 20 febbraio Michelstaedter invia ai propri familiari una lettera nella quale descrive la folla che pur di partecipare ai funerali «si assiepava ai due lati della via, sulle finestre, sui terrazzi, […] grappoli umani sugli alberi, abbracciati alle colonne, arrampicati sulle inferriate», e confida le emozioni provate vegliando la salma di Carducci: «Alla Cerosa non fu seppellito, ma messo in una cella fino alla mattina dopo. Si doveva vegliarlo tutta la notte. E noi ci offrimmo per il primo turno. […] Nelle due ore di veglia ho avuto campo di veder bene la faccia di Carducci attraverso un vetro del coperchio. Era terrea, un po’ infossata alle tempie, un po’ torta dal cedimento della mascella inferiore, ma sempre ancora formidabile, sempre bellissima d’espressione e di grandiosità», in CARLO MICHELSTAEDTER, Epistolario, a c. di Sergio Campailla, Milano, Adelphi,
1983, pp. 184-6. A sua insaputa, i suoi genitori pubblicano gran parte della lettera sul «Corriere friulano» del 22 febbraio (il giornale era diretto dalla prozia di Carlo, Carolina Luzzatto). La lettera esce con il titolo Reminiscenze dei funerali di Carducci. Impressioni. La veglia della salma e a firma di «Carlo». La reazione di Michelstaedter è durissima, si veda MICHELSTAEDTER, Epistolario, cit., p. 187.
5 Si rimanda a STEFANO PAVARINI, La scomparsa di Carducci: un evento mediatico (16-24 febbraio 1907),
«Transalpina», n. 10, 2007, pp. 69-81 e a ID., La ricezione politica dell’opera di Carducci (1904-1945), in
Carducci nel suo e nel nostro tempo, Atti del Convegno di Bologna, 23-26 maggio 2007, a c. di Emilio
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l’unico in grado di contendergli questo ruolo – d’Annunzio – partecipa ai funerali da lontano, dalle foci del Montrone.
Pascoli rilascia un primo commento a caldo all’inviato del «Resto del Carlino» di Bologna: «Oggi l’Italia t’adora – ripete da molti anni al Poeta tutta la Italia, una d’armi e di leggi, ma non di cuore, se non in questo, d’adorare il suo Poeta»6. È la notte del 16
febbraio 1907: le parole sono poche e confuse, l’erede appare sopraffatto dal dolore. Il suo smarrimento è documentato anche dalla «Gazzetta dell’Emilia» che lo descrive preso da un’«intensa commozione» mentre bacia quattro volte la fronte del poeta mormorando: «“Per Gabriele d’Annunzio, per gli amici, per mia sorella, per me”, [poi] in preda a un tremito convulso, è scoppiato in un pianto dirotto»7.
Sulla prima pagina del «Carlino» del 17 e del 18 febbraio Pascoli pubblica In morte
di Giosue Carducci: il discorso, molto articolato, sostiene la promozione di Carducci da pater familias a pater patriae. Il 24 febbraio scrive per il «Marzocco» un breve ricordo
personale legato agli anni universitari e al Carducci professore: L’ultima lezione8. Un
mese più tardi si proclama sfinito e amareggiato delle critiche che commemorare il Maestro gli ha procurato. Rinuncia a molti inviti e, in particolare, si rifiuta di parlare a Roma, città che sente ostile più di qualsiasi altra. Terrà ancora tre commemorazioni: la prima a Pietrasanta, il 7 aprile 1907; la seconda a San Marino, il 30 settembre 1907; la terza a Bologna, nel primo annuale della morte di Carducci9. Pascoli si muove in
città visceralmente legate a Carducci: Pietrasanta, la terra nativa; San Marino, la città del celebre discorso La libertà perpetua di San Marino; Bologna, la città d’adozione, la «seconda patria» di Carducci e da qualche anno la nuova patria dello stesso Pascoli.
2.2. Il Vate secondo il Divo
Diverso è il comportamento di d’Annunzio, a partire dalla decisione di non andare ai funerali. Preferisce inviare a Bologna tramite due giornalisti della «Nazione», Luigi Sorbi e Marcello Taddei, un ramo di pino da deporre sulla bara: «Mando un fascio di rami di pino tagliati da me stesso in una pineta nel Motrone di contro a quel monte Gabberi, la cui cima espressiva fu esaltata nel Saluto al Maestro del penultimo canto della Laus vitae»10. Un messaggio incentrato più sul Divo vivo
che sul Vate morto11.
6 GIOVANNI PASCOLI, La morte di Giosue Carducci, «Il Resto del Carlino», 16 febbraio 1907, p. 3. 7 Parole simili scrive Renato Simoni sul «Corriere della Sera» del 18 febbraio 1907.
8 GIOVANNI PASCOLI, Limpido rivo. Prose e poesie di Giovanni Pascoli presentate da Maria ai figli giovinetti
d’Italia, Bologna, Zanichelli, 1912, pp. 158-60.
9 Commemorazione di Carducci nella nativa Pietrasanta; Alla gloria di Giosue Carducci e di Giuseppe
Garibaldi; Il poeta del secondo Risorgimento, in GIOVANNI PASCOLI, Patria e umanità: raccolta di scritti e discorsi,
Bologna, Zanichelli, 1923, pp. 83-145. Uno stralcio della commemorazione pietrasantina si legge già sotto al titolo di Il funerale di Carducci in PASCOLI, Limpido rivo, cit., pp. 160-1.
10 «Ma il tuo Monte Gàbberi è duro / più del Teumesso, o mio padre; / è come un elmetto
d’eroe», Maia, Laus vitae, XX (Saluto al maestro), vv 19-21; più avanti, «ferreo Gàbberi», v. 129; l’immagine è presente anche in Alcyone, Sogni di terre lontane, Il commiato, vv. 41-2; in GABRIELE
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Il 18 febbraio d’Annunzio pubblica su «Il Pungolo» di Napoli un breve articolo elogiativo, Il liberatore. Il 21 sul «Corriere» esce la canzone Per la tomba di Giosue
Carducci, nella quale indica se stesso come il successore del Vate: la «fiaccola che viva
Ei mi commette / l’agiterò sulle più aspre vette»12. A rilanciare la sua autoinvestitura
è il sindaco di Milano, Ettore Ponti, che lo sceglie per tenere una commemorazione di Carducci; inutile sottolineare che a dirigere l’evento è d’Annunzio, attento com’è agli aspetti autopromozionali di ogni sua performance pubblica. La sera del 24 marzo al Teatro lirico pronuncia il suo discorso, poi pubblicato da Treves: la solenne celebrazione di Carducci morto risuona nel «cuore della Città operosa»13 come
l’autoincoronazione del suo erede.
L’ultimo atto della rilettura dannunziana di Carducci è la prosa Di un maestro
avverso, che esce con la data fittizia del «17 febbraio 1907» sul «Corriere della sera» del
30 luglio 1911. Qui d’Annunzio difende la propria scelta di non partecipare ai funerali di Carducci, proclamandosi più onesto di molti dei presenti; fa poi un ritratto impietoso del Vate, che definisce vittima di un «fato […] ingiusto»14; denuncia infine
che sebbene lui lo avesse amato «d’un amore accorato», Carducci non lo aveva mai ricambiato, né lo aveva veramente capito: «non aveva verso me se non inquietudine, sospetti, disdegno mal dissimulato, forse fittizio dispregio. La mia vera virtù – scrive – non gli apparve mai»15. Ma il passato è passato e ciò ormai ha poca importanza: con
la sua «vita inimitabile» di poeta-soldato, fine amatore ed eroe moderno d’Annunzio afferma di aver già realizzato più di quanto Carducci potesse sperare per sé: il timido discepolo di un tempo ha superato il Maestro.
D’ANNUNZIO, Versi d’amore e di gloria, Milano, Mondadori, 2006, a c. di Annamaria Andreoli e Niva
Lorenzini, vol. II, Laudi del cielo - del mare - della terra e degli eroi, p. 242, p. 245, p. 636.
11 Ojetti non apprezzò la sua assenza: «Perché ti sei affidato con quel telegramma a quel povero
Pascoli che è abbandonato ormai anche dalla scolaresca delusa e la cui prosa balorda ha fatto domenica sorridere di pietà? […] Anche tu hai mandato in tua vece il tuo conte di Torino… Ma tu eri il re che dovevi jeri prendere il posto che spetta a te solo», in GABRIELE D’ANNUNZIO,UGO OJETTI,
Carteggio (1894-1937), a c. di Cosimo Ceccuti, Firenze, Le Monnier, 1979, pp. 104-5.
12 Per la tomba di Giosue Carducci, vv. 123-124; è poi raccolta in GABRIELE D’ANNUNZIO, L’orazione e
la canzone in morte di Giosue Carducci, Milano, Fratelli Treves Editore, 1907, pp. 39-48; si legge anche in
GABRIELE D’ANNUNZIO, Scritti giornalistici 1889-1938, a c. di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori,
2003, vol. II, pp. 1674-7.
13 D’ANNUNZIO, L’orazione e la canzone in morte di Giosue Carducci, cit., p. 3. Rievocando questo
episodio nella lettera del 27 marzo 1907 alla contessa Giuseppina Mancini (Giusini), d’Annunzio afferma di essere ormai certo del proprio «dominio spirituale di poeta»; si cita da ANNAMARIA
ANDREOLI, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000, p. 429.
14 «Il fato gli fu ingiusto […]. Pose una grande anima di guerriero su due gambe titubanti; gonfiò
d’un gran soffio bellicoso un collo che per solito era strozzato da una scarsa cravatta notarile; condannò al legno stantìo della cattedra, al lezzo della scuola cancerosa, colui che aveva sognato di somigliare il gladiator tirreno e di cader supino bevendo l’aura del combattimento; ridusse in fine alla più desolata impotenza, all’onta del balbettio fioco e delle lacrime irrefrenabili un uomo degno di ricevere dall’inneggiata Diana col dardo subitaneo “la buona morte”», in GABRIELE D’ANNUNZIO, Di
un maestro avverso, in ID., Prose di ricerca, Milano, Mondadori, 1968, vol. II, pp. 542-9: 543.
XI 2.3. Metamorfosi di un primato
Sebbene con modalità ed esiti diversi, sia Pascoli che d’Annunzio sfruttano la morte di Carducci per fissare il loro ruolo di poeti e intellettuali. Non sono i soli: dal 1907 è in realtà tutto il mondo culturale italiano a fare i conti con l’eredità del Vate. La nota dominante, almeno nell’immediato, è quella celebrativa. Non c’è università o scuola che non commemori Carducci come uno dei padri della patria16; gli articoli in
mortem si sprecano; le istituzioni del Regno d’Italia approvano questo processo di
mitizzazione nazionale.
Dagli anni Dieci del Novecento alcuni critici iniziano a mettere in discussione la grandezza di Carducci. L’apripista è Enrico Thovez, che con Il pastore, il gregge e la
zampogna (1910) denuncia la vacuità dell’opera carducciana e ne liquida in particolare
la poesia, che ritiene artificiosa nella forma, fasulla per i contenuti e del tutto incapace di comunicare affetti: Carducci è un cattivo maestro dal quale occorre al più presto emanciparsi. Pochi anni più tardi anche un carducciano fino al midollo quale Serra avrebbe preso atto del «tramonto» di Carducci, individuando, però, una risorsa nella sua conclamata “inattualità” rispetto al Novecento e rilanciandone il magistero letterario e civile17.
Mentre i critici si dividono sul valore dell’opera carducciana e i poeti più giovani – anzitutto gli avanguardisti – ne rifiutano il modello, Carducci diventa un testo scolastico imprescindibile18: il Vate entra nei programmi ministeriali e diviene un
classico dei banchi di scuola. Il primato letterario che con fatica Carducci aveva costruito nel corso di un cinquantennio di ininterrotta attività culmina, dopo la sua morte, nella canonizzazione scolastica.
3. Oggetto e metodo
Oggetto di questa tesi sono gli anni della formazione di Carducci, dai suoi malcerti esordi poetici fino all’acquisizione, negli ultimi anni Settanta, di un forte rilievo nazionale come poeta, uomo politico e critico letterario.
Il lavoro ha un taglio biografico forte: si è provato a narrare la vita di Carducci con un ritmo serrato, senza concessioni all’aneddotica e alla oleografia. Alla biografia
16 Impossibile, considerato il grande numero, stilare un elenco completo delle commemorazioni.
Si ricordano almeno quella di Isidoro Del Lungo a Firenze; Alessandro D’Ancona a Roma, in Campidoglio; Francesco Torraca a Salerno; Donadoni a Palermo; Ugo Pesci al Circolo degli ufficiali di Bologna; e ancora Massimo Bontempelli all’Aquila e Giuseppe Picciola. Tutte queste orazioni fortemente elogiative vengono stampate in opuscolo.
17 «Egli veramente sorgeva in mezzo al tempo nostro come uomo di altra età e di altra tempra»,in
RENATO SERRA, La commemorazione di Giosue Carducci [1914], in ID., Scritti letterari, morali e politici. Saggi e
articoli dal 1900 al 1915, a c. di Mario Isnenghi, Torino, Einaudi 1974, p. 350.
18 DUCCIO TONGIORGI, Florilegi carducciani: il Vate nelle antologie scolastiche della Nuova Italia, «Nuova
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si affianca l’analisi di alcuni testi – poesie e prose – ritenuti cruciali nell’itinerario letterario dell’autore. Nel complesso, si è cercato di resistere al “feticismo del dettaglio” per non sfilacciare una ricostruzione già di per sé complessa e centrifuga, che invita a divagare. In più, si è cercato di condurre un discorso che tenesse sempre insieme le tante facce di Carducci: il poeta, l’intellettuale engagé, l’attivista politico, lo studioso, il professore, ma anche l’uomo, nella sua famiglia, con le sue amicizie, con il suo carattere.
Il presente studio si distingue dalle monografie più recenti, uscite in vista o a seguito del centenario della morte di Carducci: non è sintetico e concentrato esclusivamente sul Carducci poeta come il lavoro di Pavarini19; non tratta soltanto del
Carducci bolognese, come La vita vera di Veglia20; non si occupa in modo
preponderante del Carducci politico e massone come, invece, lo studio Mola21. Dei
lavori di Veglia e Mola si cerca anche di evitare il tono eccessivamente apologetico e l’ottica simpatetica e partigiana, così come, per contro, non si ritorna alle antipatie e agli intenti svalutativi di Mengaldo, di Asor Rosa, di Curi22.
La presenza di analisi testuali è motivata dal tentativo di ricomporre due aspetti che hanno iniziato a divaricarsi negli ultimi studi carducciani: il discorso sulla vita e l’interpretazione delle opere. Le pubblicazioni più recenti, specie quelle rivolte a un pubblico più ampio rispetto a quello degli studiosi, insistono molto sul Carducci privato, sui suoi umori, sulle sue liaisons più o meno dangereuses23. Qui si cerca, invece,
di finalizzare lo studio della vita e dei documenti autobiografici – in primis, l’epistolario – alla comprensione dei testi. Ad esempio, si è scelto di trattare dei rapporti di Carducci con Carolina Cristofori Piva perché essi contribuiscono in modo determinante – pur non bastando da soli – a spiegare una buona porzione di poesia carducciana; si rifiuta, quindi, anche l’invito di Carpi che, quasi per un eccesso di “legittima difesa”, suggerisce di estromettere del tutto la Piva dagli studi carducciani24.
19 STEFANO PAVARINI, Carducci, Palermo, Palumbo, 2003.
20 MARCO VEGLIA, La vita vera. Carducci a Bologna, Bologna, Bononia University Press, 2007. 21 ALDO A.MOLA, Giosuè Carducci. Scrittore, politico, massone, Milano, Bompiani, 2006.
22 È ormai una pagina tra le più celebri della storia della critica carducciana la confessione di
irrefrenabile avversità di Mengaldo, in PIER VINCENZO MENGALDO, Un’occasione carducciana, in ID., La
tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 75. Si veda anche ALBERTO ASOR ROSA,
Carducci e la cultura del suo tempo, in Carducci e la letteratura italiana. Studi per il centocinquantenario della nascita di Giosue Carducci, Atti del convegno di Bologna, 11-12-13 ottobre 1985, a c. di Mario Saccenti, Padova,
Editrice Antenore, 1988, pp. 9-25. Su Curi si può vedere anche il recente «Giambi ed epodi» ovvero
Carducci anti-italiano, in Carducci nel suo e nel nostro tempo, cit., pp. 171-95.
23 Si vedano ad esempio GIOSUE CARDUCCI, Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia (1872-1878),
a cura di Guido Davico Bonino, Roma, Salerno Editrice, 2010, e soprattutto le numerose recensioni (significative per il modo con cui restituiscono il senso dell’operazione editoriale) che sono comparse sulla stampa (http://www.salernoeditrice.it/Rassegna_stampa.asp?id=1811&it=ok).
24 Dalla discussione, in Carducci e la letteratura italiana, cit., pp. 315-6. E ancora, di recente, in Ideologia e
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Nel leggere i testi si è cercato di metterli sempre in relazione con le loro ragioni storiche. Per comprendere Carducci non si può prescindere dallo studio del contesto, dalla ricostruzione, cioè, della fitta rete di rapporti, conoscenze e amicizie politiche, all’interno della quale si è svolta la sua azione. Trattare di Carducci significa anche seguire la parabola ideologica di un esponente della Sinistra risorgimentale: come molti altri compagni di militanza, nel corso degli ultimi anni Settanta Carducci si allontana dagli ideali rivoluzionari e sovversivi della giovinezza, rifiuta il dialogo con il socialismo e la sinistra moderna e si attesta su posizioni più moderate, se non reazionarie – il sostegno alla monarchia, l’approvazione del governo crispino –, scelte nel nome del popolo, della coesione nazionale, della tutela degli autentici valori del Risorgimento.
La storia di Carducci può mostrare in filigrana anche la storia di un cinquantennio di letterati e di letteratura italiani. Per questa ragione si sono messe in evidenza anche la ricezione, la risposta del pubblico e le reazioni del coevo mondo letterario: ciò ha consentito di comprendere quanto e quando, nel corso degli anni considerati, cambino il ruolo e il peso di Carducci. L’osservazione dell’andamento della fortuna carducciana ha così permesso di evidenziare i mutamenti dello scenario letterario italiano nel secondo Ottocento e di valutare in che modo questi si leghino all’esperienza dell’autore: non sarà, allora, un caso se proprio negli anni Settanta – morti Manzoni e Dall’Ongaro, in declino Aleardi e Prati – Carducci trova spazio per gettare le basi della propria leadership.
A una maggiore messa a fuoco del panorama e delle correnti letterarie e politiche del periodo e quindi a un ampliamento dei testi e degli autori analizzati ha contribuito la concezione agonistica che Carducci ha dell’attività letteraria e che lo porta a confrontarsi anche in modo duro con poeti, intellettuali, critici e lettori. Per comprendere a pieno il senso di alcune polemiche si è reso necessario restituire voce anche ai suoi antagonisti.
Sebbene ne siano un aspetto fondamentale, la costruzione di una leadership letteraria non passa soltanto attraverso gli scontri polemici. Il ruolo principale spetta alla poesia e alla capacità che Carducci ha di presentarla – e di presentarsi – al pubblico. In questo senso lo studio delle sue raccolte poetiche mostra come le frequenti ristrutturazioni a cui l’autore le sottopone – aggiunge ed elimina testi, ne rivede la disposizione, cambia l’architettura complessiva del libro – si saldino sempre all’esigenza di presentarsi ai lettori (e di consegnarsi ai posteri) in una forma compiuta, ordinata, aderente all’idea che di sé e della propria storia poetica va maturando. Le modifiche, spesso sostanziali, restituiscono di volta in volta un percorso in parte diverso, senza scarti e contraddizioni.
In questa instancabile operazione di rilettura e riproposizione dei propri versi si coglie la volontà che Carducci ha di presentarsi come un modello e, più ancora, di ricostruire, oltre alla storia della propria ricerca poetica, la sua storia personale,
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sempre fortemente intrecciata a quella della nazione: è questa forte autocoscienza poetica e storica a costituire la premessa di quel primato – letterario, sì, ma anche culturale e morale – che lo porterà ad essere riconosciuto come il Vate della Terza Italia, a entrare nella tradizione e a fare tradizione, e a lasciare un’eredità ingombrante, con la quale i suoi successori, in un modo o nell’altro, avrebbero dovuto fare i conti.