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II. ALLE ORIGINI DEL MITO

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II. ALLE ORIGINI DEL MITO

II.1. La dimensione creativa e l’immagine fondamentale

A uno sguardo rapido alla critica pavesiana, emerge chiaramente come le problematiche connesse alle varie sfacettature della poetica cosiddetta del “mito” rappresentino il fulcro centrale del pensiero pavesiano verso il quale si dirigono tutti i suoi sforzi creativi169.

L’uso di un’accezione del termine “mito” verrà impiegato in questo capitolo in relazione al processo creativo che investe la dimensione dell’immagine: Pavese la definisce appunto “mitica” in un saggio del 1943 pubblicato all’interno di Feria d’agosto: «mitica è quest’immagine in quanto il creatore vi torna sempre come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza. Essa è il fuoco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta la sua vita. Quanto più essa è capace e robusta, tanto più ampia e vitale è la poesia che ne sgorga»170.

L’idea è quella di un nucleo, di un processo di estrazione o di scavo come il germe da cui domani nascerà un’intera poesia; un processo che lo scrittore non avverte come un percorso semplice e naturale ma, anzi, complicato e pieno di ostacoli171.

Negli ultimi anni della sua vita questo suo sentimento si evolverà nel “dovere mitico” del poeta: quel dovere che, esprimendo una fede “sincera”, coincide con l’ intimità e la verità di se stesso. Rispondendo ad un’inchiesta della rivista «Aretusa» nel 1946, lo scrittore spiegava:

Ho la certezza di una fondamentale e duratura unità in tutto quanto ho scritto o scriverò – e non dico unità autobiografica o di gusto, che sono sciocchezze – ma quella dei temi, degli interessi vitali, la caparbietà monotona di chi ha la certezza di aver toccato il primo giorno il mondo vero, il mondo eterno, e altro non può fare che aggirarsi intorno al grosso monolito e staccarne dei pezzi e lavorarli e studiarli sotto tutte le luci possibili172.

169 Cfr. B. VAN DEN BOSSCHE, op. cit., p. 11: «Il mito viene adoperato anche come tassello cruciale per spiegare determinati aspetti o evoluzioni della lingua e dello stile di Pavese, come chiave di lettura per le singole opere creative e punto di vista prediletto dal quale osservare la sedimentazione culturale del pensiero pavesiano».

170 C. PAVESE, Del mito, del simbolo e d’altro, in Feria d’agosto, Einaudi, Torino 2002, p. 154.

171 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 369: « Pavese è l’uomo dei giri e dei rigiri, dei percorsi lunghissimi per arrivare ad accettare certe verità [...] intorno alla propria natura. È l’uomo che si contrasta, si autoanalizza, si programma – tutto: il proprio modo di essere, di sentire; e anche di sentire e di fare poesia»171.

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Per Pavese ciò che conta è dunque l’individuazione di un “centro mitico”, cioè l’immagine, o il gruppo di immagini, a cui si affida simbolicamente l’originalità, la forza di significazione peculiare di uno scrittore. Ma in cosa consiste il significato di questa immagine?

Nel novembre del 1934, in piena stagione delle poesie che verranno raccolte e pubblicate nella prima edizione di Lavorare stanca, Pavese scrisse un breve testo d’impostazione saggistica intitolato Il mestiere di poeta, in cui lo scrittore commenta la propria produzione poetica fino alla fine di quell’anno.

All’interno del saggio viene descritta una fase del graduale chiarirsi di un’idea di poesia-racconto da cui derivò la successiva presa di coscienza di una «resa all’oggetto»173 e, infine, la scoperta

dell’immagine.

In un primissimo momento, Pavese aveva ritenuto che una poesia dovesse consistere per intero nel gusto di un racconto ritmato, quasi parlato, che escludesse necessariamente le immagini e ogni gioco tra le immagini: questo pensiero egli lo chiamò poesia-racconto.

Anche il verso si rivela in sintonia con un «bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe»174: Pavese se ne appropria come di uno schema congenito al suo modo di poetare; un ritmo radicato a sua volta nel ritmo personale della sua fantasia.

Poi, quasi per caso, durante la composizione di una poesia che intitolò Paesaggio I, egli scoprì d’aver istituito un rapporto d’ordine fantastico fra il protagonista del componimento, un eremita, e le felci.

Fu un evento improvviso ed intuitivo, in cui Pavese capisce che la ragione d’essere di una poesia sta nel cogliere i rapporti fra le immagini; e queste immagini sono i termini del ragionamento poetico, cioè del modo particolare con cui si pensa in poesia: egli chiamò “immagine-racconto” il sistema delle relazioni tra le immagini.

Pavese considerò la scoperta dell’immagine come «il premio della testardaggine con cui aveva insistito sull’oggettività del racconto»175 e, attraverso la creazione della figura dell’eremita, scrisse:

«era finalmente cosa mia il senso tanto esclusivo di quel semplice enunciato che essenza della poesia sia l’immagine»176.

Il valore di chiarimento interiore che la poetica dell’immagine-racconto assume nella coscienza artistica del poeta viene enunciata anche nelle prime pagine de Il mestiere di vivere, il 6 ottobre 1935:

173 IDEM, Il mestiere di poeta, in Lavorare stanca, Einaudi, Torino 1998. pp. 105-113.

174 Ibidem: «Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia».

175 Ibid.

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C’era un tempo che avevo ben vivo nella mente un ammasso passionale e semplicissimo di materia, sostanza della mia esperienza, da ridurre a chiarezza e determinazione organiche, nel poetare. E ogni mio tentativo, sottilmente ma inevitabilmente si riconnetteva a questo fondo e mai mi parve di sviarmi per stravagante che fosse il nucleo di ogni nuova poesia. Sentivo di comporre qualcosa, che superava sempre il pezzo (del momento) (attuale)177.

Pavese era risalito, o quantomeno fino a un certo punto così gli sembrava, alla fonte primaria di ogni attività poetica.

Nella descrizione di questa scoperta, l’immagine viene definita come una rete di rapporti fantastici che «è, oscuramente, il racconto stesso»178, conservando tuttavia un carattere sempre incerto, aleatorio e confuso; una mancanza di precisione attribuita al fatto che, secondo lo scrittore, si trattava di un’esperienza non ancora compiuta e pertanto non comprensibile in tutte le sue diramazioni179.

Man mano che egli arriva a tradurre in fantasia il dato oggettivo della poesia con sempre maggior disinvoltura, s’impone quindi l’interrogativo dell’ “arbitrarietà”: quando, insomma, si chiede Pavese, la potenza fantastica diventa arbitrio?

Le soluzioni adottate fino a quel momento risultano ancora provvisorie, poco chiare e ancor meno soddisfacenti, dal momento che si tratta di un nuovo problema, scrive Pavese, «da cui non sono ancora uscito»180.

Il poeta dunque non può non lasciar sospeso il discorso su un’esperienza poetica che non ha ancora concluso, e riprenderà il discorso circa un anno più tardi durante il confino a Brancaleone Calabro.

Nel 1935, infatti, poco dopo aver deciso l’assetto definitivo della raccolta Lavorare stanca, Pavese ha una “crisi poetica” che dà l’avvio alla scrittura del Secretum professionale.

Si tratta di annotazioni e appunti sciolti dedicati principalmente alla poesia della raccolta, i quali andranno a comporre la prima parte de Il mestiere di vivere.

Qui il motivo che viene messo in luce è proprio quell’impoverimento del complesso vitale da cui era nata l’intima e profonda esigenza del fare poesia: si avverte cioè l’insufficienza dell’immagine-racconto che non chiarisce la chiave, la ragione del legame che associa le immagini. Pavese scrive:

177 ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., pp. 7-8. 178 ID., Il mestiere di poeta, cit., p. 111.

179 Cfr. Ibid. :«Risulta difficile spiegare in cosa consista l’immagine per la ragione che io stesso non ho ancora esaurito le posssibilità implicite nella tecnica di Paesaggio».

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Che io tenda a sostituire allo sviluppo oggettivo della trama, la calcolata legge fantastica dell’immagine, è vero, perché così difatti intendo; ma fin dove giunga questo calcolo, che cosa importi una legge fantastica, e dove finisca l’immagine e cominci la logica, sono bei problemini 181.

Secondo la Guiducci, Pavese «si fermò, come teorico ma soprattutto come realizzatore di poesia, alla scoperta di primo grado che le immagini si richiamano analogicamente fra di loro. Cioè si fermò all’analogia, alla similitudine, a un tipo di rapporto fra le immagini che è il più semplice si possa dare, quasi di ordine naturalistico, e non già astratto e inventivo»182.

Una volta scoperto quindi che il senso di una poesia nasce dal rapporto fra le immagini e che una poesia non è semplicemente un sistema di immagini, ma di relazioni fra immagini, Pavese «tecnicizza la sua scoperta»183.

Prosegue in questo senso la Guiducci:

Il suo tipo d’immagine era l’immagine naturalistica, a contorno chiuso, accentuata a bella posta realisticamente, in modo che ne uscisse l’effetto dell’oggettività, dell’aderenza della parola all’oggetto; essa non aveva spessori più profondi di quelli della particolarizzazione sensibile, del dettaglio fisico precisato perché, per programma, voleva essere anti-allusiva184.

A questo periodo, in cui Pavese sembra intento a razionalizzare le dinamiche e la fenomenologia del proprio pensiero artistico, risalgono delle “cristallizzazioni” concettuali su cui finiranno per fondarsi molte delle ricerche successive intorno alla sua poetica.

Quella che lo scrittore vive nel 1935 è una vera e propra crisi intimistica, come allude nel diario quando parla di «un’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come possibili»185.

Il nodo centrale di questa crisi è rappresentato dall’idea, in parte già espressa nel saggio Il mestiere di poeta, che la scrittura poetica si organizzi a partire da una dimensione “prepoetica”, determinata da un’immagine, cioè il complesso dei rapporti fantastici, oppure come una realtà sprituale avvertita ma ancora inespressa.

181 ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 10. 182 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 376.

183 Ivi, p. 381. 184 Ivi, p. 383.

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Questa dimensione prepoetica, sottolinea Bart Van Den Bossche, «assume il valore di un arché, un’origine eterotopica e sovradeterminata in senso normativo, a partire dalla quale si snoda il discorso poetico, e la cui fisionomia esatta è determinabile soltanto a posteriori»186.

Sia l’«ammasso passionale e semplicissimo di materia da ridurre a chiarezza», come lo chiama Pavese, sia il nucleo iniziale di versi da cui prende le mosse la genesi di una poesia, sentito come una «informe situazione suggestiva»187, indicano una dinamica particolare della creazione poetica in

cui «il soggetto si trova invariabilmente in una posizione gerarchicamente inferiore rispetto ad uno spazio di possibilità creative precostituite, uno spazio prepoetico che il soggetto è chiamato ad esplorare, registrare, portare a chiarezza nel corso del processo creativo»188.

Ma questa crisi non è esclusivamente di carattere poetico e si sovrappone a un’altra, di tipo esistenziale, dettata da un’urgenza tutta interiore di ridefinire il proprio sistema di valori: a partire dal 1936 si apre così un periodo di lunghi e macchinosi processi introspettivi.

Pavese torna dall’esperienza confinaria distrutto dalla delusione sentimentale provocata dall’abbandono di Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”; le riflessioni nelle pagine del diario assumono il grave peso di una ricerca morale che sfocia in una ineluttabile «viltà», nella quale Pavese inserisce la sua inettitudine a un qualsiasi mestiere, il misoginismo, gli impulsi sentimentali esclusivamente «voluttuari», il suo essere «fesso»189.

Egli si sente «un uomo che non sa vivere, che non è cresciuto moralmente, vano, che si sorregge col puntello del suicidio, ma non lo commette»190.

Questo lungo travaglio, che può definirsi “concluso” tra il 1939 e il 1940191, coincide con l’inizio di

un periodo di rinnovata attività creativa che sfocia nella stesura di quattro romanzi brevi: Il carcere, Paesi tuoi, La bella estate e La spiaggia.

Conclusasi definitivamente la prima stagione legata alla poesia, nel febbraio del 1940 lo scrittore compone un altro saggio, simile nell’impostazione a Il mestiere di poeta, intitolato A proposito di alcune poesie non ancora scritte.

Qui Pavese s’interroga sull’unità materiale della raccolta Lavorare stanca e sulla scelta di includervi o meno alcune poesie rimaste fuori dalla raccolta. Il poeta deve decidere se queste poesie rappresentano la conclusione di un vecchio gruppo oppure l’inizio di uno nuovo. Egli passa quindi a ripercorrere le tappe delle sue riflessioni poetiche:

186 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 101. 187 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 22. 188 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 101. 189 Cfr. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., pp. 31-41. 190 Ibid. Corsivo dell’autore.

191 Cfr. Ivi, p. 169. 1 gennaio 1940: «Chiudo il ˊ39 in uno stato di anelito ormai sicuro di sé, e di tensione come quella del gatto, che aspetta la preda. Ho intellettualmente l’agilità e la forza contenuta del gatto».

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L’inverno del ˊ35-36 segnò la crisi di tutto un ottimismo basato sulle vecchie abitudini e l’inizio di nuove meditazioni sul tuo mestiere, che si espressero in un diario e si allargarono via via a un approfondimento prosastico della vita intera, e attraverso preoccupazioni successive (1937-1938) t’indussero a tentare novelle e romanzi. [...] Hai scoperto in questo canzoniere una coerenza formale che è l’evocazione di tutte le figure solitarie ma fantasticamente vive in quanto saldate al loro breve mondo per mezzo dell’immagine interna [...] com’era giusto, la tua critica si è accanita soprattutto sul concetto d’immagine. L’ambiziosa definizione del 1934, che l’immagine fosse essa stessa argomento del racconto, si è chiarita falsa o per lo meno prematura192.

È significativo il fatto che Pavese torni a meditare sulla dimensione creativa solamente quando sente di aver definitivamente concluso quel processo: i meccanismi interni della pratica poetica risultano cioè afferrabili e controllabili solo in un movimento analitico retrospettivo.

E infatti tra l’esecuzione del processo creativo e la sua analisi s’instaura un’ulteriore scissione radicale tra un processo inconsapevole, che Pavese definisce «cieco»193, e uno consapevole dell’analisi conoscitiva, che si può avviare solo a posteriori.

Secondo Pavese «non si può conoscere il proprio stile e usarlo»194. A questo proposito lo scrittore annota: «Ogni artista cerca di smontare il meccanismo della sua tecnica per vedere come è fatta e per servirsene, se mai, a freddo. Tuttavia, un’opera d’arte riesce soltanto quando per l’artista essa ha qualcosa di misterioso.[...] L’artista che non analizza e non distrugge continuamente la sua tecnica è un poveretto»195.

Il commento critico della produzione poetica di Lavorare stanca si sviluppa, dunque, secondo una dinamica interpretativa di chiarificazione retrospettiva, a partire da una distanza dall’oggetto da chiarire.

Quando nel 1940 Pavese lesse per la prima volta i testi di Jung che sarebbero confluiti nella pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, ci fu in particolare, tra gli altri, uno scritto che senza dubbio avrà colpito e suggestionato le fantasie dello scrittore piemontese: si tratta del saggio La psicologia analitica e l’arte poetica, scritto da Jung nel 1922.

192 ID., A proposito di alcune poesie non ancora scritte, in Lavorare stanca, cit., p. 115. Corsivo dell’autore.

193 Cfr. ID., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 135. 8 novembre 1938: «Ciò che stiamo scrivendo è sempre cieco. Se ci viene bene (se cioé, dopo, ritornandoci, lo stimeremo riuscito) non possiamo per il momento sapere». 194 Ibid.

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In questo testo Jung s’interroga sul rapporto tra psicologia e arte, sostenendo che «l’esercizio dell’arte è un’attività psicologica, o un’attività umana dovuta a motivi psicologici e come tale è e deve essere sottoposta all’analisi psicologica»196.

Dalle grandi opere, secondo Jung, emerge qualcosa di grande e misterioso, inspiegabile e indefinibile; si tratta di contenuti che vanno al di là delle motivazioni razionali e delle intenzioni stesse dell’artista.

Il medico si appresta quindi a considerare l’origine della creatività individuando due tipi di opere d’arte: il primo è l’arte intenzionale, nata dalla decisione cosciente dell’artista con un fine ben determinato; la seconda è l’opera d’arte simbolica.

Jung si concentra in particolare su quest’ultima, in cui l’artista diviene uno strumento della forza creativa che, impossessatosi di lui e della sua penna, lo porta a dare forma all’opera; un’opera che porta già con sé la propria forma e l’artista è in qualche modo “succube” del processo creativo: egli è sommerso da un fiume di pensieri e immagini che esprimono il suo Sé.

Questa idea dovette piacere molto a Pavese il quale, in effetti, già qualche anno prima affidò alle pagine del Secretum professionale la sua convinzione che il processo creativo fosse soprattutto qualcosa di misterioso e imperscrutabile, che si compie al di fuori del controllo dell’artista, e assume l’aspetto di un groviglio di scatti e svolte di cui si può trovare il senso solamente ad opera compiuta197.

Sembrerebbe quindi messo a repentaglio qualsiasi tentativo di dirigere l’attività poetica e i suoi risultati: la posizione del soggetto del processo poetico si contraddistingue per una relativa passività. Anche per Pavese il poeta dispone quindi di un margine di manovra e d’iniziativa piuttosto limitato.

Addirittura la forza dell’impulso artistico, secondo Jung, s’impone talvolta in modo dispotico e capricciso: l’artista deve mettersi al servizio dell’opera d’arte, magari sacrificando la propria salute e felicità. Il medico chiama questa dinamica «complesso autonomo»198, cioè una particolare struttura psichica che si sviluppa in modo inconscio e irrompe alla coscienza già formata, per sparire e ricomparire a suo piacimento, indipendentemente dal valore della coscienza.

L’individuazione del fulcro significante dell’opera, in un’estricabile discesa a ritroso dell’opera dell’autore per cogliere le origini di motivi e immagini peculiari, per individuarne il centro

196 C.G.JUNG, Psicologia analitica e arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1973, p. 29.

197 Cfr. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 10. 10 ottobre 1935: «Si crea, senza sapere con definitezza come». Cfr. anche ivi, p. 21. 7 dicembre 1935: « il segreto di una struttura artistica sfugge al creatore finché, chiarendosela, egli non le tolga interesse».

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ossessivo lontano, è l’asse portante che percorre dall’inizio alla fine tutta la produzione letteraria di Cesare Pavese.

Secondo quest’ottica si possono trovare allora certi richiami al pensiero junghiano, per cui «la vera arte è espressione di un’esperienza sconosciuta»199.

Essa rende visibili gli archetipi, le immagini primordiali e perenni, con le loro caratteristiche di immobilità, che si ripetono nel corso della storia, ogniqualvolta la fantasia si esprime liberamente. In questo senso Jung cita una frase di Gerhart Hauptmann: «Esser poeta significa far risuonare dietro le parole la parola primordiale»200.

Va da sé che per Pavese il problema è dietro l’angolo, e non è del tutto trascurabile: una poetica dell’archetipico è anche una poetica dell’esauribilità, per cui, egli ammette: «verrà un giorno in cui avremo portato alla luce tutto il nostro mistero e allora non sapremo più scrivere [...]»201.

Il rischio, per il poeta, è quello di una lacerazione: «l’immagine creata – la prima preda della terra incognita – ha radici così tenere e sensibili nella sua sostanza spirituale, che staccarsene significa lacerare se stesso, restar vuoto come un guscio succhiato»202.

199 Ibid.

200 Ivi, p. 47.

201 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 135. 202 ID., Poesia è libertà, in Saggi letterari, cit., p. 300.

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II.2. Dall’immagine interna allo scavo simbolico

Proprio la caratteristica centrale dell’esperienza simbolica, secondo Jung, è quella dell’origine imprecisata ed antica delle immagini e dei mondi che vanno emergendo nella composizione.

Come se l’autore, incapace di comprendere il senso di quello che si va configurando, riuscisse però a presagire che tutto ciò fa parte di un mondo primitivo, un Urwelt a lui sconosciuto.

Jung cita gli esempi di Dante e Wagner: il primo, a partire dai dati storici, il secondo, dai dati mitologici, li oltrepassano entrambi per ritrovarsi in luoghi oscuri della coscienza che esprimono la natura simbolica della composizione.

È proprio questo concetto di natura simbolica che più di ogni altra cosa deve aver toccato corde profonde nell’animo di Pavese. Scrive infatti Jung:

Quali sono le componenti del processo creatore autonomo? Non è possibile assolutamente saperlo al principio, finché l’opera portata a termine non ci avrà aperto le vie che ci conducono alle sue fondamenta. L’opera ci offre una perfetta immagine, nel senso più vasto della parola. Questa immagine possiamo sottoporla all’analisi, purché si possa scorgere in essa il simbolo. Ma fin quando non siamo capaci di scoprirvi alcun valore simbolico, noi constatiamo che, almeno per noi, l’opera non ha altro significato di quello che manifesta esplicitamente 203.

Nel saggio A proposito di alcune poesie non ancora scritte, Pavese spiega quali saranno le modalità che andranno a caratterizzare le future poesie, superando l’impasse della questione imaginìfica che tanto lo aveva turbato dal 1935 al 1940; e lo scrittore non può che essere più chiaro ed esplicito di così:

È certo che anche stavolta il problema dell’immagine terrà il campo. Ma non sarà questione di raccontare immagini, formula vuota, come s’è visto, perché nulla può distinguere le parole ch’evocano un’immagine da quelle ch’evocano un oggetto. Sarà questione di descrivere – non importa se direttamente o immaginosamente – una realtà non naturalistica ma simbolica. In queste poesie i fatti avverrano – se avverranno – non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l’intelligenza. [...] Come succede

203 C.G.JUNG, Psicologia analitica e arte poetica, in Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, cit., p. 47. Corsivo dell’autore.

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insomma nella Divina Commedia – (bisognava arrivarci) –, avvertendo che il tuo simbolo vorrà corrispondere non all’allegoria ma all’immagine dantesca204.

Jung aveva definito il simbolo «né allegoria, né segno, ma l’immagine di un contenuto che per la massima parte trascende la coscienza»205.

Il simbolo si colloca infatti in una posizione centrale della psicologia analitica: esso unifica il conscio e l’inconscio determinando una prefigurazione dell’evoluzione del soggetto che lo contempla.

Secondo Jung il nostro inconscio non parla attaverso segni ma attraverso simboli, cioé delle forme primarie di espressione irriducibili al pensiero razionale.

Jung oppone il simbolo tanto al segno quanto all’allegoria: segno e allegoria vengono infatti considerati “semplici”, in quanto spiegano un’espressione simbolica come se fosse riferibile a qualcosa di conosciuto e determinato; il simbolo invece è , per Jung, qualcosa di “complesso”:

Ogni concezione che definisce l’espressione simbolica come analogia o come denominazione abbreviata di una cosa nota è semiotica. Una concezione che definisce l’espressione simbolica come la migliore possibile, e quindi come la formulazione più chiara e caratteristica che si possa enunciare per il momento, di una cosa relativamente sconosciuta, è simbolica. Una concezione che definisce l’espressione simbolica come intenzionale circonlocuzione o modificazione di una cosa conosciuta, è allegorica 206.

Segno e simbolo appartengono fondamentalmente a due diversi piani di realtà: il simbolo, infatti, a differenza del segno, «non rinvia a cose note»207; ma sia il segno che il simbolo si esprimono in immagini: è qui che il simbolo corre il suo massimo rischio, poiché l’immagine deve aprire un campo di dispersione rispetto all’ordine dei concetti e non essere utilizzata per rafforzare quest’ordine: il simbolo è «ciò che rompe l’ordine del discorso, la sua grammatica, la sua sintassi; è ciò che nel discorso fa problema»208.

Ci sono alcune pagine del diario in cui Pavese riecheggia la teoria junghiana del simbolo, nonostante Jung non venga mai citato esplicitamente.

204 C. PAVESE, A proposito di alcune poesie non ancora scritte, cit., p. 118. 205 C.G. JUNG, La libido, simboli e trasformazioni, Boringhieri, Torino 1965, p. 87. 206 ID., Tipi psicologici, in Opere, Boringhieri, Torino 1969, p. 483.

207 Ivi, p. 485.

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La questione simbolica impegnò lo scrittore per molti anni: la dimensione complementare tra simbolo e allegoria costituisce uno dei cardini su cui verrà costruita la poetica del mito pavesiana, fondata sulla contrapposizione dialettica tra mito (quindi il simbolo) e il logos (allegoria): Pavese sembra avere un’ assoluta chiarezza della differenza che passa tra i due moduli poetici.

Nel 1949 scriverà: «un simbolo che non investa in sé tutto lo stile di un racconto, che addirittura non risulti neanche dalla punteggiatura o nel ritmo diretto-indiretto del discorso, non è un simbolo ma soltanto un’allegoria, fredda e arbitraria»209.

Nella stesura del saggio Del mito, del simbolo e d’altro, questa acquisizione teorica sarà ancora più matura e definita, andandosi a integrare con il concetto di mito: «Un mito è sempre simbolico; per questo non ha un significato univoco, allegorico»210.

Il 6 novembre 1938 annota nel diario:

Naturalmente (e lo provi nell’Eremita) l’immagine non è necessario instaurarla sul come o equivalenti. L’immagine ti si compone anche (è anzi la sola che conti) quando alludi a un’esperienza diversa che giova a finire la figura o la situazione dandole sfondo. Es: il mare e la folgore. Ma siamo chiari: questi tratti, nei quali senza smettere di narrare prendi campo e ricordi-approfondisci l’esperienza totale, oltre che descrizione fanno simbolo211.

In questo caso Pavese considera le figure simboliche una realtà interiore e segreta del personaggio dell’eremita, ma successivamente egli definirà il simbolo come un legame fantastico tra i vari elementi del racconto, così da formare un’immagine che colora di sé tutto il soggetto:

Il simbolo di cui si parla il 6 nov. ˊ38 (II) e il 4 dic. ˊ38 (i Fioretti), è un legame fantastico che tende una trama sotto al discorso. Si tratta di caposaldi ricorrenti che additano in uno degli elementi materiali del racconto un persistente significato immaginoso (un racconto dentro il racconto) – una realtà segreta, che affiora. Esempio, la «mammella» di Paesi tuoi – vero epiteto, che esprime la realtà sessuale della campagna.

Non più simbolo allegorico, ma simb. Immaginoso – un mezzo di più per esprimere la «fantasia» (il racconto). Di qui, il carattere dinamico di questi simboli [...] Parallelo di questo mezzo, non è tanto l’allegoria quanto

209 C.PAVESE, Raccontare è monotono, in Saggi letterari, cit., p. 306. 210 ID., Del mito, del simbolo e dell’altro, ivi, pp. 271-276.

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l’immagine dantesca. Qui si riassumono molte analisi e molte letture. Il XXIII del Parad. può suggerirti. Tutti quei fenomeni in luce dicono la realtà luminosa del luogo e anche la sua realtà segreta di «foce di tutte le cose create» (fulmine, sole, uccelli, luna, canto, fiori, pietre preziose) 212.

Pavese coglie appieno il significato immaginoso dei simboli e il loro carattere dinamico, poiché questi traducono in immagini di fantasia la realtà segreta delle cose.

Per Pavese l’artista è «l’operaio della fantasia intelligente»213, colui che batte e ribatte sulle parole

per martellarci e comprimerci dentro la vita viva. E, d’altronde, «ciò che dobbiamo al gioco della fantasia – scrive Jung – è incalcolabile, perché la fantasia è il debito inconfessato di ogni conoscenza»214: la nostra coscienza è sempre situata, e come tale può aprirsi al mondo solo da un

punto di vista, attraverso un’unica prospettiva. Proprio a causa di questo limite, le cose sono colte per lati, per adombramenti, che diventano significanti solo se la fantasia li completa e li coordina, portandosi sulla linea di quei rapporti che l’osservazione non vede, ma che può solo supporre215.

Lo stile simbolico sarà l’angolazione privilegiata da cui Pavese costruirà i personaggi dei suoi racconti, dal momento che «i gesti sono simboli della realtà interiore nostra o altrui»216, e proprio questa equiparazione porterà a maturazione le tappe precedenti del travaglio artistico, identificando «le persone del racconto» con le «situazione stilistiche» e le immagini217.

Sarebbe oltremodo azzardato affermare che il superamento del travaglio artistico circa la nozione di immagine-racconto sia stato raggiunto esclusivamente grazie all’apporto delle teorie junghiane sul valore del simbolo.

Certo è che la stesura del saggio A proposito di alcune poesie non ancora scritte, nel quale Pavese dichiara esplicitamente di essere giunto alla soluzione simbolica, avvenne nel febbraio del 1940, proprio nel periodo in cui lesse i primi testi di Jung.

Se non altro si può quindi stabilire una concordanza cronologica e ipotizzare che in quelle pagine egli abbia trovato motivi d’interesse, echi e suggestioni che andavano a confermare quanto già elaborato, alimentando la costruzione della teoria mitica.

Riguardo in particolare proprio agli sviluppi poetici del concetto d’immagine-racconto, è fondamentale per Pavese l’incontro con Lévy-Bruhl, avvenuto nel 1936, attraverso la lettura di Mythologie primitive.

212 Ivi, p. 165. Corsivo dell’autore.

213 ID., Di una nuova letteratura, in Saggi letterari, cit., p. 219. 214 C.G. JUNG, Tipi psicologici, cit., p. 73.

215 Cfr. V. MELCHIORRE, L’immaginazione simbolica, Il Mulino, Bologna 1972. 216 C. Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 196.

217 Ivi, pp. 170-171. 1 gennaio 1940 : «Potrebbe darsi che le situazioni stilistiche fossero le tue immagini-racconto, un presentare cioé delle immagini che non sono la descrizione materiale della realtà ma simboli fantastici cui accade qualcosa, le persone del racconto».

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Lévy-Bruhl era un seguace di Durkheim, sostenitore di una mentalità primitiva di carattere pre-logico.

Il suo nome, nella storia dell’antropologia, rimanda alla contrapposizione tra pensiero primitivo e civilizzato: nei suoi testi Pavese riconosce che l’immagine deriva da un’interpretazione primitiva della realtà.

La poesia consiste allora nell’identità che la mente primitiva istituisce tra due fenomeni, nello «scambio di qualità ed essenza»:

Il libro di Lévy-Bruhl Mythologie primitive lascia supporre che pensando la mentalità primitiva la realtà come scambio continuo di qualità e di essenze, come flusso perenne in cui l’uomo può diventare banano o arco o lupo e viceversa [...] la poesia (immagini) nasce come semplice descrizione di questa realtà (il dio non somiglia al pescecane, ma è pescecane) e come interesse antropocentrico.

Insomma, le immagini (ciò che m’interessa!) non sarebbero gioco espressivo, ma positiva descrizione. Alle origini, s’intende. Quanto all’antropocentrismo, non ne dubitavo218.

E Pavese ritroverà più volte il nome di Lévy-Bruhl all’interno delle pagine de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna: il filosofo francese può essere infatti considerato la fonte antropologica principale di Jung219.

Così come l’antropologo è assertore di un’irriducibile alterità dell’uomo primitivo, anche Jung intraprende un’espolorazione verso gli strati più nascosti della coscienza, attraverso una psicologia definita “arcaica”, ma che investe anche l’uomo moderno civilizzato.

Jung rivendica l’autonomia simbolica dell’inconscio e cita più volte Lévy-Bruhl a proposito di quel fenomeno che egli chiama participation mystique, per cui «fra soggetto e oggetto non esiste affatto quell’assoluta differenza che c’è nel nostro intelletto razionale. Ciò che avviene fuori di lui avviene anche in lui, e ciò che avviene in lui avviene anche fuori di lui»220.

Ma per ciò che concerne l’inesausta ricerca di questa realtà evocativa simbolica, si potrebbe far risalire il problema ancora più a monte, in una soluzione che Pavese sembra aver mutuato dall’enorme influenza che gli scrittori americani ebbero sulla sua prima formazione letteraria, i quali concorrerebbero allo sviluppo dei grandi temi del destino e del selvaggio, contribuendo allo sviluppo teorico della poetica del mito.

218 Ivi, p. 45. Corsivo dell’autore, 219 F. DEI, op. cit., pp. 233-238.

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III.2. Al di là del realismo: l’influsso degli americani

Nel 1951, subito dopo la morte di Pavese, l’ Einaudi affida al giovane Italo Calvino il compito di raccogliere i saggi critici dello scrittore piemontese.

Nella silloge intitolata Letteratura americana e altri saggi viene giustamente sottolineato il peso e l’importanza degli autori americani nella produzione letteraria di Pavese: l’esercizio costante della traduzione portato avanti dallo scrittore piemontese stimolerà una riflessione critica sui vari autori, i quali si situano in una precisa prospettiva della letteratura che egli andava con gli anni elaborando.

Il rapporto tra lo scrittore e la letteratura americana è molto precoce: il 20 giugno 1930 Pavese si laurea in lettere con una tesi dal titolo Interpretazione della poesia di Walt Whitman 221, e già nel

novembre di quell’anno s’impegna a tradurre per Bemporad Our Mr. Wrenn di Sinclair Lewis. Da questo momento in poi l’attività di traduttore dall’inglese andrà avanti fino alla sua morte: nel 1932 traduce Moby Dick di Herman Melville (la prima traduzione in assoluto dell’opera americana in Italia) e Riso nero di Sherwood Anderson; nel 1935, Il 42̊ parallelo di John Dos Passos; nel 1937, sempre di Dos Passos, Un mucchio di quattrini, Uomini e topi di John Steinbeck e L’autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein; tra il 1940 e il 1941 Benito Cereno di Melville e Tre esistenze della Stein; nel 1942 Il borgo di William Faulkner e nel 1948 una scelta di tredici brani tratti da Specimen Days di Whitman.

L’impatto che queste opere tradotte, e la letteratura americana in genere, hanno avuto sull’elaborazione di uno stile pavesiano è stata ampiamente segnalata dalla critica222.

D’altronde, è lo stesso Pavese ad “ammettere la simpatia” nei confronti degli scrittori americani in un articolo del 1946, rispondendo a un’inchiesta della rivista «Aretusa»:

[...] Hanno detto di me che imitavo i narratori americani, Caldwell, Steinbeck, Faulkner, e il sottointeso era che tradivo la società italiana. Si sapeva che avevo tradotto qualcuno di quei libri. Ne avevo anche tradotti, a dire il vero, di altro genere, e anzi un critico una volta si dolse che invece di farmi influire da Joyce o dalla Stein avessi accolto il rozzo magistero dei primi. Dunque, ho fatto una scelta. Dunque ho provato simpatia. Dunque

221 Il Professore Federico Oliviero, specialista degli studi di anglistica, si rifiutò di dirigere una tesi su un poeta

americano. Pavese dovette ripiegare come relatore su Ferdinando Neri, uno dei fondatori della francesistica italiana ma anche insigne comparatista.

222 In particolare Cfr. G. REMIGI, Cesare Pavese e la letteratura americana: una splendida monotonia, Olschki, Firenze 2012. Cfr. anche S. LAWRENCE, Cesare Pavese and America: life, love and literature, University of Massachusetts Press, Amherst 2008.

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c’era in me qualcosa che mi faceva cercare gli americani, e non soltanto una supina accettazione223.

Emerge da queste parole un quadro di una letteratura con cui Pavese non ha mai cessato di fare i conti e di cui ha sempre sentito la seduzione profonda.

Il ruolo di Pavese “americanista” assume un significato fondamentale anche nelle vesti di mediatore culturale entro la temperie ideologica specifica del fascismo.

La politica culturale del regime consistette nell’isolazionismo totale, nella soppressione delle informazioni, nella censura preventiva, nella messa all’indice di tutti gli autori considerati in qualche modo “sospetti”.

È lo stesso Pavese a delineare i contorni di quella stagione che vide lui e altri protagonisti, tra i quali Elio Vittorini ed Emilio Cecchi, venire a contatto per la prima volta con la letteratura d’oltre oceano:

Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere «la speranza del mondo», accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale. [...] Eravamo il paese della risorta romanità dove persino i geometri studiavano il latino, il paese dei guerrieri e dei santi, il paese del Genio per grazia di Dio, e questi nuovi scalzacani, questi mercanti coloniali, questi villani miliardari osavano darci una lezione di gusto facendosi leggere, discutere e ammirare? [...] Per molta gente l’incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e perfino col vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisse coi fasci 224.

Scrive ancora il poeta nel 1946:

[...] il decennio dal ˊ30 al ˊ40, che passerà alla storia della nostra cultura come quello delle traduzioni, non l’abbiamo fatto per ozio né Vittorini né Cecchi né altri. Esso è stato un momento fatale, e proprio nel suo apparente esotismo e ribellismo è pulsata l’unica vena vitale della nostra

223 C. PAVESE, L’influsso degli eventi, in Saggi letterari, cit., pp. 222-223. 224 ID., Ieri e oggi, ivi, p. 173.

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recente cultura poetica. L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata – bisognava scuoterla, decongestionarla e riesplorarla a tutti i venti primaverili dell’Europa e del mondo. [...] Noi scoprimmo l’Italia – questo è il punto – cercando gli uomini e le parole in America [...] 225.

Si è spesso parlato, in relazione a Pavese, di un “mito americano”, un «mito positivo»226 che

coinvolse tutti, in contrasto a quello negativo imposto dalla dittatura.

Il mito americano acquista così una funzione d’ordine sociale e positiva: esso rappresenta l’alternativa democratica al fascismo, la speranza e il bisogno di un umanesimo alternativo sia a quello europeo decadente che a quello italiano, ormai inquinato nel fascismo.

Scrive a questo proposito Armanda Guiducci:

Per Vittorini e per Pavese gli americani furono «i primi contemporanei» – le figure esemplari, gli interpreti di una società in gestazione, presa nel travaglio di elaborare e sperimentare, dell’osare e del creare. Furono, in poche parole, i contemporanei vivi, i portatori di un moto che in Europa mancava.[...] Furono tali perché gli americani furono realmente tali negli anni dal 1933 fino alla soglia della seconda guerra, trascinati dal moto rooseveltiano, un intero popolo in movimento, intellettuali e tecnici impegnati al meglio di sé, concordemente, nel lavoro delle riforme economiche e sociali promosse da Roosevelt 227.

E in effetti a Pavese sembrò che in America venisse rappresentata in anteprima un umanesimo di nuovo genere, consistente in una modernità sconcertante. Egli lo ammise molti anni più tardi, a guerra conclusa, quando affermò che l’America era stata per lui «il gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva rappresentato il dramma di tutti»228.

La cultura americana mostrò allo scrittore «una lotta accanita, consapevole, incessante, per dare un senso, un nome, un ordine alle nuove realtà e ai nuovi istinti della vita individuale e associata, per adeguare a un mondo vertiginosamente trasformato gli antichi sensi e le antiche parole dell’uomo»229.

225 ID., L’influsso degli eventi, ivi, p. 223. 226 Cfr. A. GUIDUCCI, op. cit., p. 167. 227 Ivi, p. 168.

228 C. PAVESE, Ieri e oggi, in Saggi letterari, cit., p. 174. 229 Ibid.

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Sarà il tema del “selvaggio”, elemento chiave nell’universo poetico pavesiano, a prendere inizialmente avvio dal contatto proprio con la letteratura americana230.

La wilderness presenta quindi uno sviluppo diacronico: dapprima è individuato nel popolo americano «che ancora gode di un’esperienza tutta segnata dalla verginità, dalla ferocia, dalla schiettezza e dal calore»231, nell’”uomo all’aperto” teorizzato da Whitman, il cui comportamento si

adegua alle stagioni, al sole di giorno e alle stelle di notte.

Esiste un vecchio cliché tanto caro alla critica pavesiana che vuole un Cesare Pavese tutto intriso di oggettivismo e realismo, influenzato in questo senso dal vitalismo caratteristico di Walt Whitman. Certamente, più che sulla novità delle soluzioni metriche e sulla forza elencativa della poesia whitmaniana, fu decisivo l’incontro con lo spirito profondo e rivoluzionario dei versi di Whitman e, non a caso, già nel 1958 Nemi D’Agostino parlò di «presenza»232, in senso forte, del bardo americano nel mondo poetico di Pavese.

La raccolta Leaves of grass di Whitman è il frutto di una tensione continua alla trasposizione simbolica dell’esperienza: per il poeta americano ogni parola ha un valore “simbolico” in quanto rimanda al nucleo lirico centrale, espressione di una gioia di scoprire le cose con una primitiva ingenuità.

Pavese ebbe fin da subito chiara questo tipo d’impostazione, allorché, in un articolo a proposito dell’opera critica Rinascimento americano di Matthiensen, scrisse:

Indirection è quel modo per cui lo scrittore non sarà né descrittivo né epico,

bensì trascendente [...] con altre parole, simbolico. Giacché il nuovo simbolismo di Whitman e della sua generazione consisté proprio in questo: non le ambiziose strutture allegoriche d’intreccio e d’impostazione [...] ma una diversa realtà verbale, una sorta di doppia vista per cui dal singolo oggetto dai sensi avidamente assorbito e posseduto irradia come un alone d’inattesa spiritualità 233

.

Qua vengono riprese le differenze dei due moduli poetici del simbolo e dell’allegoria, da cui derivò la volontà, da parte di Pavese, di abbandonare ogni residuo narrativo per l’evocazione di «una realtà non naturalistica ma simbolica»234.

230 Cfr. H.D. THOREAU, Il manifesto del pensiero selvaggio, in Camminare, Mondadori, Milano 2009. 231 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 170.

232 Cfr. N. D’AGOSTINO, Pavese e l’America, «Studi americani», n. 4, 1958, pp. 399-413. 233 C. PAVESE, Maturità americana, in Saggi letterari, cit., p. 166.

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Proprio la lettura di Rinascimento americano, avvenuta nel 1946, rappresentò per Pavese una conferma della strada poetica che aveva intrapreso fino ad allora, cioé quella di un realismo e di un simbolismo intrecciati, a conferma di una doppia natura dell’esistenza.

L’idea dell’indirection, espressione usata inizialmente dal filosofo americano Ralph Waldo Emerson, sta ad indicare il poeta che cerca di guardare alle cose «con l’angolo meno usato dell’occhio»235, in una continua tensione ad assicurarsi simbolicamente una doppia vista sulla realtà.

L’analisi di Matthiessen riguarda autori legati all’idealismo e trascendentalismo americano risalente alle origini religiose puritane della nazione: dietro ai grandi autori come Whitman, Melville, Thoreau, Hawthorne, si nascondono i problemi del destino, del peccato, della colpa, l’ossessione puritana del “Male”.

Secondo la Guiducci non è casuale che «in questa discesa alle “caverne” di un cuore dominato dal potere delle tenebre, Pavese abbia ritrovato tanto di se stesso, del proprio modo di sentire e di credere alla poesia»236.

Il dramma personale che Pavese andrà elaborando nella costruzione della teoria del mito si riflette, ad esempio, in una figura come Edgard Lee Masters: nelle sue poesie la vita viene concepita come una selva di simboli che vengono riportati ad un nucleo vitale condizionante il senso della propria esistenza, e che Pavese in anni più avanti definirà con l’espressione «attimo estatico»237; ognuno dei personaggi di Lee Masters, ci dice Pavese, «porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua [...] Ciascuno di noi possiede una ricchezza di queste cose, fatti, gesti, che sono i simboli del suo destino [...]»238.

Pavese poté scoprire, ad esempio, riflessa nel componimento intitolato Jonathan Houghton, il tema della dolorosa vanità di un ritorno impossibile che sarà portato a compimento nel suo ultimo romanzo La luna e i falò.

In questa poesia il termine inglese «The Hill» verrà scritto con la lettera maiuscola, ad indicarne l’esplicito valore simbolico. Scrive a questo proposito Patrizia Lorenzi Davitti: «all’ansia di vivere, di conoscere, di raggiungere la ripeness dell’adolescente subentrerà la delusione dell’adulto che al ritorno non ritrova né i volti né i luoghi d’infanzia e si scopre a desiderare quella realtà passata che ormai può rivivere solo nel ricordo o nel rimpianto di un’immagine unica e assoluta (“The Hill”)»239:

235 A. GUIDUCCI, op. cit., p. 221. 236 Ibid.

237 C. PAVESE, I morti di Spoon River, in Saggi letterari, cit., p. 67. 238 Ibid.

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There is the caw of a cow, And the hesitant song of a thrush. There is the tinkle of a cowbell far away, And the voice of a plowman on Shipley’s hill. The forest beyond the orchard is still

With midsummer stillness;

And along the road a wagon chuckles, Loaded with corn, going to Atterbury. And an old man sits under a tree asleep, And an old woman crosses the road,

Coming from the orchard with a bucket of blackberries. And a boy lies in the grass

Near the feet of the old man, And looks up at the sailing clouds, And longs, and longs, and longs, For what, he knows not:

For manhood, for life, for the unknown world! Then thirty years passed,

And the boy returned worn out by life And the forest gone,

And the house made over,

And the roadway filled with dust from automobiles – And himself desiring The Hill! 240.

Ma per ciò che riguarda più specificamente il tema del destino, la maturazione della poetica pavesiana in direzione mitica scaturisce in gran parte dal messaggio melvilliano241.

Sono numerosi i passi di Moby Dick in cui Melville passa in rassegna il tema del destino e di una certa illusione del libero arbitrio: il colloquio tra il capitano Achab e Starbuck riconferma, ad esempio, l’impossibilità di mutare i propri piani, poiché tutto sembra essere già stato deciso milioni di anni prima242.

Pavese svilupperà ne La luna e i falò il motivo del destino legato alla figura dell’orfano, attraverso il protagonista che ritorna nei luoghi dell’infanzia per conoscere il segreto della propria nascita e quindi capirne il destino. La meta da raggiungere è la tanto agognata Ripeness, la maturità.

240 E. LEE MASTERS, Antologia di Spoon River, F. Pivano(a cura di), Einaudi, Torino 2009, p. 340. trad. it. a cura di Fernanda Pivano: «Il gracchiare di una cornacchia / e il canto esitante del tordo. / Il tinnire di un campano laggiù, / e la voce di un aratore sulla collina di Shipley. / La foresta di là dal frutteto è calma / della calma della mezza estate; / e lungo la strada chioccola un carro / carico di grano, che va da Atterbury. / Un vecchio siede sotto un albero e dorme, / e una vecchia attraversa la strada, / di ritorno dal frutteto, con una secchia di more. / E un ragazzo giace nell’erba / accanto ai piedi del vecchio / e guarda le nuvole veleggianti, / e desidera, desidera, desidera, / che cosa, non sa: / la virilità, la vita, il mondo ignoto! / Poi passarono trent’anni / e il ragazzo ritornò spossato dalla vita / e trovò il frutteto svanito / e la foresta scomparsa / e la casa data via / e la strada coperta di polvere delle automobili / e se stesso desiderare la collina!».

241 Cfr. N. ARRIGO, Mito ed ermeneutica nella poetica pavesiana, «Rivista di studi italiani», anno XXV, n. 2, Dicembre 2007, pp. 59-79.

242 Cfr. H. MELVILLE, Moby Dick, Garzanti, Milano 2011, p. 420. :«Per gli dei, marinaio, noi siamo fatti girare e girare questo mondo come quel verricelio, e il Destino è l’aspa».

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L’influenza melvilliana è evidente: il protagonista del romanzo, Anguilla, è un trovatello proprio come Ismaele di Moby Dick.

E con l’opera di Melville ritorna nuovamente la dialettica tra mito e logos, la cifra più caratteristica della poetica pavesiana, costantemente impegnata nel tentativo di esprimere l’indicibile.

L’essenza vera e propria del Moby Dick di Melville è infatti la dimensione complementare tra una dimensione allegorica e una simbolica. L’interpretazione, in questo senso, del romanzo americano, ha indirizzato Pavese a una progessiva messa a fuoco di una poetica che risulti come la ricerca di equilibrio tra la componente mitica, legata al simbolo, e quella razionale, propria del logos.

Subito dopo aver tradotto il romanzo, nel 1932, Pavese scrive un primo saggio su Melville intitolato Il baleniere letterato, in cui il poeta coglie con grande sensibilità critica il valore centrale che assume la figura della balena e, soprattutto, riconosce nell’opera di Melville una sintesi mirabile tra razionale e trascendente: «Ciò che resta mistero in Moby Dick – scrive Pavese – [...] deve restare un mistero e tale è [...] e per questo Moby Dick è un’opera grande. Tutti gli altri libri di Melville [...] falliscono più o meno per questo. Si potrebbe dire: in essi il razionale uccide il trascendente» 243. Secondo Patrizia Lorenzi Davitti, si tratta della stessa teoria del’arte pavesiana più completa e matura: cioè «un miracoloso equilibrio tra razionale e irrazionale, coscienza attiva che porta alla luce, fa storia, tramite la parola ordinatrice, quella realtà mitica, che è al fondo del poeta e ne costituisce potenzialmente un’immensa e feconda riserva di poesia»244.

Nel 1941 esce per Frasinelli la seconda edizione riveduta di Moby Dick in cui Pavese, rispetto alla prima del `32, aggiunge una nuova prefazione. Subito dopo averla sistemata nella Letteratura americana e altri saggi, Calvino la intitolerà, non a caso, Miti e simboli in Moby Dick, a conferma degli interessi teorici dell’autore che in quegli anni stava elaborarando la poetica del mito.

Qui Pavese porta allo scoperto l’idea del concetto di centro strutturale dell’opera, indentificandolo con il mito: da questo centro irradiatore scaturisce un fraseggio che è «vibrante di risonanze, di echi, di sfondi, così come il mito è una pregnante creazione che contempera successive sfere spirituali»245; alla balena è riconosciuta una funzione “mitica” e in quanto tale passibile di varie significati simbolici, indicando in essa il centro strutturale a cui tutte le vicende si apportano.

I fermenti più mitici e più irrazionali assumono il significato di simboli della coscienza, come li chiama Pavese, parti di «una totalitaria realtà fantastica», cioé il centro “mitico” ispiratore, quel nucleo che svolge una funzione coordinatrice.

Il mito è dunque un filo rosso all’interno della poetica pavesiana, indicando una produzione segnata dalla circolarità che si alimenta e vive del ritorno costante delle tematiche.

243 C. PAVESE, Il baleniere letterato, in Saggi letterari, cit., p. 79. 244 P. LORENZI DAVITTI, op. cit., p. 97.

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Seguendo questa impostazione è possibile facilmente prendere le distanze da tante interpretazioni critiche, anche in chiave ideologica, che hanno ostinatamente “confinato” Cesare Pavese nella angustie del realismo. Per quanto riguarda un certo neorealismo, fu lo stesso Pavese in persona ad esternare i primi malumori in un’intervista alla radio nel giugno del 1950:

[...] Chiedo scusa ma, quando mi si descrive come uno che sarebbe passato dall’americanismo al neo-realismo polemico e poi addirittura al regionalismo nostrano, io confesso di non capire. [...] Nessuno dei miei critici vuole credere che il mio racconto Carcere sia stato scritto, nella forma in cui compare nel volume Prima che il gallo canti, nel 1939 – e ciò perché col suo stile tutto evocativo e fantastico minaccia di rovinare la teoria ch’io abbia cominciato proprio in quell’anno col neo-realismo all’americana. Ciò è semplicistico, e del resto nella carriera letteraria che mi si traccia non troverebbero posto libri come Feria d’agosto o i Dialoghi con Leucò [...] 246.

Lo scrittore può essere considerato oggi a tutti gli effetti un outsider247, un fuori posto che

rifugge ad ogni tipo di rigida classificazione, una «personalità scomoda e complessa»248.

Il 14 dicembre del 1939 Pavese annota nel diario: «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo»249.

Da questa impostazione nasce quel “realismo simbolico”, la nota dominante di tutta la sua produzione artistica: un realismo che certamente lo scrittore ritiene di aver derivato dagli americani, e su queste basi egli «impianterà la propria tecnica narrativa, tutta volta a dare spessore realistico al metafisico»250.

In conclusione, si può riprendere un’affascinante provocazione lanciata da Patrizia Lorenzi Davitti: secondo il critico Matthiessen, infatti, nella poesia There was a child went fourth, Walt Whitman arrivò all’intuizione del mito, per cui «l’infanzia di un essere umano ricapitola l’infanzia della razza», e l’autrice si chiede allora, senza pretendere di risolvere tale quesito, se Pavese colse già nella testimonianza whitmaniana tale messaggio, che poté influire in qualche modo su di lui prima ancora dell’esplorazione etnologica e dello studio, in particolare, di Thomas Mann, Carl Jung e Károly Kerényi251.

246 ID., Intervista alla radio, ivi, pp. 264-265.

247 Cfr. T. PARKS, The outsider art, in The New York Review of Books, Vol. 50, n. 17, 6 nov. 2003. 248 M. DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ, Introduzione a Pavese, Laterza, Bari 1992, p. 188.

249 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 166. 250 M. DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ, op. cit., p. 51.

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IV.2. Organizzazione dei primi nuclei mitici in Lavorare stanca

Si è visto come per Pavese la pratica di scrittura richieda un “discorso fondatore” atto a fungere da archéion della creazione poetica e a scoprirne il senso: negli anni delle riflessioni sulle poesie, il termine “mito” indicherà «quella parte della poesia vicina al fondo prepoetico. L’operazione critica di mettere a fuoco il mito di un testo o di una raccolta consiste dunque nel formulare delle ipotesi, da un punto di vista retrospettivo, sul significato essenziale e ultimo del testo letterario in cui sia riconoscibile la cifra della sua orgine prepoetica»252.

Elio Gioanola sottolinea giustamente come il movimento univoco in tutta l’opera pavesiana sia questo eterno voltarsi indietro «a misurare continuamente il da farsi sul già fatto, a scoprire che le nuove invenzioni non sono che dispiegamento del da sempre implicito: per questo Pavese continuò sempre a dire che il suo libro fondamentale era Lavorare stanca, proprio perché sapeva che là c’era già tutto» 253.

Nell’ipotetica disposizione lungo un arco cronologico della produzione letteraria di Cesare Pavese, si potrebbero indviduare al suo interno due fasi fondamentali: quella della poesia, che risale agli anni Trenta, e l’altra, negli anni Quaranta, incentrata sulla produzione narrativa.

Non si trattano però di due momenti rigidamente distinti: la poesia tornerà infatti nell’ultimo scorcio degli anni Quaranta con la raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; e allo stesso modo il decennio precedente è contraddistinto da un’incessante ricerca narrativa che fa da preparazione alla stagione successiva.

A partire dalla prima stagione poetica, infatti, lo scrittore comincia a tessere una particolare articolazione concettuale per coppie dialettiche su cui si fonda il meccanismo centrale del pensiero pavesiano e che, secondo Giovanni Cillo, riconduce la poetica del mito proprio alla graduale presa di coscienza di questo meccanismo di base 254.

Successivamente Pavese sistemerà concettualmente le coppie complementari della città / campagna, mito / logos, infanzia / maturità, inconscio / coscienza.

Tra questi nuclei semantici c’è una forte complementarietà, per cui ogni termine in qualche modo alimenta l’altro: si verifica cioè un trend «volto a spostare l’antinomia di significati dentro il medesimo significante, che si trova così sottoposta a un’intima tensione»255.

L’ambivalenza carica di duplici significati è una cifra significativa del mondo interiore di Pavese, e sembra esserne consapevole egli stesso quando, nel 1943, annota nel diario: «La tua idea

252 B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto, cit., p. 107. 253 E. GIOANOLA, op. cit., p. 177.

254 Cfr. G. CILLO, La distruzione dei miti. Saggio sulla poetica di Cesare Pavese, Vallecchi, Firenze 1972. 255 A. SICHERA, Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, Olschki, Firenze 2015, p. 38.

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dell’ambivalenza (avarizia-prodigalità, pigrizia-attività, amore-odio, ecc.) rischia di diventare una legge di tutta la vita: la stessa energia che fa un effetto si corregge nell’effetto opposto»256.

In Lavorare stanca si possono individuare questi elementi costitutivi primari dell’universo mitico pavesiano che puntellano l’intero tessuto poetico della raccolta.

L’opera esce nel 1936 a Firenze presso le edizioni di «Solaria», mentre Pavese si trovava al confino di Brancaleone Calabro. Una seconda edizione della stessa raccolta, arricchita delle poesie censurate nel 1936 e di altre composte successivamente, appare nel 1943 per l’Einaudi.

Italo Calvino ha ricordato che la fascetta per questa nuova edizione ampliata, dettata dallo stesso Pavese, recava le seguenti parole: «Una delle voci più isolate della poesia contemporanea»257. Questo isolamento, nei riguardi della contemporanea lirica ermetica e relativa critica, è senza dubbio accertabile.

Già nel 1936, in pieno periodo ermetico, il gusto dominante era quello di una concezione della poesia come espressione di sentimenti e immagini in un linguaggio “chiuso”, astratto, lontano da ogni contatto con la realtà. Pavese evita invece qualsiasi sfogo di tipo lirico-soggettivo e la sua prima raccolta si pone come un esempio davvero controcorrente di poesia che sarà definita “poesia-racconto”.

Un repertorio poetico così atipico comporta una nuova sperimentazione anche dal punto di vista metrico: Pavese utilizzerà un verso molto cadenzato di tredici o sedici sillabe, in una soluzione estremamente personale e innovativa, cercando di liberarsi dal metro tradizionale, senza però adottare un vero e proprio verso libero alla maniera di Walt Whitman. Scrive a riguardo il poeta:

Mi ero altresí creato un verso. Il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza che esso usa pretendere sulla fantasia. Sul verso libero whitmaniano, che invece molto ammiravo e temevo, ho detto altrove la mia e comunque già confusamente presentivo quanto di oratorio si richieda a un’ispirazione per dargli vita. Mi mancava insieme il fiato e il temperamento per servirmene. Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel di tanto trito e di gratuitamente (così mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé. [...] Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugulare certa tiritera di parole (che fu poi un distico dei Mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo

256 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 271. Corsivo dell’autore. 257 M. GUGLIELMINETTI, Introduzione, in Lavorare stanca, cit., p. V.

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sognare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. [...] Ritmavo le mie poesie mugolando.258

E in effetti l’utilizzo di versi lunghi cadenzati e l’uso di immagini o epiteti volti a costruire una dimensione ancestrale, ctonia, conferiscono all’intera raccolta un senso latamente mitico.

Ciò è ben evidente nella poesia I mari del sud, collocata in apertura di entrambe le edizioni dell’opera, sottolineandone il valore paradigmatico.

In questo testo l’io poetante si pone al seguito di un cugino:

«Camminiamo una sera sul fianco di un colle / in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo»259. Il cugino viene rappresentato attraverso una figura ingigantita, avvolto nell’ alone mitico di un eroe ideale, aperto al mondo, pragmatico, che si è realizzato nella vita partendo verso terre lontane: «mio cugino è un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno»260.

Il dialogo tra i due assume un significato particolare, connotato di una valenza quasi sacra, come se si trattasse di un’ascesa iniziatica. E questo dialogo è caratterizzato dal verbo «parlare», in contrapposizione al silenzio dei versi iniziali che caratterizza i due protagonisti e tutti i loro antenati:

«Tacere è la nostra virtù. / Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo / - un grand’uomo tra idioti o un povero folle - / per insegnare ai suoi tanto silenzio. / Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto / se salivo con lui: dalla vetta si scorge / nelle notti serene il riflesso del faro / lontano, di Torino»261.

All’evento della passeggiata, narrato nel presente, si contrappongono successivamente i racconti e le gesta del cugino: la raffigurazione in chiave eroica di quest’ultimo è dovuta al fatto che egli è stato il protagonista dei racconti d’infanzia del nipote:

«Vent’anni è stato in giro per il mondo. / Se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne / e lo dissero morto. / Sentii poi parlarne / da donne, come in favola, talvolta;»262.

Il coraggioso cugino era partito verso il grande Oceano, a caccia di perle e di balene, ed era stato capace di un impensabile ritorno nella terra natale:

«Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino / con un gran francobollo verdastro di navi in un porto / e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore , / ma il bambino cresciuto spiegò avidamente / che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania / circondata da un mare più azzurro,

258 C. PAVESE, Il mestiere di poeta, ivi, p. 109. 259 ID., I mari del sud, ivi, cit., v. 1.

260 Ibid., vv. 3-5. 261 Ibid., vv. 5- 11. 262 Ibid., vv. 24-27.

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feroce di squali, / nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che di certo / il cugino pescava le perle»263.

«Solo un sogno / gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta / da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo, / e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, / ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue / e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia»264.

A più riprese viene inoltre messo in evidenza il legame tra il cugino e la sua terra, un legame che sembra essere rimasto intatto nonostante la sua lunga assenza.

Mentre i due salgono assieme sulla vetta del colle, il cugino dice al suo giovane interlocutore che la vita va vissuta lontano dal paese, immersi nelle avventure del mondo. Poi, però, si torna, e nonostante ogni cosa sia mutata ci si rende conto che le radici rimangono ben salde:

« “Tu che abiti a Torino..” / mi ha detto “...ma hai ragione. La vita va vissuta / lontano dal paese: si profitta e si gode / e poi, quando si torna, come me, a quarant’anni, / si trova tutto nuovo. Le langhe non si perdono”»265.

È proprio sul dinamismo partenza / ritorno che si gioca il senso de I mari del sud, sebbene il tema del mitico ritorno al paese originario sia precocemente rasentato e avrà bisogno di indagini e altre riflessioni affinché possa assumere finalmente la forma ultima dei romanzi pavesiani più maturi.

Ma in Lavorare stanca si possono già ampiamente scorgere i meccanismi in nuce dell’universo poetico dell’autore: basterebbe infatti prendere questa prima poesia di apertura e l’ultimo componimento, intitolato Paesaggio, in cui un ragazzo, dopo aver viaggiato per il mondo ed essere passato attraverso le esperienze più dure, torna a respirare l’aria dei propri luoghi.

In conclusione del poema, e di tutta la raccolta, all’ultimo verso si legge: «Val la pena tornare, magari diverso»266.

Tutto l’itinerario della produzione di Pavese può leggersi nella prospettiva di una storia della formazione: Antonio Sichera mette in risalto come «dai movimentati racconti giovanili alla drammatica ricerca di Anguilla, infatti, ciò che conta per i personaggi di Pavese è essere “qualcuno” nel mondo, trovare una collocazione dentro le vicende della propria esistenza e della storia più grande, pervenire ad un sapere stabile sopra di sé e sopra le cose, diventare uomini»267.

Da qui si può cogliere in pieno il valore e la portata delle coppie antinomiche che ne fanno da nucleo portante: il contrasto città / campagna, ragazzo / adulto, uomo / donna, paternità / maternità, ozio / lavoro. 263 Ibid., vv. 29-36. 264 Ibid., vv. 93-98. 265 Ibid., vv. 12-16. 266ID., Paesaggio, ivi, v. 28. 267 A. SICHERA, op. cit., p. 39.

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