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CAPITOLO 2: LA FABBRICAZIONE DELLA CARTA A MANO

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CAPITOLO 2: LA FABBRICAZIONE DELLA CARTA A MANO

Come e quando l’attività cartaria sia stata introdotta in Italia è ancora oggetto di ricerche. Le uniche attestazioni certe che si possiedono risalgono al XIII secolo. In un atto notarile rogato a Genova nel 1235 due liguri, proprietari di cartiere, uno dei quali lucchese, assumono un cartaio per i loro opifici. Di venti anni più tardi, 1255 ca., è un atto notarile con il quale un cartaio genovese e uno di Milano costituiscono una società per avviare la produzione di carta in territorio milanese. Ma, come si diceva in precedenza, dalla fine dell’ XI secolo la carta era molto probabilmente già presente nel meridione della penisola, in Sicilia, dove sembra fosse attiva almeno una cartiera araba nei dintorni di Palermo. Certamente la carta siciliana, come pure la spagnola, era “carta araba”, prodotta cioè secondo l’uso arabo, con collatura a base d’amido, adatta a paesi dal clima caldo e asciutto, quali quelli arabi. Ma la collatura a base di amido era poco adatta ai climi più temperati e umidi quale quello del centro-nord Italia in quanto l’umidità favoriva la fermentazione dell’amido e l’insorgere di processi degenerativi della carta, tanto che, per atti importanti, era obbligatorio servirsi della più duratura pergamena, seppure più costosa.1 A tal proposito riportiamo due precisi divieti sull’impiego della carta emanati nel XIII sec.:2,3

Si imponeva, quindi, una svolta attraverso l’introduzione di elementi capaci di migliori risultati. Purtroppo questo arco di tempo che si pone tra il respinto sistema arabo e i nuovi procedimenti che fecero cadere il divieto dell’uso della carta (periodo che

1 P. Rückert. La memoria della carta e delle filigrane dal medioevo al seicento. Landesarchiv

Baden-Württemberg, Hauptstaatsarchiv, Stoccarda, 2007. pp. 18-19

2 C. E. Rusconi. Carta. Milano, S.p.a Amilcare Pizzi, 1955. pp. 29-34 3

A. Annesi. La nobile arte di fabbricare la carta. Roma, Istituto Romano di Arti grafiche Tumminelli, 1969, pp.11-13

“Constitutiones regni Siciliae”, tit.63, decreto promulgato da Federico II di Hoenstaufen nel 1231 ove si prescriveva: “ volumus ut instrumenta…non nisi in pergamena conscribantur. Ex instrumentis in chartis scriptis nulla omnino probatio assumatur”

“Statuti del Comune di Padova dal sec.XII all’anno 1285” ove si stabiliva:

“ instrumentum factum in carta banbacinanon valeat nec fides adhibeatur eidem”

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potremmo chiamare arabo-italico), è oltremodo oscuro in quanto manca ogni tipo di documentazione. Allo stato attuale, infatti, non si hanno notizie sul suo inizio ma se ne conosce invece la fine, che si può collocare intorno alla metà del XIII sec. dato che, le carte riconducibili a tale epoca, hanno caratteristiche diverse rispetto a quelle precedenti. Fu l'ingegno dei cartai di Fabriano a permettere di sviluppare procedimenti di produzione della carta che le permisero di divenire resistente all’usura del tempo e di ottima qualità, tanto da diventare il materiale principale per la scrittura, soppiantando la pergamena, più costosa e difficile da reperire nelle quantità necessarie.4 In questa

cittadina, situata a ridosso dell’Appennino marchigiano, l’industria cartaria divenne fiorente già dalla seconda metà del XIII sec. Le innovazioni introdotte a Fabriano permisero a questa cartiera di creare un prodotto di alta qualità, un prodotto che le garantì per molto tempo un grande successo e le permise di imporsi sulle altre cartiere non solo a livello nazionale ma anche estero. Tra le innovazioni principali vanno annoverate: 1) introduzione di un nuovo sistema di sfibratura che consentì di produrre impasti meno grossolani e quindi carte più sottili e di conseguenza più economiche. Furono, infatti, i cartai fabrianesi ad adottare i “magli” per la sfibratura dello straccio, in luogo dei mezzi più grossolani dei quali si valevano gli arabi; 2) introduzione di un nuovo metodo di collatura. La gelatina animale, ottenuta dall’ ebollizione dei cascami delle pelli ovine e caprine, sostituì la colla d’amido usata dagli arabi, che, come dicevamo precedentemente, provocava la formazione di muffe e favoriva processi degenerativi dei supporti; 3) introduzione del marchio di fabbrica, la filigrana5. Altre

innovazioni tecniche furono l’uso della calce, la razionale distribuzione del lavoro, l’utilizzo economico della manodopera, gli impianti studiati secondo la logica del ciclo di lavorazione. In una sola parola maggiore produttività dovuta anche all’impiego di personale femminile per tutti quei lavori accessori in cui la donna appariva più idonea dell’uomo, in particolare, come vedremo, per la cernita, la stenditura, la lisciatura. Furono, inoltre, sempre i cartai fabrianesi a costruire i piani delle forme da carta anziché con lamelle o grossi fili metallici in ottone, con fili sempre in ottone ma più sottili. Fu, dunque, la cartiera di Fabriano a dare il via ad un’industria che si diffuse rapidamente a Bologna, Genova, Amalfi, Firenze, Voltri, Salò, Treviso, per tornare poi nelle Marche a Macerata, Pioraco e Foligno ed infine spingersi più tardi verso il Lazio e la Campania e dopo il XVIII sec. in molte altre province d’Italia e poi da li, come abbiamo visto, in tutta Europa.6

4

G. Derenzini. La produzione della carta a Fabriano agli inizi del 1400 in Contributi italiani alla diffusione della carta in occidente. Fabriano, Pia Università dei cartai, 1990, pp. 7-9.

5 G. Castagnari. Carta e cartiere nelle Marche e nell’Umbria dalle manifatture medievali all’industrializzazione. Fabriano, Pia Università dei cartai, 2010. pp.10-12.

6

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2.1

Processi di fabbricazione della carta a mano

Ancora sul finire del 1700 la fabbricazione della carta nel mondo, sebbene già largamente meccanizzata, non aveva mutato sostanzialmente le sue tecniche rispetto ai procedimenti di sedici secoli prima. Cinesi, arabi, spagnoli, italiani avevano sperimentato che con impasti di paglia, fieno, lino e di molti altri vegetali, era possibile fabbricare carta, più o meno buona, più o meno adatta per la scrittura a mano o a stampa, per avvolgere pacchi o per parati e addobbi, ma, comunque, carta. Avevano anche appreso che per fabbricare un buon prodotto la materia prima più adatta erano gli stracci, in particolar modo quelli di lino, canapa e cotone. L’industria europea fu, quindi, impostata sulla base della materia prima apparentemente meno significativa: i residui delle stoffe. Lo straccio ebbe così una tale importanza che in molti casi si giunse ad una privativa statale; tutti i cenciaioli o straccivendoli, ovvero tutti i raccoglitori e venditori ambulanti di stracci, erano, infatti, tenuti a portare in un pubblico magazzino quanto veniva da essi raccolto nelle varie città e i cartai erano obbligati a rifornirsi presso i magazzini statali. Quando non esisteva privativa, la raccolta veniva data in appalto; anche l’appaltatore, però, era tenuto a raccogliere tutti i cenci che riusciva ad accaparrarsi con la sua capillare organizzazione in un apposito magazzino e a tenere un libro di carico e scarico. Inizialmente la raccolta e la consegna non presentò particolari difficoltà; il cenciaiolo si limitava a sottoporre il cencio ad una sommaria pulizia e ad effettuare la consegna alla rinfusa. Successivamente, però, i magazzini, sia quelli pubblici che quelli degli appaltatori, richiesero che fossero selezionati per qualità e per colore, bianchi o colorati, e che fossero raccolti in balle da un migliaio. E, a balle da migliaia, venivano ritirate dalle cartiere. L’esportazione era in genere proibita, salvo che non fosse stato assicurato tutto il fabbisogno delle cartiere dello Stato. Come esempio si riporta una parte del memoriale ai Capi della Compagnia della Stampa di Torino del 6 Marzo 1573, 7 nel quale veniva esposta la necessità che:

Oppure ancora le leggi del 6 agosto 1667 e del 6 settembre 1681,7 da cui apprendiamo che il Governatore di Parma faceva divieto a chiunque, cittadino o forestiero, di esportare o far esportare senza licenza dallo Stato:

7

C. E. Rusconi. Carta…, cit. pp. 49-50.

“si serrino le strazze e se ne proibisca l’estrazione dal paese sotto pena della confiscazione d’esse acciocchè per difetto d’esse non s’habbi disagio di carta”

(4)

Ma spesso queste norme venivano eluse: poco funzionavano i libri di carico e scarico e ancor meno gli uffici doganali i quali facevano liberamente entrare ed uscire merce che in teoria era, invece, soggetta ai più severi controlli. Anche le cartiere, dal canto loro, non esitavano a dar vita ad una raccolta diretta quando erano a corto di materia prima. Gli stessi operai erano, per assicurarsi il lavoro e magari qualche margine di guadagno, i primi complici dell’imprenditore in questa violazione della legge. L’Europa, che in tanti secoli di storia ha conosciuto il mercato nero di tutto ciò che si fabbrica non poteva, d’altro canto, non aver fatto l’esperienza del mercato nero degli stracci.

[…] La materia come primo scopo d’ogn’arte deve essere considerata con diligente attenzione, affine di poterle adattare quella forma più conveniente, che si propone. Quantunque la carta si possa formare di urtiche, di fieno, di pastinache, di foglie d’alberi, o di tutt’altra materia, che sia fibrosa, ognuno però sa, che la carta principalmente è fatta tra noi cogli stracci della tela di lino o canape sbattuti in una polpa e formati e gittati in fogli quadri della misura che si vuole. Perciò i raccoglitori de’ stracci, che vanno comprando per le città dello Stato devono tutti portarli al pubblico magazzeno dove vengono accumulati in massa acciocchè i lavoratori delle cartiere restino egualmente provveduti secondo il bisogno nella quantità e qualità di tale materia […] 8

Come veniva, dunque, fabbricata la carta a mano? Il procedimento era composto da due momenti principali: in primo luogo, bisognava dissociare le fibre vegetali di cui era fatto il tessuto. In seguito, queste fibre, trasformate in polpa, venivano nuovamente aggregate per formare una nuova superficie. Ognuno di questi momenti era caratterizzato da specifiche fasi di lavorazione che andremo adesso ad analizzare singolarmente.

LA CERNITA

Nelle cartiere, anche quando si era avuta una prima selezione in fase di raccolta o di stoccaggio presso i magazzini, i cenci, tirati fuori dalle loro balle già suddivisi per qualità e colori, venivano ripartiti in tre gruppi: “fini”, “mediani” e “infimi”, secondo che il cartaio, anche in relazione al tipo di carta che voleva produrre, li giudicasse fini, mediani o infimi. E non erano poche le lamentele per la cattiva qualità dei cenci che i

8

A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte del fabbricare la carta dedotte da vari autori dell’Accademia R. delle Scienze in Documenti sulle arti del libro. Milano, Edizioni il Polifilo 1962, p. 29.

“quantità alcuna che sia di strazze, colla e altre cose pertinenti e habili al fabricar le carte sotto pena di confisca del carico e del mezzo di trasporto […] se in più il contravventore risulta forestiero oltre alla confisca subisca anche la pena di tre tratti di corda da esserli dati in pubblico”

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magazzini consegnavano. A questo lavoro di cernita erano addette solitamente le donne. Esse erano dotate, generalmente, di un coltello lungo circa 18-20 cm ben affilato e di un grembiule di spesso cartone foderato di stoffa e legato alla vita. Sedendosi il grembiule, rigido, veniva a formare quasi una sorta di piano di appoggio poggiato sulle ginocchia. La buona regola prescriveva che le donne lavorassero in coppia anche se non sempre questa regola era rispettata. Comunque sia, ciascuna coppia o ciascuna donna doveva avere innanzi a se una cassa a tre comparti nella quale raccogliere, a secondo della loro qualità, i cenci con gli orli e le cuciture disfatte perché il filo da cucire si raffinava più lentamente rispetto al tessuto. Con gli stracci di prima, i cosiddetti “fini”, si faceva la carta da scrivere di qualità, con quelli di seconda (“mediani”), che contenevano anche la lana che male si amalgamava con il lino, la canapa e il cotone, tutti di origine vegetale, la carta ordinaria ed infine con quelli di terza, gli “infimi”, la carta da imballo. Dal raschiare che le donne facevano con il loro lungo coltello e da quanto scartavano, veniva fuori, volendo, anche una quarta selezione di stracci. Anche questi venivano lavorati per la produzione di carta grigia grossolana, per avvolgere le risme di carta bianca e anche come imballaggi per alimenti. Non tutti, ovviamente, seguivano la “buona regola” e molti omettevano completamente la fase di cernita, facendo di ogni erba un fascio. Ma ogni cartiera di fama attribuiva a questa selezione un’importanza fondamentale per ottenere un buon impasto. Dalla cernita, che in genere avveniva in uno stanzone sovrastante le vasche di fermentazione, attraverso un foro, gli stracci venivano fatti cadere nelle vasche. In ciascuna vasca venivano raccolti da due/tremila stracci, fino ad un massimo di trentamila per formare un impasto sufficiente a fabbricare da 250 a 2000 risme di carta di media grandezza.

[…] I stracci passano per le mani di persone che hanno l’incombenza di scegliere e sceverare i medesimi in tre ordini differenti, cioè in fini, mediani ed infimi, che nell’arte vengono chiamati stracci primi, secondi e terzi. Tali persone devono stare ordinate in una grande stanza, sedute due per due, con avanti una lunga cassetta composta da tre altre piccole cassette con tre conche nel mezzo, ove si fa la diversa distribuzione della materia. I stracci più fini sono serbati per la carta di prima qualità; i secondi per la carta ordinaria, e finalmente gli ultimi sono destinati per quella carta che adoprasi ad involgere, impacchettare e per altri usi più vili ad opera del commercio. Queste persone destinate alla scelta dovranno parimenti essere provviste di un grosso cartone, quale resterà loro attaccato al grembo per mezzo d’una cintura; avrà pure ognuna di esse un coltello diritto, lungo una spanna, e ben affilato alla mano, per disfare le cuciture e gli orli ed anche per riordinare gli stracci e quindi farne la distribuzione nelle cassettine corrispondenti alla qualità della finezza […] Quanto resta d’inutilità né stracci se lo butteranno ai piedi per essere impiegato ad altro uso […]9

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LAVAGGIO E FERMENTAZIONE

La vasca in cui venivano lasciati cadere o venivano trasportati gli stracci selezionati era detto tino, da non confondere con il tino utilizzato, come vedremo, per la fabbricazione del foglio di carta. Qui i cenci venivano lavati e rilavati con l’acqua corrente e, nel corso del lavaggio, erano più volte mossi in modo che tutti potessero essere convenientemente puliti. Finita questa operazione di lavatura, venivano ordinati e pressati, quindi coperti con tela di sacco e lasciati a fermentare per almeno una settimana. Per facilitare la fermentazione si aggiungeva una certa percentuale di calce tale da facilitare l’ammorbidimento dell’impasto senza però corrodere i cenci. (Fig. 2.2).

[…] allorchè s’abbiano incirca trenta migliaia di stracci , s’intraprende una partita di carta, e si portano gli stracci al luogo di fermentazione. Avvertasi però, che nelle piccole fabbriche non occorre così grande preparazione di materia, talchè si puol’ cominciare con due o tre migliaia di stracci. Qui nella nostra Italia dopo la separazione de stracci prima di fermentarli si ha per costume di dar loro una lavatura col metterli in una tina. Quivi gli stracci s’agitano spesso, acciocchè la sozzura ne discorra, e si levi da essi. Lavati che sono bastevolmente si dispongono

Fig.2.1. Operazione di cernita. A,A,A. Sono tre grandi casse, ciascuna divisa in tre cassette per la separazione di tre differenti qualità di stracci; LM, MN, NO. Larghezza delle casse che ricevono gli stracci; 1,2,3. Cassette destinate al fino, alo mediano e all’infimo; B. Cernitrici; K. Foro che collegava la sala della cernita con quella di lavaggio e fermentazione; X. Coltello del quale si servono le cernitrici per eliminare cuciture e bottoni.

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in mucchi quadrati e si coprono ben calcati con pezzi di saccatura (teli di sacco), sicchè si macerino e si fermentino: lo si compie in una settimana circa […] non si può dare un fisso regolamento circa la durata della fermentazione. Ciò dipende parimenti dalla qualità degli stracci. Li più fini tra essi fermentano più presto de’ grossolani, e gli usati più difficilmente di quelli che sono quasi nuovi, perché l’umidità interna che dispone le fibre alla fermentazione, è più forte nelle biancherie nove e grossolane di quello lo sia nelle fine o molto usate. Se veggansi nascere de’ funghi sopra il mucchio de’ stracci in fermento, si giudica esser questo il segno di avere un composto ben preparato […] 9

In Francia il processo di lavaggio e fermentazione, che avveniva in genere senza l’aiuto di calce, era molto più lungo e complesso. Si deve forse a questa procedura la migliore qualità della carta francese. Gli stracci venivano lavati, dopo la selezione, in diverse tine con getti d’acqua; si lasciavano quindi sommersi per circa 7-10 giorni, rinnovando l’acqua 8-10 volte al giorno. Dopo questo primo periodo di lavaggio, l’ammasso si lasciava in riposo per altri dieci giorni ed infine si rimuoveva il tutto. Aveva quindi inizio una fermentazione che poteva durare anche un mese o un mese e mezzo.

[…] la maniera di fermentare gli stracci in Francia è molto differente dalla nostra e si crede di riuscita migliore. Entro d’una stanza sono riposte delle tine nelle quali si pongono le varie sorte di stracci separati, e sopra queste tine vi passano de’ getti d’acqua: ciò si rinnova otto o dieci volte al giorno, e si lasciano al fin riposare per altri dieci giorni più o meno, senza versarvi più acqua […] 10

La fermentazione era considerato uno dei processi fondamentali della cartiera in quanto dalla fermentazione si giudicava il buono o il cattivo esito della manifattura della carta. Prima di avviare il processo di fermentazione bisognava, inoltre, attuare delle precauzioni relative alla separazione degli stracci. Dalla loro robustezza e dal loro uso dipendeva una resistenza diversa alla fermentazione; di conseguenza alcuni sarebbero già stati marci quando altri avevano da poco iniziato la fermentazione. L’acqua era protagonista di tali processi e necessaria era la sua qualità.11

Le acque più chiare (limpide) sono le migliori nella fabbricatura della carta […] l’opinione dei lavoratori è che le acque più battute e vegnenti da lontane parti contribuiscano a formare una carta più rappresa e ben fornita di materia (più corposa). Se ciò accade probabilmente è perché queste acque hanno avuto il tempo di deporre quel limo di cui erano impinguate […] si devono dunque evitare le acque soggette ad intorbidarsi per la pioggia e quelle che scorrono nel terreno fangoso a meno che esse non vengano depurate facendole passare per un condotto alla cui bocca

10 A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…, cit. pp. 31-34 11

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si porrà una graticcia composta di vimini che contribuirà meglio alla depurazione […] devesi parimenti procurare, che una cartiera resti situata in un luogo dove al di sopra non vi siano altre manifatture o macchine che servendosi delle stesse acque potessero comunicarle una qualità difettosa […] 9

Proprio perché la fermentazione era una fase di fondamentale importanza nel processo di fabbricazione della carta, ad esserne responsabile era il mastro cartaio. Nel suo scritto “l’Art de faire le papier”, il barone Joseph Jerome de La Lande scriveva:

La fermentazione rende la pasta unita, ben compatta, morbida e resistente; ma se viene fermata troppo presto, la carta diventa cruda, rigida fragile e dura ed esige un maggior tempo di lavorazione; il deposito si “risente” e le fibre non si dispongono come devono […] 12

LA SFILACCIATURA

Prima di passare al mulino a magli, gli stracci fermentati, e quindi in certo qual senso cotti, subivano una prima lavorazione di taglio. Un addetto al taglio li lacerava in più parti riducendoli in frammenti non superiori a due pollici. La misura considerata migliore era di 30x50 mm. (Fig. 2.2)

[…] gli stracci si portano allo stromento con cui devono essere tagliati. Questo è composto da una lama di ferro ben affilata, verticalmente piantata sopra una panca, ovvero in una pietra, circondata di tavole in foggia di cassa, che ha la dimensione di sei piedi in lunghezza, di quattro in larghezza, e di due in profondità. Il proto col suo aiutante seduti avanti di questa falce prendono gli stracci legati a manate, e passandoli dietro del ferro li tagliano in piccioli pezzetti della lunghezza in circa di due pollici. In Italia il ferro da tagliare è fatto ad uncino, e nel tagliare si fa sempre da giù in su […] Dopo così tagliati si pongono i detti stracci in certi piccioli tinozzi cerchiati di ferro, quali devono avere due doghe diametralmente opposte, bucate con un foro, ove si possa inserire un grosso bastone per trasportarli più agiatamente al mulino ( mulino a magli o mulino olandese). L’operazione del tagliare gli stracci rendesi necessaria, per abbreviare quella del mulino. Alcune strisce di certa lunghezza non potrebbero essere rifrante se non a stento […]13

Il processo di sfilacciatura portava alla creazione di una massa filamentosa che prendeva

12

J. J. de La Lande. L’art de faire le papier. Parigi, Chez J. Moronval, 1820, p. 52.

(9)

il nome di “sfilacciato” o “mezza pasta”. Questo trattamento serviva da preparazione al processo di raffinazione.14,15

LA RAFFINAZIONE

La raffinazione consisteva in un processo nel quale la massa filamentosa creata dalla sfilacciatura era a sua volta ridotta in fibre atte a far carta. La cosiddetta “tutta pasta”, che si otteneva con la raffinazione, veniva prodotta grazie alla pila idraulica a magli multipli, conosciuta più comunemente come mulino a martelli (Figg. 2.3 e 2.4). Si trattava di un macchinario costituito da:

• un tronco squadrato (solitamente di quercia) in cui venivano ricavate 3-6 vasche di contenimento la cui base era rivestita da una placca di ferro o bronzo;

• una ruota idraulica a palette azionata dal basso;

• un albero a camme connesso alla ruota come meccanismo meccanico;

• magli o "mazzi" o "pestelli" o “martelli”, tronconi lignei di circa 1m di lunghezza, aventi sezione quadrata e dotati di chiodi sulla testata. Il loro compito era provvedere alla triturazione degli stracci.

La corrente di un corso d'acqua faceva muovere la ruota idraulica, azionando così la pila. Il movimento veniva trasferito dalla ruota all'albero a camme e da questo ai magli. La posizione delle camme sull'albero regolava il sollevamento alternato e graduale dei

14 S. Thompson. Paper Manufacturing and Early Books in Annals of the New York Academy of Sciences

vol.314. New York, Ottobre 1978, pp.167-176

15

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 21

Fig.2.2. Falce e vasca di fermentazione. ● stracci che cadono dal locale delle cernitrici; A. condotto che fornisce acqua per lavaggio; B.

vasca per raccolta dell’acqua; C. vasca di lavaggio; D. mucchi di stracci in fermentazione; E. vasca di pietra in cui si tagliano gli stracci; F. falce; G. addetto al taglio

degli stracci; H. tino di legno per il trasporto degli stracci ai magli.

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magli e l'ordine di battuta dei medesimi. Il processo avveniva in presenza di acqua, trasportata nelle vasche per mezzo di condotti.La pila a magli multipli presentava magli provvisti di punte più o meno acuminate a seconda del livello di triturazione che si desiderava ricavare; si soleva, infatti, distinguere tra pila a "disgrossare", pila a "raffinare" e pila ad "affiorare".16 Nella pila a "disgrossare” le testate dei magli erano

munite di grossi chiodi appuntiti che riducevano il tessuto degli stracci in "sfilacci" fibrosi; la pila a "raffinare" era dotata di chiodi a "testa piatta" i quali trasformavano gli sfilacci in "fibre" allo stato elementare; infine i magli del terzo tipo erano invece privi di chiodi ed avevano la funzione di completare la raffinazione (omogeneizzazione) oppure di reidratare la pasta già raffinata e tenuta di scorta per i periodi di "magra" (periodi con scarsa disponibilità di acqua). In ogni pila, solitamente dotata di tre magli, l'alternanza di battuta rispettava il seguente andamento: per primo batteva l'esterno sinistro, poi l'esterno destro ed infine quello centrale. Nella pila a “disgrossare”, ove la massa era meno omogenea, la circolazione dello straccio era facilitato oltre che dall'ordine di battuta, anche da un diverso impulso dovuto al differente peso dei tre magli. Difatti, a parità di lunghezza del singolo maglio, la sezione quadrata del primo maglio aveva il lato di 16,5 cm; quello centrale di 15 cm, mentre il terzo di 13,5 cm. Durante il lavoro di sfilacciatura dello straccio nella pila a “disgrossare”, la massa veniva sottoposta ad abbondante lavaggio per eliminare il sudiciume residuo della macerazione. In una vaschetta rettangolare, posta sulla pila, giungeva una condotta d'acqua che, filtrata attraverso un filtro di stoffa, entrava nella vasca della pila, lavava il materiale in lavorazione ed usciva da un’apposita apertura posta nella parte anteriore della pila. Una volta trasformato il tessuto in sfilacci, il materiale veniva trasferito, tramite un mestolo di rame, nella pila a "raffinare" dove l'azione dei magli, muniti di chiodi a testa piatta, liberava dagli stracci la fibra allo stato elementare ("pisto"). Il "pisto" era così pronto per essere trasformato in carta oppure veniva trasferito nella pila ad "affiorare" per una migliore omogeneizzazione. In questa’ultima pila veniva lavorato anche il "pisto" prodotto durante il periodo di abbondanza di energia idraulica e lasciato di scorta. Per questo scopo il “pisto” raffinato veniva confezionato in "pizze" o "cresce". In un telaio di legno, di forma rettangolare, veniva posto un panno di canapa a tessuto molto rado, su esso si faceva colare il “pisto” che perdeva così molta acqua per leggera pressione manuale.17 Raggiunto lo spessore del telaio, si avvolgeva completamente la massa con il

panno di canapa, la si toglieva dal telaio e la si portava alla pressa a vite. Dopo la pressatura, si toglieva il panno e la "pizza" così ottenuta si immagazzinava in attesa di

16

L. S. Le Normand. Manuel de fabricant de papiers, ou De l'art de la papeterie, suivi de l'art du fabricant de cartons et de l'art du formaire. Parigi, Roret, 1840, pp. 132-135.

17

A. Blanchet. Le papier et sa fabrication a travers les ages in La Bibliofilia. Rivista di storia del libro e di bibliografia anno XII – Maggio 1910 – dispensa 2°. Firenze, Olschki, 1899, pp. 46-66.

(11)

essere impiegata in tempi di "magra". Il "pisto" ricavato dagli stracci, una volta raffinato ed omogeneizzato nella misura voluta, era pronto per essere trasferito al "tino" per la fabbricazione del foglio di carta.18 La pila a magli può essere ritenuta la prima

meccanizzazione nella storia della carta, con conseguente risparmio di costi e tempo. La sua grande diffusione fu dovuta all'impiego che se ne fece nell’industria cartaria di Fabriano, della quale divenne una delle tre innovazioni.19

18 E. Gianni. L’industria cartaria. Hoepli, Milano, 1962. pp. 20-25. 19

J. Irigoin. Les origins de la fabrication du papier en Italie in Papiergeschichte, 1963, p.16.

Figg.2.3 Prospettiva di un mulino a martelli e 2.4 Pianta geometrica di un mulino a martelli. A. ruota del mulino; B. albero a camme; C. cavicchie che alzano i magli; D. magli; E. sostegni anteriori delle code dei martelli; e. sostegni posteriori contenenti le teste dei martelli F. albero nel quale sono scavate le pile; G. incavi delle pile; H. condotto che porta l’acqua alle pile; I. supporto piccolo; K. Supporto grande; L. carro del mulino che sostiene tutte le sue parti; M. mastello nel quale si versa la pasta raffinata che esce dalle pile; N. casse di deposito

(12)

LA FORMAZIONE DEL FOGLIO DI CARTA

L’impasto che usciva fuori dai mulini era, come abbiamo visto, qualche volta conservato ma in genere passava immediatamente alla fase di fabbricazione del foglio di carta, sostando, per il tempo necessario, in casse di deposito costruite in marmo, mattoni o pietra; sosta che doveva essere breve per evitare che l’impasto, soprattutto nella stagione calda, andasse in putrefazione. Dalla cassa di conserva un addetto prelevava il liquido, sciolto ormai fino a perdere qualsiasi consistenza, e lo trasportava, utilizzando solitamente dei mastelli posti su una carriola alla tina del mastro cartaio dove lo diluiva con acqua nella misura necessaria; la carta pesante e di formato medio e grande aveva, infatti, bisogno di un impasto denso, mentre per la carta leggera l’impasto doveva essere più liquido e la fermentazione minore.

[…] quando la pasta ha ricevuta l’ultima triturazione nelle pile, rimane un liquido senza veruna consistenza. Il proto, chiamato in termine d’arte lo studente, estrae la suddetta pasta dalle pile con una cucchiaia di rame e ne riempie un gran vaso di pietra, che sta alla portata della tina, dove travaglia il fabbricatore o lavorante […] Al lavorante spetta poi di trasportare direttamente dal vaso alla tina quella quantità di materia che di mano in mano va abbisognando per il lavoro; come pure al medesimo s’appartiene in seguito di aggiungervi quella quantità d’acqua che giudica essere necessaria secondo la forza della carta che si tratta di fare. Imperciocchè la carta che dev’esser forte e di forma grande richiede una pasta più densa ed una quantità minore d’acqua, là dove per una carta sottile e leggiera fa d’uopo d’una pasta meno fermentata ed in allora conviene porvi più acqua […] In questo stato il liquido non sembra altro che latte, acqua torbida […] Il fabbricatore deve ancor usare diligenza di conservare il calore della tina, specialmente nella rigida stagione, quando l’impasto abbisogna di restare sempre tiepido affinché non si vada coagulando e la posatura (fibra) ne precipiti al fondo […] viene osservato che il dare un picciolo grado di calore alla tina contribuisce una buona qualità alla pasta, per cui ne viene poscia una carta ben serrata e consistente […] se si usasse l’acqua fredda richiederebbesi tempo maggiore e ne verrebbe una carta debole, con parti meno riunite fra d’esse, e tal volta per la troppa rigidezza non si potrebbe tampoco fabbricare la carta […] Se la pasta risulta, in oltre, malamente fermentata e poco battuta conviene riscaldare meno la tina perché la posatura (fibra) seccherebbe troppo presto, sendo meno disciolta nel fluido. Fa di mestieri in oltre agitar sovente il liquido nella tina, almeno 3 o 4 volte per ogni posta (per ogni pila di fogli di carta e di feltro costituita in seguito dal ponitore), affinché non deponga e si vada aggrumando con grave nocumento della carta […] 20

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Nei primissimi secoli della fabbricazione della carta non si dava grande importanza al calore dell’acqua del tino; in seguito, però, si sperimentò che un impasto tiepido era di gran lunga preferibile onde evitare ogni possibilità di coagulo. Con una grande forca legata ad una corda che scendeva dal soffitto perpendicolarmente sul tino o con un bastone, si muoveva periodicamente la pasta onde evitare qualsiasi deposito; quando si applicò sotto il tino un fornelletto entro cui si inseriva un braciere che manteneva l’acqua sempre al medesimo calore, non ci fu più bisogno di agitare quasi continuamente l’impasto. Questo fornelletto prendeva il nome di calderetta. Era il mastro cartaio a giudicare la temperatura della tina che doveva essere tiepida sia d’estate che d’inverno; grosso modo la temperatura veniva mantenuta all’incirca sui 25°C.21 La maggiore o minore alimentazione del fornelletto sottostante dipendeva da

diversi fattori: innanzitutto il clima ma poi anche la temperatura dell’acqua, il tipo di carta da fabbricare, la qualità dell’impasto. Il calore che scaturiva dalla calderetta avviava un processo di fermentazione dell’impasto e favoriva, così, la scissione della cellulosa. Non vi era un tempo predefinito per la realizzazione di tale processo; era semplicemente l’esperienza del mastro cartaio a stabilire, in base al colore delle muffe ed in base al calore sprigionato, il momento in cui l’impasto fosse pronto per la formazione del foglio di carta. Bisognava in ogni caso stare attenti che il troppo calore non bruciasse il deposito che, inevitabilmente, veniva a formarsi e che generava, successivamente, macchie sulla carta, perdita di resistenza del foglio o, nei casi estremi, perdita di impasto.22 La carta veniva fabbricata in ogni stagione dell’anno, ma si

riteneva in genere che l’inverno fosse più propizio: la bassa temperatura, secondo le osservazioni del tempo, aveva una benefica influenza sulla lucentezza e sullo sbiancamento della carta che oggi, invece, si ottiene con altri sistemi. Inoltre, sin dalle prime esperienze di fabbricazione si era notato come la fibra, pur dopo tante macerazioni, triturazioni etc. conservasse, diciamo così, una sua vita; in inverno, infatti, il foglio già formato tendeva, anche dopo la collatura, ad allargarsi e ad allungarsi al di la della misura della forma, mentre in estate si restringeva. Ovviamente questi processi non potevano non guastare la carta; così si faceva molta attenzione che la carta si asciugasse lentamente per evitare che si accorciasse rispetto alla forma o che potesse allungarsi rispetto al formato voluto. Il mastro cartaio non solo doveva essere perfettamente a conoscenza di tutto questo ma doveva conoscere, soprattutto, “l’arte di fabbricare la carta” ovvero l’arte di formare un foglio perfetto, di uguale spessore, uniforme, compatto, servendosi esclusivamente, oltre che delle esperienze, della sue forme da carta. Andiamo ad analizzare dunque, come avveniva questo processo. Il

21

L. S. Le Normand. Manuel de fabricant…, cit. p.142.

22

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foglio di carta era il risultato della cosiddetta “feltrazione”. Per feltrazione si intende il processo di unione delle fibre tra loro fino a formare una superficie uniforme: il "foglio". Nella fabbricazione della carta a mano, questa operazione aveva luogo, come abbiamo detto, nel "tino". Il mastro cartaio immergeva la "forma" nel tino e ne estraeva ogni volta la stessa quantità di pasta che veniva distribuita su tutta la superficie della tela. La forma da carta o telaio, costruita dal fabbricante di forme (Fig.2.4.), era il mezzo attraverso il quale si otteneva la feltrazione delle fibre.23

Essa era costituita da una rete metallica formata da un insieme di piccole verghe in ottone: le vergelle e i filoni. Le vergelle sono verghe parallele al lato lungo del foglio, più sottili e ravvicinate tra loro, che venivano sovrapposte e legate ai filoni, verghe parallele al lato corto del foglio che, al contrario delle vergelle, avevano un maggiore spessore ed erano più distanziate tra loro. (Fig.2.5).24 La tela così preparata veniva

montata su un telaio rettangolare di legno: i filoni venivano ancorati al telaio da chiodi lignei detti colonnelli. La superficie di lavoro era delimitata da una cornice di legno, detta "cascio" o "casso", non fissa ma appoggiata sul perimetro della tela per consentire non soltanto la tenuta della pasta, ma anche per delimitare le dimensioni del foglio di carta nascente e per stabilirne lo spessore (Fig.2.6).25,26

23

M. Scognamiglio. La formazione del foglio di carta in L’Esopo. Rivista trimestrale di Bibliofilia Settembre 1980 n° 7. Milano, Edizioni Rovello, 1979, pp. 15-17.

24

J. F. De La Lande. L’art de faire le papier. Parigi, Chez J. Moronval, 1820, p. 24.

25 E. Gianni. L’industria cartaria, cit. p. 31. 26

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 35.

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Anche la filigrana ebbe un ruolo importantissimo. Vanto dei mastri cartai fabrianesi è l’invenzione della filigrana che essi usavano come marchio della loro produzione. In seguito la filigrana qualificò non solo il fabbricante ma anche l’acquirente, che in questo modo personalizzava la carta con il proprio emblema o stemma. Le filigrane antiche, che erano sempre visibili guardando il foglio in trasparenza come un segno più chiaro su un fondo più scuro (non a caso la filigrana era detta inizialmente in latino “signum”), erano ottenute mediante l’apposizione di sottili fili metallici che venivano ancorati al reticolato di filoni e vergelle. In corrispondenza di questi fili si depositava perciò, durante la formazione del foglio di carta, una minore quantità di pasta in modo che in questi punti la carta diventava più trasparente alla luce facendo risaltare in tal modo il disegno. Le prime filigrane erano molto semplici, si trattava di figure di animali, fiori, croci etc. (Fig.2.7). 27,

In seguito la filigrana divenne sempre più raffinata e conseguentemente il procedimento molto più complesso, procedimento spesso realizzato attraverso l’opera di diversi specialisti: disegnatori, incisori etc. Senza entrare troppo nel dettaglio queste

27

P. Rückert. La memoria della carta e delle filigrane…, cit. pp. 30-91. Fig.2.5. Struttura metallica del telaio da carta con

filoni e vergelle. Presenza di filigrana.

Fig.2.6. Forma da carta o telaio.

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filigrane più complesse, dette “in chiaroscuro”, vengono prodotte da un bassorilievo in cera che costituisce la matrice. Essa viene resa conduttrice mediante un rivestimento di grafite per cui, attraverso bagni galvanici, vengono creati punzoni e contropunzoni che a loro volta servono per sbalzare la tela metallica della forma.28 Negli incavi della tela,

dunque, si depositerà più fibra con un corrispondente effetto di “scuro”, mentre nei punti corrispondenti ai rilievi, al contrario , si avrà l’effetto del “chiaro”. Ma come si fabbricava, dunque, un foglio di carta? Il mastro cartaio lavorava su un banco di legno o su un gradino, innanzi al tino che gli arrivava all’altezza della vita e da questa posizione immergeva obliquamente la forma nell’impasto. L’immersione, per raccogliere la pasta sufficiente, avveniva abbassando ed immergendo verso di se la forma sin oltre la metà; egli poi la risollevava con un movimento rapidissimo piegandola verso la parte opposta e gli imprimeva, poi, un dolce movimento di assestamento da destra a sinistra e da sinistra a destra mentre continuava quello ondulatorio in avanti ed indietro per un’adeguata distribuzione dell’impasto lungo tutta la superficie. L’acqua trasbordava dai due vertici della forma ed in parte dai lati mentre il telaio tratteneva l’impasto. I due movimenti, quello in senso longitudinale e quello in senso trasversale, si accompagnavano con un terzo movimento, lievemente sussultorio, che aveva il fine di assestare le fibre: la pasta si adagiava sulla griglia di ottone che, attraverso gli interstizi, lasciava ricadere nella tina soltanto l’acqua, trattenendo, invece, l’impasto che andava così a formare il foglio. Il mastro cartaio doveva porre la massima cura nella distribuzione della pasta sulla forma: un buon operaio, come spiegato in alcuni manuali per la fabbricazione della carta, doveva formare il foglio con non più di 8-10 movimenti rapidissimi nello spazio di cinque secondi; rifornito costantemente di forme, una andava e l’altra veniva mentre egli tratteneva sempre presso di se il telaio, il mastro cartaio doveva teoricamente essere in grado di produrre 7-8 fogli al minuto, più di 4000 fogli di medio formato in una giornata di dieci ore lavorative.29 Spesso, però, i calcoli

teorici dei manuali non corrispondevano alla realtà. Il mastro cartaio, nel muovere la forma, doveva non soltanto porre attenzione all’uniformità della distribuzione della pasta e al graduale deflusso dell’acqua, ma doveva anche fare in modo che nell’angolo destro della forma stessa si accumulasse un poco più di impasto perché da quel punto il foglio veniva preso da un altro operaio, il cosiddetto “ponitore” per stenderlo sul feltro. Formato il foglio, il mastro cartaio poggiava il telaio su un piano lievemente inclinato alla sua destra, toglieva la cornice e la lasciava scivolare la forma verso il ponitore. Nel togliere la cornice doveva stare molto attento a non far gocciolare, dalle mani bagnate, acqua sul foglio, macchiandolo in modo non riparabile, e soprattutto doveva portar via

28

L. Campanella. Chimica per l’arte. Bologna, Zanichelli Editore S.p.A, 2007, pp.443-444.

29

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la cornice con destrezza, evitando che il foglio uscisse fuori con frastagliature e ineguaglianze. Mentre il mastro cartaio, liberata la cornice, si affrettava a porla sulla nuova forma per procedere alla preparazione del nuovo foglio, il ponitore prendeva la forma con il foglio, la sollevava lentamente facendo perno sull’angolo destro in alto, ove era stata ammassata una maggiore quantità di pasta, faceva defluire l’acqua residua e quindi rovesciava la forma su un feltro. Gli svizzeri e i francesi usavano rovesciare la forma sul feltro in un solo colpo; questa operazione, per quanto fatta destramente, portava spesso a lacerazioni del foglio o a formazione di bolle d’aria che era poi impossibile eliminare. Gli italiani studiarono, invece, un diverso modo di “ponitura”, che spesso venne preferito al primo: la forma veniva poggiata sul feltro dallo spigolo destro e poi veniva sempre più avvicinata al feltro, prima sul lato di base e poi nel senso della lunghezza, in ogni sua parte. L’operazione era molto veloce ed il foglio, facendo gradualmente presa sul feltro, si staccava con facilità impedendo la formazione di bolle d’aria. La forma veniva risollevata partendo proprio dall’angolo destro, dalla parte in cui era appoggiata per prima sul feltro ed il foglio, interamente liberato, veniva coperto da un nuovo feltro. La forma tornava al tino ed il ponitore ricominciava la sua opera con quella che il mastro cartaio gli aveva preparato, completando la cosiddetta “posta”, ovvero la pila di carta e feltri da pressare.

[…] il lavorante montato sopra un gradino davanti alla tina tiene una forma a due mani, per le due estremità con il cascio applicato esattamente sopra la suddetta forma, quasi che fosse un pezzo solo; egli immerge quella parte di forma, che tiene verso di se per più della metà ed estraendo una porzione di liquido scuote destramente la medesima, inclinandola dalla parte opposta per dar luogo allo scolamento dell’acqua […] Il predetto lavorante distende questa pasta scuotendola dolcemente da mano diritta a sinistra e da sinistra a diritta fino a tanto che dessa siasi distesa egualmente sopra tutta la superficie della forma. Parimenti per un altro movimento che si fa avanzando e rinculando orizzontalmente la forma dall’avanti all’indietro, e per lo contrario dall’indietro all’avanti, la materia si serra, si unisce, si perfeziona. Questi due movimenti vengono accompagnati da un leggero scuotimento, che serve per dar sesto al foglio; ma essi fanno prestissimo, cioè in 7 od 8 colpi di mano e nello spazio di 4 o 5 secondi […] così il foglio precipita sulla griglia d’ottone, mentre che l’acqua passa traverso degli intervalli e restavi sulla forma un vero foglio di carta. Il lavorante in seguito posa la forma e gli leva il cascio nel tempo stesso in cui fa strisciare la forma lungo la tavoletta unita alla tina. Il medesimo tolto il cascio dalla prima forma lo pone tosto sulla seconda forma che gli viene data per essere immersa successivamente. Indi un altro lavorante chiamato ponitore prende la forma sulla tavoletta suddetta; egli la solleva pian piano inclinandola affine di far colar sempre più l’acqua; in seguito esso la prende e pone il foglio di carta sul feltro che si era preparato davanti […] Si distinguono due sorte di appoggiare. L’appoggiare alla svizzera e alla francese non è altro che rovesciare la

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forma ed appoggiarla tutta in un colpo, di maniera che in un tempo steso ella fa capo ed appoggia da per tutto. Questo metodo espone il ponitore a fabbricare molta carta lacerata. L’operare all’ italiana, richiede l’appoggiare la forma sopra del feltro subito dal lato destro ed in seguito per degradazioni sull’altre parti, non crea rotture ed è più veloce […] Così si vede che le due forme sono sempre in movimento e non vi resta perdita veruna di tempo: tanto che una forma s’ immerge, l’altra s’appoggia, e quando il lavorante passa la forma al ponitore ei ne riceve un’altra, che trovasi vuota, sopra cui esso posa la coperta, che ritira dal di sopra della prima ed immerge di nuovo. Le qui descritte operazioni vanno con tanta prontezza che in un minuto si formano 7 o 8 fogli. Quando però si vuol fare carta di forma grande e di pesto fino richiedesi un’attenzione più diligente e maggiore durata di tempo […] 30

[…] Il lavorante deve essere attento nel distribuire la materia sopra la sua forma, di render più forte quell’angolo del foglio che è in alto a destra, perché questo è sempre l’angolo che si stringe nel levare i fogli o nel distenderli […] Se l’operaio mette troppa materia in forma, se non la distende egualmente, se lascia scorrere l’acqua con troppa prontezza, in tutti questi casi la materia s’accumula nella forma e ne escono fogli castagnati (con grumi di fibre) […] Bisogna, inoltre, tenere in conto del riscaldamento della tina; quando la tina è troppo calda la materia distendesi sempre malamente perché l’acqua svapora troppo presto al di sopra della forma […] Il ponitore può recare danno al foglio formato se stende troppo presto il foglio sopra del feltro, mentre l’aria ritenuta e compressa sotto il medesimo fa che vi rimangano gonfiezze (bolle d’aria). Il ponitore può mancare ancora se non abbia la mano sicura, perché si fa la materia raggrinzata e ondata; ma può mancare anche se di troppo appoggia e prema il foglio nel feltro disteso causando difetti che inducono al laceramento […] 31

Anche l’opera del ponitore, sebbene non importante come quella del mastro cartaio, era da operaio altamente specializzato. J. J. de La Lande a proposito del ponitore, che egli chiamava “coucheur”, scrive:

[…] egli dovrà posare la sua forma lentamente ed alzarla con prontezza, scuotersi le mani dall’acqua, evitare di stendere troppo presto il foglio sopra il feltro per impedire che l’aria trattenuta e compressa al di sotto, provochi gonfiezze e formazioni del foglio in alcuni punti più chiari degli altri […] dovrà curare di far scivolare la forma sul feltro perché il foglio non si presenti non perfettamente tirato, con parti meno spesse e con grinze […] 32

30 A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…,cit. pp. 54-56. 31 A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…,cit. p. 58. 32

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Non sempre, quando la carta veniva male, la colpa era da attribuirsi ai ponitori. I feltri che, sovrapposti l’uno all’altro dovevano poi essere pressati per la perfetta stesura dei fogli che trattenevano, giocavano un ruolo di primaria importanza; se era importante la cernita degli stracci, non meno determinante era la preparazione del feltro. Oggi le cartiere trovano in commercio feltri pressoché perfetti; inizialmente dovevano prepararli e curarli direttamente. Il feltro, di lana bianchissima ma che con l’uso assumeva presto un colore grigiastro, doveva essere di un solo pezzo e tessuto con fibra lunga al fine di consentire la migliore compattezza. La trama non doveva esercitare nessuna impressione sulla pasta. I buoni feltri non dovevano, inoltre, perdere pelo per evitare che questo si incorporasse nel foglio e dovevano avere la cimosa tutta intorno. Prima che si trovasse il sistema di tessere la cimosa, venivano cuciti perimetralmente per impedirne lo sfilacciamento. Dovevano essere lavati con acqua calda e sapone almeno una volta la settimana. Un feltro, se ben conservato, poteva durare dai diciotto ai ventiquattro mesi; doveva, invece, essere gettato via non appena appariva l’orditura o se deformato a causa della continua azione della pressa.

[…] I feltri sono pezzi di panno che si stendono sopra cadauno de’ fogli di carta. Il panno è fabbricato espressamente per quest’uso d’una lana assai bianca, molle (morbida) e lunga. I feltri devono essere senza pezze e cuciture più che sia possibile. Chi volesse fabbricare de’ feltri bisogna servirsi di lana madre, l’orditura deve essere filata più grossa della trama affinché questa s’incorpori meglio colla prima […] Fabbricato il medesimo con tal diligenza sortirà trama assai delicata quale non darà rugosità veruna alla carta e ne assorbirà più facilmente l’umidità superflua. I feltri grossolani e difettosi lasciano delle rugosità e de’ peli incorporati colla carta medesima […] siccome li feltri debbonsi tenere con una certa proprietà, così non deve passare una settimana senza che dessi vengano ben ripuliti […] con acqua e saponata calda si fanno stare immersi per 4 o 5 ore e poi si vanno risciacquando e si mettono in massa sopra delle tavole e si mettono sotto pressa per farne sgocciolare l’acqua; dopo ciò si stendono fin tanto che passi l’umidità più grossa […] non è necessario che i feltri siano affatto asciutti per impiegarli nel lavoro della carta ma è bensì opportuno che vengano ben digrassati dalla saponata […] I feltri sono servibili regolarmente 18 mesi […] una superficie del feltro deve essere inoltre più lanuta dell’altra ed è sopra la parte meno pelosa che si deve fare appoggiare il foglio, acciocchè lo sfregamento de’ peli non venga a pregiudicare la pasta ancor troppo tenera e facile a ricevere impressioni svantaggiose nell’ineguaglianza della superficie […] 33

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C’è, inoltre, da fare una precisazione; la quantità di carta che poteva essere prodotta da una cartiera era determinata anche dai formati e dalle grammature. I formati in uso erano i più vari, secondo i desideri della cartiera o del cliente e, soprattutto dopo l’invenzione della stampa, del tipografo. Ma tutti si rifacevano, più o meno, ai formati stabiliti per la prima volta dallo Statuto del Comune di Bologna del 1389 e che li riferisce a una lastra di marmo tuttora conservata presso il Museo Civico della città: “l’imperiale” misurava 500 X 725 mm., il “reale” 440 X 608 mm., la “mezzana” 345 X 490 mm., la “rezzuta” 310 X 440 mm. (Fig. 2.8)34

LA PRESSATURA

Un foglio e un feltro sopra l'altro, si formava così una pila o "posta" che veniva pressata in un torchio a vite. Un insieme di venticinque fogli e, conseguentemente di ventisei feltri, prendeva il nome di quinterno. Per la carta di piccolo formato la posta si componeva di 250 fogli, che scendeva a 100 fogli per il formato grande. Completata la posta due operai, il ponitore ed il cosiddetto “levatore”, la portavano sotto il torchio dove bisognava esercitare la massima compressione possibile per far sgocciolare tutta

34

G. Castagnari. Carta, cartiere, cartai. Fabriano, Pia Università dei cartai, 2006, p. 121. Fig. 2.8. Lastra marmorea del 1389 che porta incise le denominazioni e le dimensioni dei quattro formati dei quali era concessa la fabbricazione della carta nel Comune di Bologna

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l’acqua. Prima della pressatura si inserivano delle tavole di legno sopra e sotto la pila per evitare che la pressione esercitata potesse creare lesioni e/o imperfezioni nei fogli di carta. Si otteneva, in questa maniera, la prima disidratazione dei fogli. Questa operazione, riduceva il contenuto di acqua a circa il 50%. Se non si riteneva ancora sufficiente la spremitura, si faceva entrare un argano che, con una corda legata al bastone inserito nel foro dell’asse della vite, era in grado di far compiere al torchio ancora uno o due giri.

[…] siccome la soppressa è una delle parti essenziali alla fabbricatura della carta, così devesi usare tutta la diligenza in questa operazione. Quando la posta resta situata colla maggior accuratezza possibile sotto del torchio vi si pone sopra la coperta (tavola lignea); indi con leve di 10/12 piedi, un’estremità delle quali sta conficcata nella testa della vite, quattro uomini pongono la detta posta in una violenta compressione per farne sgocciolare l’acqua […] 35

La vite veniva quindi allentata e la posta portata innanzi al levatore il quale distaccava ad uno ad uno i fogli dai feltri con l’assistenza di un aiutante, il “levafeltri”, incaricato di fare una nuova pila di feltri da restituire al ponitore. I fogli, via via distaccati e che, sebbene ancora freschi, avevano raggiunto una certa rigidità, venivano adagiati, con gran cura e tutti ben sovrapposti, su un panchetto con una tavola mobile inclinata. Per staccare il foglio dal feltro, dato che in seguito all’azione della pressa la carta era quasi incollata, si sollevava in primo luogo l’angolo di destra, quello che, lo avevamo detto, era il più robusto. Si faceva, quindi, scorrere la mano tra foglio e feltro fino all’estremità del lato sinistro. Poi, lentamente, tenendo con ambedue le mani l’angolo destro e l’angolo sinistro, lo si sollevava per circa un terzo della lunghezza; quindi si poteva procedere al completo distacco più speditamente. La deposizione sulla tavola inclinata doveva avvenire in due tempi, la parte inferiore del foglio prima e quella superiore dopo, al fine di impedire, anche in questo caso, che tra foglio e foglio rimasse dell’aria e che, alle successive pressioni, si formassero grinze e pieghe. Questa pila di soli fogli di carta umidi creata dal levatore prendeva il nome di “posta bianca”; essa a volte, veniva sottoposta ad una seconda pressatura in una pressa di più piccole dimensioni (Fig.2.9).36

35 A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…,cit. pp. 60-61.

36 Carta in Nuovo dizionario tecnologico o di arti e mestieri, tomo XVIII. Venezia, Edizione G. Antonelli,

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[…] essendosi con grande diligenza estratta l’acqua dalle poste de’ feltri mediante l’azione della soppressa, si portano queste medesime poste ad un operaio chiamato levafogli o levatore. L’impegno del levatore è quello di stare in piedi dinanzi ad una tavola inclinata per applicarvi sopra tutti li fogli dopo d’averli distaccati da’ feltri. Un aiutante, chiamato levafeltri, comincia a rilevare li feltri, affinchè il levatore possa più facilmente distaccare li fogli, quali la soppressa vi avea come incollati; ed allor che son staccati, l’aiutante leva li feltri e gittandoli a sinistra ne forma un pacchetto, acciocchè il ponitore possa servirsene nella posta seguente, che si travaglia nel medesimo tempo […] Per l’operazione del levatore richieggonsi persone che abbiano destrezza, pratica e discernimento […] Il levatore piglia leggermente il cantone del foglio, che resta dal suo lato, con l’indice e col pollice della mano diritta. Dacchè il cantone del foglio resta alzato dal di sopra del feltro circa un pollice, il levatore lo prende dalla sinistra, solleva il detto foglio, strisciando nello stesso tempo la mano diritta verso la metà del medesimo fino all’altro cantone; ed allorchè esso viene rialzato un terzo, egli lo leva francamente a due mani e lo distende sopra della tavola; poscia depone il detto foglio in due tempi, affinchè l’aria possa sfuggire, e non vi siano cagionate grinze o cattive pieghe […]37

LA COLLATURA

[…] La carta formata per le precedenti operazioni sarebbe sufficiente per potervi scrivere colla matita, detta volgarmente lapis, ovvero con altre materie secche; ma l’inchiostro di cui ci

37

A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…,cit. pp. 52-53.

Fig.2.9 Lavorazione della carta: quando si formano i fogli, si distendono e si pongono sotto pressa. A. lavorante; B. tino; b. apertura per calderetta; C. cascio; D. forma da carta; E. ponitore; F. tavola che si sovrappone alla posta prima di pressarla; G. posta o pila di fogli separati da feltri; g. bastone uncinato per tirare la posta sotto la pressa; H. pressa; I. levafeltri; K. levatore o levafogli; L. pressa per posta bianca; M. bacile di rame per versare la polpa nella tina; R. bastone che serve a tenere ferma la vite della pressa; 1. tavola sulla quale si fa scivolare la forma; 2. sgocciolatoio sul quale il lavorante appoggia la forma.

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serviamo contiene una specie di umidità che penetrerebbe nella carta, se non fosse rivestita d’una materia più difficile a dissolversi per l’umido […] 38

La prima operazione alla quale si procedeva dopo la pressatura della posta bianca era la collatura. La collatura, lo abbiamo visto, aveva la funzione di impermeabilizzare la carta agli inchiostri. La colla migliore che una cartiera potesse usare era quella di pesce, ma dato il suo elevato costo pochi ebbero il privilegio di firmare e di far scrivere su carta collata con tale tipo di colla. Più modestamente cinesi e arabi avevano usato colle di origine vegetale; gli italiani introdussero, invece, colle di origine animale che le cartiere fabbricavano in loco. La colla di qualità migliore era ottenuta facendo cuocere cascami di pelli bovine e caprine e prendeva il nome di “garavella”.39 I fogli di carta venivano

immersi in un bagno di "gelatina animale" ricavata dal "carniccio" scarto, appunto, delle locali concerie. Tale trattamento donava alla carta, oltre ad un notevole grado di collatura, una grande compattezza all'usura.

[…] La colla si fa con ritagli apprestati da’ conciatori. Essi ritagli consistono in piccioli pezzetti o strisce di orecchie, corame, colli, piedi, trippe […] quella colla che è fatta col cuoio è resistente ma essa diminuisce la bianchezza della carta perché essa non riesce tanto chiara […] in alcune fabbriche si mette quindi un poco d’indaco nella colla per correggere quel giallastro ch’ella può lasciare alla carta. La migliore colla sarebbe però senza dubbio una certa colla di pesce, che s’adopera a chiarificare il vino ed a lustrare i tessuti di seta. Ma siccome questa colla costa assai bisognerebbe aspirare ad una gran perfezione, per intraprenderne l’uso nelle cartiere […] 40

Il carniccio, previamente lavato, veniva caricato in una caldaia contenente acqua tiepida; l’acqua veniva riscaldata gradualmente fino a raggiungere la temperatura di 90°C e contemporaneamente, la gelatina passava in soluzione nell'acqua calda. Si lasciava il cesto in immersione fin quando tutta la gelatina non fosse stata estratta formando il "brodo". A questo punto si sollevava, con l'apposito verricello, il cesto nel quale era rimasta solo la mucillaggine del carniccio che veniva infine tolta per far posto a nuovo materiale. Dopo qualche ora di riposo, per far decantare eventuali impurità in sospensione, il "brodo" di gelatina veniva trasferito in una seconda caldaia, la caldaia di

38

A. F. Gasparinetti. Osservazioni intorno all’arte…,cit. p. 60.

39

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 121.

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deposito, eseguendo nel contempo la filtrazione per mezzo di un setaccio di canapa nel quale veniva posto dell'allume di rocca (solfato di alluminio e potassio) in ragione dell'1% sul peso secco di gelatina. L’allume aveva molteplici scopi: chiarificare il brodo, aumentare il potere collante della gelatina, fornire una maggiore impermeabilizzazione del supporto cartaceo e favorire un più forte legame tra le fibre. Cinquecento libbre di colla esigevano venticinque libbre di allume con un rapporto, dunque, di 1/20. La vera e propria operazione di collatura dei fogli di carta si eseguiva, invece, in una terza caldaia, più piccola e posta sopra un treppiede, che prendeva il nome di "secchia del collaro”.41

[…] In una stanza si pongono due grandi caldaie di rame incassate con fabbricatura di mattoni ( incassate in fornelli di mattoni) ed un’altra più picciola situata semplicemente sopra un treppiede con una padella di fuoco al di sotto. La prima caldaia ha tre piedi e mezzo di diametro e due piedi e mezzo di profondità, e questa è quella dove si fa cuocere la colla; la seconda è quasi della medesima grandezza, ed essa serve a filtrare la medesima colla e a tenerla in deposito […] tutta questa cottura di colla dura all’incirca 36 o 48 ore […] Nell’ultima caldaia si fa l’operazione di incollatura […] 42

Nella secchia del collaro si trasferiva la quantità ritenuta necessaria di gelatina prelevandola dalla caldaia di deposito; dopo aver diluito con acqua la gelatina, si riscaldava il tutto fino alla temperatura di circa 40°C grazie ad un braciere posto sotto un robusto treppiede sul quale si poneva questo secchio. Il collaro, prelevava una "mazzetta" di carta da 5 o 10 fogli e, manovrandola in modo da staccare i fogli gli uni dagli altri, la immergeva rapidamente nel bagno di colla avendo cura che tutti i fogli fossero abbondantemente impregnati di gelatina; dopo li ritraeva e li poneva in pressa. Con l'azione di pressatura, la gelatina si distribuiva uniformemente sulla superficie dei fogli e la quantità eccedente veniva eliminata e raccolta in appositi mastelli di legno, posti ai lati della pressa. La pressatura doveva essere condotta con cautela, aumentando gradualmente la pressione. L'operazione doveva, comunque, essere completata nel giro di pochi minuti e la colla prodotta impiegata più o meno entro due giorni ( Fig.2.10).

[…] queste sono le qualità costituenti la perfezione della colla: essa deve essere forte, dura, trasparente, flessibile […] 15

41

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 52.

(25)

Affinché la colla risultasse perfetta vi erano, però, delle accortezze da seguire. Ancora una volta riporto un passo del testo “ L’art de faire le papier” in cui J. J. de la Lande suggerisce che:

[…] la collatura deve avvenire nei giorni secchi perché l’umidità cadendo sul foglio tende a sciogliere la colla; ma non troppo secchi per evitare che, asciugandosi istantaneamente, la gelatina possa non avere il tempo di penetrare tra fibra e fibra della carta […] 43

L’ASCIUGATURA

Tolti dalla pressa, i fogli venivano portati ad asciugare. Essi erano stesi in corde di canapa, grazie all’uso di una gruccia di legno a forma di T che prendeva il nome di “aspetto”, al sole o all’interno di un locale, lo “stenditoio”, provvisto di grandi finestre che favorivano la formazione di correnti d’aria e conseguentemente un’asciugatura più rapida degli stessi. Si trattava di un processo svolto per lo più da donne e bambini che spesso, a causa della statura non troppo elevata, si aiutavano con un banco al fine di poter raggiungere più agevolmente i fili di canapa (Fig.2.11).44

43

J. J. de La Lande. L’art de faire…, cit. p. 98.

44 E. Gianni. L’industria…, cit. pp. 38-40

Fig.2.10. Processo di collatura A. operaio che toglie dalla caldaia il canestro con i residui di carniccio; B. operaio che versa la colla su un setaccio per eliminare le impurità; C. collaro; d. assicelle di cui si serve il collaro per facilitare la collatura; D. pressa; E. canaletto di scolo da cui scola la colla in eccesso; F. mastello per recupero colla; G. caldaia in cui si cuoce la colla; H. caldaia di deposito; I. secchia del collaro; K. canestro contenente il carniccio; L. carrucola per sollevare il canestro dalla caldaia.

(26)

LEVIGATURA E CONFEZIONAMENTO

Una volta asciugati ma non secchi, i fogli di carta venivano raccolti e posti a "cargo", cioè impilati e sottoposti alla pressione esercitata da pesi, posti sul piano superiore della pila di carta. Così restavano per più giorni in attesa delle operazioni di "apparecchiatura". Con "apparecchiatura" si intendeva l'insieme delle operazioni di rifinitura con le quali la carta diveniva idonea all'uso. Tali operazioni venivano eseguite solo raramente nelle gualchiere, localizzate "fuori le mura" della città, lungo i corsi d'acqua. Più generalmente a queste operazioni provvedevano i "Chamboreri" o "Cialandratori" i quali operavano in proprio nelle "Chambore" situate nel centro urbano.45 La prima operazione era la "levigatura" che aveva lo scopo di levigare le due

45

A. Annesi. La nobile arte…, cit. p. 56.

Fig.2.11. Stenditoio A. parte di uno stenditoio in prospettiva; B. operaia che raduna i fogli prima di portarli alla lisciatura; C. operaia che stende la carta con l’aspetto; D. operaia che raccoglie la carta asciutta; E. banco delle stenditrici; F. scanno sul quale si appoggiano le poste di carta da stendere; G. pilastri che sostengono la travatura dello stenditoio.

(27)

superfici del foglio di carta onde eliminare la ruvidità acquisita con l'atto di fabbricazione al tino. Essa consisteva nel porre, uno alla volta, i fogli su un tavolo e levigarli con un attrezzo che prendeva il nome di “cialandro”. Il tavolo veniva appositamente rivestito di pelle di montone per ammortizzare la pressione esercitata manualmente dall’attrezzo. Il cialandro era un blocco di pietra pomice, di selce, di agata o di vetro, di forma tronco-conica con la base ben levigata e la parte superiore facilmente impugnabile con la mano. La superficie della carta, sottoposta all'azione di sfregamento con il cialandro, diveniva liscia e scorrevole al tatto, caratteristiche favorevoli per ottenere una buona scrittura con gli inchiostri. Successivamente, questo sistema, più antico, fu sostituito da un altro più moderno. In esso, come vedremo meglio nel terzo capitolo sotto la voce attrezzature, si faceva ricorso ad un grande martello di ferro a fondo pieno che batteva sul marmo del pavimento sotto il quale un operaio poneva, a misura, il foglio, prima una faccia e poi l’altra. La lisciatura, così come la collatura, erano operazioni svolte solo e soltanto sulla carta per scrittura. Alla lisciatura faceva seguito un processo di cernita con il quale venivano messi da parte i fogli rotti o comunque difettosi per buchi, grinze, pieghe, "gocce d'acqua". Essi andavano a costituire la cosiddetta "cernaglia". I fogli buoni venivano contati e assemblati in quinterni, ovvero in fascicoli formati da cinque fogli. I quinterni venivano, successivamente, fasciati in gruppi da venti. Venti quinterni formavano una risma. Le risme, imballate con la carta grossolana ricavata dagli stracci di scarto, venivano quindi spedite ai clienti oppure immagazzinate in locale fresco e asciutto.46

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