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Capitolo 4: Macbetto di Giovanni Testori 4.1- Giovanni Testori

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Academic year: 2021

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Capitolo 4: Macbetto di Giovanni Testori

4.1- Giovanni Testori

Giovanni Testori esordisce come drammaturgo nel 1943, con due atti unici mai rappresentati: La morte e Un quadro. Nel 1948 va in scena al Teatro della Basilica di Milano Caterina di Dio, caratterizzato dall’elemento del sangue (in questo caso presente nella corona di spine) che ricorrerà in tutta l’opera testoriana.1 Nel corso della sua carriera, Testori pubblica anche numerosi romanzi, tra cui Il dio di Roserio (1954), la raccolta di racconti Il ponte della

Ghisolfa (1958) e Il Fabbricone (1961).

Il modo in cui Testori vede il teatro può essere accostato alla visione che ne ha il drammaturgo francese Antonin Artaud; ne Il ventre del teatro, Testori dice:

<<Il teatro, nel suo effettuarsi, perviene a violare e a lacerare il tessuto della società che lo riceve, quanto più, in quella verifica, assale, dilania, esaspera e fa così dirompere i valori nascosti dell’irrazionale>>.2

Ne Il teatro e il suo doppio, Artaud afferma similmente:

<<Il teatro, nella misura stessa in cui rimane fedele al proprio linguaggio e in correlazione ad esso, deve rompere con l’attualità; che il suo scopo non è di risolvere conflitti sociali o psicologici, di servire da terreno di scontro a passioni morali, ma di esprimere obiettivamente verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi quella parte di verità sepolta sotto le forme nel loro incontro col Divenire>>.3

1

G. Santini (a cura di), Giovanni Testori nel ventre del teatro, Urbino: Quattro Venti, 1996, pp. 162-163. 2

A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, pp. 186-187. 3 G. Testori, Il ventre del teatro, <<Paragone>>, giugno 1968, pag. 95.

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Testori teorizza l’importanza di un teatro di parola, un teatro in cui <<la carne tenta di farsi verbo>>4. Per l’autore <<La parola, in teatro, è tutto: è il luogo stesso del teatro. L’azione teatrale non è la trama, la storia, ma è la parola in cui questa storia si incarna. La parola è lo strumento del rito teatrale>>.5

Il drammaturgo si ritiene contrario a un teatro dell’intelletto, in riferimento ad autori come Brecht e Pirandello, le cui opere Testori crede siano sopravvalutate. In un’intervista l’autore dichiara che il teatro è:

<<the only place where one can attempt to say the swear-word that will enrage everyone. The theatre is a religious rite, a sacrifice, an immolation… The theatre doesn’t have to be didactic as Brecht’s, with all due respect for Brecht. [...] theatre, art, in a totally different way, should be unique experiences>>.6

L’interesse di Testori per le opere di Shakespeare comincia nel 1972, quando pubblica l’Ambleto, primo testo nella trilogia degli “Scarrozzanti”, a cui seguiranno Macbetto (1974) e Edipus (1977).7 Le tre opere hanno in comune la figura dello “Scarrozzante”, l’attore-manager di una compagnia teatrale itinerante che si va gradualmente disintegrando.8 L’utilizzo che Testori fa di Shakespeare dimostra l’importanza che l’autore conferisce al drammaturgo inglese; mentre conferma l’autorità di Shakespeare e della sua opera, Testori paradossalmente la riscrive completamente, adattandola ai propri bisogni di espressione. Tale approccio porta l’autore a una inevitabile rotta di collisione con le norme morali e comportamentali generalmente accettate.9

Testori scrive l’Ambleto in lombardo insubre, una parlata inventata nella quale si possono riconoscere influenze di numerosi dialetti italiani e di lingue straniere. Testori afferma che l’Amleto è il testo di poesia che più ama, e che il titolo nasce dal fatto che il testo originale ha incontrato un <<intoppico>>10 ed è diventato l’Ambleto. Spiega Testori:

4

G. Cappello, Giovanni Testori, Firenze: La nuova Italia, 1983, pag. 87. 5

G. Santini, op. cit., cit. pag. 100. 6

D. Righetti, “Testori: L’artista non fa politica, intervista con G. Testori, Il Giorno 4.10.1973, 3. 7

G. Santini, op. cit., pp. 168-170.

8 C. Dente, Never-ending Conflict: Man (and Woman) as Death Bearer in Testori’s Macbetto, in R. King and Paul J.C.M. Franssen (ed.), Shakespeare and war, Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008, pag. 167. 9

Idem, pag. 168.

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<<Credo che l’Amleto rappresenti un personaggio oltre il quale non si può andare, ma proprio per questo può diventare, anzi è diventato, uno stato della coscienza umana. A voce ho detto che l’ho preso a schiaffi. Non è vero. È stato quando il mio amore è arrivato, per usare un’immagine fisica, ad un rapporto quasi “da letto”, che è venuto fuori come un figlio bastardo del grandissimo, esitante e splenetico Amleto di Shakespeare il mio turpe, blasfemo, disperato Ambleto di Lomazzo>>.11

Riguardo al linguaggio insolito e largamente inventato utilizzato da Testori, il drammaturgo dice:

<<Un amico critico m’ha detto che il linguaggio dell’Ambleto sembra venire nello stesso tempo da una stalla, da una fogna, da una caverna e da una tomba. […] In ogni modo l’Ambleto non avrei potuto scriverlo che con il linguaggio che mi è venuto. E mi è venuto nel modo più diretto e naturale. Forse perché il personaggio rappresenta, per adesso, il limite estremo a cui sono riuscito ad arrivare nella mia retrocessione dentro il primordio e la materia>>.12

L’Ambleto è, come già accennato, la prima opera nella trilogia degli “Scarrozzanti”, di cui fanno parte anche Macbetto e Edipus. In questa trilogia, Testori ricorre a una scrittura improntata al pastiche linguistico, dove l’uso del dialetto viene mescolato alla lingua.13 Tutti e tre i testi sono ambientati in Lombardia e non esiste una vera e propria motivazione per la quale la parlata dei personaggi subisca influenze di forme classiche, del latino, e di lingue europee come il francese o lo spagnolo. Nell’Ambleto si può notare <<un impasto linguistico nuovo e originale, per raggiungere rinnovati vertici di espressività>>14.

Macbetto è una rivisitazione del testo shakespeariano con alcune varianti

che possono essere lette, come afferma Annamaria Cascetta, <<come una denuncia della impossibilità del tragico nel senso classico>>.15 Nell’opera di Testori, il protagonista, che nel mondo plebeo dove si trova prende il nome di Macbetto, comincia la sua escalation al potere, che lo porterà a compiere delitti

11

G. Santini, op. cit., cit. pag. 59. 12 Ibidem.

13

G. Cappello, op. cit, pag. 85. 14

Idem, cit. pag. 86.

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4

e profanare i sentimenti più sacri, spinto da un male, la <<stria>>, che gli è fisiologicamente attaccato.16

Testori, sappiamo dalla sua biografia, era sia un omosessuale dichiarato che un fervente cattolico, con tutte le contraddizioni che ciò comporta; nelle sue opere l’autore si rivolge in maniera blasfema contro quella Divinità che ha posto l’uomo in un groviglio di impulsi e proibizioni contraddittorie.17

I riferimenti alla chiesa e a Dio non mancano in Macbetto, dove il primo atto si apre proprio di fronte ai ruderi di un’antica chiesa, e dove sono presenti durante l’opera invocazioni e riferimenti a Dio e a Cristo.

Come in Ambleto, anche in Macbetto viene utilizzato il coro, un vero e proprio personaggio che interviene con saggezza, ma che è mutilato e distrutto dalla guerra, combattuta da Macbet per il re Duncano. Il coro attraversa la tragedia testoriana come <<una presenza più allucinata che reale, la cui sostanza è quella, tutta a tavolino, che lo scrivano e il suo alter ego, il personaggio, gli presta, attraverso l’operazione del linguaggio>>.18

4.2- Macbetto

L’opera di Testori è divisa in tre atti, e nonostante si faccia riferimento a molteplici personaggi presenti anche nel testo shakespeariano durante la storia, come il re Duncano, Banco, Fleanzio e Macduffo, gli unici che dialogano tra loro sono Macbet, Ledi Macbet, la strega e il coro. L’opera di Testori è l’unica tra quelle che abbiamo preso e che prenderemo in considerazione a utilizzare la figura del coro. Questo apre la prima scena, reduce, come Macbet, dalla battaglia combattuta per il re Duncano, e si ferma con il protagonista davanti ai ruderi dell’abside di un’antica chiesa. Il coro, lacerato e straziato dalla guerra, introduce la storia e i protagonisti:

<<Ha inizio, segnori, in questo istante La tragedia famosa e perfamosa

Di Macbet e della Ledi, sua lucente sposa. Actus primierus, primiera scena

16

A. Cascetta, op. cit., pag. 107. 17

C. Dente, op. cit., pag. 170. 18 Idem, cit. pag. 107.

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Representans montanorum paesaggicus ambientus Et villicosa, cervatica, impenetrata foresta e boscaria, coverti omnes, imbiancati et subissati

di granda, immacolata nevaria>>.19

Il coro apre tutte le scene, presentando l’azione e commentando i fatti, e interagisce via via con i personaggi, in particolar modo con Macbet.

All’inizio del primo atto ci troviamo, come detto, presso i ruderi dell’abside di un’antica chiesa, <<simile a quelle che si trovano sperdute sulle montagne o dentro le valli>> (pag. 6), e sul davanti della scena è posto un blocco di pietra, resto di un altare. Già con l’entrata in scena di Macbet, che lamenta dolori intestinali per aver preso delle pillole consigliateli della Ledi, capiamo quale sia il tono dell’opera. Vediamo che questi dolori portano Macbet a “partorire” la <<stria>>, che da dentro lo incitava nella fatica: <<Sforzati Macbet! Ancora un po’ di spingimenti…>> (pag. 17). Durante questo siparietto irriverente, tra un incitamento e l’altro, la strega rivela a Macbet la profezia sul suo futuro: <<Di Glamis sarai sire!>>, <<Sarai di Caudor soverano!>> (pag. 18), e infine: <<Sarai di Scozia il re! No, non mentisco!>> (pag. 19). Nell’opera di Testori, la strega è soltanto una, e il suo ruolo è molto più esteso rispetto al testo di Shakespeare. Macbet, infatti, interloquisce con la donna tanto quanto con la Ledi, se non addirittura di più. Dopo avergli rivelato ciò che lo aspetta, la strega incoraggia Macbet a incontrare il proprio destino: <<Tu va’ al totalo compimento di te, della tua Ledi, e, donca, anca di me>> (pag. 24).

Nella seconda scena conosciamo Ledi Macbet, che finora era solo stata menzionata, e la troviamo intenta a leggera la lettera del marito che, tra le altre cose, la informa della profezia della strega. Quando infine si incontrano, marito e moglie preparano il loro piano per uccidere re Duncano e accelerare i tempi dell’avvento del regno di Macbet. Al momento fatidico dell’uccisione del sovrano, il protagonista, proprio come nell’opera di Shakespeare, fa fatica ad impugnare l’arma del delitto:

<<est un pugnalo.

Lo vardo staccato d’in del me, plastifigato.

19

G. Testori, Macbetto, Milano: Rizzoli, 1974, pag. 13. Tutte le citazioni dal testo sono tratte da questa edizione.

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6 L’elsa incontro mi volgisce;

di poco in poco inverso la mia mano la spingisce…

vuoi che ti branchi? […] Me fai pagura… […] Nell’abbaiante buio Più che vederti,

orribile lama di pugnalo, con le nari ti sento.

Odor provocatorio d’umana elargiziona, serai la mia vittoria

o serai la mia indemoniata perdiziona?>> (pag. 36)

È poi Ledi Macbet che consegna il pugnale nelle mani del protagonista e lo guida nell’assassinio che da solo non riusciva a compiere, rassicurandolo che adesso le loro colpe sono eque: <<Le colpe tue diventeràn nostre, anzo diventeràn le mie!>> (pag. 39). La mattina successiva, l’omicidio viene scoperto da un corista, che grida al tradimento.

I dialoghi tra Macbet e la strega continuano durante tutta l’opera, e la donna indica al protagonista la prossima vittima nella sua scalata al potere: l’amico Banco. Ai sensi di colpa di Macbet la strega ribatte dicendo: <<La morte di Banco decisa l’hai di già nell’atto d’ancidere Duncano e incominciar l’orribila scalata>> (pag. 57). La strega poi fa dono a Macbet di un’ultima profezia:

MACBET

Disi che è già nasciuto Chi Macbet poderà ancidere E far fuori?

LA STREGA Far fuori ti podrà Solo chi nato non serà

Né femmina, né maschio. (pag. 56)

La profezia differisce quindi da quella shakespeariana; non un uomo che non è nato da donna potrà uccidere Macbet, bensì qualcuno che non appartenga a nessuno dei due sessi. Il protagonista non riesce a spiegarsi chi mai possa essere questa persona: <<né femmina, né maschio? E chi poderà mai essere quest’uno? Se non il nissunissimo nissuno?>> (pag. 64).

All’avvicinarsi del momento dell’assassinio di Banco, la Ledi fa dei riferimenti, con poco velata ironia, alla possibile omosessualità dell’amico di

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Macbet, che probabilmente nutriva dei sentimenti proprio per il protagonista. Un corista-sicario uccide Banco e, al momento del banchetto in onore del nuovo re e della nuova regina, Macbet inorridisce nel veder apparire il fantasma dell’amico defunto, e le sue parole sono molto simili a quelle shakespeariane: <<Chi di voi ha questo fabbrecato?>> (pag. 79).

All’inizio del terzo e ultimo atto, Macbet riceve la notizia che Macduf ha formato un esercito e si prepara all’assalto appostato nella piana di Birman. Il protagonista si consulta ancora una volta con la strega per trovare un piano d’azione, e qui si apre un altro dei siparietti dell’opera, quando la donna gli consiglia di utilizzare il “gas” prodotto dal suo corpo e da quello della Ledi per controbattere all’avanzata nemica:

LA STREGA

[…] Della tremenda potestà Il ‘belico, che dalla nassita già fu, deventa il fulcro, il centro.

Dal ‘belico risale in su, verso la crappa, ma scarlìga anca giù, verso la ciappa. MACBET

‘Messo che quel che disi sia del vero, ‘pena però sortisce

Il gas del mio intestino Subito si vanifica, sparisce… LA STREGA

Invece in di dei sacchi di canapa e di lino

lo serrerète su. Dentro in così fermenterà ancor di più,

sommandosi venefico deventerà, maggiormente, mortifero, letalo. (pag. 92)

La strategia suggerita dalla strega funziona, e l’esercito nemico è sconfitto. Macbet è stanco di tutte le conseguenze a cui ha portato la sua scalata al potere, e decide in un primo momento di lasciare il trono e il comando alla Ledi, ma poco dopo sfodera un pugnale e accoltella la moglie. Ledi Macbet è sul punto di morte, ma riesce ad afferrare l’arma e affondarla nel corpo del marito. Muoiono infine prima la moglie e poi il protagonista. L’opera viene chiusa dal coro, che si rivolge direttamente al pubblico:

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8 <<Che sarà ‘desso de noi,

de voi, de tutto questo stato, de tutta questa giesa,

de tutto questo orribile teatro? Tutto, vardate, è marcio, desfatto et infettato.

E come osar possiamo a voi contare, voi che per ascoltare arete pur pagato, che intanta che in eterna,

avanti va in così il mondo qui creato, l’ultemo atto s’è serrato

e tutto il trageco complesso su quest’orrenda scena fenito è ormai per sempre e tormentato?>>. (pag. 124)

4.3- Linguaggio

Uno degli aspetti più interessanti della scrittura di Testori è il linguaggio che l’autore utilizza nelle sue opere. Nel caso di Macbetto, come già accennato, i personaggi parlano una lingua inventata, una variante di lombardo arcaico mai veramente parlato, che è il risultato di più lingue e dialetti mischiati insieme. Carla Dente suggerisce che questa scelta linguistica voglia rappresentare le varie guerre che hanno afflitto la Lombardia, dato che questa lingua comprende parole e espressioni appartenenti alle varie lingue parlate dai popoli che nei secoli hanno invaso la Lombardia. La Dente spiega: <<this language is the arena where another war is taking place, fought through a pastiche of Latin, Longobard, French, Venetian, German, with the addition of invented lexemes necessarily resembling those of standard Italian, in order to secure both understanding and defamiliarisation>>.20

Quella del linguaggio testoriano è una vera e propria “questione”; dice Annamaria Cascetta che lo studio di questa lingua compie un itinerario

<<passando dal riconoscimento di una funzione mimetica del parlato popolare al riconoscimento di una originale invenzione sperimentale in funzione espressiva o espressionista, sostenuta da un’intenzione non ironica e sempre meno parodistica. Come descrivere l’oggetto e secondo quali fasi tracciarne lo svolgimento? Come iscriverlo nella tradizione culturale? Quale significato attribuirgli? Sono queste le questioni che la lingua di Testori pone>>.21

20

C. Dente, op. cit., cit. pag. 173. 21 A. Cascetta, op. cit., cit. pag. 167.

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È indiscusso che Testori abbia inventato un nuovo linguaggio, un linguaggio artificiale in cui si incontrano e si mescolano lingua e dialetto, gergo e cultura, basso e alto, contemporaneità e storia.22 Sul piano tematico e delle scritture retoriche, afferma Giovanni Cappello, non ci sono novità; le novità appaiono invece a livello metaplastico, con deformazioni lessicali e il ricorso a codici e livelli linguistici diversi.23 L’esperimento della lingua artificiale e artificiosa è compiuto sia nell’Ambleto che in Macbetto, e uno dei problemi posti da questa innovazione è: <<L’utilizzazione […] di una tecnica di riscrittura, di reinterpretazione, di ripresentazione straniata e straniante, non finisce col diventare una parodia di tragedia, una vera e propria antifrasi del genere tragico?>>.24

Per quanto riguarda la crudezza e la volgarità del linguaggio di Testori, questa non è apprezzata da alcuni, che la ritengono non solo eccessiva ma anche inutile. Macbetto mostra ampiamente questo aspetto della scrittura di Testori, e ogni personaggio utilizza con disinvoltura un linguaggio violento e decisamente colorito. Le prime parole pronunciate all’inizio dell’opera appartengono al coro, che recita a mo’ di cantilena:

<<Merda, sangue, merda! Cos’è la guerra

Sia che si svincia, sia che si perda? Merda, sangue, merda! Riesci a vardarmi te?

Sangue vardo, sangue e merda

Merda e sangue come in me!>> (pp. 9-10)

La scena dell’espulsione della <<stria>> dal corpo di Macbet, poi, non solo crea un momento irriverente, ma il tutto è reso ancora più provocatorio dal linguaggio libero da qualsiasi inibizione: <<Non partorisco merda! Partorisco ‘na vipera, ‘na fiera! L’orefizio si fa ‘me ‘na caverna, ‘na miniera…>> (pag. 17).

Anche per quanto riguarda la sfera sessuale, il linguaggio utilizzato dai personaggi di Macbetto non conosce pudore o freni morali di qualsiasi tipo; la

22

A. Cascetta, op. cit., pag. 167. 23

G. Cappello, op. cit., pag. 86. 24 Idem, cit. pag. 87.

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Ledi, alla prospettiva di diventare presto re e regina, incita il marito all’assassinio di Duncano:

<<Perché se capacio tu te non lo sarai Ti spingerò cont il grilletto mio!

Più del sesso d’un asena di monta È turgedo e acciaresco;

di lui t’incularò con la mia forza! Così ti mostrerò che il poteraz

Tira la figa e il culo più del caz>>. (pag. 29)

Macbetto non è l’unica opera scritta in una lingua inventata e così

violenta e cruda. L’autore risponde così alle critiche mosse nei suoi confronti e spiega il motivo delle sue scelte:

<<Eppure l’uso delle parole violente non è deliberato. Esse affiorano naturalmente, quando scrivo, alla superficie di me, cadono sulla carta insostituibili, inevitabili. Sono le parole-emblema, le più sacre. […] Queste parole violente o, come si dice, oscene, sono in realtà gli “oggetti” del testo; o, se preferisci, del rito. “Devono” ferire. […] si può dire questo: che la necessità di inventare una lingua per esprimere determinate cose, eventi, pensieri, sensazioni, deriva anche dal fatto che la lingua italiana, così come circola oggi nella vita quotidiana e sui giornali e alla televisione, sulla ribalta di un teatro, a mio parere, non serve più. Tutto ciò che di istintuale e di atavico e di primitivo e di degradato […] io voglio esprimere, […] non potrei farlo passare attraverso l’italiano normale, non avrebbe senso>>.25

Così Testori giustifica perfettamente la sua scelta anticonformista e rischiosa, ma di impatto e successo.

4.4- Gender

A Testori è stata attribuita una forte misoginia, nonostante molte delle sue opere abbiano titoli che portano nomi di donna. Al riguardo, l’autore dichiara di amare la donna, esattamente come ama la vita, ma anche di odiare tutto ciò che è violazione:

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<<La realtà è che ho in odio la violazione. E lei, la donna, la Ledi, è la violazione prima, la ferita originaria. Se l’uomo avesse avuto la possibilità di sopportare la vita, anche nei momenti di più abbagliante felicità… Se la donna mi avesse dato i termini e i mezzi per accettarla, la vita… Invece, per una specie di oscuro nodo ancestrale, nel mio amore per la donna c’è insieme l’attrazione e la repulsione per la voragine, il precipizio, il risucchio da cui tutto è uscito. Quel risucchio che non riguarda solo l’uomo, certo; ma l’intera natura e tutto il dolore, la somma di sofferenze che la abita; e che provoca. Non so se questo significa essere misogini>>.26

Nel Macbetto il rapporto tra il protagonista e la sua Ledi, in allusione al testo shakespeariano, è basato sulla consapevolezza di entrambi che sia lei ad essere “l’uomo” nella relazione. Già nella prima scena, Macbet, nel soffrire durante l’“espulsione” della strega dal suo corpo, dice: <<Mi sento farmi donna>>, ma la “stria” controbatte rispondendogli: <<Donna? Più mascolo di prima e più cazzento!>> (pag. 19). La donna è l’unica però a pensarla in questo modo, in quanto ogni qualvolta si parla di ruoli nella relazione con la moglie, è chiaro che i loro sono completamente invertiti. Macbet stesso non nasconde la verità, tanto da dire: <<Il cazzo ce l’hai te, sempre t’el dissi; la figa arei doruto averla io!>> (pag. 22). Questo tipo di scambio di caratteristiche sessuali, nota Carla Dente, non è fine a se stesso, bensì è una drammatizzazione della questione della sterilità che i critici hanno a volte tratto dalle parole di Lady Macbeth: <<Come, you spirits […], unsex me here>> (Macbeth, 1.5.39-42).27

Macbet espelle la strega dal suo corpo come una sorta di correlativo oggettivo degli impulsi verso il potere e la distruzione espressi dalla sua coscienza, che lo porteranno al tradimento e all’omicidio.28

Macbet riconosce che la sua volontà è sottomessa a quella della moglie, che governa interamente le sue azioni – <<o Ledi mia, o te, mia femmina e grilletto>> (pag. 28) – e nella lettera inviatagli dal marito, la Ledi legge: <<Adesso siamo ancor più a paro, più niente ci divide anca del sesso>> (pag. 28). Dopo l’assassinio del re, nel testo di Shakespeare leggiamo di un finto svenimento da parte di Lady Macbeth, nel tentativo di rendere più credibile il suo sconvolgimento alla notizia dell’omicidio di Duncan; nel Macbetto invece, in

26

G. Santini, op. cit., cit. pag. 66. 27

C. Dente, op. cit., pag. 171. 28 Ibidem.

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maniera parallela e opposta, è il protagonista stesso a svenire, non per finta ma per l’angoscia di aver compiuto un tale gesto.

La debolezza di Macbet inorridisce la Ledi, che sminuisce la sua virilità ad ogni occasione:

MACBET

Sposa, mi fai pagùra… LEDI MACBET

Sposa sei te, non io,

se in così tu te stremisci. (pag. 42)

Più avanti, quando la Ledi rivela a Macbet di aver fatto un sogno erotico con protagonista Banco, alla domanda del marito sul perché proprio Banco, la Ledi risponde: <<Imperché Banco è duro, tenacio, masculento, no vergina ‘me te!>> (pag. 67), nonostante poco dopo la donna insinui che l’amico di Macbet fosse innamorato proprio di lui. Anche la strega non risparmia allusioni di genere nei confronti di Macbet, tanto da chiedergli ironicamente: <<Sei re o invece segnorina vanesia e tremebonda?>> (pag. 54).

Nella parte finale dell’opera, Macbet decide di scambiarsi di ruolo con la moglie definitivamente consegnandole la corona e dandole il potere che finora ha esercitato lui:

<<A te che sei il vero capo e il vero caz La corona vorarìa offrire e consegnare; e, insieme alla corona,

il scettro e il poteràz>>. (pag. 83)

La Ledi non trattiene un ennesimo insulto alla virilità del marito, e insinua addirittura che l’uomo debba essere trattato come un bambino:

<<Mi sembri un piscinino

Che alla prima uccisiona sia ‘rivato. Tremi ‘me un fantolino,

di più, ‘me un piccolo rattino Salisci, sù, salisci qui, in del lettone

che dentro al seno mio

ti terrò al caldo e al nascondone. Vieni così, su, vieni in del settone

(13)

13 che io comencerò la granda ninna-nanna o dormizione>>. (pag. 111)

Verso la conclusione dell’opera, Macbet scopre che la persona che l’avrebbe annientato, quella indicata dalla strega come <<né femmina, né maschio>> è in realtà proprio la moglie. Quando infatti il protagonista decide di uccidere la Ledi e la accoltella, la donna riesce a difendersi colpendolo a sua volta, ed è in quel momento che Macbet realizza il compimento della profezia.

Nelle sue ultime parole al marito, infine, la Ledi si riferisce un’ultima volta alla virilità di Macbet, e al fatto che non sia mai stato veramente un uomo.

MACBET

Non evi morta ‘lora? Il né femmina, né maschio, donca evi te?

LEDI MACBET Me, sì, me!

Ciappa evirato, ex maschio, cesaràto (pag. 119)

Macbet uccide la moglie nel momento in cui realizza ciò che sta accadendo dentro di lui, e a quel punto decide di agire contro se stesso e accoltella la Ledi, la principale causa delle sue aspirazioni al potere. In

Macbetto, dunque, il protagonista e la Ledi si uccidono vicendevolmente,

prendendo la distanza dal suicidio più o meno espiatore di Lady Macbeth e la morte nobile del marito nel testo di Shakespeare.29 Carla Dente commenta così la conclusione dell’opera:

<<The existential situation […] is that of a man who is essentially honest, but has always been a slave to the woman who haunts his life and is portrayed as the repository of all evils. While stabbing his wife, Macbetto addresses the audience, unveiling the secret of women’s power over men. His wife responds by stabbing him in turn, while celebrating women’s greater stamina in their lust for power, and their location at the foundation of life, in all its manifestations, both high and low:

La Gloria della figa comincia a mosteràrsi solo ‘desso, la vedarete scendere su noi e su de voi:

la gloria d’essere de tutto e tutti la nàssita, la tetta,

(14)

14 la latrina e anca il cesso. (pag. 119)>>.30

4.5- Potere

Il tema del potere è piuttosto centrale nel Macbetto; l’espulsione della strega dal corpo del protagonista rappresenta la materializzazione delle ambizioni nascoste dentro l’animo di Macbet il quale, una volta portati quei desideri alla luce del sole, soprattutto grazie anche alle spinte della Ledi, non si ferma davanti a niente nella sua <<orribila scalata>> (pag. 56). Nella sua rilettura di Macbeth, quindi, Testori vuole portare l’attenzione alla brama dell’uomo nei confronti del potere, un’ambizione che getta ombra su qualsiasi altro sentimento umano come l’ubbidienza dovuta a un re, il rispetto della legge dell’ospitalità, gli istinti materni, il naturale desiderio di proteggere i figli, e la pietà nei confronti di chi soffre.31

La questione della brama di potere si accosta, in Macbetto, alla tematica della guerra e delle sue conseguenze. L’opera si apre con il coro, decimato e distrutto dalla battaglia, che commenta sulla natura e sugli effetti del conflitto:

<<Merda, sangue, merda! Cos’è la guerra

sia che si svincia, sia che si perda?

Merda, sangue, merda!>> (pag. 9)

Il coro, come già detto, è composta da vittime di guerra, superstiti della battaglia che descrivono dettagli di corpi feriti, parti del corpo insanguinate, arti mutilati, e parlano apertamente contro qualsiasi forma di autorità, che sia la Chiesa o lo Stato.32 Sia Shakespeare che Testori, poi, accrescono le nostre aspettative dall’eroe della storia prima che questo entri per la prima volta in scena, in modo che il protagonista possa essere immediatamente riconosciuto per il potere conquistatosi grazie al proprio coraggio in guerra. Proprio quel sentimento di trionfo porta gli eroi di entrambe le opere ad avere una bramosia di potere che non si ferma davanti a nessun ostacolo: una volta che il processo

30 C. Dente, op. cit., cit. pag. 171. 31

Idem, pag. 169. 32

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di ambizione comincia, il protagonista non ha altra scelta se non il tradimento, l’omicidio, e tutto ciò che è necessario fare per raggiungere l’obiettivo.33

Nel primo atto, quando Macbet dice alla strega dopo il “parto” di sentirsi come una donna, la <<stria>> accosta la virilità al potere:

LA STREGA

[…] se parli del cazzo Esistente solo e veramento:

il cazzo del potero e del dominamento! MACBET

Il cazzo del potero? LA STREGA

Sì, il poteràz!

L’anima tua di te più veritiera! Il veritiero di te e solo amanto! La cadena che ‘i alteri liga giù, ‘me schiavi!

La violenza sanguinaria e dentitiva che isola il te di te sovra il cavallo e inverso la battaglia ti spinge

del grano, dalla grana e del granassa! (pag. 22)

La strega quindi dà persino un nome specifico al potere che deve raggiungere Macbetto: il poteràz. All’inizio del terzo atto, il coro riflette sull’obiettivo finale del protagonista, domandandosi se oltre a pensare all’ <<orribila scalata>>, Macbet abbia anche pensato, una volta al potere, ad essere migliore di chi è venuto prima di lui:

<<Duncano vogliono questi vendicare ma quando poi seran ‘rivati al loro scopo Che deventino meglio del costui

Io, come coro, ci credo assai poco>>. (pag. 89)

Nella parte finale dell’opera, Macbet, nel tentativo di liberarsi dal peso delle sue colpe, si convince a passare sia il comando che il potere alla Ledi, e glielo comunica gettando simbolicamente a terra la corona:

<<Tutto, sì tutto, ti sgiacco lì, ai pié! Regno, bastone, tiara,

(16)

16 globo de oro e stato!

Basta che mi sento liberato

De ‘sto senso, ‘sto fumo, ‘sto parfumo>>. (pag. 115)

Ma il gesto non basta a liberare Macbet dai suoi demoni, e allora il protagonista accoltella la Ledi, in un ultimo tentativo di redenzione. La Ledi però, riesce ad accoltellarlo a sua volta e, non dandosi per vinta, davanti al marito rivendica il fatto che il potere in realtà appartenga alla donna:

<<non più potèro se ciama e ciamerà Quel che voi vuomini tegnite in delle mani, ma potèra!

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