Il ruolo della tendenza empatica nel motivare il nonobligatory helping:
una ricerca su un gruppo di volontari
Anna Maria Meneghini∗, Riccardo Sartori∗1. Introduzione
Trattando delle due grandi inclinazioni del genere umano, il persegui- mento del personale interesse e la disponibilità verso gli altri, Jervis (2002) sostiene che tra gli errori più interessanti del senso comune vi è la convin- zione che le persone siano per loro natura egoiste. Al contrario, gli esseri umani avrebbero una predisposizione innata all’empatia e all’altruismo (Ei- senberg, 1986; Batson, 1991). L’attitudine a prendersi cura di altri si sareb- be mantenuta nel corso dell’evoluzione per aumentare la probabilità di so- pravvivenza e riproduzione di coloro con i quali l’individuo condivide il patrimonio genetico (Hamilton, 1964). Alcuni studi hanno evidenziato co- me le persone siano più propense ad offrire il proprio aiuto in condizioni di reciprocità (Trivers, 1971), tendenza che pare esistere in tutte le culture (Schroeder et al., 1995). Anche in questo caso le conseguenze sarebbero ascrivibili ad una maggiore garanzia di successo evolutivo: le condotte di aiuto contribuirebbero ad aumentare il proprio status e la propria reputazio- ne nella comunità (Wedekind e Braithwaite, 2002). D’altra parte esistono prove che le persone aiutano anche quando sanno che le loro azioni non sa- ranno reciprocate (Grafen, 1990).
Anche Bowlby (1982) include il caregiving behavioral-system tra quelli che guidano l’individuo nell’interazione con l’ambiente. Esso si esplica nella tendenza naturale degli esseri umani a dare protezione e supporto a coloro che sono vulnerabili, dipendenti o temporaneamente in stato di biso- gno. La potenzialità di divenire un caregiver, presente alla nascita, si svi- luppa attraverso esperienze adeguate durante l’infanzia e l’adolescenza, fi- no all’età adulta, ma può essere compromessa da sentimenti, credenze e in- teressi che la spengono o che con essa configgono, possibilità che spiega le
∗Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia, Università degli Studi di Verona; e- mail [email protected]; [email protected]
Psicologia di comunità, n. 2/2011
differenze interindividuali nella responsività all’accudimento (Shaver, Mi- kulincer e Shemesh-Iron, 2010). Il caregiving behavioral-system, analizza- to dal teorico inglese dell’attaccamento solo dal punto di vista della sensibi- lità e responsività materna, può dar conto di molte condotte umane, non ul- tima quella dell’impegno nel volontariato (Shaver et al., 2010). Inizialmen- te riservato in particolare alla cerchia di familiari e amici (George e Solo- mon, 2008), il sistema di accudimento, infatti, nel corso dell’evoluzione, si sarebbe esteso ad includere una genuina preoccupazione (concern) verso chiunque si trovi nel bisogno.
In linea con l’idea di altruismo innato sono anche le osservazioni prove- nienti dagli studi sul cervello che, cablato per la relazione (Preston e de- Waal, 2002; Hein e Singer, 2010), si avvarrebbe del processo empatico quale meccanismo neurale per l’intersoggettività (Gallese, 2006).
L’empatia è uno stato affettivo isomorfo rispetto a quello di un’altra persona, suscitato dall’osservare o immaginare l’altro in un preciso stato af- fettivo (Hein e Singer, 2010). Essa implica, e ciò la distingue da costrutti quali il contagio emotivo (Bonino, Lo Coco e Tani, 1998), la consapevo- lezza che lo stato affettivo dell’altro è la fonte dell’attivazione emotiva at- tuale (Eisenberg e Fabes, 1990; Bonino, 2006; Hein e Singer, 2010). Pur essendo l’empatia un fenomeno multicomponenziale, l’elemento di condi- visione affettiva è il core del fenomeno, quella che permette di distinguerla da costrutti simili, aventi però una matrice cognitiva prevalente, come la teoria della mente o l’assunzione di prospettiva (Hein e Singer, 2010; Me- neghini, 2010): nel processo empatico la componente cognitiva interviene mediando tra attivazione emotiva e risposta empatica e, mano a mano che il bambino sviluppa capacità cognitive di decentramento, l’empatia giunge a forme più evolute e sofisticate. Secondo Bonino (2006) un decentramento elevato permette «la comparsa di comportamenti prosociali e di aiuto dav- vero decentrati. Al livello più alto diventa possibile anche l’attuazione di comportamenti prosociali verso intere categorie – quali i poveri e gli am- malati – rappresentate soltanto in modo astratto. […] lo sviluppo di tale ti- po di empatia risente fortemente dei valori offerti dalla cultura e dai model- li di socializzazione; si tratta quindi di un’acquisizione a cui non tutti gli adulti necessariamente giungono» (p. 43).
A qualsiasi livello la si consideri, la condivisione emotiva è il punto di partenza per il riconoscimento dell’altro come persona. La capacità di con- dividere le emozioni (empatia) e i pensieri (assunzione di prospettiva) dell’altro permettono di prevederne il comportamento e, conseguentemente, di attivare una risposta di aiuto in linea con i suoi bisogni. L’abilità ad em- patizzare, infatti, implica l’accantonamento temporaneo delle proprie prio- rità per prestare attenzione agli interessi altrui.
Numerosi autori hanno evidenziato la relazione tra empatia e motiva- zioni prosociali (Batson, 1991; Eisenberg e Fabes, 1990; Hoffman, 2000).
La condivisione emotiva, mediata cognitivamente, diviene elemento fon- dante della relazione di aiuto e si lega al comportamento prosociale, insie- me che include qualsiasi comportamento con carattere di volontarietà fina- lizzato a beneficare altri (Caprara, 2006). È difficile delineare con precisio- ne quali siano le manifestazioni concrete della prosocialità ma è indubbio che tra queste vi sia l’attività di volontariato che può essere definito come un insieme variegato di fenomeni che hanno in comune alcuni caratteri:
spontaneità, gratuità, un contesto organizzativo formale entro il quale l’azione volontaria si colloca, e un orientamento solidaristico verso un be- neficiario esterno (Marta e Scabini, 2003). Se il volontariato, nelle mille sfaccettature che assume sul piano pratico, è da intendersi quale espressione della messa in atto di condotte prosociali, adesione e permanenza in orga- nizzazioni di volontariato differenziano questa manifestazione di prosocia- lità da altri tipi di condotte prosociali per il suo carattere strutturato e conti- nuativo (Penner, 2002) e per l’impegno prolungato alla cura, al conforto, all’aiuto e al dono verso persone esterne alla cerchia familiare o amicale (nonobligatory help: Omoto e Snyder, 1995). Poiché l’azione del volonta- rio non è una risposta d’aiuto occasionale o fornita solo in situazioni conno- tate da gravità, urgenza ed emergenza, dove le caratteristiche stesse della si- tuazione, più che i fattori personali, giocano un ruolo rilevante nell’indurre un’elevata attivazione, nell’essere motivati al servizio volontario pesereb- bero proprio le caratteristiche individuali. Per questa ragione molti studi hanno tentato di delineare la helping personality, riscontrando nei volontari, in misura maggiore rispetto ad altre persone, forza dell’Io (Smith e Nelson, 1975), autoefficacia e stabilità emotiva (Yates e Youniss, 1996), autostima e locus of control interno (Amerio, Fedi e Tartaglia, 2003). Davis et al.
(1999) hanno riscontrato un’associazione significativa tra empatia disposi- zionale e volontà ad impegnarsi in attività di volontariato.
Di particolare importanza per il nostro studio è quanto rilevano Penner et al. (1995): i tratti di personalità che si correlano a quella che gli autori definiscono personalità prosociale sono la other-oriented empathy e la hel- pfulness. Gli individui che posseggono in misura maggiore questi tratti so- no persone empatiche che provano sentimenti di responsabilità e preoccu- pazione per il benessere altrui (other-oriented empathy trait), mettono fre- quentemente in atto comportamenti di aiuto e non si sentono a disagio a ri- spondere alle difficoltà altrui (helpfulness trait). Inoltre, Penner (2002;
Penner et al., 1995) sottolinea che aspetto peculiare del volontariato è il fat- to che non risulta da un senso di obbligo personale verso coloro a noi con- nessi da legami intimi (parenti, amici) (Omoto e Snyder, 1995).
2. Obiettivi
Se assumiamo che gli individui, sebbene in misura diversa, abbiano una propensione a prendersi cura dell’altro, cosa differenzia i volontari dai non volontari sul piano della tendenza empatica?
Come si è visto, Bonino (2006) ipotizza che l’atteggiamento prosociale verso intere categorie si leghi ad una forma di empatia caratterizzata da e- levata capacità di decentramento cognitivo. Partendo da queste considera- zioni si è supposto che la specificità della tendenza empatica di coloro che decidono di impegnarsi continuativamente in relazioni di aiuto verso estra- nei, persone cioè a loro non vicine per vincoli parentali o amicali o perché percepite come simili, possa essere espressa non tanto da un parametro di tipo quantitativo (maggiore tendenza empatica in generale), ma piuttosto di tipo qualitativo: chi si impegna nel volontariato sarebbe, come la maggio- ranza degli individui, empatico verso coloro che condividono con lui talune caratteristiche e che quindi possono considerarsi appartenenti all’ingroup (partner, familiari, amici, conoscenti), ma in più avrebbe una tendenza em- patica maggiormente intensa verso coloro che sono a lui meno simili, più lontani dal suo mondo, generalmente percepiti come esterni rispetto alla propria cerchia, gruppo, comunità di appartenenza (outgroup).
3. Metodo Ipotesi
Ipotesi specifica del presente lavoro è quella di riscontrare tra volontari attivi (VOL) e persone che hanno dichiarato di non essersi mai impegnate nel volontariato (NON_VOL) un analogo livello di tendenza empatica nei confronti dell’ingroup, ma livelli diversi nei confronti dell’outgroup, dove ci si aspetta che i volontari mostrino una tendenza empatica maggiore.
Partecipanti
Hanno preso parte allo studio 483 VOL in 26 associazioni e 443 NON_VOL. L’età media è pari a 44.59 anni (DS = 16.32): rispetto a questa variabile i due gruppi non si distinguono in maniera statisticamente signifi- cativa. Per quanto riguarda la variabile genere (F = 479; M = 448), invece, nel gruppo dei VOL le femmine sono di poco più numerose (56% VOL;
47% NON_VOL). Oltre il 92% dei VOL lo è da più di un anno.
Strumento
Per rilevare il grado di tendenza empatica dei partecipanti si è ricorsi al- la versione italiana della Balanced Emotional Empathy Scale (BEES) (Me- neghini, Sartori e Cunico, 2006). La scala si compone di 30 item rispetto ai quali il soggetto esprime il proprio grado di accordo su 7 livelli (da – 3 a + 3). Al pari della versione inglese, quella italiana ha mostrato di essere sog- getta in misura ridotta a bias di acquiescenza e desiderabilità sociale (Sarto- ri, 2005).
Sottoposti ad analisi esplorative e confermative, gli item della BEES si raggruppano stabilmente in cinque fattori.
– Impermeabilità al contagio in stati emotivi interni che denota una gene- rale difficoltà ad empatizzare.
– Suscettibilità al contagio da stati emotivi interni, fattore che esprime pena e partecipazione nei confronti di chi soffre o è in condizioni di for- te disagio.
– Responsività emotiva diffusa che denota tendenza a rispondere emoti- vamente anche a situazioni di fantasia (immedesimazione in personaggi di film, libri, commedie) o a situazioni sociali (matrimoni, assembra- menti di folle, ecc.).
– Suscettibilità al contagio da situazioni-stimolo con contatto del soggetto i cui item descrivono situazioni denotate dall’effettiva presenza dell’altro (contatto visivo, uditivo, ecc.).
– Tendenza a non farsi coinvolgere da condizioni di soggetti fragili che denota una difficoltà a farsi coinvolgere nei vissuti di anziani e bambini.
Precisi riferimenti degli item a target diversi che sono particolarmente pertinenti con la nostra ipotesi (esempio: stranieri piuttosto che amici), oltre alla struttura fattoriale emersa, permettono di distinguere una tendenza em- patica verso l’ingroup e verso l’outgroup.
4. Risultati
Il confronto statistico tra i punteggi totali alla BEES in VOL (M = 29.9;
DS = 19.4) e NON_VOL (M = 23.6; DS = 23.4), tramite t-test per campioni indipendenti, ha prodotto le attese differenze statisticamente significative (t
= 4.5, p < .001).
Anche tra femmine (M = 35.4; DS = 18.8) e maschi (M = 17.8; DS = 20.8) nel campione totale emergono differenze statisticamente significative (t = 13.5, p < .001). Tali differenze permangono anche quando si conside- rano separatamente VOL (MF = 37.2; DS = 16.8; MM = 20.8; DS = 18.5; t =
10.1, p < .001) e NON_VOL (MF = 33.0; DS = 20.9; MM = 15.2; DS = 22.3;
t = 8.6, p < .001). Risulta perciò plausibile supporre per esse una forte componente culturale (Meneghini, 2010).
Per sondare quali fattori pesino maggiormente nel delineare le differen- ze tra i punteggi totali in VOL e NON_VOL, si è proceduto all’applicazione dei Modelli di Equazioni Strutturali (tramite AMOS di SPSS). I risultati evidenziano che, quando si conduce l’Analisi Fattoriale Confermativa della BEES, separatamente per VOL e NON_VOL, con la BEES come variabile latente e i 5 fattori come variabili osservate (RMSEA
<.06; NFI >.93), Suscettibilità al contagio da stati emotivi interni (λ = .85) e Suscettibilità al contagio da situazioni-stimolo con contatto del soggetto (λ = .74) pesano di più nel caso dei VOL, mentre Impermeabilità al conta- gio da stati emotivi interni pesa di più nel caso dei NON_VOL (λ = .52).
Nell’approfondire questi aspetti, attraverso l’analisi degli item che com- pongono i fattori citati, si nota che la specificazione delle diverse sfaccetta- ture della tendenza al coinvolgimento empatico, possibile attraverso la BEES, evidenzia nei VOL, indipendentemente dal genere, maggiore suscet- tibilità a farsi coinvolgere in situazioni emotive positive/negative immagi- nate o che si riferiscono a categorie astratte di persone con caratteristiche diverse dal rispondente (ad esempio: stranieri). Non differisce, invece, tra VOL e NON_VOL, la suscettibilità empatica espressa attraverso item che si riferiscono a persone più vicine o simili (amici, familiari, ecc.), o che ri- chiamano esplicitamente situazioni di contatto diretto con il soggetto che vive l’emozione, sia essa positiva o negativa, attraverso l’uso di verbi che richiamano l’idea di compresenza come vedere, assistere, ecc.
Infine, il confronto tra soggetti che si impegnano nelle 26 diverse asso- ciazioni di volontariato tramite Analisi della Varianza ha messo in evidenza differenze statisticamente significative nel caso di Responsività emotiva dif- fusa (F = 3.0, p < .05). In particolare, tale grado di responsività è maggiore nei VOL che hanno, in prevalenza, un contatto diretto con utenti in difficol- tà (esempio: assistenza a malati terminali, presa in carico di disabili, soste- gno ai senza fissa dimora, ecc.).
È interessante notare come gli anni di servizio nel volontariato si corre- lino positivamente al punteggio totale alla BEES (r = .12, p = .022) e alla Suscettibilità al contagio da stati emotivi interni (r = .14, p = .003): chi ha un’anzianità di servizio maggiore ha anche un’empatia emozionale più ele- vata. La relazione con il punteggio totale alla BEES scompare quando, al posto dell’anzianità di servizio, si considera solo l’età (che con l’anzianità di servizio registra un coefficiente di correlazione r = .20, p < .001) e que- sto nel caso sia dei VOL sia dei NON_VOL (p>.05). La relazione con la Suscettibilità al contagio da stati emotivi interni, invece, diventa più forte
con l’età, ma solo nei VOL (r = .30, p < .001). In questi inoltre, al crescere dell’età, aumenta anche la relazione con la Suscettibilità al contagio da si- tuazioni-stimolo con contatto del soggetto (r = .19, p < .001), fenomeni questi ultimi due che non si riscontrano nei NON_VOL (p>.05).
5. Conclusioni
La differenza statistica presente tra maschi e femmine, nel gruppo sia di VOL sia di NON_VOL, rispecchia quanto rilevato in molti studi che hanno valutato l’empatia con strumenti anche diversi (Meherabian, Young e Sato, 1988; Klein e Hodges, 2001). La maggior tendenza delle donne ad empa- tizzare potrebbe essere legata al fatto che nella nostra cultura l’empatia è un elemento importante nella costruzione di un’immagine positiva di sé per il genere femminile (Meneghini, 2010): ciò giustificherebbe anche una mag- giore presenza di femmine in molte professioni di aiuto e anche tra il grup- po dei VOL coinvolti in questa ricerca. Tale differenza si mantiene costante all’interno dei due gruppi.
Ciò che emerge come interessante dalla ricerca è la presenza di diffe- renze statisticamente significative tra aspetti diversi della tendenza empati- ca tra VOL e NON_VOL.
La maggior parte dei ricercatori concorda nel ritenere che l’arousal em- patico è fondamentale per molti tipi di aiuto (Davis, 1996). C’è, tuttavia, minor accordo sulla natura del fenomeno empatico e sul modo in cui esso effettivamente motivi le persone all’aiuto. A seconda di come l’arousal viene interpretato dal potenziale helper, prende forma la natura della moti- vazione prosociale. Disagio, senso di colpa e tristezza producono compor- tamenti d’aiuto egoisticamente motivati perché guidati dall’obiettivo di al- leviare il proprio stato emotivo spiacevole (Batson, 1991; Cialdini et al., 1997; Piliavin et al., 1981). Sentimenti di preoccupazione empatica, come compassione e simpatia, attivano motivazioni altruistiche con l’obiettivo primario di migliorare il benessere dell’altro in stato di bisogno1.
Accettando come punto di partenza il contributo di un sufficiente grado di tendenza empatica nella motivazione ad impegnarsi in relazioni di aiuto continuative, com’è il caso del volontariato, a nostro parere non è ancora stata adeguatamente indagata la possibilità che sia una diversa modalità di essere empatici a spingere le persone ad attuare tali comportamenti.
La presente ricerca testa l’ipotesi che le persone impegnate nel volonta- riato riportino livelli di tendenza empatica più elevati ma anche qualitati-
1 Si tratta di spinte motivazionali che possono essere co-presenti.
vamente diversi rispetto a coloro che non hanno mai svolto attività di vo- lontariato. In linea con la posizione secondo la quale coloro che si impe- gnano sistematicamente e in modo continuativo in relazioni di aiuto riesca- no ad accedere alla forma più sofisticata di empatia tra quelle individuate in letteratura (Bonino, 2006), i VOL coinvolti nel presente studio hanno mo- strato di essere maggiormente empatici nei confronti di chi è, oltre che bi- sognoso, anche diverso, straniero.
Il ricorso alla BEES ha permesso di differenziare alcuni aspetti della tendenza ad empatizzare e due di essi (Suscettibilità al contagio da stati emotivi interni e Suscettibilità al contagio da situazioni-stimolo con contat- to del soggetto) sembrano in particolar modo caratterizzare il gruppo VOL.
I dati emersi risultano particolarmente interessanti nella misura in cui è possibile ipotizzare che chi si impegna in attività di volontariato tenda a ri- spondere in maniera empatica nei confronti di persone non solo dell’ingroup (familiari, amici, parenti, conoscenti, ecc.), cosa che si può no- tare anche in coloro che non si impegnano in attività di volontariato, ma anche dell’outgroup (stranieri, malati, tossicodipendenti, ecc.). Si potrebbe ipotizzare che i VOL siano dunque indotti a impegnarsi nel servizio da un bisogno intrinseco (motivo) di esprimere i loro alti livelli di empatia verso l’estraneo.
Ricerche che fanno riferimento alle teorie del comportamento intra- e inter-gruppo hanno investigato come la percezione di appartenenza al grup- po influenzi l’aiuto, evidenziando un bias nel favorire i membri del proprio gruppo rispetto ai non membri (Hewstone, Rubin e Willis, 2002). Hornstein e collaboratori (ad esempio: Flippen et al., 1996) hanno rilevato che gli ef- fetti di appartenenza al gruppo aumentano le risposte di aiuto: fattori come la somiglianza o un destino comune possono attivare un senso di we-ness (senso di appartenenza al gruppo), il quale facilita l’empatia che a sua volta porta a comportamenti prosociali più frequenti. Gaertner e Dovidio (2000) hanno mostrato che inducendo un’identità comune di gruppo, aumentano le risposte di aiuto nei confronti di altri precedentemente percepiti come e- stranei: sebbene i fattori associati all’aiuto interpersonale (come somiglian- za ed empatia) si siano mostrati legati all’aiuto, solo la ri-categorizzazione sociale di membri in un unico gruppo media a pieno gli effetti della mani- polazione sull’aiuto. Un’ulteriore evidenza è rappresentata dal fatto che l’empatia si attiva e ha un potere maggiore nel promuovere aiuto quando si tratta di un membro del proprio gruppo rispetto ad un esterno (Sturmer, Snyder e Omoto, 2005) oppure il proprio partner (Singer et al., 2004), un familiare (Barrett et al., 2002) o una persona nella medesima situazione (Cialdini et al., 1997). L’attrazione sembra il fattore più potente nell’attivare l’aiuto nel caso di non appartenenti al proprio gruppo.
Se dunque, come osservano Marta e Scabini (2003), l’empatia non si e- saurisce nelle relazioni duali e reciproche, potremmo distinguere due tipi di tendenza empatica, attribuendo il nome di empatia etero-centrata a quella che, come nel caso dei VOL, fa sì che l’innata propensione all’aiuto superi i confini dell’ingroup, in deroga all’osservazione dell’appartenenza al grup- po come elemento che favorisce la realizzazione di un processo empatico.
Il passaggio dall’una all’altra solidarietà potrebbe attuarsi attraverso un processo di maggiore senso di identificazione (solidarietà identificativa:
Jervis, 2002), verso l’altro straniero, estraneo, diverso; un progressivo avvi- cinamento dell’altro a sé fino ad includerlo nell’ingroup.
La forma empatica verso il diverso, dunque, arriverebbe a superare que- sto elemento facilitante o forse ad abbattere gli elementi di diversità per collassare nell’idea di comunità allargata, quella degli esseri umani. Lad- dove il concetto di comunità ci suggerisce che sia necessario sviluppare un senso di appartenenza che ha componenti affettive, di reciprocità e di fidu- cia, a monte di una maggiore tendenza dei VOL di rispondere empatica- mente e quindi ad impegnarsi in attività prosociali nei confronti del diverso, si potrebbe avanzare l’idea che caratteristiche e confini di inclusio- ne/esclusione arrivino a spostarsi fino a concepire l’altro, in quanto essere umano, facente parte del proprio gruppo/comunità, fino al punto di essere vissuto come vicino, parente e fratello (come diceva Terenzio: homo sum humani nihil a me alienum puto). Future ricerche potrebbero quindi rilevare se e come il senso di comunità si leghi ad una maggiore empatia verso l’estraneo. In conclusione, superando i vincoli della territorialità nell’accettare un più moderno concetto di comunità quale spazio mentale dinamico che racchiude individui e relazioni (Lavanco e Novara, 2006), si potrebbe supporre che rispetto all’idea di gruppo o di comunità di riferi- mento quella di esterno, estraneo, straniero, possa essere diversa tra VOL e NON_VOL. A sintesi di quanto fin qui espresso, si può affermare che se l’orientamento motivazionale prevalente è ciò che indirizza la persona a cercare occasioni per poter soddisfare il proprio bisogno, una marcata ten- denza verso relazioni di tipo empatico, e, in particolare, una matura capaci- tà di vivere vicariamente i vissuti altrui e il concepire l’estraneo come più simile a sé potrebbero essere le caratteristiche personali che favoriscono l’impegno in comportamenti prosociali e in comportamenti di aiuto non oc- casionali, come l’impegno profuso nel volontariato. Esse potrebbero, per- tanto, essere considerate elementi predittivi della propensione ad impegnar- si in tal senso.
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