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Il mio lavoro parte 2

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Academic year: 2022

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11/03/2020 Andrea Mazzoni Gruppo M

Il mio lavoro – parte 2

Questo resoconto vuole proseguire la concettualizzazione dello PsicoTUTOR. Integro il precedente con alcuni feedback e considerazioni ricevuti:

- Nel precedente resoconto lo PsicoTUTOR è stato definito per differenza da altri professionisti, non partendo da una definizione propria;

- Ho visto molto criticamente, già dal momento in cui l’ho scritto, la parte finale dove “escludevo” il caso di Leonardo dal lavoro di psicotutoraggio. Tra gli obiettivi terapeutici principali che sto perseguendo con Leonardo e famiglia vi è la possibilità di costruire un investimento in aspetti produttivi. Perciò l’esclusione la sento falsa, seppur coerente con quanto scritto in precedenza: mi serve quindi cambiare concettualizzazione includendo questo aspetto.

- Il feedback della prof.ssa Paniccia: i clienti hanno parlato poco nel resoconto presentato. Questo resoconto si centrerà sul caso di Camillo e famiglia. Anche il collega Emanuele Soraci mi ha detto che mancava quella parte di lavoro su un caso clinico che desse senso agli aspetti descritti;

- Alcune questioni che sento legate alla mia implicazione rispetto a questa concettualizzazione. Questa è stata per me la parte più difficile da scrivere. Nel precedente lavoro mi sono focalizzato sul descrivere un servizio offerto, evidenziando le differenze con altre offerte nello stesso mercato. In quest’ultima parte integro i concetti logici con il mio vissuto che li connota, vissuto che esprimo faticosamente nei suoi aspetti più crudi.

Sento che esprimere questi vissuti e confrontarmi – con essi e su essi – sia indispensabile.

Definirei lo PsicoTUTOR come un intervento psicologico, psicoterapeutico e riabilitativo completo, per bambini ed adolescenti in età scolare, che persegue la formazione individuale in termini di sviluppo di un sentimento di competenza e agenticità. L’obiettivo principale è costruire con il ragazzo, mediante strumenti psicologici e didattici, un interesse ad investire nella Scuola come luogo di sviluppo e crescita personale.

Questo intervento lavora su tre aspetti:

1) Aiutarlo a comprendere le rappresentazioni che il ragazzo ha di Sè, della Scuola, e della relazione tra questi due → un ragazzo che si sente “stupido” vive la scuola come impossibile. I fatti, compresi i voti scolastici, non hanno senso senza comprenderne il vissuto sottostante, che allo stesso tempo produce e viene da essi rinforzato. Lo stesso voto, un “7”, può esser vissuto come immeritato se il ragazzo si sente “non degno”;

coerente con il proprio impegno oppure come il proprio massimo possibile ed in altri infiniti modi. E’ evidente la differenza tra questi modi di vivere lo stesso voto. E’ perciò centrale che il ragazzo integri questi due aspetti – fatti ed emozioni - nella sua crescita.

2) Aiutarlo a sviluppare attraverso strumenti psicologici ed i compiti scolastici quotidiani un sentimento di competenza ed una riuscita nella scuola.

3) Aiutare ragazzo e famiglia in un compito evolutivo centrale nel passaggio tra infanzia e adolescenza: lo svincolo dalla famiglia a favore di un’individuazione nei contesti produttivi, cioè scolastici ed in seguito lavorativi → per questo obiettivo, oltre al lavoro con il ragazzo, possono venir attivati percorsi di parent training che aiutino i genitori ad aiutare i figli ad investire nel “mondo esterno”.

Lo psicotutoraggio persegue lo studiare come la psicoanalisi persegue la conoscenza di Sé; come obiettivo mai saturabile, come criterio metodologico che apre a possibilità di sviluppo.

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Una riflessione sul lessico usato. Sto usando sempre di più parole che evocano tecnicalità; lo sto facendo pensando che questo registro linguistico proponga una collusione del tipo “su questi problemi ho competenza”. Su ciò mi ha aiutato molto leggere e riflettere sul resoconto di Marta Fusacchia del gruppo O.

Cito un passaggio del suo resoconto “Nel primo incontro mi presento a G come laureata in psicologia, mi chiede se posso fare una terapia a C (il figlio di 4 anni) (…). Le rispondo che avrei giocato con C.”. Su questo passaggio ho pensato che al posto di G. non mi sarebbe piaciuta la risposta di Marta, avrei preferito un “Si certamente; come metodo gioco con lui”. L’aspetto che voglio sottolineare è che sostanzialmente non cambia l’intervento che Marta avrebbe poi fatto - veramente molto bello peraltro - perché “terapia” non è una cosa.

Sto vedendo questa parola come posizione emozionale, una richiesta emozionale del tipo “mi sai aiutare?”.

Provo a spiegare meglio il concetto, anche perché anch’io sto cercando di comprenderlo al meglio. Chiedere una terapia ad uno psicologo non è come chiedere un filone di pane al fornaio. In questo caso il fornaio può rispondere “si” oppure “no, l’ho terminato” ed il risultato è che si esce dal negozio con o senza l’articolo richiesto, o magari con un'altra cosa scegliendo ad esempio “una rosetta”. Nel caso della terapia qual’ è la differenza tra dire “si” o “no”? Nei fatti è molto poca, cosa si farà nell’intervento è una questione di competenza. Tuttavia credo che una differenza ci sia nella simbolizzazione collusiva di quel lavoro e nei suoi correlati, ad esempio il pagamento. Ma non è solo riferibili ad aspetti concreti, credo che istituire un rapporto connotato “dalla terapia” aiuti l’altro, già del primo momento istituente la relazione, a porsi in una dimensione di domanda supponendo di avere a che fare con una persona competente. Partendo da ruoli come “babysitter”, “aiuto-compiti” etc. - che nella nostra società sono simbolizzati come “lo possono fare tutti” - quella posizione di consulenza competente va costruita con il tempo. Non è una questione che “ho chiara”, è una questione su cui voglio riflettere a SPS ma che non voglio liquidare dicendo che non ci sia differenza su come ci si presenta.

Il caso di Camillo e famiglia.

Lavoro con Camillo e famiglia da Novembre 2018. Entro in contatto con questa famiglia in un modo curioso.

Una sera di Novembre vado a cena con il responsabile dell’Associazione per cui lavoro, Matteo, cena che ha come obiettivo discutere dei casi che sto seguendo per capire come programmare uno svincolo dall’Associazione per investire nell’attività privata. Mentre parlo degli sviluppi del lavoro con un ragazzo che sto seguendo Matteo mi interrompe e mi dice “ma saresti interessato a seguire un ragazzo che seguo privatamente in psicoterapia fuori dall’associazione? Considera è il mio preferito e la famiglia mi sta chiedendo un tutor da molto tempo ma mai avevo sentito di poter proporgliene uno, ti va?” al mio “sì” manda immediatamente, alle 21.30, un messaggio alla madre del ragazzo, la sig.ra Marta, con il testo “forse abbiamo trovato un tutor” al quale segue la risposta della sig.ra “non ci credo!”. Con queste premesse Matteo dà il mio numero alla sig.ra Marta, che mi contatta il giorno dopo e prendiamo un appuntamento a studio.

Incontro a studio i sig.ri Giorgetti, una coppia sui 45anni di imprenditori di Focene. Hanno tre figli, C. il più grande di 16 anni e altri due più piccoli di 13 e 10 anni. C. fin da piccolo ha manifestato problemi nell’apprendimento - è dislessico - e nella socializzazione, con sintomatiche di ritiro sociale, ed è per questo seguito sia da un punto di vista neuropsichiatrico sia psicoterapeuticamente da quando aveva 10 anni. Ha una diagnosi molto vaga che include tratti schizoidi di personalità e prende un antipsicotico blando. Vengo a conoscenza di quale fosse la diagnosi specifica e della tipologia di farmaco solo l’altro ieri durante una chiamata con Matteo di cui in seguito parlerò.

Da qui in poi copio ed incollo un resoconto che ho prodotto e mandato a settembre 2019 a Matteo, dopo un anno scolastico di lavoro con C. Questo resoconto non ho ritenuto utile a suo tempo condividerlo con SPS;

ora nella definizione del servizio di psico-tutoraggio trovo invece utile andare a rilavorare su quanto ho già prodotto.

“L’obiettivo del presente scritto è tenere una traccia scritta e condivisibile del lavoro psicologico di tutoraggio che ho effettuato da Dicembre 2018 a Luglio 2019. Ci tengo a mandartelo perché è stato un tuo invio e trovo

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utile condividere con te come ho vissuto il lavoro quest’anno, che svolgimento ha avuto e quali sono i prodotti ad oggi raggiunti. Non è facile riassumere in poco spazio quello che è stato un anno molto intenso di lavoro con Camillo, do un taglio allo scritto per quelli che penso essere i nuclei essenziali in relazione agli obiettivi del mio intervento, tengo anche conto degli scambi avuti in merito nel corso dell’anno.

Incontro per la prima volta i sig.ri Giorgetti il 27/11/18 a studio, dove effettuo il primo incontro con chi si propone committente per analizzarne la domanda. In questo incontro la famiglia mi parla di molte cose riguardanti C. e le sue problematiche; per ciò che concerne la scuola mi raccontano di una chiusura totale da parte di C., tutti sanno che il diploma sarà comprato da loro genitori e quello che chiedono è che a parte il

“pezzo di carta” Camillo studi o si appassioni a qualcosa. Mi dicono che hanno avuto moltissimi tutor, tutti durati mediamente 5 mesi che C. allontanava in vari modi. Costruiamo l’ipotesi che C. viva molto male la sua dislessia e la profonda vergogna lo porta ad evitare o allontanare le persone che, attraverso lo studio,

“stuzzicano” proprio quell’aspetto che lui vorrebbe evitare. Mi dicono anche che C., insieme alla profonda vergogna della sua incompetenza, parla di sogni grandiosi fantasticando incessantemente di diventare un grande imprenditore grazie all’azienda di famiglia e passa molto tempo delle sue giornate a leggere storie di manager ed imprenditori, soprattutto dislessici.

Ci salutiamo con l’obiettivo condiviso che avrei proposto a C. che lo avrei aiutato a sviluppare i suoi interessi, questo passa attraverso lo studio di qualsivoglia cosa lui ritenga interessante. Vedere lo studio come risorsa al servizio dei propri interessi, piuttosto che come gogna che confermi la sua incapacità, nella mia ipotesi poteva essere la molla che permetteva di avvicinarcisi. Ci diamo un appuntamento per il monitoraggio il 4 febbraio.

Incontro C. la prima volta il 4/12. Mi accoglie dicendomi che in casa loro mi sarei dovuto levare le scarpe, affare mio se mi puzzavano i piedi o se avevo i calzini bucati. Già lo adoro. Ci presentiamo e gli propongo l’ipotesi di lavoro condivisa con i genitori. Mi scruta e dice “ok, vediamo”. Tutti i successivi incontri, a cadenza settimanale, seguono questo schema: andiamo sopra in camera, mi parla due ore consecutive dei suoi problemi di varia natura relazionale oppure dei suoi “progetti” sui quali chiede riscontro, studiamo molto poco. Qualche volta invece mi accoglie e mi dice che ci sono delle cose da fare. In quella fase ciò che mi chiede di studiare insieme è un brevetto di Salvamento sul quale sta concentrando le sue energie. Ripensando all’intero anno nella sua totalità, questa fase dell’intervento dall’inizio fino ai primi di febbraio ha un fil-rouge che rintraccio nella “pienezza degli incontri”. Ogni incontro è speso al massimo, ogni volta che esco C. mi ha parlato o abbiamo fatto cose per due ore ininterrotte. Sempre a 3000. Sento una grande utilità nel lavoro che facciamo, parliamo di come lui si rapporta alla scuola, del suo sentimento di incompetenza del quale mi parla continuamente, parliamo della differenza tra la dislessia come fatto con i tutti i suoi correlati oggettivi e la dislessia come vissuto per lui, di come il suo vissuto di vergogna correlato alla dislessia sia di ostacolo, se non a tratti impossibilitante, al poter lavorare per migliorare. Ovviamente gli rimando sempre che ha lo spazio con te per parlare e ciò che gli dico è che il primo senso che colgo nelle questioni che mi porta è che per lui è più facile parlare di queste piuttosto che mettersi a studiare. Ovviamente però, tengo la metodologia che sono lì per aiutarlo e sceglie lui cosa fare. Mi sembra infatti di cogliere quando non studiamo un senso di messa alla prova del tipo “vediamo se è vero che decido io di cosa parlare e non arriva il momento che mi obblighi a studiare”.

Comunque sembra starci a questi riscontri, quando gli dico che preferisce parlare piuttosto che applicarsi sembra ogni volta dire “è vero hai ragione, devo mettermi sul serio”.

Ricordo un incontro preciso in cui ho sentito una svolta, quello prima del monitoraggio con la famiglia del 4/2. Arrivo a quell’incontro e per la prima volta Camillo mi dice che oggi non sa che fare. Mi porta un’emozione di noia. Ne parliamo, gli dico che credo che sia molto utile che sia venuta fuori, nei due mesi insieme non me l’aveva mai portata ed invece io facevo l’ipotesi che lo accompagnasse durante molte delle sue giornate. Parliamo di questo e sento un momento prezioso, come se fosse stato il punto di crollo delle sue difese dopo molte volte che abbiamo detto “cavolo è ora di smettere di parlare di progetti e cominciare a fare cose per davvero, e a 16 anni significa impegnarsi nella scuola”. Ma è un crollo utile, direi più un dolce abbandono.

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Ne parliamo con i genitori il giorno dopo. Loro sono contenti del lavoro che stiamo facendo insieme, non avevano mai visto C. impegnarsi così. Nello spazio dell’incontro scelgono di parlare della loro preoccupazione per lui e del rapporto speciale che intrattengono con C.. Camillo ha su di loro un ascendente che gli altri figli non hanno, mi parlano della loro difficoltà a rapportarsi a lui. Parliamo anche del rapporto tra C. e i fratelli, difficile, desiderato da tutti ma difficile da instaurare. Sembra che C. con le sue particolarità chieda costantemente, soprattutto ai genitori, di essere riconosciuto come unico e proponga rapporti duali ed esclusivi (guarda caso come quello che propone a me). Propongo che più in là si può lavorare su questo aspetto che abbiamo messo in luce, magari facendo attività in gruppo anche con i fratelli. Ci diamo appuntamento per monitoraggio il 10/6.

Da quell’incontro in poi ho sentito effettivamente una svolta, un passaggio da “dico che mi voglio impegnare ma non ce la faccio → lavoro concretamente sugli aspetti da migliorare”. Un passaggio dagli aspetti simbolici al lavoro concreto.

Cominciamo a studiare più continuativamente ed ogni volta lui si impegna in strategie più concrete sulle quali mi chiede aiuto: sottolineare le cose importanti, fare riassunti, schemi etc. Studiamo Dante, Petrarca, Boccaccio, la guerra dei cent’anni e altre cose, su queste cose facciamo delle ricerche e lui si impegna e con molta soddisfazione ancora oggi richiamiamo questi lavori fatti insieme. Mi dice che dalle elementari non si trovava ad impegnarsi nei compiti. Continua a parlarmi di questioni legate alle ragazze oppure alle sue problematiche emotive, ma mentre all’inizio molte volte faceva solo quello adesso si dà la regola “un’ora studio ed un’ora parlo”. Scegliamo di concentrare gli incontri soprattutto sulle competenze lessicali. Legge poco, male e con grandissima fatica. Dopo questa prima fase è possibile parlare dei suoi problemi specifici ed affrontare il fatto che fare esercizio di lettura è la base fondamentale della scuola. Mi dice “ok, per l’estate leggiamo un tomo enorme di food managment”. Gli propongo di leggere un libro più soft, l’obiettivo è fare esercizio di lettura, ma anche provare a pensare se un libro possa essere per lui divertente. Gli propongo dei libri di Calvino che ho già letto e lui sceglie “il visconte dimezzato”. Ci proviamo per un po' a leggerlo ma poi lui mi dice che preferisce studiare per la patente, io gli dico “ok, l’obiettivo era fare esercizio di lettura, quindi anche quello va bene, così abbiamo anche modo di studiare secondo una logica più schematica ed analitica”.

Questi sviluppi del lavoro sono stati anche condivisi con i genitori nell’incontro di monitoraggio dl 10/6.

A che punto siamo. Camillo sta cominciando a sviluppare una committenza nei miei confronti ed anche una domanda a voler investire nella scuola. Mi ha chiesto di aumentare a due volte settimanali i nostri incontri, e mi chiede di “portarlo alla maturità”. La cosa che penso come prodotto è che, a differenza dei primi incontri dove la scuola non era minimamente un suo problema, adesso sta cominciando a parlare di maturità, università private etc. A prescindere da come andrà e dai suoi slanci pindarici dei quali parliamo, c’è stato uno sviluppo nella sua simbolizzazione affettiva della scuola, da una visione denigrante per lui ad un potersene servire. Questo sviluppo è stato co-occorrente alla possibilità di poter pensare la sua vergogna per la dislessia, vergogna che gli impediva di accedere al provare a fare i compiti. Il mettersi concretamente è stato possibile grazie ad un pensiero su questi vissuti (infatti ogni volta prima di mettersi a studiare aveva la necessita di parlarne); ma d’altra parte il fare concreto di ogni incontro rinforzava i suoi nascenti sentimenti di competenza. Non è possibile ancora associare il divertimento e lo svago ai libri. Vedremo come andrà, per il momento la mia funzione è di sostenere i suoi grandi sforzi e l’impegno che sta mettendo, proponendo anche momenti di svago per allentare la sua tensione di “impegnarsi al massimo”.”

Fin qui il resoconto di Settembre 2019 inviato a Matteo. Aggiungo alcune righe del lavoro da Settembre ad oggi. Il lavoro sta procedendo, abbiamo aumentato a due volte settimanali e comincia per lui ad esser possibile pensare di sperimentarsi da solo con un testo; il tempo che si passa a studiare aumenta progressivamente e si comincia ad intravedere lo studiare come quel criterio metodologico, quel faro a metà tra l’impegno, la fatica ed il divertimento di scoprire cose nuove. Ha cominciato a frequentare la scuola, un liceo artistico privato, più assiduamente: fino allo scorso anno faceva moltissime assenze e comunque aveva un permesso, fatto da Matteo, per uscire sempre prima da scuola. Ora di sua spontanea volontà e con sua

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soddisfazione esce sempre alle 15 come gli altri. Parallelamente al lavoro con C. ho iniziato un lavoro con la famiglia; a seguito di un monitoraggio è emersa la loro difficoltà a rapportarsi con questo figlio che sembra inglobato dentro casa. Propongo ai genitori di pensare che “con una mano vogliono spingerlo fuori casa, con l’altra lo tirano dentro”. Mi dicono che è proprio così, “hanno paura di Camillo nel mondo e di un mondo con Camillo”. Ho proposto 6 incontri, a distanza di tre settimane l’uno dall’altro, centrati su questo obiettivo:

lavorare con loro per pensare la loro proposta emozionale inconscia che fanno a C. L’obiettivo è sempre aiutare Camillo ad investire nel mondo esterno, aiutando i genitori a pensare la loro implicazione in questo.

Siamo al secondo incontro; ciò che è emerso è un grande sentimento di sfida che C. propone loro, centrato anche su proposte che hanno a che fare con fantasie incestuose o con parole di sfida pesanti alle quali loro faticano su come rispondere pensando che non sia lui a parlare, ma siano i suoi problemi a parlare per lui.

Recentemente c’è stato un incontro critico tra me e C. Era arrabbiato con me per motivi che abbiamo esplorato con molta difficoltà. Fondeva insieme: 1) una lamentela sul fatto che parlava con me mentre aveva lo spazio con Matteo, un rapporto consolidato da molto tempo, per parlare; 2) aveva percepito che lo avessi incalzato a fare i compiti proponendogli una cosa troppo difficile e si era risentito; 3) una minaccia sul fatto che finora gli ero andato bene ma lui ci mette poco a farmi fuori.

Ho sentito che mi stava identificando con le sue angosce persecutorie che proiettava in me, con le quali mi stava chiedendo di identificarmi. Gli ho rimandato che “io sono qui per aiutarti a sentirti competente ed oggi il terreno ove mettersi in gioco è la scuola. Sono qui per questo fin quando tu vorrai. Ma non ho potere di dirti cosa bisogna fare perchè non è utile per te, ti posso aiutare solo dove tu mi porti una domanda. Noi parliamo perché tu vuoi parlare, non io. Io ci sto e ti aiuto su quello che vuoi tu, dalla patente, al salvamento, alla scuola o al parlare dei tuoi rapporti con i pari, ma sei tu che scegli l’oggetto.”

Dopo questo incontro, che ho sentito molto utile nel nostro rapporto, la domanda di Camillo è cambiata: mi chiede di studiare con maggiore continuità e per quasi tutto il tempo delle due ore. Si impegna a capire e si sforza di leggere e di migliorare nelle sue competenze; lo studiare sta diventando un criterio metodologico, un obiettivo mai saturabile.

Considerazioni ed implicazioni emozionali.

Io credo, presuntuosamente perché non è dimostrabile, che Camillo sia stato trattato male da un punto di vista terapeutico. Matteo mi ha detto di “averlo da sempre pensato grave”, coerentemente a ciò ha da subito puntato sul fargli avere una diagnosi, con ritrosia da parte dei genitori, e a responsabilizzarlo sui farmaci da prendere, un antipsicotico che lui stesso mi dice blando, prescritti da un neuropsichiatra che conosco anche io perché lavora nella stessa Associazione. Recentemente mi ha detto che finalmente ha capito la sua diagnosi dopo 6 anni di lavoro e me la stava dicendo come una rivelazione: secondo lui ha un nucleo autistico. Mi invitava con il tono felice di uno che ha capito una cosa a vedere tutti i sintomi per confermare quest’ipotesi.

Ora una mia diagnosi su Camillo, una lettura che anche Matteo condivide. E’ un ragazzo molto bello ed estremamente intelligente, mi stupisce come riesca a capire dei concetti anche di fisica dopo così tanto tempo che non apre libri, che si sente molto solo e ci si sente da molto tempo, con una gran voglia di costruire i rapporti ma con un terrore di non saper come fare. In quest’ultimo anno ha cominciato ad avere amici a scuola e ad andare a partite di calcetto, ad avere interesse per le ragazze e a porsi il problema di come approcciare o di come non respingerle. Una volta mi ha detto di sé commuovendosi “Sono bello e ricco…ma che ho che non va?”. Da molto piccolo ha vissuto la scuola come un incubo, si rapportava sempre con altri più bravi di lui e si è sentito incapace, per la vergogna che qualcuno scoprisse quella che lui chiama la “sua dislessia” ha chiuso una saracinesca e si è ritirato nella sua cameretta a fantasticare. I genitori molto preoccupati per lui hanno cercato di aiutarlo per come sapevano fare, cercando di spianargli la strada il più possibile senza farlo mai misurare con il mondo. Questa lettura, condivisa anche da Matteo, secondo quest’ultimo non parla di problemi a sufficienza: per una presa in carico terapeutica bisogna che ci sia questo elefante della diagnosi, che non è neanche precisa.

Che costo ha avuto per C. e famiglia ricevere questa diagnosi nel loro vissuto? Questo sentimento condiviso da C. e famiglia di aver a che fare con qualcosa di più grande di loro e mai comprensibile? Un costo altissimo,

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di non sapere cosa fare con un problema che vivevano e quindi stare con il sentimento di non saper chi si è o chi si ha davanti.

Voglio precisare che Matteo è uno psicoanalista di orientamento lacaniano, sui 35 anni, che considero un bravo professionista se penso alla media di quelli che conosco tra associazione e ragazzi che si sono laureati con me. Tuttavia riconosco in lui un modo specifico di trattare i problemi, che ho associato agli psicoanalisti moderni che uniscono psicoanalisi e cognitivismo in nome di un approccio globale, che ho lungamente incontrato durante l’università:

1) Colpevolizzare i genitori. Nel corso della telefonata con M. accennata prima, ove condividevo gli ultimi sviluppi sul lavoro ed in particolare gli incontri con i genitori, M. mi ha detto più volte di stare attento perché i genitori “boicottano” gli interventi. Lui stesso ha deciso di non incontrarli più constatando i loro comportamenti boiccotanti. Gli ho chiesto “scusa ma non puoi condividere con loro perché non li incontri?”

“no, sto sviando da un po’ e alla fine hanno capito, però ci provano sempre ad immischiarsi. Pensa una volta il fratello di C. non è potuto andare a logopedia ed è entrata la mamma chiedendo di parlare di come stava andando la terapia; a questo livello sono invadenti con i figli!”. Mi dice che devo stare attento perché se mi alleo con i genitori rischio di mettere in crisi il rapporto con C.; il mio ingresso lì è stato possibile perché lui, M., lo ha condiviso con C. e ha messo la mamma di fronte al fatto compiuto. Mi sta dicendo anche che sta provando a “forzare” con C. affinchè chieda una stanza tutta per sé invece di dormire con i fratelli, per un maggiore svincolo. Io mi interrogo su come sia possibile che lui riesca nella stessa telefonata a dire una frase del genere, e altre simili, e contemporaneamente dirmi di stare attento che gli incontri con i genitori non siano una mia domanda, citando “la posizione dell’analista” lacaniana. Mi chiedo davvero come sia possibile, pensando che è possibile e non è “un errore” o una contraddizione la sua.

2) Centrare il lavoro sul deficit. Contrariamente ai buoni propositi dichiarati di lavorare sulle risorse si punta alla risoluzione sia di dinamiche intrapsichiche, sia di aspetti tecnici della dislessia o dei vari disturbi. Questa posizione è evidente anche nel punto precedente: ci si concentra sui problemi di C., della famiglia etc. ma su questi problemi sostanzialmente si lavora con modalità dividi et impera e si insultano le persone alle spalle (il vero matto lì è il padre e la madre è ansiosa). Io propongo come chiave di lettura ai problemi l’adattamento al contesto, ad esempio scolastico, lavorando per situare il problema entro una relazione. Idem nel contesto familiare: lavorare con i genitori o con C. per riflettere su come avvengano le relazioni in famiglia nell’ipotesi che si possano sviluppare e ci sia domanda di questo. I genitori ad ogni incontro a studio mi dicono che è molto prezioso per loro quello spazio, perché altrimenti sentono di non poter parlare di questi problemi. Ho a mente su questo punto la categoria lavorare sui deficit vs lavorare su risorse e sviluppo.

C’è un aspetto importante che voglio sottolineare. Chi dice che l’altro “è matto”, come Matteo nel caso dei genitori di C., sta, secondo me, automaticamente dicendo che non sa cosa fare. Altrimenti la domanda utile sarebbe: “come possiamo aiutare questi matti nei problemi che incontrano in quel contesto specifico?”.

3) La diagnosi precoce. In questo punto mi trovo d’accordo con i modelli cognitivisti. Credo che sia importante lavorare presto sulle difficoltà, è molto diverso lavorare con un bambino di 10 anni o con un ragazzo di 16. In quest’ultimo caso la maggior parte degli anni scolastici sono stati connotati da un vissuto di esclusione dal contesto scolastico. Si è consolidata nel tempo e rafforzata una simbolizzazione di Sé come incompetente;

sul piano delle competenze ci sono grandi difficoltà a raggiungere dei livelli prestazionali attesi per l’età. Certo a 16 anni non è impossibile recuperare il gap, ma è molto faticoso. Collego questo caso al caso di Alessandro, che ho resocontato due volte nel corso del primo anno di specializzazione (il caso di A.). Mi sembra che questi casi siano molto simili nei problemi che portano, ma la differenza di aver iniziato a 10 anni o a 16 è tanta:

Alessandro frequenta la scuola, sin dalla prima media, con altre emozioni rispetto a quelle che hanno caratterizzato l’esperienza di C.

Diagnosi precoce, chiamiamola così, a patto che si intervenga sui problemi nelle loro componenti emozionali.

Su questa frase sarebbero concordi tutti, soprattutto Matteo che considero un bravo professionista perché

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ha a mente questi aspetti emotivi e propone letture molto interessanti che ho trovato utili in più di un’occasione, ma poi bisogna essere capaci a lavorarci e se si sente l’esigenza di usare criteri diagnostici è un brutto segno.

Ora mi sposto sull’ultima parte, quella dei miei vissuti, della mia domanda formativa e dei miei franchi deliri.

Chiaramente tutto il testo è colorato di vissuti ma in quest’ultima parte provo a dirli nella forma più cruda. Il mio vissuto è di avere a che fare con una concorrenza fortemente incompetente da sbaragliare, con la stessa organizzazione e superiorità dell’impero romano con i barbari. Sogno lo psico-tutor come Deloitte per la revisione dei conti o Accenture per la consulenza informatica, un punto di riferimento nel suo settore di mercato. Da dentro questo vissuto nasce l’attenzione al marketing. Ma è da dentro questo vissuto che prende senso per me la voglia di studiare, di capire e di formarmi continuamente: è per me una questione agonistica.

Questa posizione emozionale me la sento dentro e sento che in questo momento della mia vita è utile per uno sviluppo professionale.

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