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Decreto del Presidente della Repubblica

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Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917

D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917

Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi (Gazzetta uffi ciale 31 dicembre 1986, n. 302, suppl. ord. n. 1)

TESTO UNICO DELLE IMPOSTE SUI REDDITI TITOLO I

IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE CAPO I

DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 1 - Presupposto dell'imposta

IMPOSTA SUL REDDITO DELLE PERSONE FISICHE

1. Presupposto dell'imposta sul reddito delle persone fi siche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell'art. 6.

S : I. Nozione di reddito - II. Possesso dei redditi - III. Tassazione dei proventi derivanti da attività illecita - IV. Indeducibilità dei costi direttamente afferenti delitti non colposi e non imponibilità dei ricavi relativi a costi oggetti- vamente inesistenti

I. Nozione di reddito

L’art. 1 del Testo Unico delle imposte sui redditi (TUIR), approvato con il d.P.R.

22.12.1986, n. 917, individua il presupposto delle imposte sui redditi delle per- sone fi siche (IRPEF) nel possesso dei redditi in denaro o in natura.

La nozione di “reddito” rilevante ai fi ni impositivi è delineata dal legislatore fi scale richiamando le categorie reddituali indicate nel successivo art. 6 del mede- simo TUIR, confermando, in tal modo, la scelta già effettuata con la l. 9.10.1971, n. 825 (legge delega per la riforma tributaria) e con le norme delegate di non fornire una defi nizione di carattere generale, in considerazione della diffi coltà di schematizzare un concetto più volte rielaborato nell’ambito delle scienze econo- miche. Tradizionalmente, infatti, la dottrina fi nanziaria distingue, avendo riguar- do alla fonte del reddito, tra:

● “reddito prodotto” formato dagli incrementi di patrimonio riconducibili ad un’attività produttiva in un dato periodo di tempo. Tale modello, secondo i suoi ideatori, sarebbe il più adatto a collegare il dovere tributario all’esercizio di un’attività produttiva in applicazione del principio di solidarietà economica sotteso a quello di capacità contributiva;

● “reddito entrata” composto da ogni incremento del patrimonio, indipenden- temente dal legame di esso con una fonte produttiva. In tale accezione, il

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reddito può essere misurato considerando anche le componenti straordinarie non riferibili all’esercizio di un’attività economica o ad un investimento, ma ad eventi eccezionali o aleatori che resterebbero, viceversa, escluse dal “red- dito prodotto”.

Avendo, invece, riguardo all’utilizzo del reddito, parte della dottrina ha propo- sto come oggetto della tassazione il c.d. “reddito spesa” valorizzando la parte dell’incremento patrimoniale che il soggetto passivo destina al consumo esclu- dendo, quindi, la parte risparmiata. Il fondamento di questa tesi è di tassare gli individui sulla quantità di risorse che i medesimi sottraggono alla produzione e non sul contributo che essi danno alla formazione della ricchezza.

Caratteristica comune ai diversi modelli sinteticamente illustrati è che il reddito rappresenta dinamicamente la ricchezza (in contrapposizione al patrimonio co- stituito dall’insieme delle situazioni soggettive a contenuto economico di cui è titolare un soggetto in un dato momento) essendo espressione di confronto fra situazioni economiche esistenti in due diversi momenti temporali.

Nessuna delle diverse accezioni di reddito appena illustrate è stata pienamente utilizzata dal legislatore fi scale in quanto la nozione di reddito delineata nell’art.

1 del TUIR - rilevante ai fi ni dell’imposizione - assume caratteristiche peculiari.

Il presupposto dell’IRPEF, pertanto, è il reddito che il legislatore tributario qua- lifi ca come tale richiamando esplicitamente, come già detto, le categorie elenca- te nell’art. 6 del TUIR. Viene, dunque, delineato in modo tassativo l’ambito di applicazione dell’imposta che non può, quindi, estendersi ad ulteriori fattispecie non inquadrabili nelle predette categorie reddituali, ancorché rilevanti economi- camente. Proponendo una disciplina dell’imposta “a fattispecie esclusiva”, il legislatore tributario tratteggia una nozione di reddito qualifi cato da una base giuridica, destinata a prevalere, che soddisfa l’esigenza di assicurare la certezza del diritto, anche ai fi ni dell’auspicato miglioramento selettivo dell’azione ammi- nistrativa di accertamento.

L’art. 1 in commento, dunque, non contiene più alcun riferimento ai redditi “con- tinuativi od occasionali” o a quelli “provenienti da qualsiasi fonte” - presenti, invece, nell’art. 1 del precedente Testo Unico (d.P.R. 29.9.1973, n. 597) che sem- brava confermare l’esistenza di altri redditi non espressamente disciplinati nel testo normativo.

Viene, inoltre, precisato che il reddito può manifestarsi oltre che in denaro anche in natura sotto forma, cioè, di beni e servizi. Per attribuire a queste ultime gran- dezze un corretto ed equo valore monetario, il legislatore tributario ricorre alla nozione di “valore normale” defi nito nell’art. 9 del TUIR.

II. Possesso dei redditi

Nel qualifi care il presupposto dell’IRPEF, l’art. 1 del TUIR individua, inoltre, nel “possesso” la relazione che deve intercorrere tra il reddito ed il soggetto pas- sivo senza, tuttavia, anche in questo caso, specifi carne il signifi cato.

La dottrina maggioritaria e più recente concorda nel ritenere che la locuzione

“possesso di redditi” non esprime il signifi cato che ad essa verrebbe attribuito in ambito civilistico, vale a dire, alla stregua dell’art. 1140 c.c., quale “potere sulla 1

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cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale” - bensì individua la relazione giuridica tra reddito e sog- getto passivo, di volta in volta diversa in base alla specifi ca categoria reddituale di appartenenza del reddito stesso. In altre parole, ai fi ni dell’attribuzione del reddito ad un soggetto, non rileverebbe la disponibilità fi nanziaria o “di fatto” del reddito medesimo ma il suo “possesso” individuato secondo le regole giuridiche che disciplinano le singole categorie reddituali.

Appare, dunque, superata la tesi sostenuta da chi ha ritenuto che il legislatore tributario abbia inteso recepire l’istituto civilistico del possesso, che contrasta, peraltro, con la constatazione che il termine possesso può assumere signifi cati diversi in funzione delle diverse categorie reddituali cui afferisce. Nel caso, ad esempio, di redditi tassabili in base al c.d. principio di cassa, quindi all’atto della percezione (ad es., i redditi da lavoro) il “possesso” coinciderebbe appunto con la percezione del reddito medesimo. Per altre categorie (ad es. i redditi fondiari), invece, il possesso è riferito alla fonte produttiva.

Il concetto di possesso del reddito si ritiene vada, invece, inteso quale “materiale disponibilità”. Nell’art. 3 del citato d.P.R. n. 597/1973 era stabilito che nella base imponibile dell’IRPEF dovevano ricomprendersi, oltre ai redditi propri del con- tribuente, anche “i redditi altrui dei quali egli ha la libera disponibilità o l’ammi- nistrazione senza obbligo della resa dei conti”. Il soggetto passivo dell’imposta avrebbe dovuto, quindi, essere il soggetto che, pur non risultando da un punto di vista giuridico colui cui può attribuirsi la titolarità del reddito, dimostrasse tuttavia, con il proprio comportamento, l’effettiva disponibilità del reddito stesso.

L’attuale formulazione dell’art. 3 del TUIR, nel defi nire la base imponibile ai fi ni dell’IRPEF menziona, però, esclusivamente il possesso dei redditi, non essendo più contenuta la locuzione riguardante la libera disponibilità di redditi altrui.

Si ritiene che possa, tuttavia, ugualmente pervenirsi alla stessa conclusione fa- cendo riferimento:

● all’art. 37, comma 3 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600, che autorizza l’Amministra- zione fi nanziaria, in sede di rettifi ca o di accertamento d’uffi cio, ad imputare al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia di- mostrato - anche sulla base di presunzioni qualifi cate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza - che egli ne è l’eff ettivo possessore per interposta persona;

● alla posizione assunta proprio dall’Amministrazione fi nanziaria che - nel commentare l’introduzione dell’art. 14, comma 4 della l. n. 537/1993 in or- dine alla tassabilità dei proventi derivanti da attività illecite (cfr. infra par.

3) - precisa che il possesso dei redditi deve intendersi come disponibilità materiale e di fatto.

III. Tassazione dei proventi derivanti da attività illecita

Un’altra questione che ha creato contrasti dottrinali e giurisprudenziali riguarda la tassabilità dei proventi derivanti da attività illecite.

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In un primo momento, il giudice tributario, coerentemente con l’orientamento espresso all’epoca dalla Corte di Cassazione, riteneva tassabili i proventi in que- stione facendo leva su un concetto meramente economico di reddito. In partico- lare, l’eventuale illiceità, sotto il profi lo giuridico, dell’attività produttiva non era considerata, di per sé, idonea ad escludere la tassabilità del reddito da essa derivante atteso che chi consegue proventi, ancorché illeciti, realizza una nuova ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo. Secondo tale im- postazione, inoltre, escludere l’imponibilità dei redditi derivanti da attività illeci- ta avrebbe determinato una sperequazione tra contribuenti - in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. - discriminando, paradossalmente, gli “onesti” a vantaggio dei

“disonesti”.

Col tempo, però, a tale orientamento favorevole alla tassabilità dei proventi in questione se ne era affi ancato uno di segno opposto che traeva origine dalla con- siderazione che la nozione “giuridica” di reddito non poteva comprendere anche il pretium sceleris (in quanto un’attività illecita non poteva essere considerata presupposto d’imposta) e che il negozio giuridico da cui derivavano i proventi illeciti doveva essere considerato nullo per illiceità della causa.

Sulla questione si era espressa anche la Corte di Cassazione a Sezioni Unite escludendo la tassabilità dei redditi provenienti da fonte illecita in considerazione del fatto che un reddito illecito non può essere oggetto di “possesso” da parte del contribuente, in quanto l’ordinamento ha predisposto altri mezzi per impedire che il reo consegua un utile economico da un’attività penalmente rilevante, quali il risarcimento del danno, le restituzioni e, soprattutto, la confi sca delle cose che costituiscono il prodotto, il profi tto o il prezzo del reato con la conseguenza, che le due pretese, tributaria e restitutoria, non possono coesistere e insistere sul me- desimo elemento genetico (sent. n. 2798 del 7.3.1994).

Nonostante tali affermazioni, i giudici di legittimità fi nivano, tuttavia, col negare che sussistessero ragioni di principio tali da far escludere in maniera assoluta la tassabilità dei proventi illeciti in quanto non era la provenienza illegale che impe- diva di sottoporre a tassazione gli incrementi economici quanto, piuttosto, la loro confi scabilità. Residuavano margini, dunque, per ritenere che, qualora nei casi di confi sca facoltativa il potere ablatorio non fosse stato effettivamente esercitato, il provento illecito potesse essere ricompreso nella nozione di reddito fi scalmente rilevante.

Per risolvere le problematiche legate all’assoggettamento a tassazione e alla qua- lifi cazione giuridica dei proventi derivanti da attività illecite il legislatore è inter- venuto con l’art. 14, comma 4, della l. 24.12.1993, n. 537, stabilendo che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22.12.1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in essi classifi cabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualifi cabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confi sca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguar- danti ciascuna categoria”.

La nuova disciplina è stata illustrata con la circ. del 10.8.1994, n. 150 nella quale l’Amministrazione fi nanziaria ha, innanzitutto, sottolineato l’intento di aderire 2

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alle statuizioni della giurisprudenza di legittimità [richiamando espressamente la sent. Cass. pen. III 24.1.1992, n. 9405 e la sent. Cass. civ. I 13.3.1993, n. 3028]

codifi cando la tassabilità dei proventi derivanti da attività illecite subordinandola, tuttavia, alla condizione che l’attività produttiva del reddito fosse di per sé con- siderata, già ricompresa nelle fattispecie imponibili previste dalle norme vigenti.

Tra le fattispecie tassabili venivano indicate, a titolo esemplifi cativo, i redditi di capitale, come provento di una attività usuraria o i redditi di impresa derivanti da attività criminose. Nella medesima circolare, veniva precisato, inoltre, che sono imponibili anche i redditi di lavoro autonomo o di impresa derivanti da attività illecite esercitate in assenza di un requisito previsto dalla legislazione extrafi scale in materia quali, ad esempio, l’iscrizione ad albo professionale, il mancato pos- sesso dei requisiti o titoli di studio richiesti per lo svolgimento dell’attività, o la mancanza di licenza di commercio o di altra autorizzazione amministrativa.

L’applicazione della disposizione in esame è risultata, tuttavia, problematica atteso che la possibilità di sottoporre a tassazione i proventi derivanti da attività illecite è subordinata non solo al conseguimento di un effettivo arricchimento e alla mancata applicazione delle misure del sequestro e della confi sca dei beni ma, soprattutto, alla riconducibilità dei proventi illeciti ad una delle categorie di red- dito previste dall’art. 6 del TUIR. In particolare, la norma restava talvolta priva di effetti non esistendo, nell’ordinamento tributario una disposizione di carattere residuale analoga a quella contenuta nell’art. 80 del citato d.P.R. n. 597/1973 che riconduceva nella categoria dei redditi diversi “ogni altro reddito diverso da quelli espressamente considerati dalle disposizioni” del medesimo Testo Unico.

L’art. 67 del TUIR, infatti, elenca in maniera tassativa le fattispecie rilevanti ai fi ni fi scali e ciò sembrava dare credito all’orientamento espresso dalla giurispru- denza - di merito e di legittimità - secondo il quale un determinato comportamen- to non può, contemporaneamente, essere punito come reato e considerato fonte di reddito.

Risultava, pertanto, diffi cile stabilire in maniera univoca se una determinata at- tività illecita potesse essere ricondotta o meno ad una delle categorie di reddito previste dal richiamato art. 6 del TUIR anche per effetto di soluzioni interpretati- ve non sempre univoche e costanti prospettate dalla dottrina e dagli stessi organi dell’amministrazione fi nanziaria incaricati dell’esecuzione delle verifi che fi scali.

Il legislatore è, dunque, nuovamente intervenuto e con l’art. 36, comma 34-bis, del d.l. 4.7.2006, n. 223, introdotto in sede di conversione dalla l. n. 248/2006, ha stabilito che “In deroga all’articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n.

537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classifi cabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 sono comunque considerati come redditi diversi”.

Si è inteso, in tal modo, stabilire che i proventi illeciti, qualora non oggetto di sequestro o confi sca penale, siano almeno assoggettati ad imposizione, a prescin- dere dalla loro riconducibilità tra le diverse categorie reddituali previste dal TUIR

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reintroducendo, in sostanza, una sorta di norma di chiusura che rende in ogni caso imponibile qualunque entrata.

Con la circ. n. 28/E/2006 l’Agenzia delle Entrate ha precisato che il citato art. 36, comma 34-bis del d.l. n. 223/2006 interpreta autenticamente l’art. 14, comma 4, della l. n. 537/1993, stabilendo che se i proventi illeciti non sono inquadrabili in una delle categorie di cui al citato articolo 6, comma 1, del TUIR gli stessi vanno ricompresi, anche ai fi ni della loro determinazione, nella categoria dei redditi diversi di cui agli articoli 67 e seguenti del TUIR.

Anche la giurisprudenza di legittimità si è espressa negli stessi termini dell’Am- ministrazione fi nanziaria, attribuendo al citato art. 36, comma 34-bis eff etto re- troattivo,- applicabile, pertanto, anche ai rapporti sorti antecedentemente alla sua entrata in vigore – affermando che “si tratta di una norma introduttiva di un principio di carattere generale diretta precipuamente a fornire una esegesi del- la norma interpretata, la quale esclude ogni altra lettura applicativa” [Cass. n.

13213/2007].

Con successiva ordinanza [Cass. n. 37/2010], i giudici di legittimità, seppur non confermando espressamente la natura di interpretazione autentica del citato art.

36, comma 34-bis, del d.l. n. 223/2006, hanno attribuito allo stesso effi cacia re- troattiva, in quanto emanato espressamente in deroga all’art. 3 della l. 27.7.2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Successivamente all’entrata in vi- gore della citata l. n. 212/2000, infatti, le disposizioni tributarie non possono avere effetto retroattivo (ex art. 3, comma 1), fatti salvi casi eccezionali in cui una legge ordinaria le qualifi chi espressamente come norme interpretative (ex art.

1, comma 2). Pertanto, nonostante le disposizioni appena citate siano derogabili da norme di pari grado, l’introduzione di una norma interpretativa deve essere espressamente evidenziata nel testo di legge.

Oltre all’applicabilità retroattiva della norma, la Corte di Cassazione si è pro- nunciata anche in ordine alle vicende successive alla percezione del proven- to illecito, affermando che ciò che rileva è l’entità della somma trovata all’atto dell’accertamento, essendo del tutto ininfl uente - così come avviene per gli altri redditi - tutto ciò che accade dopo.

In realtà, prevedendo espressamente la deroga al principio di irretroattività delle disposizioni tributarie - sancita dal citato art. 3 della l. n. 212/2000 - il le- gislatore ha inteso evitare il ripetersi del dibattito dottrinale e giurisprudenziale scaturito dall’introduzione dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537/1993 che non tutti ritenevano potesse avere effi cacia retroattiva.

Nella citata circ. n. 150/1994, l’Amministrazione fi nanziaria aveva, comunque, sostenuto che alla norma appena citata doveva essere riconosciuto effetto retro- attivo “in quanto il principio della tassabilità dei redditi derivanti da attività illecite era già insito nell’ordinamento tributario. Ne è prova la considerazione che il possesso di redditi rientranti nelle categorie indicate nell’art. 6 del TUIR deve intendersi come disponibilità materiale e di fatto, a prescindere dalla quali- fi cazione lecita o illecita dell’attività posta in essere”.

La natura di interpretazione autentica della norma in questione era stata confer- mata anche dalle sezioni penali della Corte di Cassazione che, con sentenza n.

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7713/1997, ha precisato che “per identifi care una norma interpretativa a) non è necessario né suffi ciente che essa si autoqualifi chi come tale; b) ma è neces- sario e suffi ciente che essa, lasciando immutato il tenore testuale di una norma precedente, ne defi nisca in modo vincolante il senso, scegliendo uno dei possibili signifi cati compatibili col testo della disposizione precedente. In conseguenza di tali caratteri - com’è noto - la legge interpretativa ha effi cacia naturalmente retroattiva, nel senso che i suoi eff etti retroagiscono sino al momento dell’entrata in vigore della legge interpretata”.

Parte della dottrina, invece, rilevando la portata ampiamente innovativa della di- sposizione asseriva che quest’ultima non poteva valere che per il futuro.

Secondo una giurisprudenza e una prassi consolidata, inoltre, il citato art. 14, comma 4, della l. n. 537/1993 è da ritenersi norma di principio generale del nostro ordinamento tributario costituendo un criterio di interpretazione sistema- tica che, come tale, è applicabile non solo in materia di imposte sui redditi ma anche di imposta sul valore aggiunto. Con la sentenza n. 24471/2006, (conforme a sentenze n. 16504/2006, Cass. n. 21746/2005 e Cass. n. 13335/2003) la Corte di Cassazione ha infatti affermato - avallando l’interpretazione dell’Amministra- zione fi nanziaria e richiamando le indicazioni della Corte di Giustizia UE - che, in forza del citato art. 14, comma 4, della l. n. 537/1993, le attività illecite sono sempre soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all’IVA in base ai prin- cipi dell’ordinamento comunitario, secondo cui sono assoggettate ad imposta le attività economiche, senza operare alcuna distinzione tra operazioni lecite ed operazioni (anche penalmente) illecite. Il dubbio in ordine all’eventuale assog- gettamento all’IVA nasceva dal fatto che il d.P.R. 26.10.1972, n. 633 non contiene una norma analoga al citato art. 14, comma 4, della l. n. 537/1993. La Corte di Giustizia tuttavia, si era più volte occupata della questione, sostenendo che l’I- VA è dovuta quando si instaura una concorrenza tra merci immesse fraudolente- mente in commercio e prodotti che costituiscono oggetto di operazioni effettuate nell’ambito di un circuito legale [causa C-111/92, causa C-283/95, causa C-3/97]

e che il principio della neutralità fi scale non consente una distinzione generale fra le operazioni lecite e le operazioni illecite, fatta eccezione per i casi in cui, date le particolari caratteristiche di alcune merci, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito ed uno illecito [cfr., tra le altre, CGA 12.1.2006, C-354/03; ord. 7.7.2010 C-381/09]. In continuità con tale assunto, la medesima Corte ha stabilito, ad esempio, che l’attività usuraria non può essere soggetta ad IVA in quanto assimilata alle operazioni di fi nanziamento o di concessione lecita di prestiti, attività esenti dall’imposta.

Per espressa previsione normativa, infi ne, l’imponibilità dei proventi in questione è consentita solo “se non già sottoposti a sequestro o confi sca penale”. La giu- risprudenza di legittimità ha interpretato tale locuzione nel senso di ricompren- dervi sia le ipotesi di confi sca facoltativa sia quelle di confi sca obbligatoria ritenendo, inoltre, che la nozione di “provento” possa includere sia il prodotto ovvero il profi tto del reato sia ciò che ne rappresenta il prezzo [cfr. Cass., Sez. I 6

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19.4.1995, n. 4381 e del 16.4.1997, n. 3259; Cass., Sez. trib., 11.9.2003, n. 13335 e del 6.6.2007, n. 13213].

Con la sentenza n. 21746/2005 la Corte di Cassazione ha, peraltro, statuito che il

“prezzo del reato” rappresenta reddito imponibile anche qualora vi sia stata con- danna alla sua restituzione ed al risarcimento dei danni cagionati.

In particolare, secondo la Suprema Corte l’esclusione dalla tassazione dei pro- venti in questione non può essere conseguenza della mera adozione del provve- dimento di sequestro o di confi sca penale, essendo necessario che il contribuente subisca effettivamente la perdita di disponibilità del provento illecito, circostanza questa che se eccepita dal contribuente in sede di accertamento va dallo stesso provata (cfr. anche circ. n. 150/1994).

Inoltre, ai fi ni della predetta esclusione, è necessario che il provvedimento abla- torio sia intervenuto entro lo stesso periodo d’imposta nel quale il provento sia maturato. Tale lettura della norma, coerente col principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., evita ingiustifi cate disparità di trattamento tra i percettori di proventi illeciti ed i possessori di redditi leciti, per i quali - secondo i principi generali del sistema tributario - i redditi medesimi sono esclusi da imposizione solo se perduti nello stesso periodo d’imposta nel quale risultano prodotti (Cass.

n. 28574/2008 cfr. anche Cass. n. 869/2010).

Con la sentenza n. 25467/2013, la Corte di Cassazione, nel richiamare il costante indirizzo interpretativo in ordine alla predetta causa di esclusione dell’imponi- bilità [Cass. n. 7337/2003 cit.; Id. n. 19078/2005; Id. n. 4625/2008; Id. Cass. n.

869/2010], ha ribadito che, in forza dell’art. 14 comma 4 della legge 24.12.1993 n. 537, la qualifi cazione di illecito del fatto produttivo di ricchezza è irrilevan- te ai fi ni dell’assoggettamento al tributo (pecunia non olet), che rimane condizio- nato esclusivamente alla possibilità di includere il reddito in una delle categorie indicate nell’art. 6 TUIR e alla circostanza che lo stesso non sia stato già sottopo- sto a sequestro o confi sca penale o, nel caso in cui il provento sia costituito da un bene appartenente a terzi, non sia stato già integralmente restituito non essendo, tuttavia, suffi ciente ad escludere la imponibilità una mera pronuncia di condanna alla restituzione od al risarcimento non seguita dal materiale spossessamento.

Nella medesima sentenza viene, inoltre, statuito che sebbene la restituzione del capitale operata in un diverso anno d’imposta non può incidere in alcun modo su un autonomo e distinto rapporto tributario attinente ad un pregresso periodo d’imposta potrà, eventualmente, assumere rilevanza quale fenomeno incidente sulla determinazione della base imponibile relativa all’anno d’imposta in cui si è verifi cato secondo la disciplina fi scale propria da riconoscersi alla componente di reddito, ma non potrà comunque impedire il fatto produttivo di ricchezza (conseguimento del provento derivante da illecito) già realizzatosi negli anni di imposta precedenti [cfr. Cass. n. 28519/2013 e Cass. n. 21195/2014].

Una ulteriore questione connessa alla tassabilità dei proventi di natura illecita riguarda l’eventuale sanzionabilità del contribuente che omette di dichiarare i proventi in questione, sulla quale la giurisprudenza di legittimità non ha espresso un orientamento sempre convergente.

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In prima battuta, infatti, la Corte di Cassazione, ha sostenuto che il contribuente non ha l’obbligo di dichiarare i redditi derivanti da reato, perché nessuno può essere obbligato ad “auto danneggiarsi”, con la conseguenza che in caso di omes- sa o infedele indicazione di proventi illeciti nella dichiarazione dei redditi po- trebbero non sussistere gli estremi della dichiarazione omessa od infedele, nella parte in cui non dia notizia dei proventi di attività criminosa [Cass. n. 4381/1995 e Cass. n. 3259/1997].

Successivamente, i Giudici hanno rivisto il proprio orientamento. Con la sen- tenza del 24.2.2016, n. 3580, la Corte di Cassazione ha statuito che “per quanto concerne il profi lo di violazione dei principi in ordine ad un inammissibile ob- bligo di autodenuncia penale, il motivo è infondato in relazione all’obbligo, di fonte costituzionale desumibile dall’art. 53 della Costituzione, di dichiarare tutti i redditi prodotti (eff ettivi), espressione di capacità contributiva. La circostanza che il possesso di redditi possa costituire reato e che l’autodenuncia possa viola- re il principio ‘nemo tenetur se detegere’, peraltro privo di rilievo costituzionale, è sicuramente recessiva rispetto all’obbligo di concorrere alle spese pubbliche ex art. 53 predetto. Di poi la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario supe- ramento di ogni remora anche in ordine alla dichiarazione, essendo connatu- rale al possesso di un reddito tassabile il relativo obbligo di dichiarazione (cfr.

in termini Cass. sent. n. 20032/2011)” [cfr. anche Cass. n. 220/1997; Cass. n.

42160/2010, Cass. n. 2011/2014; Cass. n. 18495/2017, Cass. n. 37107/2017;

Cass. n. 53137/2018].

IV. Indeducibilità dei costi direttamente aff erenti delitti non colposi e non imponibilità dei ricavi relativi a costi oggettivamente inesistenti

Strettamente connesso al tema dell’imponibilità dei proventi derivanti da attività illecite è quello della deducibilità dei costi afferenti dette attività. Dispone, al riguardo, l’art. 8 del d.l. n. 16/2012, convertito, con modifi cazioni, nella l. n.

44/2012, che, “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del TUIR … non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualifi cabili come delitto non colposo per il quale il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il de- creto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p”.

La disposizione in esame novella, dunque, l’art. 14, comma 4-bis cit., secondo la cui previgente formulazione tutti i costi relativi alla commissione di illeciti penali erano indeducibili dal reddito d’impresa. Onde, il regime introdotto dal d.l. n. 16/2012 risulta più favorevole al contribuente, atteso che, da un lato, sul versante sostanziale esclude la deducibilità dei soli costi di acquisizione di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento del delitto doloso; dall’altro lato, sul versante procedimentale condiziona la previsione d’indeducibilità a che per il delitto non colposo sia stata promossa l’azione penale da parte del PM, ovvero 1

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alla sussistenza del decreto di rinvio a giudizio del contribuente o, ancora, alla pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere per l’intervenuta prescrizione del reato.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 8, poi, non sono imponibili i componenti positivi di reddito direttamente aff erenti i costi o altre componenti negative inerenti beni o servizi non eff ettivamente scambiati, nei limiti dell’ammontare di questi ultimi. In tale evenienza si applica la sanzione pecuniaria dal 25 per cento al 50 per cento dell’ammontare del costo o della componente negativa relativa all’o- perazione oggettivamente inesistente, indicati nella dichiarazione dei redditi. È esclusa l’applicabilità, per tale sanzione, della disciplina del cumulo giuridico di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 472/1997 e la stessa (sanzione) è defi nibile in via age- volata solo ai sensi dell’art. 16, comma 3 del d.lgs. n. 472/1997 (ossia, mediante acquiescenza all’atto di contestazione delle sanzioni pecuniarie).

Infi ne, il comma 3 dell’art. 8 prevede che le disposizioni che precedono, se più favorevoli al contribuente, anche avuto riguardo alle imposte dovute rispetto a quanto previsto dal previgente comma 4-bis dell’art. 14, si applicano anche per fatti anteriori all’entrata in vigore dell’art. 8 del d.l. n. 16/2012, purché le riprese a tassazione ai fi ni delle imposte dirette non siano da qualifi carsi defi nitive (perché recate in atto di accertamento divenuto inoppugnabile, siccome non opposto o in quanto oggetto di giudicato favorevole all’Amministrazione fi nanziaria); quindi, laddove il contribuente abbia dedotto un costo riguardante un’attività penalmente illecita in vigenza dell’art. 14, comma 4-bis ed abbia subito la ripresa a tassazione di detta componente negativa, può utilmente opporre all’Uffi cio fi nanziario l’ap- plicabilità della più favorevole disciplina in commento se, alla data di entrata in vigore dell’art. 8 del d.l. n. 16/2012, non sia maturata la defi nitività della pretesa impositiva.

Si segnala, infi ne, che dal comma 3 dell’art. 8 si desume che la disciplina di cui trattasi opera non solo ai fi ni delle imposte sui redditi, ma anche dell’IRAP (v., per conferma, Agenzia delle Entrate, circ. 3.8.2012, n. 32/E).

Il legislatore subordina l’indeducibilità dei costi di cui trattasi ad una duplice condizione, l’una sostanziale, l’altra procedimentale.

Sotto il primo versante (condizione sostanziale), l’indeducibilità opera solo per i costi inerenti l’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per la commis- sione di delitti non colposi. Pertanto, non è suffi ciente che detti costi afferiscano genericamente alla commissione del reato doloso (come nella previgente disci- plina); è invece necessario che siano stati sopportati per acquisire beni diretta- mente utilizzati per la commissione di tale illecito penale (v. in tal senso anche la circ. n. 32/2012, cit. par. 2.1.).

Perciò, sono deducibili i costi inerenti, relativi all’attività d’impresa o di lavoro autonomo svolta dal contribuente il quale, nell’esercizio della medesima (attività) abbia tuttavia posto in essere il delitto doloso. Si pensi al caso in cui l’impren- ditore, per vedersi aggiudicato un appalto pubblico, sostenga la spesa relativa ad una tangente corrisposta ad un funzionario: in tale evenienza, il costo afferente detta tangente è indeducibile ai sensi dell’art. 8, comma 1, cit.; rimangono invece deducibili tutti gli ulteriori costi sostenuti dall’impresa aggiudicataria dell’appal- 2

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to, per l’esecuzione dello stesso appalto pubblico (v., per il principio, sempre la circ. n. 32/2012, cit., par. 2.1.).

Peraltro, è possibile che l’attività d’impresa sia da qualifi care tout court illeci- ta: si pensi al caso in cui, in modo organizzato e professionale, un soggetto eroghi fi nanziamenti usurari a terzi. In tale evenienza, è da ritenere che i costi inerenti detta attività siano tutti direttamente funzionali alla commissione dell’illecito;

con la loro conseguente indeducibilità.

Va segnalato che la disposizione in esame non subordina l’indeducibilità a che il costo riguardi un bene o un servizio utilizzato esclusivamente per la commissione del reato doloso. È suffi ciente la sussistenza del menzionato nesso tra bene e servizio acquistato, da un lato, e costo sostenuto, dall’altro lato, affi nché operi l’indeducibilità (v., condivisibilmente, la circ. n. 32/2012, cit.). Ne consegue che:

a) i beni e servizi non impiegati esclusivamente per la commissione del reato doloso sono parzialmente deducibili (ossia, per la quota parte non impiegata per la commissione dell’illecito penale). L’indeducibilità, volta a colpire i costi relativi ai beni o alle prestazioni di servizio utilizzate direttamente per il compimento del delitto, riguarda quindi, pro quota, tutti i componenti nega- tivi afferenti all’ordinaria attività d’impresa che abbiano avuto un rapporto di strumentalità con la commissione del reato, sebbene sostenuti non esclusiva- mente per il compimento dello stesso, quali spese generali, ammortamento di beni strumentali, spese promiscue sostenute per una pluralità di produzioni, spese del personale, ecc. La quota dei costi indeducibili deve essere determi- nata applicando criteri d’imputazione proporzionali, avuto riguardo ai costi complessivi emergenti dalla contabilità industriale dell’impresa o da altri atti ed informazioni utilizzabili a tal fi ne;

b) sono da qualifi carsi indeducibili le componenti negative originariamente so- stenute per lo svolgimento dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo, ma poi impiegate, in un esercizio, per la commissione di un reato doloso (si pensi all’utilizzazione di macchinari per il deposito di rifi uti in discariche abusive;

le quote di ammortamento inerenti detti mezzi sono da considerarsi indeduci- bili nel periodo d’imposta di commissione dell’illecito).

La previsione d’indeducibilità concerne, come detto, solo i costi di acquisizione di beni o servizi impiegati direttamente per la commissione del reato doloso.

Per cui, è deducibile, se inerente, il costo relativo all’acquisto di un bene im- piegato per la commissione di un delitto non doloso ovvero per un illecito contravvenzionale.

Così, ad esempio, le quote di ammortamento relative all’acquisto di un macchinario industriale col quale il contribuente ha commesso il reato di lesioni colpose (art. 590 c.p.) a danno di un terzo sono deducibili.

La disposizione in commento non riguarda i costi relativi ad operazioni in tutto o in parte oggettivamente inesistenti.

Infatti, essi non concernono l’acquisto di beni o servizi direttamente utilizzati per la commissione del delitto non colposo. Perciò, come correttamente rilevato dall’Agenzia delle Entrate nella circ. n. 32/2012 cit., l’indeducibilità di detti costi discende, in realtà, dal principio di inerenza di cui all’art. 109 del TUIR.

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Per quanto attiene, poi, ai costi relativi a fatture soggettivamente inesisten- ti, sia l’Agenzia delle Entrate (v. circ. n. 32/2012, cit.), che la giurisprudenza della Sezione tributaria della Corte di Cassazione [v. ad esempio, Cass., Sez.

trib., 18.6.2014, n. 13800; Cass., Sez. trib., 30.10.2013, n. 24426] hanno ritenuto che l’art. 8, comma 1 del d.l. n. 16/2012 ne consente la deduzione ai fi ni del- le imposte dirette anche ove il contribuente sia stato consapevole della natura soggettivamente inesistente dell’operazione sottesa; ciò, anche in base a quanto chiarito nella relazione illustrativa al d.l. n. 16/2012, in cui si precisava che, per effetto di tale disposizione, “l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e le spese esposte in fattura o altri documenti aventi analogo rilievo probatorio, che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli eff ettivi”. Invero, il costo rappresentato dalla fattura soggettivamente inesistente è effettivo e, di regola, non è utilizzato per la commissione di alcun reato (in primis) tributario; onde, la sua deducibilità.

È chiaro, peraltro, che, laddove tale costo sia stato sostenuto per acquistare beni e/o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo, trova applicazione l’indeducibilità di cui all’art. 8, comma 1; così come deve essere negata la deducibilità della componente negativa, nel caso in cui essa non soddisfi le prescrizioni in tema di certezza, inerenza e competenza di cui all’art.

109 del TUIR [in tal senso, v. Cass., Sez. trib., 20.4.2016, n. 7896; Cass., Sez.

trib., 17.12.2014, n. 26461].

Secondo la Sezione penale della Suprema Corte, peraltro, la previsione di cui all’art. 8, comma 1 cit. sarebbe applicabile solo per l’accertamento dell’imponibi- le ai fi ni delle imposte dirette; invece, sarebbe irrilevante onde appurare la sus- sistenza della fattispecie del delitto tributario della dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000. Talché, secondo l’orientamento di legittimità, l’utilizzazione, da parte del contribuente, di fatture soggettivamente inesistenti, ai fi ni tributari non determinerebbe ex lege alcuna lesione dell’interesse fi scale, non versandosi nel caso di occultamento di materia imponibile, ex art. 8, comma 1, cit.; tuttavia, integrerebbe sempre la fattispecie penale di cui al predetto art.

2, dovendosi qualifi care, il costo soggettivamente inesistente, in presenza della consapevolezza del contribuente circa la natura soggettivamente inesistente della sottesa operazione, come costo non inerente e dunque indeducibile. Opinare di- versamente, afferma il Giudice di legittimità, signifi cherebbe ammettere il conso- lidamento del “vantaggio (illecito) ottenuto e comunque (minimizzare il) rischio che la possibilità di recuperare le somme investite per la consumazione del reato consentirebbe” [v. Cass. pen. III 26.10.2015, n. 42994; Cass. pen. III 19.12.2014, n. 22108; Cass. pen. III 24.4.2013, n. 41694].

A nostro parere, si tratta di orientamento non condivisibile. Elemento costituti- vo del delitto di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000 (come di altri delitti tributari) è il dolo specifi co dell’evasione delle imposte sui redditi e/o dell’IVA e l’indicazione (per quanto rileva ai fi ni dell’art. 2, cit.), nella dichiarazione, di elementi passivi fi ttizi. Dunque, sono le regole che presiedo- no alla determinazione della base imponibile (ai fi ni delle imposte sui redditi e dell’IVA) quelle in relazione alle quali deve essere appurata - anche dal Giudice penale - la sussistenza dei predetti elementi costitutivi della fattispecie illecita.

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Atteso che - come emerge anche dalla relazione parlamentare al relativo dise- gno di legge - l’art. 8, comma 1 è disposizione che disciplina la base imponibile (stabilendo le condizioni di deducibilità del costo afferente la commissione di un illecito), ci pare necessitata la conseguenza: anche per appurare la sussistenza del reato tributario di dichiarazione fraudolenta si deve fare applicazione dell’art. 8, comma 1, cit.

Altro è a dirsi per il costo relativo al compenso erogato dal destinatario della fattura, all’emittente della stessa, per remunerarlo dell’emissione della fattura soggettivamente o oggettivamente inesistente: esso, siccome funzionale all’ac- quisto di un bene (la fattura falsa) direttamente utilizzato per la commissione del delitto non colposo (la dichiarazione fraudolenta, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n.

74/2000), è indeducibile ai sensi dell’art. 8, comma 1, cit. (in tal senso, condivi- sibilmente, circ. n. 32/2012, cit.).

L’Agenzia delle Entrate ha, infi ne, ribadito che la novella legislativa non inte- ressa la disciplina dell’IVA (né avrebbe potuto esserlo, attesa la natura armoniz- zata del tributo ed i principi in merito elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE); per il che, con riferimento alle fatture passive soggettivamente inesistenti, permane l’indetraibilità di tale imposta ove il contribuente non dimostri la sua buona fede e quindi l’estraneità alla frode nel cui ambito dette fatture sono state emesse. Al riguardo la Corte di Cassazione, nell’ordinanza n.

1715 del 24 gennaio 2018, ha recentemente precisato come l’Amministrazione fi nanziaria, ove ritenga che il diritto alla detrazione debba essere negato atte- nendo la fatturazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, abbia l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che il contribuente al mo- mento dell’acquisto del bene o del servizio sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore. Nelle ipotesi più semplici (operazioni soggettivamente inesistente di tipo triangolare), detto onere può esaurirsi, attesa l’immediatezza dei rapporti, nella prova che il soggetto in- terposto è privo di dotazione personale, mentre in quelle più complesse di “frode carosello” (contraddistinta da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni sia oggettivamente che soggettivamente inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società “fi ltro”) occorre dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la consapevolezza di essi da parte del contribuente (cfr. Cass., Sez. 5, sent. n. 24426/2013).

Veniamo alle condizioni procedurali in presenza delle quali opera la previsione d’indeducibilità di cui al predetto art. 8, comma 1.

Secondo tale disposizione, l’Agenzia delle Entrate può contestare la deducibilità dei costi di cui si è detto se, in relazione allo specifi co delitto non colposo al quale essi sono direttamente connessi, il PM abbia:

● emesso il decreto di citazione a giudizio di cui all’art. 424 c.p.p.,

● ovvero abbia comunque esercitato l’azione penale con la richiesta di giudizio immediato (art. 453 c.p.p.),

4

4.1

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● oppure abbia domandato il decreto penale di condanna di cui all’art. 459 c.p.p., o l’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 447, comma 1 c.p.p.,

● oppure emesso il decreto di citazione a giudizio diretto ai sensi dell’art. 449 c.p.p.

È quindi preclusa all’Agenzia delle Entrate la possibilità di riprendere a tassa- zione costi relativi all’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati dal contri- buente per la commissione di un reato doloso, in difetto dell’esercizio dell’azione penale da parte del PM riguardo a tale medesimo reato: la ritenuta, dall’Uffi cio, commissione, da parte del soggetto passivo, di un delitto non colposo - circo- stanza che pur rende obbligatoria la trasmissione della notizia di reato ai sensi dell’art. 331 c.p.p. - non attribuisce quindi all’Amministrazione il potere di recuperare a tassazione i costi di cui trattasi.

Tra i fatti processuali che legittimano l’esercizio dell’attività di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, v’è anche la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., per la maturata prescrizione del reato ex art. 157 c.p.; ciò, in quanto tale sentenza non dispone, evidentemente, sul merito della controversia. Resta peraltro ferma la possibilità del contribuente di rinunciare a valersi della prescrizione al fi ne di conseguire una pronuncia di merito, utile per poi domandare il rimborso delle imposte e sanzioni frattanto versate.

L’Agenzia delle Entrate, nella circ. n. 32/2012, cit., ha poi chiarito quando l’emis- sione del decreto che dispone il giudizio e la rammentata pronuncia della senten- za di non luogo a procedere, per intervenuta prescrizione del reato, legittimano l’attività di accertamento dell’Uffi cio. Si ha la prima ipotesi quando il Giudice dell’udienza preliminare qualifi chi diversamente il fatto imputato al contribuente nell’imputazione formulata dal PM - non rilevante ai fi ni dell’indeducibilità - con la conseguenza di rendere applicabile la previsione d’indeducibilità. La seconda fattispecie ricorrerebbe nel caso in cui l’imputazione rende applicabile l’inde- ducibilità sancita dall’art. 8, comma 1, sebbene il reato si sia poi estinto poi per prescrizione.

Il comma 1 dell’art. 8 prevede poi che, qualora, successivamente alla notifi ca dell’atto di accertamento recante il recupero dei costi di cui trattasi, sia inter- venuta una sentenza defi nitiva di assoluzione o una sentenza di non luogo a procedere per ragioni diverse dalla maturata prescrizione ovvero di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., al contribuente compete il rimborso delle imposte dirette versate per effetto del recupero. Secondo l’Agenzia delle Entrate - circ. n. 32/2012, cit. - il diritto al rimborso concerne anche le sanzioni pecu- niarie frattanto versate. Secondo tale circolare, non è causa ostativa al rimborso il fatto che il contribuente abbia defi nito le pretese impositive e sanzionatorie di- scendenti dall’applicazione dell’art. 8, comma 1, cit., mediante gli istituti dell’ac- certamento con adesione, della conciliazione giudiziale ovvero dell’acquiescenza alle sanzioni pecuniarie irrogate.

L’art. 8, comma 2 prevede che, nel caso in cui sia stata accertata la deduzione, ad opera del contribuente, di costi relativi ad operazioni oggettivamente inesi- 4.2

4.3

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stenti e, dunque, recuperate a tassazione tali componenti negative, sono del pari non imponibili i ricavi strettamente aff erenti tali medesimi costi, nei limiti dell’ammontare di questi ultimi.

La disposizione interviene su di un orientamento di segno contrario della giuri- sprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale, invece, laddove l’Uffi cio avesse negato la deducibilità di costi, siccome relativi ad operazioni oggettiva- mente inesistenti, non avrebbe dovuto, contestualmente, ridurre i ricavi dichiarati dallo stesso contribuente [v. ad es. Cass., Sez. trib., 2.3.2012, n. 3267; Cass. Sez.

trib., 30.7.2009, n. 17729].

Trattandosi, dunque, di disposizione più favorevole al contribuente (rispetto al quadro - giurisprudenziale - previgente), essa è applicabile, ai sensi dell’art. 8, comma 3, anche in relazione ad atti impositivi notifi cati anteriormente alla sua entrata in vigore ed addirittura d’uffi cio [v. Cass. Sez. trib., 19.12.2014, n. 27040].

Si tratta di disposizione volta ad attuare il principio di simmetria fi scale discen- dente dall’art. 53 Cost. (come chiarito dalla stessa circ. n. 32/2012); non si tratta, cioè, di disposizione agevolativa, bensì necessitata, alla luce del principio di ca- pacità contributiva. Pertanto, non si condivide la tesi, pur sostenuta dalla giuri- sprudenza di legittimità [v. Cass. Sez. trib., 20.11.2013, n. 25967], secondo cui competerebbe al contribuente (in ossequio alla ripartizione dell’onere probatorio nel caso di norme agevolative), in sede di giudizio avverso l’atto di accertamento, allegare e dimostrare quali sono i ricavi strettamente inerenti i costi oggettiva- mente inesistenti, al fi ne di ottenere dal Giudice una sentenza di accertamento del minore imponibile imputabile allo stesso soggetto passivo, rispetto a quello contestato. Al contrario, si ritiene che l’art. 8, comma 2 oneri l’Uffi cio fi nanzia- rio il quale, in esito al controllo della dichiarazione, ritenga la sussistenza della deduzione di costi oggettivamente inesistenti, di operare il controllo integrale della dichiarazione del soggetto passivo, al fi ne di appurare se e quanti siano i ricavi specifi camente afferenti detti costi. Per cui, laddove l’atto di accertamento recuperi costi relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti, senza che, del pari, l’Uffi cio abbia decurtato, dall’ammontare dell’imponibile dichiarato dal contribuente, i ricavi (dallo stesso dichiarati) strettamente relativi a detti costi e senza altresì aver motivato il perché ha ritenuto che le componenti positive dichiarate dal contribuente non soddisfi no (in tutto o in parte) la condizione di cui all’art. 8, comma 2, la ripresa a tassazione deve essere qualifi cata, tout court, illegittima (sia per vizio di motivazione, che per violazione dell’art. 8, comma 2, cit.). Per contro, laddove l’Uffi cio fi nanziario neghi rilevanza imponibile a talune delle componenti positive dichiarate dal contribuente, ove quest’ultimo intenda contestare la relativa quantifi cazione operata dall’Agenzia, ha l’onere di allegare e dimostrare quali sono gli specifi ci maggiori ricavi afferenti i costi disconosciuti di cui domanda il riconoscimento di non imponibilità.

L’Agenzia delle Entrate (circ. n. 32/2012) ha chiarito che, laddove i costi og- gettivamente inesistenti ripresi a tassazione eccedano l’ammontare dei ricavi ad essi afferenti, dichiarati dal soggetto passivo, si rendono dovute le sanzioni per infedele dichiarazione commisurate alle imposte dirette afferenti l’imponibile corrispondente alla predetta eccedenza.

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Delineata la disciplina recata nell’art. 8 del d.l. n. 16/2012, è opportuno svolgere qualche ulteriore considerazione di natura sistematica.

Come emerge dalla stessa relazione parlamentare al d.l. n. 16/2012, l’obiettivo perseguito mediante la norma in parola è quello di conformare l’imposizione sui redditi derivanti dall’esercizio delle attività illecite, al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. A fronte, dunque, della previsione, recata nell’art. 14, comma 4 della l. n. 537/1993, per cui i proventi derivanti dallo svol- gimento di attività illecite sono imponibili nella misura in cui risultino riconduci- bili alle tipiche fattispecie reddituali disciplinate dal TUIR o, comunque, a titolo di redditi diversi, il principio che connota il nostro ordinamento, per cui il reddito imponibile è quello quantifi cato al netto dei costi necessari per produrlo, rendeva necessario dare rilevanza (tramite la deducibilità) ai costi inerenti l’attività ille- cita [si rammenta che la previgente disciplina di cui all’art. 14, comma 4-bis sul punto era stata, proprio per tal ragione, oggetto di due ordinanze di remissione dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale, peraltro, non si è pronunciata sul me- rito delle medesime, da ultimo proprio in conseguenza dello ius superveniens co- stituito dall’art. 8 del d.l. n. 16/2012: v. C Cost. n. 190/2012]. E così, in parte, ha operato il legislatore del 2012, stabilendo la deducibilità di tutti i costi sopportati per l’acquisizione dei beni e servizi pur afferenti la commissione di atti illeciti, ad esclusione, come visto, di quelli direttamente impiegati per la commissione di un delitto non colposo.

Sotto tale ultimo versante, quindi, il costo, pur qualitativamente inerente la sfe- ra dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo svolta dal contribuente, viene qualifi cato dal legislatore, tout court, come non deducibile; con il conseguente assoggettamento ad imposizione, in parte qua, di un reddito parzialmente ine- sistente.

Il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. esige, peraltro, che sia assoggettato ad imposizione il reddito effettivo del contribuente [v. ad es., per il principio, C Cost. n. 225/2005]; e tale non è, evidentemente, il reddito lordo (dal quale, dunque, non siano dedotti i costi necessari per la sua produzione).

Peraltro, è opportuno ricordare che il dovere di concorrere alla pubblica spesa è espressione del dovere solidaristico di cui all’art. 2 Cost. Ed è indubitabile che, stabilire la deducibilità dei costi afferenti le cd. attività illecite signifi ca far rica- dere sulla collettività (anziché sull’autore dell’illecito) i costi medesimi. Infi ne, nei limiti della ragionevolezza, è rimessa alla discrezionalità del legislatore bilan- ciare, determinando il contenuto delle norme ordinarie, il principio solidaristico di capacità contributiva, con altri interessi costituzionalmente rilevanti.

Ciò sinteticamente ricordato, l’art. 8, comma 1 del d.l. n. 16/2012, nella parte in cui esclude la deduzione dei costi di acquisto di beni e servizi direttamente im- piegati per la commissione di delitti non colposi, come detto, determina, ove detti costi rispettino il requisito dell’inerenza, l’assoggettamento ad imposizione di un reddito (e di un valore della produzione ai fi ni IRAP) parzialmente inesistente: il che potrebbe far sostenere l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 53 Cost., della norma in parola.

Peraltro, potrebbe in senso contrario argomentarsi che la disposizione, nella mi- sura in cui limita l’indeducibilità ai ricordati costi e non la estende, quindi, a tutti 5

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quelli genericamente afferenti l’attività illecita (come il previgente comma 4-bis), costituisce espressione del ragionevole bilanciamento tra il principio solidari- stico dell’obbligo contributivo e l’interesse (parimenti rilevante dal punto di vista costituzionale) all’affl izione delle condotte contrarie ai principi dell’ordinamento giuridico e, dunque illecite; ciò, proprio avuto riguardo al fatto che l’indeduci- bilità è limitata ai soli costi afferenti le condotte apprezzate come maggiormente riprovevoli dall’ordinamento: quelle che si concretizzano in un delitto doloso.

V’è un ulteriore versante sotto il quale, a nostro parere, l’art. 8 del d.l. n. 16/2012, in relazione all’art. 14, comma 4 della l. n. 537/1993, desta perplessità: è quello del rispetto del principio di coerenza interna dell’imposizione di cui all’art. 3 Cost. [principio da ultimo affermato da C Cost. n. 10/2015].

Il legislatore, da un lato, stabilisce l’imponibilità dei proventi da attività illecita, in virtù della specifi ca categoria reddituale cui sono riconducibili. Dall’altro lato, simmetricamente, con l’art. 8, comma 1, cit., pone il principio per cui è irrilevan- te, ai fi ni della deducibilità del costo inerente la sfera dell’attività del contribuen- te, il fatto che suo tramite siano stati acquisiti beni o servizi relativi ad un’attività illecita svolta dal medesimo contribuente. La natura illecita dell’attività o dell’at- to fonte della componente positiva o negativa di reddito non la sottrae dunque, in via di principio, all’imposizione fi scale: val quanto dire che è giuridicamente irrilevante ai fi ni tributari. Tale essendo stata l’opzione legislativa, il principio di coerenza interna della disciplina avrebbe richiesto che anche i costi di acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per la commissione del delitto non col- poso, se inerenti, fossero da qualifi care come deducibili. La contraria previsione dell’art. 8, comma 1, in combinato con l’art. 14, comma 4, cit., si pone, quindi, in possibile confl itto con l’art. 3 Cost.

Né in senso contrario riteniamo si possa obiettare che l’antigiuridicità della condotta, in quanto tale, non dovrebbe comunque consentire la deducibilità dei costi ad essa afferenti, poiché il principio solidaristico insito nell’art. 53 Cost.

precluderebbe di dare rilievo ai fi ni tributari ad attività illecite; attività che, as- sunte al rango della rilevanza fi scale, verrebbero, invece, così incoerentemente

“legittimate” dall’ordinamento. In realtà, da un lato, l’art. 53 Cost. esige che il legislatore assuma a presupposto del tributo indici idonei a svelare la capacità del contribuente di assolvere il pagamento dello stesso tributo; per cui, i proventi da illecito riconducibili alle categorie reddituali individuate dallo stesso legisla- tore tributario, siccome espressivi di idoneità alla contribuzione, legittimamen- te possono essere assoggettati ad imposizione reddituale; anzi, la loro mancata soggezione ad imposizione sarebbe incoerente con la disciplina dell’imposizione sui redditi ed incompatibile col dovere solidaristico di cui all’art. 2 Cost.: si eso- nererebbe dall’obbligo contributivo proprio colui che matura un reddito ponendo in essere un’attività illecita, mentre lo stesso reddito, prodotto lecitamente, giu- stifi cherebbe la chiamata al concorso alla spesa pubblica; onde, l’attuazione del dovere solidaristico competerebbe solo a chi consegue il reddito lecitamente, non a chi lo matura illecitamente. Si tratta di conclusione che non pare accettabile. Ed allora, se legittimamente il provento illecito è imponibile, il principio di capacità contributiva e quello di coerenza dell’imposizione sui redditi avrebbero richiesto

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di dare rilevanza a tutti i costi direttamente afferenti l’attività illecita fonte di reddito.

Del resto, e per chiudere sul punto, il fatto che l’illiceità dell’attività sia irrilevan- te al fi ne di apprezzare l’idoneità della stessa a palesare l’idoneità alla contribu- zione ai sensi dell’art. 53 Cost., è confermata dai c.d. tributi ambientali; i quali assumono, infatti, a presupposto il danno ambientale, fatto di per sé antigiuridico.

La disposizione recata nell’art. 8 del d.l. n. 16/2012 è sistematicamente rilevante anche sul versante della ricostruzione del principio di inerenza. Nel rinviare, sul punto, al commento degli artt. 109 e 110 del TUIR, in questa sede è opportuno evidenziare quanto segue.

Si è visto che il legislatore ha sancito la deducibilità di tutti i costi - ovviamente inerenti la sfera dell’impresa o di attività di lavoro autonomo esercitata - pur af- ferenti un atto illecito, salvo quelli relativi alla commissione di un delitto doloso.

E la relazione parlamentare al d.l. n. 16/2012 ha chiarito che tale previsione ha la funzione di rendere coerente la disciplina impositiva delle attività illecite al prin- cipio di cui all’art. 53 Cost. Vuol dire, dunque, che lo stesso legislatore - come del resto abbiamo evidenziato supra - considera irrilevante ai fi ni tributari, per la determinazione della base imponibile, la natura illecita del provento o del costo sostenuto nell’esercizio dell’attività.

Se tale opzione legislativa è giustifi cata dal principio di capacità contributiva, a nostro parere rilevante è la conseguenza sul piano sistematico. Intendiamo far riferimento a quegli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, [v., ad esempio, Cass., Sez. trib., 9.2.2001, n. 1821; Cass., Sez. trib., 15.9.2008, n. 23635] secondo cui l’indeducibilità del costo, pur effettivo, sostenuto dall’im- presa senza una effettiva ragione economica, scaturirebbe dall’interpretazione dell’art. 109, comma 5 del TUIR, condotta alla luce dei principi costituzionali (artt. 41 e 53 Cost.). La libertà di esercizio dell’attività d’impresa, infatti, deve - si sostiene - essere bilanciata con il dovere di tutti di concorrere alla spesa pub- blica (art. 53 Cost.); per il che, sarebbe giustifi cato che sia chiamato al concorso alle pubbliche spese (sull’ammontare del costo diseconomico) quel contribuente che opera al di fuori dei canoni dell’economia, dato che, altrimenti, sarebbe la collettività a dover sostenere (tramite la riduzione della base imponibile di quel soggetto, ove gli fosse consentito di dedurre un costo antieconomico) il “peso”

delle incongrue scelte imprenditoriali di quello stesso contribuente.

Ebbene, la disciplina fi scale delle attività illecite palesa che il legislatore tributa- rio (a nostro avviso in corretta attuazione dei principi costituzionali) segue criteri affatto diversi: così come è fi scalmente irrilevante - ai fi ni della determinazione della base imponibile - la natura illecita dell’attività fonte di provento o di costo, essendo dirimente, per contro, solo che il medesimo provento e lo stesso costo siano, rispettivamente, riconducibili alle tipiche categorie reddituali ovvero af- feriscano all’attività fonte di reddito; così, a nostro parere coerenza sistematica porta ad escludere l’accettabilità della tesi per cui il costo quantitativamente diseconomico (salvo che lo stesso non sia indice di operazioni inesistenti o ille- citi arbitraggi fi scali) sarebbe indeducibile, non potendosi gravare la collettività degli effetti della gestione dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo secondo 5.1

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scorretti canoni economici. Invero, è (deve essere) estraneo all’ordinamento tri- butario ogni apprezzamento circa la “meritevolezza” della condotta economica del contribuente; è decisivo, invece, unicamente che il costo sia qualitativamente afferente la sfera dell’attività svolta dal soggetto passivo. L’emersione della ratio dell’art. 8, comma 1, ad opera della relazione parlamentare al d.l. n. 16/2012 merita quindi di essere valorizzata; per indurne che l’ordinamento costituziona- le tributario (di cui l’art. 8, comma 1 costituisce attuazione e non disposizione

“speciale”, non espressiva di un principio generale) attribuisce rilevanza fi scale ai costi qualitativamente inerenti la sfera dell’attività non ammettendo, dunque, limitazioni della loro deducibilità giustifi cate per la natura illecita del costo ov- vero per il fatto di originare da condotte imprenditoriali non conformi ai canoni della gestione “economica” dell’impresa.

Per le stesse ragioni riteniamo che sia da ripensare l’orientamento che esclude la deducibilità delle sanzioni pecuniarie correlate a condotte illecite poste in essere nell’esercizio dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo (si pensi alle c.d. sanzioni antitrust). Si segnala, peraltro, che la circ. n. 32/2012, cit. esclude che l’art. 8 in commento deponga nel senso della deducibilità di dette sanzioni.

Avuto riguardo agli effetti che l’art. 8, comma 1, cit. produce tramite la previsio- ne di parziale indeducibilità dei costi di cui trattasi - ossia, l’assoggettamento ad imposizione di un reddito parzialmente inesistente - e tenuto conto dell’ambito oggettivo di applicazione della norma - la sopportazione di costi direttamente afferenti delitti non colposi - pare dunque che la funzione della disposizione in esame sia affl ittiva e che, perciò, si versi nel caso di una sanzione impropria.

Del resto, la stessa Corte Europea dei diritti dell’uomo qualifi ca come sanziona- toria quella disposizione la quale ha riguardo alla commissione di un illecito e regola la modalità con cui l’ordinamento lo reprime, determinando un sacrifi cio patrimoniale e/o personale in capo all’autore dell’illecito stesso [v. CE dir. uomo, Engel/Olanda, 8.6.1976; CE dir. uomo, Grande Stevens/Italia, 4.3.2014].

Vediamo quali sono gli effetti della qualifi cazione, quale sanzione impropria, del- la previsione di cui all’art. 8, comma 1.

Il primo è costituito dall’applicabilità dei principi generali in tema di diritto pu- nitivo:

a) anzitutto, l’art. 8 del d.l. n. 16/2012 è soggetto al principio della c.d. pre- sunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. Sotto tale versante la disposizione suscita alcune perplessità, nella parte in cui legittima l’attività accertativa dell’Uffi cio per il mero fatto che il PM abbia esercitato l’azione penale riguardo al delitto non colposo al quale direttamente afferisce il costo della cui deducibilità si discute, anziché subordinarla alla sussistenza di una sentenza di condanna defi nitiva o, comunque, ad una pronuncia che defi niti- vamente accerti l’imputabilità al contribuente di tale delitto. In senso contra- rio potrebbe addursi che l’art. 8 non determina una irragionevole lesione del predetto principio, atteso che esso contempla comunque, come visto, il diritto di rimborso del contribuente assolto dall’imputazione penale;

b) se si versa nell’ambito di una sanzione impropria, la stessa dovrebbe rite- nersi intrasmissibile agli eredi (lo esige il principio della responsabilità per-

5.2

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sonale di cui all’art. 27, comma 1, Cost.); perciò, le riprese discendenti dalla indeducibilità dei costi di cui si discute, in caso di morte del contribuente, non possono essere ritenute trasmissibili agli eredi;

c) inoltre, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte Europea dei dirit- ti dell’uomo [v., da ultimo, Grande Stevens/Italia, 4.3.2014, cit.], principio generale del diritto punitivo è quello del c.d. ne bis in idem; onde, se l’art.

8, comma 1 istituisce una sanzione relativa al delitto non colposo, la stessa illegittimamente - per violazione del ricordato principio - si viene a cumulare con quella penale prevista per tale illecito una volta defi nitivamente accertato.

Vediamo, infi ne, le implicazioni sul piano procedimentale della previsione di cui all’art. 8 del d.l. n. 16/2012.

In primo luogo, l’indeducibilità del costo origina solo dall’esercizio dell’azione penale da parte del PM e dalle altre vicende processuali penali cui sopra si è fatto riferimento. Ne discende che:

a) il costo di acquisto di beni o servizi direttamente afferenti il delitto non col- poso, se inerente la sfera dell’attività svolta dal soggetto passivo, è corretta- mente indicato dal contribuente nella dichiarazione relativa all’esercizio di competenza, se presentata anteriormente all’esercizio dell’azione penale. Ne consegue che, a nostro parere, non sarebbe corretto contestare al soggetto passivo, al quale sia imputato penalmente il predetto delitto successivamente alla presentazione della dichiarazione, l’infedeltà della medesima: non può essere ritenuta, infatti, infedele la dichiarazione da qualifi carsi come corret- tamente rappresentativa della base imponibile alla data della sua presentazio- ne. È per questo che il legislatore, disciplinando il rimborso (art. 8, comma 1, ultima parte), ha riguardo unicamente alle maggiori imposte versate dal contribuente per effetto della ripresa a tassazione: non è contemplata anche la restituzione delle sanzioni, perché esse non possono essere legittimamente irrogate (in senso contrario, v. la circ. 32/2012, cit. la quale, assumendo l’ir- rogabilità della sanzione per infedele dichiarazione, per l’effetto ammette, nonostante il silenzio normativo, anche il rimborso delle sanzioni pecuniarie versate);

b) se l’esercizio dell’azione penale del PM, il decreto di rinvio a giudizio, la sentenza di non luogo a procedere per prescrizione ecc. sono i fatti che uni- camente legittimano la qualifi cazione, come indeducibili, dei costi di cui trat- tasi, ne discende che l’Uffi cio fi nanziario, nella motivazione dell’atto di ac- certamento, ha l’onere di rappresentare la ricorrenza di tali fatti processuali a giustifi cazione della ripresa a tassazione; dipoi, nell’eventuale fase giudiziale, ha l’onere di provarne la sussistenza, depositando in giudizio i relativi atti processuali (in tal senso v. anche la circ. 32/2012); in difetto, l’atto di accer- tamento deve essere dichiarato illegittimo (per vizio di motivazione) ovvero deve essere statuita l’illegittimità della ripresa, per mancato assolvimento, da parte dell’Uffi cio, del proprio onere probatorio. Qualora poi, in corso di giudizio di merito, sopravvenga una pronuncia defi nitiva di assoluzione del contribuente, tale circostanza determinerà l’illegittimità sopravvenuta dell’at- to di accertamento che, qualora si ritenga precluso al Giudice il potere di ac- 6

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