Giovanna Silva Lucia Tozzi
Napoli
Contro il panorama
nottetempo
Indice
Dimenticare la coolness, disfare la rendita – Lucia Tozzi 9
Bibliografia essenziale 47
Souvenirs, Napoli – Giovanna Silva 51
Didascalie 133
Dimenticare la coolness, disfare la rendita Lucia Tozzi
Ma che cos’è l’Italia, pensai alzandomi e in- camminandomi verso il Pantheon, se non un conglomerato di luoghi comuni. Pren- derli a martellate, è uno dei miei compiti.
Vitaliano Trevisan, Works Giovanna Silva fa come Thomas Jones. Alla fine del Settecento, quando Napoli era una tappa fondamentale del Grand Tour e gli artisti accorrevano da tutta Europa per dipingere le eruzioni spet- tacolari del Vesuvio e le vedute del golfo a volo d’uccello, riem- piendole di pittoreschi popolani e dettagli stucchevoli, Thomas Jones come un punk occupava la sua tela con il muro scrostato del palazzo di fronte alla sua stanza e una striscia di cielo.
Ancora oggi Napoli è oppressa dal pittoresco: un pittoresco fatto dei soliti mare e pizza, del mito di un inesauribile vitalismo e dell’immaginario da Bronx mediterraneo innescato da Gomorra, che ha persino prodotto, oltre alle serie, ai racconti e a innumere- voli campagne mediatiche, uno specifico genere di turismo.
Giovanna ha imposto alla città uno sguardo rapido, ravvicina- to, architettonicamente brutale e ironico. I suoi scatti a mano li- bera, perlopiù prodotti per mezzo di uno smartphone, in esterno e ad altezza d’uomo, hanno per oggetto privilegiato le architet- ture realizzate nell’ultimo secolo, ma inquadrate per sineddoche.
Niente skyline, nessun panorama, anche il rapporto compositivo con il contesto urbano è invisibile in questi frammenti; pochissi- mi i palazzi interi, mentre ovunque cancelli, reti, muretti, oggetti incongrui, cespugli da Terzo paesaggio, cartelloni, mezzi di tra- sporto, riflessi luminosi e soprattutto scritte fanno da repoussoir.
Unità di abitazione Le Vele, Scampia, 1962-75, Franz Di Salvo:
moltissime scritte contro Gomorra campeggiano sulle sue pareti, rendendo esplicita l’ostilità degli abitanti del quartiere allo sfruttamento iconografico e al confezionamento della narrazione eroico-criminale, da Bronx, che succhia letteralmente le loro vite.
Non è sempre facile, anche per chi è di Napoli, riconoscere i luoghi. Ma se si entra nel gioco, se si tenta di ricostruire l’in- tero dal frammento e la mappa degli attraversamenti compiuti nella città, si leggono le tracce di una storia urbana piuttosto diversa da quella dominante, e molto più articolata. Una sto- ria di grandi interventi pubblici che dall’inizio del Novecento, e in particolare dal Dopoguerra in poi, aveva riempito la città di nuove sedi universitarie, ospedali, edifici civili e soprattutto moltissime case popolari: dai quartieri ina-Casa degli anni Cin- quanta agli interventi della ricostruzione post-terremoto degli anni Ottanta, sono stati costruiti più di 80.000 alloggi, molti di qualità, della cui esistenza pochissimi sono consapevoli – a esclusione delle Vele di Franz Di Salvo, ormai entrate a far parte delle icone napoletane insieme a Maradona e al Vesuvio.
Mentre nelle altre città d’Italia e d’Europa si riscoprono, dopo anni di pregiudizio neoliberista, i quartieri e le case di edilizia pub- blica, la loro funzione fondamentale per la società e la cultura, e spesso anche la loro bellezza, a Napoli questi interventi sembrano destinati a restare nell’oblio, oscurati dall’altra metà della storia, il sacco edilizio. E del resto la potenza narrativa e il successo globale di Le mani sulla città di Francesco Rosi, che vinse il Leone d’Oro a Venezia, hanno saldato in eterno il tradizionale parco metaforico utilizzato per descrivere la città – corruzione, putrefazione, marce- scenza, cancro – alla sua manifestazione edilizia, la speculazione che ha invaso le bucoliche colline del Vomero e di Posillipo.
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E invece è sufficiente scavallare quelle colline a nord, o varcare la soglia dei tunnel che portano a occidente, o affrontare i via- dotti di Napoli Est per imbattersi in un tessuto urbano caotico,
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consumato dall’incuria, ma costruito per più di metà della sua estensione dalla committenza pubblica. Case, scuole, parchi, stazioni, piazze, centri sportivi, strade, uffici pubblici, monu- menti, risalenti in piccola parte al welfare paternalista di inizio secolo, poi all’epoca fascista, e in larghissima parte ai famosi Trenta Gloriosi del Dopoguerra – che anzi a Napoli, per via del terremoto dell’Irpinia, sono diventati Quaranta.
Due o tre generazioni di architetti, coetanei di Marcello Cani- no o suoi allievi nella piccola e compatta facoltà di architettura, hanno vissuto nel periodo di più radicale trasformazione della città, in cui potevano passare da un incarico all’altro, dal progetto di un teatro a una casa di lusso panoramica, dalla scala territoria- le all’allestimento di una mostra. Oppure potevano scegliere di non sporcarsi le mani con un’architettura a loro giudizio troppo compromissoria e di “ritirarsi” nell’accademia e nell’attività poli- tica, ma da una posizione di autorevolezza oggi inimmaginabile.
I più anziani – Alberto Calza Bini (primo presidente dell’inu, romano, chiamato a ricoprire il ruolo di preside della facoltà na- poletana), Luigi Piccinato (veneto, docente a Napoli e autore del Piano regolatore del 1939) e Marcello Canino (il gran maestro ri- conosciuto della scuola napoletana), insieme ai neolaureati Carlo Cocchia, Stefania Filo Speziale e Giulio De Luca hanno lavorato al primo grande cantiere della Mostra d’Oltremare, un enor- me parco espositivo dedicato all’esaltazione del colonialismo (il nome originale era Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare), inaugurato nel 1940 e subito chiuso per la guerra. Poi, a guerra finita, fu aperto un nuovo cantiere di restauro e riconversione della Mostra, che diventò opportunamente la Mostra Triennale del lavoro italiano nel mondo. In un’operazione di straordinaria lavanderia lessicale la Torre del Partito Fascista diventò la Torre delle Nazioni, il Padiglione della Sanità, Razza e Cultura fu de- dicato alla marina mercantile, quello dell’Espansione italiana in
Oriente alle attività creditizie e assicurative, e piazzale dell’Im- pero, detto anche piazzale Mussolini, fu cancellato del tutto.
Il processo di risignificazione naturalmente coinvolse anche l’architettura, benché l’impianto fascista sia tuttora più che evi- dente. Molti padiglioni furono sostituiti o profondamente modi- ficati: a questo nuovo cantiere parteciparono gli stessi architetti del primo, affiancati dai giovani Elena Mendia e Delia Maione (che dirigevano i lavori), Michele Capobianco, Gerardo Mazziot- ti, Arrigo Marsiglia, Alfredo Sbriziolo, Franz Di Salvo e altri.
Mostra d’Oltremare, Ristorante con piscina, 1940, Carlo Cocchia.
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Tuttavia, quello che oggi occuperebbe il centro della scena, la messa a punto di un dispositivo simbolico così importante, di un parco-fiera pensato per attrarre turismo e terziario, di un labora- torio sperimentale di architetture fino a quel momento poco dif- fuse in città, allora risultò tutto sommato marginale. L’attenzione era catturata da processi ben più concreti: negli anni di Achille Lauro, sindaco dal 1952 al ’58, Napoli divenne il paradigma del boom edilizio nazionale, passando in dieci anni da 485.527 stan- ze a 787.260, di cui 15.297 nei soli interventi ina-Casa.
Così quegli stessi architetti della Mostra partecipavano a gare e progetti per imponenti quartieri destinati a migliaia di operai, come La Loggetta a Soccavo, il Monte Rosa a Secondigliano, l’i-
na Ponticelli. E contemporaneamente costruivano scuole, chiese, uffici, cinema, stazioni, ma anche condomini “moderni” e confor- tevoli per i clienti ricchi in centro. E, ancora, collaboravano prati- camente tutti in qualità di esperti, con l’eccezione del comunista Luigi Cosenza e dello storico Roberto Pane, alla stesura del nuovo Piano regolatore commissionato da Lauro nel 1955 – e bocciato nel 1962 per gli inaccettabili indici edificatori e in generale per il suo conclamato asservimento agli interessi della rendita urbana.
Ma gli architetti sono sempre stati, come dice Rem Koolhaas, degli esseri in bilico tra onnipotenza e impotenza: stretti tra l’i- stinto prometeico di plasmare lo spazio in forme civili e l’angu- sta dipendenza dalla volontà dei committenti, si appiattiscono sul fare, sacrificandogli se necessario ideali e saperi. Quando lo sviluppo accelera e la metamorfosi si fa vorticosa, loro – quasi tutti – si buttano nel maelstrom. Se la condizione per costruire è produrre più rendita, allora campi, alberi, abitanti, leggi e piani diventano ostacoli che vanno rimossi o aggirati.
In nome del “fare” gli architetti assecondarono quindi i pro- cessi che hanno determinato una trasformazione urbana così frammentaria, pur senza mai smettere di lamentarsene, e lan-
ciando accuse alle pubbliche amministrazioni e agli enti piani- ficatori o a sistemi di potere di cui spesso e volentieri facevano parte. Ma furono costretti ad accettare gli eterni limiti che la logica della rendita impone alla pregnanza del progetto. Non sempre furono liberi di sperimentare e dovettero a volte adat- tarsi a uno sviluppo urbano incongruo, in cui l’edilizia pubblica era pensata prima di tutto come cavallo di Troia per la specu- lazione. I nuovi quartieri, a danno dei futuri abitanti, venivano spesso collocati il più lontano possibile dal tessuto urbano per legittimare l’urbanizzazione dei terreni intermedi.
Una delle parti più stupefacenti della trasformazione è rap- presentata dalle vicende legate al boicottaggio sistematico delle regole urbanistiche da parte di politici e costruttori. All’inizio si trovarono a fronteggiare ben due piani regolatori, quello elabora- to da Piccinato nel 1939, valido ma privo di piani particolareggia- ti, e quello di Cosenza del 1946, che ebbero cura di non fare mai approvare. Poi formularono direttamente un piano a misura dei propri interessi, quello commissionato da Lauro nel ’55. Quando finalmente apparve il miraggio di una svolta – grazie alle dimis- sioni di Lauro, a una sentenza del Consiglio di Stato nel 1958 che confermava il piano Piccinato e a una seconda che bocciava il
prg laurino – si decise di procedere per varianti. Ma il vero coup de théâtre fu la scoperta della falsificazione del piano, a opera di ignoti impostori che lotto su lotto, quadratino su quadratino, ave- vano virato tutte le zone verdi (agricole) in giallo (un colore non presente in tabella), rimuovendo il vincolo edilizio.
Se si eliminano dal racconto le note di colore, la struttura dell’e- voluzione urbanistica napoletana dell’immediato Dopoguerra è identica a quella di Roma, Milano e moltissime altre città: espan- sione, rifiuto dei lacci e lacciuoli della pianificazione, rendita. La crescita urbana implicava una violenta ma disordinata gerarchiz- zazione dello spazio, rifletteva processi di accumulazione.
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E però in quegli anni era costretta dalla congiuntura keynesia- na a lasciare sul terreno una piccola e fondamentale parte della ricchezza. Decine di migliaia di famiglie ottennero effettivamen- te per la prima volta case vivibili a basso prezzo e, anche se esiste sempre una quota di malcontento, la maggior parte ne ricavò un notevole benessere a lungo termine. Non rassomigliava neanche da lontano a una soluzione equa e definitiva del problema abitati- vo o a una patente vittoria della giustizia sociale, ma era un buon inizio. Nonostante le caparbie romanticizzazioni dell’architettura informale, gli innumerevoli saggi etno-antropologici sulla bellez- za della capanna, della roulotte e della favela (filone, questo, det- to anche slum-porn), le mielose odi alla comunità e alla resilienza, e la copiosissima letteratura contro l’edilizia pubblica, è difficile sostenere che chi, letteralmente, usciva da bassi e grotte provasse rigetto nei confronti di alloggi dotati di porte e bagni. Soprattutto in un’epoca storica che vedeva famiglie più agiate abbandonare in massa e di propria volontà mirabili palazzi storici per piazzarsi in palazzine e condomini di fattura non sempre eccelsa, pur di inseguire il sogno delle comodità moderne.
In ogni caso, al di là dei benefici sociali, l’espansione non è sta- ta solo una somma di brutture. Anche in assenza di una pianifi- cazione organica è riuscita a produrre qua e là nel magma urbano dei frammenti di alta qualità architettonica, negli insediamenti a grande scala come tra gli edifici singoli. Dopo anni di censura e riprovazione, alcuni di questi complessi stanno tornando al cen- tro dell’attenzione grazie al paradossale incrocio di nuove egemo- nie accademiche, del diffondersi delle ossessioni vintage e di un certo genere particolarmente raffinato di marketing urbano. Non solo il Mercato ittico o la fabbrica Olivetti di Luigi Cosenza, da sempre monumenti riconosciuti, o l’amatissimo cinema Metro- politan di Stefania Filo Speziale, ma anche il suo grattacielo, ese- crato per decenni, o gli uffici del vecchio centro direzionale del
rione San Giuseppe-Carità, o alcuni condomini panoramici tra via Orazio e via Manzoni, come quello di Franz Di Salvo, e il pa- lazzo Curtain Wall di Renato Avolio De Martino a via Partenope, additati fino a poco fa come turpi manifestazioni dell’avidità dei costruttori napoletani, stanno diventando oggetti di culto. Si ri- scoprono anche oggetti amati ma un po’ dimenticati come le case di Mario Fiorentino a via Piave (ina-Casa Soccavo-Canzanella), le torri di Mario Ridolfi a via Campegna, o l’impianto riuscito del quartiere ina-Casa Monte Rosa di Cocchia a Secondigliano, e, naturalmente, La Loggetta di Giulio De Luca con le case dei
bbpr e la chiesa e la scuola di Michele Capobianco.
Quartiere ina-Casa Soccavo-Canzanella, 1957-62, le case di via Piave viste dal retro, di Mario Fiorentino e Giulio Sterbini.
Piazza Municipio, sulla destra il palazzo della Società del Risanamento di Marcello Canino (1950-53) e in secondo piano il grattacielo della Cattolica Assicurazioni di Stefania Filo Speziale (1956-58), oggetto di infinite polemiche, set di alcune straordinarie scene del film Le mani sulla città e oggi sede di un hotel.