Un'umida stagione gialla
Versione 1.2
Cork - Settembre 2012
Contemplando questo mondo a volte mi sfugge un lamento ma poi continuo la mia battaglia immergendomi nella luce vorticosa rendendo più vicino il giorno della rapida vittoria!
Morihei Ushiba
1
Il sole era sorto da un'ora e la luce appariva giallastra e febbrile nel cielo velato. Dal mare si sollevavano banchi di vapori che rendevano lo Stretto afoso e spettrale e si confondevano con le nubi più basse.
Appoggiato al parapetto della terrazza, tre piani sopra il livello dell'acqua, Massimo scrutò la costa e l'orizzonte in cerca di un qualche segnale di vita normale.
Niente pescherecci senza benzina, niente motoscafi in fuga verso le isole, niente barche a vela cariche di profughi dirette verso l'Africa. Le ultime navi della marina erano salpate dopo i maremoti di gennaio ed era da allora che non si vedeva più una divisa in giro, a parte quelle imbrattate di sangue e bava indossate dai Lupinari. La porta-container incagliata di traverso nel porto e il cacciatorpediniere arenato in mezzo alla città erano le uniche due imbarcazioni a vista nel raggio di miglia, gusci di lamiera spezzati e scricchiolanti invasi dalle alghe.
Un pandemonio di urla belluine esplose sulla litoranea. Massimo girò il binocolo in quella direzione.
Un branco di Lupinari era uscito dai palazzi sventrati verso nord ed era lanciato in una corsa folle dietro chissà quale preda. Belve rabbiose in forma umana, schiumanti e idrofobe, dalla pelle gialla per l'ittero e l'infezione, coperte di stracci o seminude, chine in
avanti come animali furiosi.
Brutta storia, amico mio, pensò. Spero non ti raggiungano, chiunque tu sia...
Si sporse oltre il parapetto e guardò giù, nei canali. Gli annegati giacevano riversi con la testa sotto l'acqua e il riflusso della marea li portava lentamente verso il largo, trascinandoli via da quelle che un tempo erano strade, da quella che un tempo era una città. Le macerie e i palazzi in rovina sorgevano dal fango tutto attorno: finestre senza vetri, crolli sbrecciati, strutture collassate in cumuli di calcinacci bagnati e tondini di ferro arrugginito.
I branchi si spostavano a nord. La luce era già buona e tra un'ora avrebbe cominciato a fare fin troppo caldo.
Era tempo di andare.
Fece un giro completo della terrazza e scrutò giù da ogni lato del palazzo. Gli squali e i barracuda sollevavano increspature bianche sulla superficie, che diventavano vortici intorpiditi quando i corpi degli annegati venivano agguantati e smembrati. Ma non c'erano Lupinari in giro, né in acqua né vicino all'approdo.
Si infilò nella tuta da motociclista e fissò le protezioni alle gambe e al torace. Mise lo scaldacollo e il sottocasco e indossò le scarpe e i guanti. Era tutto materiale da professionisti, realizzato per le gare estive, eppure tessuti sintetici e punti d'areazione non sarebbero bastati ad evitare il caldo di quel mattino.
Doveva andare e tornare prima delle dieci o l'afa lo avrebbe fatto sciogliere di sudore e arrancare per l'affanno. Avrebbe perso il controllo del respiro, che era il segreto di tutto.
E le cose sarebbero andate male.
Si legò il fodero della spada alla schiena e ci attaccò sopra lo zaino. Carmilla gli corse al fianco, scodinzolando eccitata. Nonostante il mondo si fosse rovesciato e i cadaveri impestassero ogni angolo della città, il cane lupo di Cristian non vedeva l'ora di uscire, salire in barca e andare a cacciare con lui casa per casa.
Niente più guinzagli e museruole. Per lei la vita era tornata alla normalità: correre, fiutare, azzannare e combattere...
Controlla tutto. Fissa bene le cinghie. Controlla di nuovo. Piegati sulle gambe e muoviti di lato. Estrai la spada. Riponila. Fissa la chiusura. Piegati in avanti.
Piegati sui fianchi. Voltati.
Carmilla si muoveva avanti e indietro, fremente.
Massimo si fissò il coltello seghettato alla coscia, completò gli esercizi per sciogliere le articolazioni e verificò che la tuta e le protezioni non gli ostacolassero i movimenti.
Non appena fu pronto, salutò con un inchino il Kamidana e indossò il casco, preparandosi ad uscire.
La foto in bianco e nero dell'Osensei lo fissò a propria volta. Quando i suoi compagni e il maestro erano
morti, cercando di difendere il dojo, Massimo aveva portato via dalla palestra il piccolo altare assieme ai libri, alle spade e alle altre armi. Adesso Morihei Ushiba impartiva i suoi silenziosi insegnamenti nel loro rifugio, sulla terrazza del vecchio palazzo della dogana di fronte al porto, un'isola di cemento al centro della zona allagata della città.
Massimo si concentrò sulla missione di quel giorno e rifece a mente il percorso che si era prefissato.
La barca. L'approdo. Vie secondarie.
Circonvallazione. Palazzine Rosse. Ultimi piani.
Viveri. Batterie. Acqua. Filtri. Salviette. Antibiotici.
Liquori. Sigarette.
Dalle camere da letto proveniva il russare basso di Walter e Cristian. Probabilmente sarebbe tornato dalla spedizione ancora prima del loro risveglio. Un'altra possibilità era che non sarebbe tornato mai più e che stesse per andarsene senza neanche dir loro addio.
Da un certo punto di vista non aveva molta importanza.
Si avvicinò alla porta d'ingresso e si immobilizzò, trattenendo il respiro. Carmilla si accostò all'uscio blindato, fiutando e puntando le orecchie per sentire se vi fosse dietro qualcuno di loro. Il muso del cane non fece una grinza. Tutto tranquillo.
Massimo aprì la porta blindata e uscì richiudendosela alle spalle, accompagnandola in silenzio sui cardini
ben oliati.
Discesero le scale dei tre piani che li separavano dalla barca, saltando tutte le ostruzioni, il filo spinato e i cavi d'acciaio sistemati lungo il percorso. Carmilla era eccitata ma non dava segnali di allerta. Il palazzo era vuoto e nei vari appartamenti non c'erano altro che morti.
Massimo lo sapeva bene.
In buona parte li aveva uccisi lui.
2
Raggiunsero la barca, legata alla ringhiera divelta di una scala che affondava nell'acqua. Alcune macchie di mucillagine gialla galleggiavano sulla superficie e si allargavano sulle pareti come una silenziosa infestazione. L'acqua continuava a salire, settimana dopo settimana, centimetro per centimetro, appena più lenta di quanto non facessero quelle alghe gialle che corrompevano e infestavano ogni cosa.
Attento alle alghe. Attento all'acqua. Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo. Fai salire Carmilla. Guarda nell'acqua. Sali.
Carmilla si mise a prua come sempre e prese a scrutare davanti a loro. Massimo salì dietro di lei, si sedette e poggiò lo zaino di lato. Prese i remi e si mise a vogare piano, cercando di sollevare il minor numero possibile di schizzi e di non smuovere troppo le masse giallognole e fetide che insozzavano l'acqua.
Uscirono da un finestrone sfondato dei corridoi del secondo piano e si ritrovarono all'aperto, tra i canali.
Cristian li chiamava così, le rare volte che usciva o si affacciava dalla terrazza: i canali. Ma non erano canali.
Erano strade allagate, sommerse per oltre dieci metri, dopo che il terremoto aveva affossato la costa, il mare se l'era mangiata e alla fine le onde anomale avevano
inondato ogni cosa.
Non pensare ai canali, non pensare alle Onde.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo. Guarda nell'acqua. Avanti.
Non un alito di vento, dal mare o dalla terra. Una bruma densa e sporca, simile a schiuma gialla si sollevava dal mare e formava una muraglia lungo tutto lo Stretto. C'era in essa un odore stantio, il fetore pungente delle alghe che appestavano il mare mescolato ad un vago sentore di morte.
Movimenti nell'acqua.
Massimo smise di remare, ritrasse i remi e poggiò la mano sulla spada. Carmilla si affacciò curiosa e poi si voltò a guardarlo, con espressione evidente. Squali. La incuriosivano, ma non la innervosivano come loro.
Raggiunsero l'approdo.
L'acqua arrivava fino a una vecchia chiesa mezza allagata. L'ombra immane del Caio Duilio, la nave da guerra affossata in mezzo ai palazzi, si allungava sulle mura sbrecciate. Massimo fece scivolare la sua barca all'interno della chiesa e la legò ad uno spuntone di colonna, dove sarebbe stata abbastanza nascosta.
Infilò lo zaino e saltò giù sul mucchio di calcinacci del
tetto crollato, mentre Carmilla correva avanti a fiutare e a perlustrare la zona.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo.
Massimo estrasse la spada e si mise a correre tra i vicoli, tenendola bassa accanto alla gamba destra. In pochi minuti raggiunsero Piazza del Duomo, ingombra di cadaveri, vittime e Lupinari ammassati assieme.
Erano caduti massacrandosi l'un l'altro e giacevano mescolati, eppure non era difficile distinguerli. Gli idrofobi erano quasi sempre seminudi e meglio conservati, dalla pelle di un colore giallo marcio anche nella morte, ricoperti di alghe, bava e muco concrezionati. Tutti gli altri erano corpi grigi decomposti, resti umani pietosi ricoperti di stracci informi.
Sul tetto della cattedrale, Massimo poteva vedere appostati due cecchini dei Bacianicchio, la banda che occupava l'edificio, come due doccioni che sorvegliavano la piazza sottostante.
Si tenne lontano dal Duomo e dai Bacianicchio e corse dietro Carmilla attraverso le solite strade, diretto verso la parte più alta della città, mai toccata dalle Onde.
Il cane lupo si arrestò di colpo, cominciò a ringhiare e si abbassò, con la coda gonfia e il pelo ritto per la minaccia. Massimo strinse la spada e si mosse nella direzione in cui puntava il cane, superandolo di
qualche passo. Tra le macerie e le auto corrose dalla pioggia c'erano tre di loro, che si contorcevano e schiumavano in mezzo al fango.
Maledetti. Quanto ci mettete a morire?
Massimo li riconobbe. Li aveva abbattuti lui stesso due giorni prima, l'ultima volta che era uscito di casa.
Aveva reciso i tendini del polpaccio a tutti e tre e poi si era allontanato, lasciandoli ad urlare in mezzo ai crolli, per attirare tutti gli altri idrofobi nei paraggi e permettergli di allontanarsi.
I tre iniziarono a strisciare verso di lui e Carmilla. Non vi era quasi vita in loro, corpi smagriti, stremati, spezzati. Eppure sbavavano ancora e si trascinavano avanti, con una determinazione che non era umana, come burattini di ossa manovrati da una forza sconosciuta.
Massimo evitò di avvicinarsi e di lordare la spada e continuò a correre verso la sua prossima tappa.
Carmilla lo seguì, ringhiando furiosa contro di loro mentre li superava.
Alla malora. Ci vediamo tra altri due giorni.
3
Massimo raggiunse l'Orto Botanico e si infilò tra le grate di ferro della recinzione, facendosi strada tra gli alberi e gli alti cespugli.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo.
Nessun fruscio, nessun rumore, nessun movimento.
Arrivò alla porta di legno della rimessa e sgusciò dentro, richiudendosi bene l'uscio alle spalle. Lanciò Carmilla avanti e la seguì, salendo le scale. Come ogni volta, l'edificio al centro del parco era deserto e tutte le finestre e le altre porte del piano terra erano chiuse. Il terremoto aveva fatto solo danni minori e nessuno si era mai insediato in quel luogo, Lupinari o sopravvissuti che fossero. Carmilla gironzolò per l'edificio e si fermò nei soliti posti.
Massimo salì fino all'ultimo piano e uscì sulla terrazza.
Tutto attorno era tranquillo. L'intero giardino era vuoto e silenzioso e non vi erano randagi in giro, né tanto meno branchi.
Ma la via fino alla Circonvallazione era invece infestata. Un Lupinaro piegato in avanti si contorceva e schiumava in mezzo alla strada, sbattendo le braccia contro le auto e le cancellate, come se volesse fare rumore apposta. Massimo guardò dall'alto le vie alle
sue spalle. Altri randagi dovevano averlo sentito e si muovevano nella sua direzione da più lati, forse credendo che l'origine del rumore fosse qualche sopravvissuto.
Li osservò per un minuto, cercando di capirne i movimenti. Come sempre erano attirati dal rumore, ma questi erano molto lenti e non facevano parte di alcun branco. Erano semplici derelitti, belve deformi, mostri riusciti male, troppo sfiancati e danneggiati per seguire gli spostamenti dei gruppi più forti. E adesso il rumore li faceva riunire insieme, come un branco reietto costituito solo da individui scartati.
La via offriva pochi nascondigli e vi erano delle auto in mezzo alla strada. Massimo decise che valeva la pena rischiare, per ripulire un po' quella zona. Controllò dall'alto un'ultima volta l'intero perimetro dell'Orto Botanico e poi discese al piano terra, uscì fuori dal passaggio della rimessa, passò nuovamente tra le sbarre di ferro e si mise a correre verso il suo obiettivo, mormorando una invocazione a Fudo Myo-ho, l'Inamovibile.
Il Lupinaro al centro della via continuava a ciondolare e gemere con un ringhio basso e irregolare, l'ultimo rantolo di polmoni ormai infestati. Carmilla corse avanti prima che Massimo potesse fermarla e si lanciò alla caviglia dell'idrofobo. Il Lupinaro si girò e si sporse a guardare quello che stava accadendo, senza comprendere. Era lento e impacciato. Massimo lo raggiunse e sferrò un colpo con tutta la potenza
dell'anca e della spalla, sfruttando la spinta della corsa con movimenti circolari. Lo decapitò di netto.
La testa fece un rumore molle e acquoso quando cadde sull'asfalto, ma dal collo non fiottò sangue, mentre il torso si abbatteva al suolo accanto a Carmilla.
Massimo salì sul cofano di una berlina parcheggiata lì accanto e si guardò attorno. Quattro di loro arrivavano barcollando in mezzo alle automobili dalla direzione della Circonvallazione, mentre altri due si avvicinavano dalla via che aveva appena percorso.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo. Il pugno stretto, il polso morbido. Colpi netti. Corretta vittoria.
Si mosse senza correre verso i due che sopraggiungevano alle sue spalle. La prima era una donna tumefatta, con mezza faccia mangiata e una macchia scura di sangue e fluidi attorno al ventre.
Aveva gli occhi gialli e pazzi, come tutti gli altri.
La ferita all'addome la rallentava e le dava un'andatura strascicata. Teneva la testa bassa e le mani quasi sfioravano il suolo.
Hai perso il tuo centro pensò Massimo. Le si fece innanzi e poi scartò di lato in una spirale, arrivandole al fianco prima che si potesse girare. Abbatté la lama dall'alto in basso, tranciandole le ossa del collo e decapitandola come aveva fatto con il primo.
Non attese di vederla cadere a terra e si mosse verso
l'altro, un ragazzo dalla pelle gialla e ricoperto per metà di alghe. La gamba destra era completamente infestata e ridotta quasi all'osso. Massimo si piegò sulle gambe e fece una spazzata con la lama, tranciandogli l'altra gamba alla caviglia. Il ragazzo cadde a terra tra le auto e iniziò a contorcersi, urtando contro l'auto.
Massimo si volse e tornò indietro. Carmilla aveva attaccato uno dei quattro che sopraggiungevano dall'altra direzione ed era riuscita a saltargli alla gola, affondando i denti nel collo scoperto del mostro, mentre quello provava a colpirla con le mani ad artiglio.
Massimo si avvicinò agli altri tre. Con un calcio diretto scagliò il primo all'indietro, lasciandolo cadere di schiena sull'asfalto coperto di schegge di vetro. Uno degli altri due era più scattante e si lanciò contro di lui con una carica affannosa. Massimo gli afferrò il braccio, si mosse di lato e lo scaraventò in avanti, facendolo rotolare su se stesso. Prima che potesse rialzarsi il terzo gli fu addosso. L'intero peso dell'idrofobo gli ricadde sulle spalle e i denti della bestia gli si attaccarono al collo. La tuta resse, facendo da barriera tra la sua carne e le fauci marce che la bramavano.
Massimo prese la testa del Lupinaro con i guanti e se la pose nella piega del braccio. Fece leva con la spalla, spinse in avanti e lo atterrò, lasciando che l'ossesso crollasse davanti a lui. Trattenne la testa sotto il
braccio fino alla fine, quando avvertì il colpo secco dell'osso spezzato. Lasciò andare il cadavere e tornò verso quello che lo aveva caricato. Era di nuovo in piedi e schiumava urlando verso di lui.
Quelle grida erano molto più pericolose delle fauci nere di chi le stava lanciando. Massimo eseguì un affondo a tre passi e fece scattare le braccia in avanti, estendendo al massimo la portata della katana. Per un attimo divenne l'Inamovibile e la sua lama divenne una spada di saggezza.
L'arma si infilò in profondità della bocca della creatura, uscendo dal retro del collo. L'urlo si strozzò e divenne un gorgoglio di sangue, ma il mostro non cadde. Con uno scatto laterale, il Lupinaro volse il capo e agitò le braccia davanti alla faccia, cercando di togliersi la spada dalla bocca. Massimo perse la presa e rimase a guardare la bestia che si contorceva, cercando di afferrare l'arma e volgendo il capo avanti e indietro impazzito.
Carmilla abbaiò alle sue spalle, facendolo girare di soprassalto. Il cane aveva il muso sporco del sangue scuro delle belve e la sua vittima ancora si contorceva al suolo, straziata ormai a morte. Ma il quarto di loro si era rialzato e stava avvicinandosi tra le autovetture, con gli occhi gialli impazziti di furia.
Massimo si allontanò di qualche passo per non essere circondato. Anche se messi male, i due Lupinari erano una minaccia che andava affrontata con calma e controllo. Scagliò un altro calcio con tutta la sua forza
a quello che stava accorrendo, rigettandolo nuovamente indietro. Stavolta però il mostro non cadde a terra e tornò immediatamente alla carica.
Massimo alzò il tiro e gli scagliò un calcio al volto.
Mi perdonerai, Osensei, pensò. Non è aikido, ma andrà bene lo stesso.
Il naso dell'idrofobo si fratturò sotto il suo tallone, ma l'essere non si fermò, reso sempre più folle dalla frenesia della mischia.
Carmilla assaltò il Lupinaro al basso ventre, facendone scempio. Massimo lo colpì al viso un calcio laterale, ma servì solo a prendere tempo. Infine, il mostro gli si fece sotto con le braccia in avanti, cercando di ghermirlo.
Massimo non attese oltre. Gli afferrò il braccio sinistro e lo gettò a terra trattenendogli il polso fino alla fine. Il Lupinaro giaceva faccia a terra sotto di lui, contorcendosi per rimettersi in piedi. Massimo puntò il piede sulla scapola del mostro e gli spezzò il braccio con un solo movimento. Poi si chinò ad afferrare l'altro polso, lo torse all'indietro, spostò il tallone sull'altra spalla e gli spezzò anche il secondo braccio, lasciando il resto del lavoro a Carmilla.
L'ultimo dei Lupinari aveva ancora la sua lama piantata in bocca e continuava ad agitarsi nel tentativo di strapparsela via. Massimo notò che si era quasi amputato da solo le dita delle mani, mentre cercava di afferrare la lama e tirarla via. Lo trascinò di lato e lo atterrò. Poi estrasse l'altra lama dal fodero sulla coscia e gliela piantò nella tempia, finendo il lavoro.
Ansimava.
Sotto la tuta, la sua pelle era già madida di sudore, gli occhi gli bruciavano e le labbra erano riarse. Uno scalpiccio di passi di corsa giunse da una strada secondaria. Massimo ripose la lama corta e riprese in pugno la katana, guardandosi attorno in cerca di una buona via di fuga.
4
Dal vicolo venne fuori una coppia di enormi rottweiler, che corsero verso di loro.
“Maledizione”, mormorò. Non gli piaceva uccidere i cani, neanche quando erano inselvatichiti. I due mastini si fermarono di fronte a Carmilla, fronteggiandola con cautela, nonostante la loro superiorità di numero e di taglia. Per un attimo i tre animali si confrontarono, ringhiando e mostrando le zanne, pronti a scattare.
Massimo si avvicinò con la spada in avanti, per aiutare il cane-lupo in questa nuova mischia.
Stava per scattare all'attacco, quando da dietro l'angolo apparve una ragazza vestita di nero, con in mano una balestra larga come le sue spalle.
“Zanna! Drago!” chiamò, con quanta più furia potesse metterci pur parlando a voce bassa. I due molossi neri si fermarono, esitando a scagliarsi in avanti ma puntando ancora fissi verso di loro. Massimo si gettò a sua volta contro Carmilla, bloccandola.
La ragazza raggiunse i due rottweiler e si accucciò al loro fianco, tenendo la balestra con il solo braccio destro. Portava ai piedi anfibi aperti a metà, logori e sporchi all'esterno di grumi scuri, dei jeans grigi scoloriti e un giubbotto di pelle aperto su una canottiera nera.
Massimo la conosceva di vista. Era uno dei
pattugliatori dei Babbaluci, una banda accampata in un forte ottocentesco sui Colli sopra la città. Le mostrò la mano sinistra aperta, in segno di saluto, e inclinò la spada verso l'esterno. Non riuscì ad essere più amichevole di così.
Rimasero a scrutarsi per qualche secondo, mentre entrambi cercavano di calmare i cani, accarezzandoli e parlando loro a bassa voce.
“Bella tuta” disse infine la ragazza. “Dove l'hai presa?”
Massimo rimase accucciato accanto a Carmilla, con la spada nella destra e la sinistra sul collo dell'animale.
“In un negozio di moto” rispose. “E tu, quella balestra?”
“Ci crederesti? Hobby e Modellismo, prima che ci passassero tutti gli altri.” “Ottima idea” disse Massimo.
Carmilla e i due molossi sembravano finalmente calmi.
Si tirò su in piedi e si slacciò il casco. Aveva un gran desiderio di asciugarsi la faccia dal sudore, ma non voleva strofinare la superficie della tuta sul volto.
Poteva essere contaminata.
La ragazza se ne accorse. Tirò fuori delle salviette e gliele lanciò. Massimo le afferrò al volo. Erano ormai asciutte come carta di giornale, ma sarebbero servite allo scopo. “Grazie” le disse con un accenno di sorriso.
“Non me le consumare, che mi devono bastare per tutta la giornata.”
Un istante dopo le restituì il pacchetto e si chinò su Carmilla. Con la salvietta usata le pulì il muso dai grumi più grossi rimasti attaccati al pelo. Non si era
mai visto un cane contaminato dalla Gialla o dalle alghe, ma non era il caso di rischiare.
“Senti... io non voglio guai” disse infine alla ragazza.
“Sto andando sulla Circonvallazione alle case dei complessi nuovi. È territorio vostro?”
“Vostro di chi?” chiese la ragazza con una smorfia di stizza.
“Tu stai con i Babbaluci, giusto, su al Forte?”
“I Babbaluci sono andati. Un branco di Merde ci ha seguito dopo un giro fin su alle Quattro Strade e ci hanno attaccato durante la notte. Abbiamo dovuto usare i fucili e il rumore ne ha richiamato altri mille.
Non so se è scampato qualcun altro oltre me...”
Massimo scosse il capo. “Mi dispiace. Sei sola ora?”
La ragazza alzò la balestra e i due rottweiler approfittarono della situazione per ricominciare a fremere e ringhiare. “Perché? ti vuoi fare i cazzi miei?”
“Ehi, ehi...” la interruppe Massimo. “Non volevo romperti i coglioni. Io vado sulla Circonvallazione, va bene? Tu fai i tuoi giri e buona fortuna.”
Strinse la spada in pugno e si rimise il casco, pronto a rimettersi in cammino. Carmilla aveva la sua stessa tensione in corpo, lo poteva vedere in ogni muscolo del suo corpo smagrito, dai suoi denti, dalla coda...
La ragazza esitò. “Perché la Circonvallazione? I supermercati sono stati tutti saccheggiati. Anche le botteghe, le mercerie e i tabaccai sono vuoti da mesi.
Non si trova nemmeno un mars di merda da quelle parti...”
Massimo rifletté qualche istante, poi guardò con attenzione i due molossi dal pelo lucido e nero e parlò di nuovo. “Ehi, quanto mangiano quei due cani?”
La ragazza chinò il capo e fece una smorfia. “Cazzo, devo dargli ogni giorno quattro volte quello che mangio io, a questi due stronzoni...”
Massimo sorrise, dentro al casco. “Ti propongo un patto” disse poi. “Io ti faccio vedere quello che si rimedia sulla Circonvallazione e tu mi dici dove trovi il cibo per cani. Ti va?”
La ragazza ci pensò su qualche istante, guardandosi attorno. “D'accordo” disse infine. “Basta che ci leviamo dalla strada.”
5
“Mi chiamo Elettra” disse, appoggiando gli anfibi su un tavolino di mogano e cristallo. Teneva un sigaro acceso con la mano destra e con la sinistra un calice pieno di rum agricolo di colore scuro.
“Io sono Massimo” rispose lui, finendo di ripulire la tuta con un panno intriso di spirito. Si era tolto casco e guanti e aveva allentato tutto il resto. Lo zaino era poggiato su un divano di pelle color perla e la spada era abbandonata lì accanto, vicino alla balestra e al giubbotto della ragazza. Erano entrati in uno dei complessi nuovi ed erano saliti fino agli ultimi piani, con i cani avanti a fiutare la presenza degli idrofobi. Il terremoto aveva spaccato molte pareti non portanti dell'edificio e aperto crepe e crolli da cui era possibile sgusciare nei vari appartamenti. Tutto il resto del palazzo era solo calcinacci, ossa e polvere.
“Massimo, tu lo sai che ti chiamano Yoshimitsu, vero?”
sorrise la ragazza sorseggiando rumorosamente il rum.
“Sei famoso...”
“Yoshimitsu?”
“Sì, per tutta quella roba che ti porti addosso. Il casco, la tuta bianca, la katana... come quello di Tekken...”
“Sì, lo so chi è Yoshimitsu... Mi sa un po' di presa in giro però.”
“Un po' sì, lo è...” ammiccò Elettra.
“Sì, però grazie al casco e alla tutina io sono ancora
vivo” ribatté Massimo. “I Lupinari ti possono contagiare anche con un morso o un graffio, no?
Perché rischiare?”
“Non te la prendere con me” lo blandì la ragazza. “Io penso che hai ragione. Se potessi, andrei pure io in giro così.”
“Bé, neanche tu sembri una sprovveduta” ammise Massimo. “Hai due guardie del corpo uniche e una balestra da caccia grossa...”
“Sì, non è che i due stronzoni siano il massimo, ma almeno mi hanno fatto sopravvivere fino ad oggi. Li ammazzano a due alla volta.”
Sentendosi chiamare, i molossi alzarono il capo dal tappeto su cui erano sdraiati.
Massimo si guardò in giro e si accostò all'armadio, che avevano spinto di fronte alla breccia nella parete da cui erano entrati. Nessun rumore dall'esterno. Decise che quel rifugio poteva essere abbastanza sicuro e si tolse di dosso anche la giacca della tuta, rimanendo a torso nudo.
“Che significano quei tatuaggi?” chiese lei, fissandogli i grandi ideogrammi incisi sulla schiena.
“Masakatsu Akatsu Katsuhayabi” rispose lui.
“Soggioga la natura inferiore e risulterai sempre vincitore. Molto appropriato in questo periodo, non trovi?”
“Hai visto?” disse lei ruttando. “Che ti dicevo?
Yoshimitsu...”
“Così tu vai in giro nelle case colpite dal terremoto?”
chiese Elettra dopo un po', cambiando discorso.
Massimo la guardò senza parlare.
“Scusa, non volevo romperti i coglioni” riprese lei.
“Ognuno ha i suoi segreti per campare, no?”
Massimo ci pensò su. Poi anche lui si accese un sigaro e si versò il rum, sedendosi sul divano ai piedi della ragazza e incrociando le gambe con quelle di lei. Sentì i muscoli di lei fremere quando si sfiorarono, ma nessuno dei due si ritrasse. Brindarono con un tintinnio dei bicchieri, guardandosi per un attimo negli occhi.
“Bé, alla fin fine,” disse lui lasciandosi scivolare un sorso di rum nella gola, “la città è grande abbastanza per tutti, no? Basta che non ne parli con quei fomentati dei Bacianicchio o con i Cimiteros...”
“Non è un problema” rispose lei scrollando le spalle. “I Cimiteros si stanno spostando ormai sempre più verso sud e i Bacianicchio li evitò come fossero le Merde.”
“Le Merde... è così che li chiami?”
“Chi?
“Loro, i Lupinari, gli idrofobi, i gialli, gli zombi...”
“Bé, meglio Merde che Lupinari, no? Rende meglio l'idea. Gialli li chiamavano alla televisione e zombi li chiamano ormai solo i Cimiteros, ma noi li abbiamo sempre chiamati Merde...” A quelle parole i due rottweiler sollevarono di nuovo il capo, sospettosi.
Massimo li accarezzò, lasciando che lo annusassero nuovamente.
Era meglio andare d'accordo con quei due mostri...
“Va bene” disse infine, accendendosi il sigaro.
“Comunque è così che faccio: i negozi e i supermercati sono tutti saccheggiati e sono troppo grandi e pericolosi, per non parlare del fatto che hanno troppe entrate spalancate o già sfondate. Quando la città è stata invasa e i Lupinari, anzi le Merde, giravano a migliaia, c'erano morti dappertutto, sparatorie, massacri e così via. Poi è arrivato il terremoto, mezza città è andata sott'acqua e molti palazzi sono crollati o si sono riempiti di crepe. La maggior parte delle case aveva almeno un muro spezzato e non c'erano più porte blindate per barricarsi dentro. Le Merde giravano casa per casa e il loro numero divenne dieci volte maggiore di quello dei sani. Così, molti lasciarono le case danneggiate e iniziarono a girare in cerca di cibo, di altri sopravvissuti e di un posto più sicuro dove stare, abbandonando dietro di sé tutto quello che non potevano portare via.
Io vado alla ricerca di quelle case in cui si possa entrare e dove sono rimaste le cose che nessuno ha preso con sé scappando: scatolette, riso, liquori, sigari, salviette, medicine, batterie. I palazzi sulla Circonvallazione sono perfetti per questi raid. Quattro appartamenti su cinque non vanno bene: tetto crollato, pavimenti pericolanti o porta blindata ancora chiusa.
Ma almeno uno per piano ha un varco per entrarci dentro ed è una specie di camera del tesoro, come questo. Gradisci ancora un po' di rum?”
6
Perfino la caldaia e gli scarichi era ancora piena d'acqua. Massimo la lasciò scorrere un po' e poi usò quella meno sporca per lavarsi e rinfrescarsi. C'erano molti vestiti ma nessuno della sua misura. Prese qualche maglietta pulita, dei calzini e delle federe ripiegate in un cassetto e le ficcò in fondo allo zaino.
Raccolse tutte le batterie in giro e radunò le bottiglie all'ingresso: un paio di casse d'acqua, un intero mobiletto di vini e liquori, delle birre in lattina fuori dal frigo.
Passò poi in rassegna il resto della cucina. Niente filtri dell'acqua o salviette, ma in mezzo a tante cose inutili o andate a male recuperò un paio di pacchi di pasta un po' ammuffita e delle lattine di legumi scaduti da neanche due mesi. E poi ancora olio, sale, zucchero, pepe, aceto, tutta roba buona per togliere i sapori di stantio e ammuffito dal cibo. La birra e il vino erano troppo pesanti. Prese solo un paio di bottiglie di liquore e l'intera confezione dei sigari. Caffè: quasi gli venne da piangere.
Ficcò quello che poté nello zaino e preparò un pasto veloce con alcune scatolette e dei crackers induriti.
Elettra aveva trovato biancheria e magliette pulite e si stava lavando e cambiando in un'altra camera.
Massimo versò un po' di fagioli per Carmilla e glieli portò in cucina, dove il cane si riposava lontano dai
due rottweiler. Sistemò poi il resto per sé ed Elettra sul tavolo del salone.
“Ehi, hai apparecchiato!” disse la ragazza con un sorriso, asciugandosi i capelli con un telo da bagno.
“Sono settimane che non mangio come una cristiana battezzata!”
Divorarono tutto in pochi minuti, bevvero una bottiglia d'acqua a testa e infine si scolarono un paio di lattine di birra calda.
“Ti ho lasciato della roba in giro” le disse Massimo.
“Prendi tutto quello che ti pare.”
“Ok” rispose la ragazza. “Senti, ho visto che hai preso anche la pasta e il riso. Come li fai bollire?”
A casa abbiamo le bombole del gas e un po' di acqua raccolta da cisterne e caldaie. Tutti gli appartamenti del nostro palazzo avevano ancora i fornelli con le bombole, quindi abbiamo saccheggiato ogni casa e ci siamo fatti una buona scorta di gas per i prossimi mesi.”
“Quanti siete?”
Massimo si alzò da tavola e sistemò lo zaino un'ultima volta. Ci ficcò dentro un paio di libri e riempì ogni altro spazio vuoto di tovaglioli di carta.
“Siamo in tre: io, Cristian e Walter. Un nostro amico abitava su una specie di mansarda riadattata, sul terrazzo di un palazzo vicino al porto. Con il terremoto, tutto l'edificio è diventato pericolante, le scale sono mezze crollate e diverse pareti sono cascate giù. Ma
quella sorta di appartamento sul terrazzo non ha avuto problemi, se non che ci si muore di caldo d'estate e di freddo d'inferno.”
“E i tuoi amici non escono mai?”
“No. All'inizio eravamo una decina, accampati lì. Poi sono successi un sacco di casini e ora siamo rimasti solo noi tre. E Carmilla, il cane di Cristian. Tutti gli altri sono morti. Da allora loro due non hanno più avuto il coraggio di uscire. Se non fosse per me morirebbero di fame, ma credo che preferiscano agonizzare in pace dentro casa piuttosto che lasciare quel rifugio.”
“E tu li mantieni? Gli porti il cibo e l'acqua? Ti occupi di loro anche se non collaborano?”
“Sì” le rispose Massimo, iniziando a rimettersi la giacca. “Sono miei amici. Dentro casa si occupano delle cisterne, delle piante e di tutto il resto. E la sera ci sfondiamo di canne, whisky e risiko. A me sta bene così. Se venissero con me per strada sarebbero solo d'impiccio.”
“Ti capisco” Elettra gli si era fatta vicino. Mise la mano sulla tuta e lo fermò, impedendogli di rivestirsi. “Certi non sono fatti per questa vita.”
Massimo si spogliò nuovamente. “E chi lo è?”
7
Uscirono dalla camera da letto un paio di ore più tardi, dopo essersi riposati un po'. Massimo si stirò e rifece gli esercizi per sciogliere e riscaldare i muscoli.
Indossò la tuta e si guardò attorno un'ultima volta.
C'erano ancora molte cose che potevano tornare utili in quella casa, ma anche in quella accanto e in quella dopo ancora. Magari qualcun altro sarebbe salito fin lì e se le sarebbe prese, un giorno o l'altro.
Elettra lanciò i cani avanti e fece strada per circa un chilometro in direzione sud. Vi erano cadaveri ovunque e la maggior parte di essi erano di Lupinari, morti anche loro per fame, probabilmente dopo settimane dall'infezione.
Vi siete mangiati tutti. Che cazzo volevate? pensò Massimo.
I muri del quartiere erano pieni di scritte in rosso e nero: Cimiteros ovunque, Cimiteros Apocalypse, Welcome to the Inferno! e altre cose così. A quanto pareva, ai Cimiteros piaceva marcare il territorio. Gli idrofobi non sapevano leggere, quindi era ai sopravvissuti che erano rivolti quegli avvertimenti.
Per una sorta di intuizione geniale quanto folle, metallari e dark vecchio stile si erano rintanati nel cimitero fin dai primi comunicati radio dell'esercito e del dottor Politovich e avevano cominciato a prendere a fucilate chiunque si avvicinasse. Nessuno aveva
creduto che potessero superare il primo mese. Eppure erano ancora tutti lì, dopo oltre un anno dalla fine del mondo, mentre mafiosi, poliziotti, borghesi, feccia e fighetti erano finiti massacrati. Anche i contractors di Politovich si erano fuggiti in elicottero, dopo le Onde, lasciando il Duomo fortificato in mano ai Bacianicchio.
I Cimiteros invece prosperavano, coltivando dentro il camposanto ortaggi fin troppo rigogliosi, cresciuti su ben macabri terreni.
Massimo non veniva mai in quella zona. Notò per la prima volta le auto rovesciate attorno alle cancellate e i grandi loculi fortificati all'interno del cimitero, simili alle torrette di una qualche base militare. Il camposanto della città aveva mura alte tre metri su tutti i lati e non era facile entrarci, neanche per i Lupinari.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo.
Girarono attorno a uno dei lati del muro e si allontanarono lungo una via intasata di vecchie barricate della protezione civile. Elettra raggiunse un'alta cancellata di ferro e vi si arrampicò, scavalcando gli spuntoni metallici in cima. Saltò giù dall'altro lato e poi aprì la cancellata dall'interno.
“Benvenuto a casa mia” disse.
Entrarono in un piccolo parcheggio, su cui si affacciavano una rimessa e un negozio di animali.
Elettra sollevò la saracinesca del garage e strisciò sotto la serranda di ferro, facendo passare anche Massimo e i cani, per poi richiudersela alle spalle. Era tutto in penombra e l'unica luce veniva da un paio di stretti abbaini chiusi da lerci vetri rinforzati. Qualcuno aveva sfondato una parete con una mazza e da quel varco si poteva passare al negozio di animali lì a fianco.
Il piano terra era tutto saccheggiato: file di scaffali vuote e centinaia di scatole e sacchi di cartone sventrati e gettati per terra. Corde, palle di cuoio e altri giocattoli per cani erano sparsi ovunque, divelti, masticati e distrutti.
Zanna e Drago dovevano divertirsi da matti in quella specie di antro.
“Loro stanno qui” spiegò Elettra, mostrando ai molossi le loro cucce. “Come ultima difesa in caso di assalto.”
Carmilla era incuriosita dagli odori di cibo per cani che ancora impestavano l'aria, ma Massimo la condusse via con sé. Seguirono Elettra su per delle strette scale fino al piano superiore, dove c'erano un piccolo ufficio riadattato a rifugio, un bagno e un ampio sgabuzzino.
“Per fortuna il magazzino era pieno di altro cibo per cani” spiegò lei. “Ancora ne rimane un bel po' per i due stronzoni. Purtroppo per me, invece, qui non c'è né gas né acqua corrente, quindi il resto fa un po schifo. Non farci caso.”
Raccolse un po' di stracci lasciati in giro, li infilò in un sacchetto di plastica e si gettò sulla branda piazzata in mezzo all'ufficio.
“Senti” disse Massimo, senza neanche levarsi il casco.
“Faccio mangiare Carmilla, mi prendo un paio di buste di cibo per cani, e mi levo dalle scatole, ok?”
“Va bene”, rispose lei secca, iniziando a svuotare lo zaino. “Se ti va di andare di nuovo a cercare cibo insieme, fammi sapere.”
8
Massimo fu di nuovo in strada pochi minuti dopo. Dal tetto di una cappella a due piani appoggiata al muro del camposanto, un biondo con la barba di un anno, in pantaloni di pelle e maglietta nera, lo guardò passare stringendo in mano una lupara.
Danilo l'Animale, lo riconobbe Massimo. Fece un cenno con la mano che l'altro ricambiò appena, tenendolo sott'occhio fino a quando non fu scomparso.
Il sole adesso era luminoso, il cielo terso e il calore terribile.
Piazza del Popolo era ricoperta di cadaveri smembrati, ancora più numerosi di quelli di fronte al Duomo.
Anche qui molti dei corpi appartenevano ai gialli. Il fetore di contaminazione, le esalazioni delle alghe e il lezzo della normale decomposizione erano terrificanti, nella canicola soffocante di quel giorno.
Massimo decise comunque di attraversare il piazzale.
Meglio un luogo aperto pieno di cadaveri che vie ingombre di auto in cui si potevano nascondere interi branchi.
Carmilla camminava a testa bassa e con la lingua a penzoloni per l'arsura. Si fermò a pisciare contro un palo, dopo averlo fiutato a lungo.
Massimo ne approfittò per osservare lo stato dei corpi.
Molti di essi erano ormai ridotti a scheletri spolpati e
intere parti erano state smembrate e dilaniate con ferocia estrema.
Guardati attorno. Guarda a destra. Guarda a sinistra. Guarda di nuovo. Guardati le spalle. Guarda di nuovo.
Nessuno in giro. Massimo osservò meglio altri tre cadaveri. Erano Lupinari, smembrati e fatti a pezzi a loro volta, la carne dilaniata fino all'osso.
Strano, pensò, i gialli non si attaccano tra loro.
Massimo si chinò sui corpi, evitando di toccarli anche attraverso i guanti. Non sembravano morti per colpi di arma da fuoco o per combattimento. Piuttosto parevano fatti a pezzi e divorati come dalla furia di un grosso animale.
O forse di due.
9
Scosse il cancello di ferro, provocando un basso clangore. Dentro il negozio Zanna e Drago presero ad abbaiare furiosi. Elettra apparve da una delle finestre dell'edificio, puntando la balestra verso il cortile.
Massimo alzò le braccia in gesto di resa e si tolse il casco. “Posso entrare?”
“Il cibo per cani lo mangi tu, vero?” le chiese, una volta all'interno del negozio. “A loro fai mangiare i cadaveri!”
Gli occhi di Elettra lampeggiarono furiosi. “E tu che cazzo vuoi?” gli gridò contro. “Tu hai l'acqua e le bombole del gas, una tuta da combattimento e le katane, fai arti marziali e hai una casa sicura dove ubriacarti, fumare canne e giocare a risiko con gli amici. Io non ho un cazzo! Al Forte sono tutti morti e a me sono rimasti solo quei due cazzoni di cani e la balestra! Se ti faceva schifo che mangio croccantini, te ne dovevi accorgere quando stavamo fottendo in quella casa. Non mi avevi sentito il fiato? O non te ne fregava un cazzo, in quel momento?”
Massimo rimase in silenzio.
“Adesso levati dai coglioni, Yoshimitsu” gli disse lei, sbattendogli il casco contro il petto.
“Vieni con me” rispose lui. Elettra si sedette sulla branda e si prese la testa tra le mani, scuotendo il capo.
“Perché? Ti faccio pena?” ringhiò, tenendo lo sguardo fisso ad un angolo della stanza. “Non ho bisogno di nessun cazzo di favore da te o dai tuoi amici. Levati solo dai coglioni, per favore.”
Massimo si accucciò sulle gambe davanti a lei e le alzò la testa, fino a costringerla a guardarlo negli occhi.
“Non mi fai né pena, né schifo, Elettra. Te lo ripeto:
vieni a stare con noi. Le stanze ce le abbiamo e quei due stronzoni di cani potranno stare in terrazzo. Mi aiuterai a fare le ricognizioni e così la finirò di girare da solo tutto il tempo. Il cibo di questo magazzino ce lo portiamo via poco a poco e lo diamo ai cani e tu mi aiuterai a portare i rifornimenti e l'equipaggiamento quando andiamo in giro, così di pasta, scatolette e riso ne avremo il doppio. Lascia questo rifugio e vieni con me.”
Elettra lo fissò negli occhi. Poi prese da terra una bottiglia di rum e ne tracannò una sorsata abbondante.
Si sciacquò bene la gola e poi sputò il liquido sulla branda.
“Ora va meglio” disse, avvicinandosi alle labbra di Massimo.
“Sì” fu d'accordo lui.
Presero tutto quello che poterono e prepararono ogni altra cosa utile per recuperarla in seguito. Quando raggiunsero la barca mancavano ormai un paio d'ore al tramonto. Elettra si sedette accanto ai cani, per tenerli fermi, mentre Massimo si metteva ai remi, sistemati i pesanti zaini tra loro.
Attraversarono i canaloni fino alla zona sommersa.
“Il palazzo è quello” le indicò Massimo. “E quello in alto è il parapetto della terrazza di cui ti parlavo.
Stiamo provando a piantarci anche i pomodori.”
“Sì, eh?” rispose lei sarcastica. “Potrebbero essere più utili dell'erba, effettivamente...”
Massimo la fissò. “Ne sei sicura?” chiese con voce senza espressione. “In un mondo distrutto e senza futuro, pieno di mostri cannibali che hanno ammazzato tutti i tuoi parenti e amici e ogni giorno cercano di divorare anche te, preferiresti mangiare l'insalata a cena o fumare un cannone a stomaco vuoto?”
“Bé, se la metti così... Piuttosto, come la prenderanno i tuoi due compari? Non faranno problemi?”
“Non ne faranno. Specie se glielo dico io e se tu prometti di fare la tua parte, stare alle regole e non fumarti tutta l'erba.”
“Tenetevela la vostra cazzo di erba. Io mi pianto i pomodori. Posso giocare almeno a risiko anche io?”
“Sì, se sei capace.”
“Sono capace? Vi spacco il culo. A tutti e tre.”
Entrarono nel palazzo e attraccarono nel punto da cui Massimo aveva slegato la barca al mattino.
Zanna e Drago corsero avanti su per le scale, seguendo Carmilla.
Fuori, nei canali, in mezzo alla città inondata, tra le vie ricoperte di cadaveri, macerie e rovine, i branchi dei Lupinari si muovevano mugghiando nella sera.
Il sole calò così su un altro giorno di quella estate maledetta, fatta di corpi morti, desolazione e decadimento, in un tempo oltre la fine del tempo.
Un'umida stagione gialla.
Carmilla, ignara di tutto ciò
Crediti
Un’umida stagione gialla sarebbe dovuto essere un racconto per il concorso Racconti Scelti della Pandemia Gialla. Il concorso è poi stato annullato e in ogni caso il racconto non fu mai finito per tempo.
Una volta che l’obiettivo e i parametri del concorso non erano più importanti, ho rielaborato l’idea originale spostando l’attenzione dalla Pandemia Gialla ad una vicenda che può essere slegata da quella ambientazione di fondo (ma anche no).
Il racconto affonda quindi le sue radici nello scenario della Pandemia Gialla ma anche in una serie di post creati anni fa su un blog che ora non esiste più, in crossover con un altro blog ancora consultabile: Dottor Politovich. Un vero e proprio survival blog organizzato nel lontano 2007.
Al di là della genesi del racconto e delle citazioni dei “Gialli” e del “Dottor Politovich”, i personaggi che vi appaiono sono presi dalla vita reale anche se mescolando un po’ le cose, come si fa in questi casi: Cristian, Walter, Massimo ed Elettra sono un collage di nomi e persone reali. Cristian è davvero il padrone di Carmilla, che spero sia ancora in forma, l’esperto di aikido è Walter ma il fisico del personaggio è quello di Massimo. Elettra ruba il nome ad una conoscente, il carattere a Saretta e il fisico, i vestiti e i due immensi rottweiler a un’altra ragazza davvero esistente ma di cui non so il nome.
La casa sul terrazzo esiste davvero e tutte le informazioni su posizione, porte blindate, scale, cisterne e bombole del gas sono reali, così come la descrizione del rifugio di Elettra, con la rimessa e il negozio di animali.
Anche la geografia della Città è assolutamente reale. Manca solo una ben dosata combinazione di terremoti, maremoti e pandemie di Lupinari perché le cose siano esattamente come nel racconto.
I Lupinari sono i “licantropi” della tradizione siciliana ovvero quei malati di epilessia, mal di luna o idrofobia che riempivano i racconti macabri dei secoli scorsi con le loro urla notturne, i contorcimenti, la bava. Quelli del racconto sono ovviamente la loro versione “infetta”, rabbiosa e post-apocalittica.
Infine, di Cimiteros, Babbaluci e soprattutto Bacianicchio la Città è sempre stata piena.
Mauro Longo