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La trasferibilità dell eccellenza e le conseguenze sul processo formativo

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Academic year: 2022

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La trasferibilità

dell’eccellenza

e le conseguenze

sul processo formativo

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Pro-Azione è un progetto finanziato dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, nell’ambi-

to di attività sperimentali finalizzate allo svilup- po dell’apprendimento nelle imprese in contesti

interregionali.

Tali azioni si pongono in continuità con il proto- collo di intesa sottoscritto il 13/04/2005 dalle

Regioni Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Veneto e Piemonte in accordo con il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, il cui obiettivo generale è sostenere i processi di trasformazione, crescita e innovazione delle imprese, fornendo strumenti metodologici e approcci di intervento idonei ad affrontare con successo i processi di cambiamento della società e dei mercati di riferimento.

Il Progetto si è sviluppato attraverso tre fasi operative (Ricerca, Sperimentazione Forma- tiva e Capitalizzazione), l’ultima delle quali guarda in prospettiva alla messa a regime delle iniziative avviate, nell’intento di inseri- re nel sistema della formazione continua ini- ziative e proposte che fungano da motore di cambiamento di sistema, evitando il riprodursi di iniziative che hanno maggiori caratteristiche di sporadicità ed occasionalità, legate alle sin- gole esigenze contingenti delle PMI.

Con questo spirito sono state prodotte le pagine

di due abstract con funzioni di mainstremaning:

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Il primo, La trasferibilità dell’eccellenza e le conseguenze sul processo formativo, contiene gli elementi e le proposte derivanti in modo particolare dal lavoro di analisi sui case-studies aziendali realizzato nell’ambito del- la Ricerca; pur nella sua sinteticità il prodotto delinea un quadro di riferimento entro il quale si dovranno sviluppare policies ed iniziative specifiche per sostenere la crescita delle PMI verso posizioni di eccellenza diffusa.

Il secondo, Spunti e proposte per pro-

grammare e pianificare un’offerta di for-

mazione continua a sostegno dell’eccel-

lenza, prende spunto dalle attività realizzate

nell’ambito delle altre due fasi operative del Pro-

getto, che hanno comportato un consistente e produttivo

confronto con Regioni, parti sociali e singole aziende; a

partire da quel confronto vengono proposti alcuni punti

di attenzione che dovranno essere considerati da coloro

che, a vario titolo, avranno il compito di programmare e

progettare azioni di formazione continua rivolte ad azien-

de che intendono intraprendere o proseguire il proprio

percorso di crescita e miglioramento.

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La trasferibilità dell’eccellenza e le conseguenze sul processo formativo

L’obiettivo del progetto Pro-Azione era quello di rivolgere gli in- segnamenti tratti dai casi esaminati nell’ambito dell’azione di Ricerca (gli schemi ed i fattori di costruzione dell’eccellenza) ad una più vasta platea di imprese, in modo che le stesse potessero evolvere nella qualità dei loro processi e nella distintività delle loro performance.

Due aspetti, peraltro, fanno riflettere sui caratteri possibili ed i limiti di questo approccio: la contestualità delle esperienze, che si oppone in principio all’esercizio di schemi di trasferimento troppo deterministici ed “ottimisti”; i limiti stessi del vettore formativo, del quale si sono evidenziate nel Report della Ricerca le “fatiche” nell’integrazione con il più vasto e significativo insieme di processi di apprendimento. Pro- cessi che avvengono in modo efficace se e quando le caratteristiche del contesto (fisico-operative, valoriali, ideologiche) lo consentono.

La lezione generale che sembra potersi utilmente trarre dai casi eccellenti è rivolta alla capacitazione, cioè allo sviluppo - attraverso la formazione, come con altri mezzi - di quell’insieme di risorse indivi- duali e collettive che consentono di attivare i processi cognitivi neces- sari all’innovazione (ovvero alla costruzione del cammino per l’eccel- lenza), riducendo al contempo i costi dell’apprendimento e facilitando la patrimonializzazione dei saperi prodotti. Senza investimento sulle

“meta-capacità”, sulla dimensione primaria dell’apprendere ad ap- prendere, non sembra vi possa essere sostenibilità delle traiettorie di sviluppo. Si tratta dunque di vedere l’impresa come soggetto eco- nomico in grado di far coincidere dispositivo produttivo e dispo- sitivo cognitivo, non separando il tempo della gestione del sapere dal tempo del produrre, ed integrando l’apprendimento endogeno (quello derivante dall’esperienza, in larga parte a base euristica) con quello di natura esogena (i saperi dichiarativi del discorso tecnico-

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scientifico, le logiche causali esplicite, ...). Un apprendimento di natu- ra “situata”, inteso come quell’attività organizzativa dove il conoscere e il fare si congiungono nell’azione pratica e nelle situazioni di senso comune.

Ciò - se si esce dal novero dei casi di eccellenza e ci si rivolge alla piccola e media impresa “tradizionale”, così come le ricerche socio- economiche ce la consegnano - in una situazione diffusa, anche nei distretti della “Terza Italia”, di generale difficoltà del passaggio da una

“cultura della produzione” centrata su valori “materiali” ad una “cultu- ra dell’ impresa” riferita agli “intangible assets”.

Nelle PMI, non eccellenti:

• il sapere tende ad essere tacito, informale e non memorizzato, con rischi di frammentazione o di perdita nei processi di ricambio ge- nerazionale;

• prevale una scarsa consapevolezza del valore della conoscenza nella formazione della capacità competitiva. In molti casi il valore è compreso solo reattivamente, quando la conoscenza non c’è più (mancanza di capacità di riproduzione) o non è sufficiente (man- canza di capacità di innovazione);

• vi sono minori risorse economiche disponibili per investire sulla creazione ed il mantenimento del capitale di conoscenza, con il rischio per l’impresa di competere solo sul costo del lavoro, invece che sulla qualità e la distintività del proprio sapere;

• vi è in generale una limitatezza delle risorse organizzative e del know-how necessario per gestire la conoscenza: il personale è spesso letto più come costo che come “capitale umano”; i sistemi informativi (ICT) e le procedure (p.e. certificazione ISO 9001:2000) sono poco sviluppati (con perdita di informazioni e di memoria or- ganizzativa) o non sono orientati alla gestione della conoscenza (con il prevalere degli aspetti formali su quelli sostanziali); vi sono ridotte capacità di rappresentazione (esteriorizzazione del sape- re tacito) e di “misura” della conoscenza posseduta; in molti casi sono incentivate o comunque prevalgono le conoscenze individuali rispetto a quelle organizzative.

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Al contempo, le caratteristiche socio-produttive delle PMI si pre- sentano - se opportunamente gestite - come una sensibile risorsa in termini di knowledge management:

• il forte peso del capitale relazionale e dei social networks nel funzio- namento organizzativo riduce i costi di inte(g)razione fra le diverse risorse professionali, presentandosi come possibile base naturale per lo sviluppo di comunità di pratiche, anche a livello di territorio;

• l’elevata flessibilità organizzativa derivante dalla “forza dei lega- mi deboli” può determinare un minor costo dei processi di adat- tamento “day by day”. In molti casi, le PMI hanno una maggiore capacità delle grandi imprese di produrre e gestire “varietà” (di si- tuazioni, risorse, ...), con effetti in termini di creatività, innovazione, attivazione ed esercizio di capacità cognitive;

• in genere, lo scarso peso della burocrazia favorisce la comunica- zione e la presa delle decisioni (per quanto su base euristica, più che di “razionalità esplicita”);

• in teoria, vi è una maggiore presenza di processi di apprendimen- to in contesto (learning by interacting), fondamentali nella tra- smissione e nell’innovazione dei saperi taciti, legata anche alla presenza di una divisione del lavoro più basata sulla “gerarchia di mestiere” che su logiche strettamente tayloriste.

A fronte di risorse, le caratteristiche socio-produttive delle PMI de- nunciano anche alcuni vincoli (punti di debolezza e svantaggi rispetto all’ambiente di riferimento):

• la maggior complessità dei saperi oggetto di trasferimento, in ra- gione del peso dell’innovazione tecnologica e del ridisegno dei contenuti professionali delle figure operaie (transizione a logiche di processo; maggiore importanza delle capacità di auto-coordi- namento, gestione di informazione, integrazione orizzontale, ...);

• le difficoltà di trasmissione efficiente dei saperi pratici e conte- stuali, derivanti dalla loro natura (peso delle euristiche e dei saperi taciti) e dalla scarsa capacità didattica di chi li possiede (chi è

“capace a fare” non necessariamente è capace a rappresentare la propria conoscenza a se stesso ed agli altri);

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• la minor disponibilità di risorse a supporto dei processi cognitivi in con- testo, primo fra tutti il tempo necessario per la sperimentazione indivi- duale (learning by doing, auto-riflessività) ed attraverso relazioni sociali (learning by interacting), in particolare nelle comunità di pratiche;

• la minore disponibilità sociale delle giovani generazioni (e non solo) ad investire nell’apprendimento di mestieri “operai”, in contesto industriale (la “fabbrica”) ed artigiano (la “botte- ga”), come visibile anche dai problemi che attraversa l’istituto dell’apprendistato.

Vi è dunque una complessiva esigenza di aprire una rifles- sione sul rapporto fra PMI e sapere, in esito alla quale definire il ruolo possibile di una offerta formativa per l’eccellenza. Due aspetti sembrano centrali: a) la gestione del cambiamento e b) la gestione della conoscenza.

a) L’attivazione e la gestione del cambiamento sono eviden- temente l’atto di avvio del percorso di eccellenza, che implica in sé il superamento della condizione originaria e - in senso ampio - il superamento di ogni traguardo raggiunto. L’apprendimento “mor- fogenetico”, rivolto cioè a cambiare in modo significativo la forma dell’agire (e del pensare) organizzativo, non è però spontaneo, a fronte della natura conservativa dei valori culturali e delle prassi consolidate in essere. Sorge allora una domanda: “come superare questa situazione apparentemente senza sbocco?”, come creare le condizioni che consentono ad un’organizzazione di rimettersi costruttivamente in discussione, vincendo l’inerzia delle routines consolidate e rinunciando alle proprie spontanee difese verso il nuovo? Ovviamente, tale questione non ha una risposta univoca ed onnicomprensiva. Le organizzazioni sono complesse e idiosin- cratiche, cioè caratterizzate da tratti specifici di funzionamento, che rendono le ricette generali poco produttive. Ciò non di meno, le capacità di cambiamento sono positivamente legate ad alcuni funzionamenti cognitivi, ovvero alle modalità di pensiero che gli individui utilizzano per interpretare la realtà, attribuire significati agli eventi ed assumere decisioni.

Favorire tali modi di pensare facilita l’evoluzione dei comportamenti.

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Si è già avuto occasione di osservare che i modi con cui gli indi- vidui attribuiscono significato alla realtà sono molto legati a schemi appresi attraverso precedenti esperienze, memorizzati ed assun- ti come validi nel momento in cui hanno funzionato abbastanza bene per risolvere i problemi di adattamento e di integrazione. Tali schemi (mappe cognitive) esprimono il sistema delle credenze di un’organizzazione e sono immaginabili come delle reti, costituite da concetti (nodi) uniti fra loro da relazioni causali (legami). Per usare una metafora meccanica, il cambiamento può essere visto come lo

“smontaggio” degli schemi originari, la sostituzione di alcuni loro nodi e il successivo collegamento degli stessi in nuove mappe.

Questa “ingegneria” presenta ovviamente diversi problemi di mes- sa in atto:

I) richiede energia (cioè impegno cognitivo, individuale e collettivo);

II) richiede senso della prospettiva (bisogna avere idea del disegno del nuovo schema);

III) richiede di restare per un po’ di tempo in una situazione ambigua (si sta decostruendo la mappa vecchia, senza disporre ancora di quella nuova) e, come tale, ansiogena.

Si comprendono così forse meglio le ragioni per cui l’uomo (e, mutatis mutandis, gli altri viventi) esibiscono spontaneamente com- portamenti conservativi. Detto in modo più tecnico “l’adattamento inibisce l’adattabilità”: una volta che si è trovato un assetto, modi- ficarlo non è immediato, anche se si è in presenza di evidenze del suo non funzionamento.

Il primo passo del cambiamento è dunque l’attivazione cogniti- va, cioè il “destarsi dell’attenzione” verso il tema che sarà oggetto della riorganizzazione della mappa concettuale. È questo un atto preliminare, essenziale per la successiva presa di consapevolezza del problema: se il tema non è nella nostra mente, se “non lo pen- siamo”, non possiamo certamente riconoscerne o meno gli aspetti di criticità. Ovviamente, la nostra mente è continuamente attivata dal flusso delle esperienze che viviamo nel rapporto con la realtà che ci circonda: si tratta di polarizzare l’attivazione sull’oggetto del- la futura azione.

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Una volta che abbiamo “istituito” il pensiero, si tratta di favorire l’esame della situazione sotto una luce critica, o comunque diversa da quella che - automaticamente - le routines mentali ci propongono.

Si potrebbe immaginare che questa operazione sia piuttosto ba- nale: in fin dei conti è sufficiente farsi delle domande. Sfortunatamen- te in genere non è così: è molto probabile che le domande che ci facciamo provengano molto più dalle risposte che conosciamo già, piuttosto che dai dati “oggettivi” del problema. Come scrive qualcu- no, “le risposte vanno alla ricerca delle proprie domande”: il nostro pensiero è molto dipendente da quanto abbiamo già appreso. Questo nostro comportamento non è né malizioso né intenzionale: seguen- do un principio di “economia cognitiva”, è naturale considerare una situazione alla luce delle credenze che abbiamo maturato rispetto a contesti e problemi che ci appaiono simili. È dunque facile, quando si affronta l’innovazione (di cui non possiamo avere ancora esperienza degli esiti), cadere in alcune trappole del pensiero.

La più usuale è “questa domanda non è pertinente”: siccome essa non è nel nostro repertorio, non vediamo bene come applicarla al nostro problema, concludendo “razionalmente” che è fuori luogo.

Dovremmo invece chiederci se la domanda non sia particolarmente importante, proprio perché rivolta a farci riflettere sulla situazione a partire da una prospettiva inusuale, anche se costosa dal punto di vi- sta dei processi mentali. L’applicazione delle nostre strutture di perti- nenza rischia quindi di portarci insensibilmente a parlare di cose nuo- ve attraverso uno sguardo ed un approccio vecchi o, detto in termini tecnici, attraverso una distorsione cognitiva. Il costo dell’errore può essere in questo caso molto alto, visto che comunque “non vi sono ri- sposte giuste a domande sbagliate”. Affrontare il cambiamento richie- de - prima di cercare le risposte - di apprendere a porsi domande il più possibile “autonome” rispetto agli automatismi dell’esperienza.

Un terzo aspetto importante per il progresso del pensiero verso l’innovazione è la possibilità di disporre di “strutture di ancoraggio”

che facilitino l’adozione di nuove mappe mentali. Si è detto che un problema del cambiamento è attraversare una fase in cui i vecchi ri- ferimenti non sono più tanto saldi (sono posti in discussione, al fine di superarli), ma i nuovi non sono ancora consolidati.

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È una situazione ambigua, che porta ad instabilità dei processi di comprensione e decisione, favorendo l’eventuale “ripiegamen- to” verso lo schema originario, naturale punto a cui “riagganciare” il pensiero. Fornire, nelle fasi iniziali di un processo evolutivo, credibili strutture alternative è dunque un’azione molto importante, anche se non immediata. Non è infatti sufficiente dichiararle, si tratta di farle assumere come un riferimento plausibile, rendendone esplicitamen- te comprensibile la pertinenza con il problema/il contesto di azione.

Una barriera rilevante è di solito il cosiddetto problema dell’appro- priatezza: poche persone, in genere, sono disponibili ad assumere un comportamento che possa essere giudicato non corretto da par- te del resto della comunità sociale di riferimento. Prima di scegliere una linea di condotta, gli individui si pongono naturalmente alcune domande chiave legate al riconoscimento del problema (“che tipo di situazione è questa?”), all’identità (“in che tipo di organizzazione mi trovo?”) ed alle regole del gioco (“cosa ci si aspetta che una persona come me faccia in questo caso?”). Il “confronto con i pari” e l’azione nell’ambito di comunità di pratiche favoriscono la co-costruzione di significati e di appartenenza, supportano positivamente l’adozione di schemi innovativi.

Un ultimo aspetto importante, soprattutto nei casi di maggiore maturità culturale, è la possibilità di accompagnare il cambiamento agendo non solo sull’attivazione di processi di apprendimento, ma - al contempo - sul disapprendimento, intenzionale o indotto, di ciò che si è ereditato dal passato. Per quanto si tratti di un approccio non esente da rischi maggiori (è in gioco l’identità depositata nella me- moria collettiva), la rimozione degli ancoraggi storici costituisce una potente attivazione cognitiva, che porta alla necessaria formulazione di domande inedite: tutto ciò, ben condotto, consente di reinquadra- re la situazione ed i problemi in una prospettiva effettivamente nuova (reframing), da cui procedere speditamente verso l’invenzione di so- luzioni (modelli, comportamenti) originali.

Riviste in logica formativa, queste brevi indicazioni spostano l’at- tenzione dai contenuti di un corso ai metodi con i quali lo stesso è realizzato. Si tratta di progettare gli eventi formativi come contesti cognitivi, entro i quali possa avvenire la produzione di senso preli-

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minare alla possibilità di attuare il cambiamento “strutturale” che è proprio del divenire soggetto eccellente. Ciò pone problemi più ampi di identificazione della committenza, articolazione fra obiettivi espli- citi ed obiettivi impliciti (legati al cambiamento dei valori e, come tali, non affrontabili in modo diretto, soprattutto nelle situazioni di maturità culturale), scelta dei destinatari e delle metodologie. Ancora, si pone il problema (non risolto) dell’integrazione fra apprendimenti formali e non formali, pena l’inefficacia dei primi, non solo in rapporto all’obiet- tivo dell’eccellenza.

b) Il secondo aspetto chiave è, come anticipato, il rafforzamento attraverso la formazione (un certo tipo di formazione) delle capacità di gestione della conoscenza da parte delle imprese, in particolare di piccola dimensione ed artigiane. Non si può immaginare un ritorno dell’investimento formativo se non in presenza di una più complessiva politica economica rivolta alla qualificazione dei modelli produttivi, a livello di singole aziende come di reti e catene di fornitura. Dal punto di vista delle policies di innovazione e sviluppo, verso l’eccellenza, alcune direzioni su cui agire appaiono essere:

• accrescere la consapevolezza del valore del sapere, visto come

“materia prima” e fattore chiave di competitività. Il che implica la capacità dell’impresa di esprimere i fatti economici e produttivi, le performance richieste dai mercati, i comportamenti dei competitor in termini di “impegno” di risorse di conoscenza e competenza;

• accrescere la capacità di rappresentazione del sapere posse- duto, in modo da favorirne la valutabilità e ridurne i costi di trasmissione;

• conseguentemente, sviluppare capacità di analisi e diagnosi dello

“stato” del sapere posseduto (lettura dei fabbisogni professionali e formativi) e dei processi di apprendimento che ne consentono la (ri)produzione e l’innovazione;

• accrescere la consapevolezza del ruolo del sapere nella gestione delle risorse umane e dell’organizzazione, sviluppando le capacità di identificazione dei portatori del sapere (nell’impresa, nelle rela- zioni con i clienti ed i fornitori, ...) e di relazione fra formal e non formal learning;

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• infine, riportare ad una logica di gestione del sapere l’insieme delle

“tecnologie organizzative” di cui l’impresa già dispone, con parti- colare riferimento ai sistemi informativi e di qualità certificata.

Pensando alla ridotta dimensione delle aziende che costituisco- no la parte saliente del tessuto produttivo, sembra oggi (ma anche in prospettiva) più rilevante l’adozione di una knowledge policy (cioè della capacità culturale di dare valore al sapere e di prenderlo a riferimento nei processi strategici ed operativi) che l’introduzio- ne - come oggetti a sé stanti - di tecniche di knowledge mana- gement, strettamente intese. Anche i casi esaminati confermano questa considerazione.

Lo sforzo da compiere è rileggere e ridefinire gli strumenti di ge- stione già presenti in termini di contributi ed impatti che essi pos- sono avere sul capitale di conoscenza, usando approcci morbidi e partecipativi, “di mediazione evolutiva” fra il desiderio individua- le di rafforzamento delle proprie capacità personali e la necessità organizzativa di sviluppo delle risorse collettive. Non si tratta di aggiungere costi di gestione, si tratta invece di portare alcuni costi esistenti (in primis le pratiche di formazione, ampiamente intese) ad una logica di investimento.

Il bisogno culturale è oggi nettamente prevalente su quello tecni- co. Tutto ciò è possibile se l’impresa non è lasciata a se stessa, ma trova - anche nel sistema dell’offerta formativa - uno stimolo ed un supporto in tale direzione.

Dal punto di vista pratico, “insegnare ad insegnare”, anche attra- verso la configurazione di una apposita azione formativa, sembra do- ver affrontare - in una chiave di pedagogia degli adulti - i seguenti nodi chiave:

• la centralità della rappresentazione del sapere. Rendere cogni- tivamente comprensibile il sapere è il primo passo per la sua ge- stione. Si tratta di definire e trasmettere modelli pratici di rappre- sentazione dei saperi costitutivi di ogni mestiere/posizione/parte di processo, tali da rendere facilmente evidente ai lavoratori interes- sati la differente natura di ciò che deve essere appreso/trasmesso,

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di dove le conoscenze siano, di come sia possibile recuperarle e farle proprie;

• la capacitazione come fattore chiave di scambio. Si tratta di proporre i percorsi di gestione della conoscenza come una ri- sorsa di sviluppo professionale, non solo in ragione della possi- bilità di acquisire in modo meno costoso e più efficace i saperi di mestiere, ma con lo specifico obiettivo di insegnare “ad inse- gnare e ad apprendere”. La capacitazione arricchisce i contenu- ti e il significato della relazione fra lavoratori ed impresa, in una prospettiva di responsabilità sociale e rafforzamento dell’appar- tenenza. Ciò risponde alle più volte osservate caratteristiche di lealtà, fiducia e costruzione di capitale sociale che stanno alla base dei casi di eccellenza;

• la riduzione della distanza percepita fra “insegnare ed im- parare”. Un fattore di ostacolo al trasferimento del sapere ed all’acquisizione di una cultura dell’apprendere è spesso la per- cezione da parte del “discente” (i lavoratori in sviluppo) della asimmetria della relazione con il docente (le fonti umane di co- noscenza, al di là del loro ruolo formativo), soprattutto quando questo è in posizione di parità rispetto ad altri attributi (anzianità anagrafica e nel mestiere, posizione professionale, ...). Si tratta di spostare il focus dell’approccio su ciò che unisce “docenti e discenti” (la comunalità del trasferimento del sapere) invece che su ciò che ne enfatizza la distanza. Vi è qui chiaramente un forte aggancio con le politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane e di integrazione dell’organizzazione (si pensi ai più volte evocati team interfunzionali);

• l’attenzione all’articolazione degli approcci di trasferimen- to dei saperi. Un altro aspetto rilevante è dato dallo sviluppo di modelli di apprendimento tipici sia di un neofita che di un professional, entrambi posti di fronte alla necessità di acquisire nuovo sapere, in modo da dare consapevolezza diffusa della necessità di specificare caso a caso gli approcci pedagogici. In- segnare ad apprendere, base per l’eccellenza, implica la capa- cità di comprendere riflessivamente cosa apprendere significa, da cosa nascono le difficoltà e quali comportamenti possono essere messi in campo per superarle;

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• la centratura sulla capacità di fare/farsi domande, rispetto a quella di dare risposte. Produrre ed insegnare le domande è, come si è già visto a proposito del cambiamento, la chiave mag- giore del miglioramento;

• l’importanza attribuita ai processi micro-decisionali in situa- zione di lavoro. L’ultimo aspetto rilevante di un’offerta formativa metodologicamente rivolta a rafforzare le capacità d’uso dei saperi è la focalizzazione dell’attenzione sulle conoscenze e gli schemi cognitivi utilizzati nelle fasi di problem setting, problem solving e decision making tipici del contesto in cui si opera. A ciò corrispon- de una visione di autonomia professionale rivolta a ridistribuire soggettività, responsabilità e senso della partecipazione. Ancora si ritrova la stretta relazione fra formazione, sviluppo delle risorse umane e disegno dei processi organizzativi, dalla quale non si può prescindere. E che rende quanto mai opportuna la forte contestua- lizzazione dell’offerta.

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Progetto Pro-Azione © Novembre 2008

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