La macchia della razza . Storie di ordinaria discrimina- zione, di Marco Aime
Recensione, a cura di, Giorgio Rini
www.narrareigruppi.it – Etnografia dell’interazione quotidiana. Prospettive cliniche e sociali, vol. 8, n° 1, Maggio 2013
Narrare i gruppi
Etnografia dell’interazione quotidiana
Prospettive cliniche e sociali, vol. 8, n° 1, Maggio 2013
ISSN: 2281-8960 Rivista semestrale pubblicata on-line dal 2006 - website: www.narrareigruppi.it
recensione
La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, di Marco Aime, Eléuthera, 2013, pp. 103, € 8,00
Autore Ente di appartenenza
Giorgio Rini C.F.P. “Giacomo Canova” – Termini Imerese (PA)
To cite this article:
Rini G., (2013), “La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, di Marco Aime, Eléuthera, Torino,
2013”, Recensione, in Narrare i Gruppi, vol. 8, n° 1, Maggio 2013, pp. 151 – 152, website:
www.narrareigruppi.it
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Giorgio Rini
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recensione
La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, di Marco Aime, Eléuthera, 2013, pp. 103, € 8,00
Da quando abbiamo affermato il concetto di razza, non facciamo altro che con- tinuare a chiuderci in dei confini che limitano la nostra visione del mondo. E’ questo ciò che ci vuole dire Marco Aime nel suo libro “La macchia della razza. Storie di ordi- naria discriminazione”. Le conseguenze di questo processo di accentramento sono molte, perché siamo finiti con il restare prigionieri di un irrigidimento culturale, che ci fa guardare l’altro con diffidenza e sospetto.
Il testo, scritto sotto forma di una lettera ad un bambino rom, Dragan, ci mostra i ri- svolti della mancanza di un relativismo, che si configura come una grande perdita, che impedisce di entrare in contatto con coloro che consideriamo diversi.
Perché portiamo avanti questo atteggiamento? La spiegazione va rintracciata nella pa- ura. Ci sentiamo insicuri e percepiamo gli altri come una minaccia a quelle sovrastrut- ture che costruiamo per darci un’identità in grado di farci sentire protetti. In questo modo anche quello che definiamo con il concetto di tolleranza si rivela soltanto effi- mero, ambiguo, incapace di fornire risposte soddisfacenti all’esigenza di un’integrazione piena e responsabile.
La nostra società non sembra essere disposta a mettersi in discussione. Ci affanniamo a costruire delle barriere, di cui rimaniamo prigionieri. Una vera e propria trappola, che spesso ci porta ad utilizzare l’idea di cultura semplicemente come una maschera, dietro la quale ritorna ripetutamente la nozione di razza. In nome di essa sono state giustificate perfino delle stragi, di cui la storia conserva memoria.
“Tutti tracciamo una linea dove finisce il nostro mondo, quello in cui siamo cresciuti.”
E’ questo il filo conduttore di tutto il volume, che costituisce un’occasione per com- piere un viaggio nei meandri di un’interiorità collettiva, che si pone come lo specchio di una comunità irrigidita. Il risultato è l’incapacità di vedere noi stessi come attori su un palcoscenico globale: ci concepiamo come unici detentori di un’umanità che distin- gue sulla base di un errore concettuale, di cui non siamo consapevoli.
Il bilancio che ne viene fuori è sconvolgente e si avverte il grido disperato di chi vor- rebbe rimediare, ma si ritrova a lottare contro i mulini a vento. L’autore ci conduce passo dopo passo a guardare con sguardo acuto una contemporaneità fatta di luoghi comuni, di percorsi pericolosi, che portano all’odio e all’uccisione, che, prima di essere fisica, riguarda la dimensione del sé.
La speranza è quella di non mentire più a noi stessi, di diventare capaci di immaginare e proporre un modello di società differente, di non farci appesantire da inutili orpelli, di riscoprire quella cultura vista nella sua vera essenza di prodotto multiforme, in con- tinuo movimento, in incessante cambiamento.
Il senso che se ne ricava in ultima analisi non consiste in un pessimismo senza solu-
zioni, ma nel desiderio di aspettare un riscatto, di cui possiamo farci protagonisti.