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Conferenza Regionale dell'Economia e del Lavoro (CREL)“INNOVAZIONE, SVILUPPO, OCCUPAZIONE: L’UMBRIA SI CONFRONTA SUL SUO FUTURO”Resoconto Stenografico 12 novembre 2018Presidenza del Presidente Donatella PORZIINDICE

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Conferenza Regionale dell'Economia e del Lavoro (CREL)

“INNOVAZIONE, SVILUPPO, OCCUPAZIONE:

L’UMBRIA SI CONFRONTA SUL SUO FUTURO”

Resoconto Stenografico 12 novembre 2018

Presidenza del Presidente Donatella PORZI

INDICE

(convocazione prot. n. 14412 del 31/10/2018 - prot. n. 14601 del 9/11/2018)

Saluti istituzionali...4 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...2-4 Produttività e redditività delle imprese nell'Italia di mezzo...4-19 e Allegato n. 1 Bracalente, Università degli Studi Perugia...4-11, 16-19 Montrone, Università degli Studi Perugia...11-16 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...19 Il valore della piccola impresa in Umbria……...20-23 e Allegato n. 2

Cestari, Centro Studi Sintesi...20-23 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...23 Il mercato del lavoro in Umbria.

Aggiornamento al primo semestre 2018……….24-27 e Allegato n. 3.

Rossetti, Direzione Attività produttive, Lavoro, formazione e istruzione Regione Umbria...24-27 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...28

Scenari di politica industriale per lo sviluppo regionale...28-36 e Allegato n. 4.

Paparelli, Assessore Sviluppo Economico Regione Umbria...28-36 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...37 Dibattito...37-65 Barbera, Banca d'Italia – Perugia...37-41 Porzi, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria...41,46,47,49,51,53,55,59,63,65 Cesca, CNA Umbria...41-46 Alunni, Confindustria Umbria...47-48 Mencaroni, Unioncamere Umbria...49-51 Bendini, UIL Umbria...51-53 Ciavaglia, CGIL Umbria...53-55 Agostini, Sviluppumbria...55-59 Marcelli, CISL Umbria...59-63 Bernardoni, Legacoop Umbria...63-65 Conclusioni...65-73 Marini, Presidente Regione Umbria...65-73 Sospensione...51

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Conferenza Regionale dell’Economia e del Lavoro (CREL)

“INNOVAZIONE, SVILUPPO, OCCUPAZIONE:

L’UMBRIA SI CONFRONTA SUL SUO FUTURO”

Perugia, 12 novembre 2018

La Conferenza inizia alle ore 10.17.

Donatella PORZI, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria.

Direi di dare avvio ai nostri lavori. Benvenuti, grazie di aver accettato il nostro invito per questa Conferenza Regionale dell’Economia e del Lavoro.

Offrire alle forze sociali, economiche e istituzionali un’ulteriore occasione per un ampio confronto sulla situazione economico-occupazionale dell’Umbria, sui punti di forza e sulle criticità, per verificare se vi sono le condizioni per costruire ulteriori contributi allo sviluppo, che mettano insieme le esigenze dell’impresa, quelle del mondo del lavoro e dell’intera comunità umbra; questa è, in sintesi, la motivazione che ha spinto l’Assemblea legislativa dell’Umbria a convocare la Conferenza Regionale dell’Economia e del Lavoro, un organismo di concertazione previsto dallo Statuto regionale.

Uno strumento, questo della Conferenza, non pienamente utilizzato, infatti questa è la seconda volta che viene convocato: la prima è stata nel 2009, a Terni; avremmo voluto tenerla in quella città anche quest’anno, ma, purtroppo, per motivi organizzativi, abbiamo optato per la nostra sede istituzionale. Avevamo pensato a Terni perché la città rappresenta, con la sua forte storia, per definizione, la sede industriale, che allora come oggi risente degli effetti di una crisi globale che, proprio nove anni fa, cominciava a manifestarsi. E anche se oggi quella crisi è ormai alle spalle nelle sue forme più impattanti, ha determinato, tuttavia, un forte rallentamento generale e, nelle aree più deboli come quelle interne, in particolare quelle della fascia appenninica, vere e proprie crisi territoriali, con perdita di posti di lavoro e impoverimento del tessuto sociale ed economico.

Alla luce di tutto ciò, abbiamo ritenuto opportuno attivare questo strumento di confronto e concertazione, che si aggiunge a quelli già in atto, sia da parte dell’Esecutivo regionale, che costruisce le sue proposte di sviluppo economico- occupazionale di maggior rilievo attraverso un’accurata partecipazione, sia da parte dell’Assemblea legislativa, che, nella discussione pubblica di Commissione e d’Aula, prevede formali incontri partecipativi e audizioni con i soggetti sociali ed economici.

Abbiamo voluto convocare la Conferenza raccogliendo anche le sollecitazioni provenienti da varie parti sociali ed economiche, in particolare dalle organizzazioni

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sindacali CGIL, CISL e UIL, che hanno posto e pongono ai livelli istituzionali regionali un confronto quanto più alto e ampio. Rispetto a ciò, una precisa e formale richiesta di convocazione della Conferenza ci è giunta dai Consiglieri regionali Gianfranco Chiacchieroni (Partito Democratico), Silvano Rometti (Socialisti Riformisti), Attilio Solinas (Gruppo Misto Articolo UNO – MDP), che hanno fatto proprie queste istanze ed esercitato una precisa prerogativa istituzionale.

Ma, al di là delle contingenze del momento, ci è sembrato estremamente opportuno convocare la Conferenza Regionale Economia e Lavoro quale modalità di esercizio di una funzione propria dell’Assemblea legislativa, perché ciò che abbiamo promosso oggi non è soltanto una tribuna di confronto, svincolata da ulteriori momenti di confronto. Oggi, infatti, l’Istituzione regionale, e in particolare parlo dell’Assemblea legislativa, è qui per ascoltare, per ascoltare e raccogliere le esigenze e le istanze dei soggetti sociali, economici e istituzionali dell’Umbria, tutti quelli che concorrono al processo di discussione pubblica che porterà all’approvazione del Documento di Economia e Finanza Regionale 2019/2021, che impegnerà l’Aula e Palazzo Cesaroni nel prossimo mese di dicembre.

Il DEFR rappresenta l’appuntamento fondamentale dell’attività regionale, quello cioè in cui si approvano le opzioni fondamentali che, dal punto di vista economico e finanziario, informeranno il bilancio umbro nel triennio 2019/2021. Proprio in questa occasione, porteremo in discussione in Aula le principali questioni poste dai soggetti che oggi vorranno portare il proprio contributo, che sarà oggetto di confronto e approfondimento ulteriore nelle Commissioni, e in particolare nella II Commissione, presieduta da Eros Brega. Successivamente, sarà portata come contributo alla definizione delle linee di indirizzo e dei contenuti della proposta del DEFR.

L’Assemblea legislativa porterà, inoltre, il proprio contributo nell’ambito degli Stati Generali del Lavoro, che saranno organizzati dall’Esecutivo regionale e di cui poi ci parlerà l’Assessore Paparelli.

Quella di oggi, quindi, è una giornata di lavoro che ci auguriamo sia connotata da concretezza, operatività e anche da una visione di futuro, perché l’Assemblea legislativa rappresenta un’alta occasione di incontro politico e istituzionale per svolgere un passaggio, quello dell’ascolto, che è fondamentale nell’esercizio della funzione legislativa e di indirizzo svolta dagli organi assembleari elettivi.

È una situazione delicata, quella che vive oggi la nostra regione sul versante economico e occupazionale. I principali indicatori ci rimandano a un quadro che attesta come, negli ultimi due o tre anni, i segnali di ripresa dell’attività produttiva siano sempre più consistenti, soprattutto nel manifatturiero, anche se, purtroppo, non producono aumento di occupazione. Infatti, sul fronte del mercato del lavoro c’è una diminuzione consistente in questo comparto, mentre aumenta l’occupazione nel terziario, nel commercio, alberghi, bar, ristoranti, in agricoltura e costruzioni.

La programmazione regionale rispetto alle linee di finanziamento europeo e nazionale punta alla qualità e all’innovazione, con risultati anche importanti, ma che posizionano l’Umbria, in alcuni indicatori, tra cui il Prodotto Interno Lordo, in una situazione intermedia tra le aree maggiormente sviluppate del centro-nord e le aree

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più deboli del sud. È tutto questo, pur in presenza di una situazione di qualità generale dei servizi socio-sanitari e di welfare, che determina un posto sicuramente più alto nelle classifiche del benessere della popolazione.

Segnali interessanti vengono, poi, da quell’economia d’impresa che punta all’innovazione, nella meccanica come nell’elettronica, nell’internazionalizzazione come nella green economy, come nell’economia 4.0, e poi ancora nel tessile, nell’agricoltura di qualità, nel turismo. Quest’ultima voce, come sappiamo, messa in seria difficoltà dal sisma del 2016, è ora tra quelle che fornisce i segni di una decisa e forte ripresa.

A fronte, inoltre, di un’occupazione la cui qualità non è alta, sia per la natura e la durata dei contratti, sia per le qualifiche impiegate, abbiamo però un dato estremamente positivo: quello dell’alto tasso di istruzione scolastica e universitaria dei giovani umbri, da valutare anch’essa come una grande risorsa per lo sviluppo.

È sul fronte infrastrutturale, in particolare viario e ferroviario, che l’Umbria sconta i maggiori problemi sul fronte del pieno sviluppo.

L’Assemblea legislativa ha chiamato a discutere e confrontarsi la parte vitale e dinamica della comunità regionale, sui nodi da sciogliere e sulle opportunità da cogliere e sviluppare, per cercare di costruire insieme scelte, indirizzi e proposte cui dare un esito istituzionale concreto, attraverso quello che è il nostro primario compito istituzionale: approvare leggi e atti di programmazione adeguati a reggere la sfida di un sempre più complesso quadro geopolitico ed economico. Potremo fronteggiare la complessità se avremo la capacità, ciascuno nel proprio ruolo politico, istituzionale, sociale, di fare scelte moderne, innovative, che interpretino i reali e profondi interessi generali della comunità umbra.

Buon lavoro a tutti noi.

Direi, a questo punto, di procedere con gli interventi programmati. Chiamerei qui al tavolo i professori Bruno Bracalente e Alessandro Montrone, che presenteranno la loro relazione.

“Produttività e redditività delle imprese umbre nell’Italia di mezzo”.

(cfr. Allegato n. 1) Bruno BRACALENTE, Università degli Studi di Perugia.

Buongiorno. Grazie per l’invito a presentare, insieme ad Alessandro Montrone, la nostra ricerca. Mi fa piacere tornare in questa bella sala, dopo un po’ di tempo e in questa importante occasione.

Lo studio che noi presentiamo è stato svolto nell’ambito di una convenzione tra il Dipartimento di Economia della nostra Università e Sviluppumbria. Con Sviluppumbria e con il suo direttore, Mauro Agostini, abbiamo condiviso fin dall’inizio tre scelte di fondo: la prima è focalizzare l’attenzione sulla produttività, come vedete anche dal titolo, in cui si parla di produttività e redditività delle imprese.

Ma il punto focale è la produttività, perché la bassa produttività, la più bassa produttività è un problema dell’economia italiana, intanto, e lo è in maggior misura

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dell’economia umbra, perché la produttività ha molte implicazioni importanti. Dalla produttività dipende, dal lato delle imprese, la loro competitività e, almeno nel medio e lungo periodo, anche la redditività; poi, dalla produttività dipendono anche le opportunità di lavoro qualificato. Sappiamo bene quanto bisogno c’è, in una regione come l’Umbria, di lavoro qualificato, soprattutto per i giovani umbri laureati e diplomati, che sono la grande maggioranza. Dalla produttività dipendono anche i livelli di remunerazione del lavoro. La remunerazione del lavoro non è indipendente dalla produttività, e lo vedremo.

Questa analisi l’abbiamo sviluppata a quello che ci è sembrato il livello più adeguato per mettere in evidenza e cogliere queste implicazioni, che è il livello delle singole imprese; il livello delle singole imprese a partire dai loro dati di bilancio. Su questo parlerà soprattutto il collega Alessandro Montrone; io aggiungerò poi, alla fine, un breve approfondimento su un aspetto particolare, che riguarda soprattutto le imprese ad alta produttività. E questa è stata la prima scelta.

La seconda scelta condivisa è stata quella di inquadrare questa analisi, che è necessariamente parziale, perché si fonda su dati di bilancio e quindi su dati relativi a società di capitali, che sono una parte consistente delle imprese manifatturiere, ma sono una parte molto meno consistente delle imprese di servizi. Quindi è un’analisi necessariamente parziale, quella che riguarda i dati di bilancio delle società di capitale, però è il cuore dell’analisi che abbiamo fatto. Quindi, la seconda scelta è stata quella di inquadrare questa analisi nella cornice macroeconomica dell’intera economia regionale, le sue tendenze e i suoi divari rispetto all’area di riferimento.

La terza scelta è stata proprio quella di prendere come standard di riferimento, con cui confrontare l’economia regionale, quello costituito dalla cosiddetta Italia di mezzo, o Italia mediana; ha tanti nomi, comunque noi l’abbiamo definita come macroarea Toscana, Umbria e Marche, considerate complessivamente.

È una macroarea in cui, tra l’altro, la nostra Presidente e la Giunta regionale hanno lavorato anche in termini di collegamenti politici e programmatici, quindi ha certamente una sua valenza. È una macroarea omogenea, sotto diversi profili socio- economici, ma bisogna sapere che è anche una macroarea mediamente più sviluppata dell’Umbria e mediamente più sviluppata della media italiana, soprattutto per la maggiore forza economica della Regione Toscana, che è una Regione che ha un 15%

circa di PIL per abitante più alto della media italiana, quindi è certamente una Regione molto forte, dal punto di vista economico.

Però, proprio per questo, proprio perché è una macroarea più sviluppata, noi riteniamo si presti bene a rappresentare un benchmark di riferimento sulla base del quale valutare e misurare le performance della nostra economia. I benchmark si fanno sempre con situazioni un po’ migliori di quella che abbiamo, per vedere quali sono i margini di miglioramento che abbiamo.

Lo studio, tra l’altro, si è avvalso anche del confronto ripetuto che c’è stato con il Tavolo di concertazione guidato dall’Assessore Vicepresidente Paparelli, e il mio intervento, in buona parte, è dedicato proprio a questo quadro macroeconomico. Poi, come dicevo prima, il professor Montrone si occuperà soprattutto dall’altra parte, ed

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io tornerò con qualche breve considerazione finale. Alcune cose di questo quadro macroeconomico sono risapute, quindi ci passerò velocemente, altre meno, e a quelle dedicherò un po’ più di tempo.

L’analisi è articolata in due parti, sostanzialmente, una sulle tendenze recenti, dal 2012, che è stato l’inizio della seconda crisi, dopo quella del 2008, fino all’anno più recente, che è il 2016 o 2017, secondo gli indicatori economici. Questa la prima parte.

L’altra, invece, è dedicata ai divari di sviluppo tra Umbria e Toscana, Umbria e Marche, in riferimento all’ultimo anno di disponibilità dei dati, in genere il 2016.

Questa analisi la illustro seguendo due ottiche, che sono due cose un po’ diverse, come sappiamo bene, nella nostra situazione economica.

Come diceva anche la Presidente, da una parte abbiamo l’indicatore tipico di una di queste storie, che è il PIL per abitante, l’attività produttiva interna, quella che svolgono le imprese che operano nel nostro sistema produttivo; l’altra è il benessere della popolazione residente, la sua occupazione, i consumi eccetera; quindi sono due strade un po’ diverse, ma ovviamente intrecciate e non certo indipendenti. Quindi io seguo separatamente queste due ottiche, ma poi vedremo anche nell’analisi dei divari come queste due cose si collegano tra di loro.

Tra le cose risapute, a proposito del prodotto interno lordo, l’andamento è quello che vedete: nel confronto tra Toscana, Umbria e Marche ce la siamo cavata; è andata non troppo bene, anzi direi piuttosto male, fino al 2014, ma c’è stata una ripresa consistente nel 2015. Mediamente non abbiamo tenuto il passo di Toscana, Umbria e Marche, anche perché nel 2016 c’è stata di nuovo una riduzione, secondo i dati, che non sono peraltro definitivi, dell’Istat. Per i dati definitivi bisogna aspettare soltanto un mesetto: fra poco avremo quelli provvisori del 2017 e definitivi del 2016.

Però la cosa più interessante da vedere sono i grafici sotto, perché questo andamento medio è sostanzialmente la media di due andamenti molto divergenti: uno riguarda l’industria manifatturiera, che invece è andata bene, è andata anche meglio della media italiana, ma della media di Toscana, Umbria e Marche (come vedete nel grafico in basso, a sinistra); l’altro, invece, riguarda i servizi di mercato. Io mi occupo adesso soltanto dei servizi di mercato, perché poi l’obiettivo finale è quello di parlare di produttività; di produttività si può parlare con le attività di mercato, non con le altre cose. Si può parlare anche delle altre, ma è un po’ più complicato. I servizi di mercato, invece, sono andati meno bene, c’è stata una riduzione del valore aggiunto, che è continuata anche nel 2016. Il calo del PIL del 2016 è dovuto essenzialmente all’andamento non positivo dei servizi di mercato.

Questa slide, invece, riguarda le unità di lavoro: il lavoro impiegato all’interno del sistema produttivo regionale, che non è la stessa cosa dell’occupazione degli umbri (come vedremo tra poco); il lavoro impiegato all’interno del sistema produttivo regionale, dalle imprese, dalle Istituzioni, delle imprese in questo caso regionali, che operano nella regione. Qui c’è stata una diminuzione: meno lavoro impiegato nel sistema produttivo, sia nell’industria manifatturiera che nei servizi di mercato.

Conseguenza (grafici sotto): forte incremento della produttività dell’industria manifatturiera, e questa è una novità che non sperimentavamo da molto tempo, forte

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incremento della produttività dell’industria manifatturiera, che ha due cause: una è l’aumento di valore aggiunto, un’altra è la diminuzione dell’occupazione, del lavoro impiegato nei processi produttivi. Diciamo che è metà e metà. Questa buona notizia per una metà è buona per intero, perché si tratta di più valore aggiunto prodotto; per un’altra metà, invece, dipende dal fatto che c’è stata anche una ristrutturazione dei processi produttivi, una riorganizzazione del sistema delle imprese, che ha portato anche a minore occupazione.

Per i servizi, invece, siccome c’è stata una diminuzione sia del valore aggiunto che dell’occupazione, del lavoro impiegato, abbiamo una staticità della produttività. La produttività è ferma.

Che cosa ha comportato questo? Quell’asta che vedete, quel segmento orizzontale che sta sopra quelle due colonne – quei due istogrammi – doveva stare a livello 100, segnare il divario rispetto a 100, che è il valore di Toscana, Umbria e Marche. Cosa vediamo? Vediamo ancora 4-5 punti di divario di produttività per l’industria manifatturiera, che ha recuperato molto, come ho detto prima, ma rimane ancora un piccolo divario di produttività rispetto a questa macroarea di riferimento e un divario molto più consistente della produttività, invece, nel comparto dei servizi. Il problema della produttività è sempre più concentrato nel comparto dei servizi, sempre meno nel comparto dell’industria manifatturiera.

Il grafico di destra, invece, fa vedere come a questi divari di produttività corrispondano divari di reddito unitario da lavoro dipendente, che è equivalente al costo unitario del lavoro, ma è molto simile anche alle remunerazioni unitarie del lavoro. Vedete che, quando la produttività non è particolarmente alta, nemmeno le remunerazioni del lavoro sono particolarmente alte. Però il divario di reddito da lavoro dipendente, per l’industria manifatturiera, è lo stesso che abbiamo per la produttività. Quindi il costo del lavoro per unità di prodotto, che è un indicatore di competitività di costo, o meglio, di costo del lavoro, non è un problema per l’industria manifatturiera, perché è in equilibrio rispetto almeno alla macroarea Toscana, Umbria e Marche; è un problema, invece, per i servizi di mercato, nei quali le imprese avranno sicuramente più difficoltà a trovare il loro equilibrio economico.

Investimenti: anche gli investimenti hanno avuto un recupero nell’ultimo anno, e qui purtroppo i dati sono più vecchi, l’Istat non ci dà nemmeno la possibilità di tirarci il cappello, di portarli un po’ più avanti, fino al 2015. Comunque, c’è stata anche qui una ripresa degli investimenti, sia nell’industria manifatturiera che nei servizi di mercato.

La cosa più interessante è il grafico che sta sotto, dove vedete che, rispetto allo standard Toscana-Umbria-Marche, nella nostra regione abbiamo un tasso di investimenti maggiore. Il rapporto tra investimenti e prodotto interno lordo, in Umbria, è più alto di quello dello standard di riferimento Toscana, Umbria e Marche, e anche di molto. Era di moltissimo, era del 20-30%, a seconda delle industrie manifatturiere, il 20%, 30% i servizi di mercato, nel 2012 si è ridotto, ma è comunque di 10, 12, 20 punti ancora nel 2015. Perché? Che vuol dire?

Qui abbiamo una situazione che sembra paradossale: alta intensità di investimenti e bassa produttività. È un indicatore del fatto che in Umbria vengono presidiate

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soprattutto fasi della produzione a basso valore aggiunto e il problema degli investimenti non è di quantità. Abbiamo bisogno, anche se su questo starei un po’ più cauto – dopo magari lo spiego meglio – non tanto di più investimenti, quanto di una qualità diversa, di una composizione diversa degli investimenti: più investimenti immateriali, che vuol dire ricerca, sviluppo, marchi, brevetti, tecnologie dell’informazione, software, eccetera.

Anche le esportazioni sono in ripresa: qui i dati arrivano fino al 2017 e vedete che sono sempre in ripresa dopo il 2014, però resta la bassa propensione alle esportazioni.

Questa è una cosa antica dell’economia umbra: il rapporto tra esportazioni e PIL è nettamente più basso rispetto non solo a Toscana, Umbria e Marche, ma anche alla media italiana.

Passiamo all’altro lato del racconto, il lato dei lavoratori umbri e del livello di benessere delle famiglie umbre: mentre l’occupazione delle imprese che lavorano in Umbria era in calo, come abbiamo visto prima, sia nell’industria manifatturiera che nei servizi, qui invece abbiamo che gli occupati in complesso non sono in calo, hanno avuto qualche andamento oscillante, ma complessivamente sono aumentati dal 2012 al 2017, in particolare sono aumentati gli occupati alle dipendenze, residenti in Umbria. Quindi occupati in crescita, specialmente alle dipendenze, con divari nei tassi di occupazione, rispetto alla standard di riferimento Toscana, Umbria e Marche, che sono molto contenuti: sono di 3 punti, 5 punti, a seconda che consideriamo l’intera popolazione in età di lavoro (15-64 anni), oppure i giovani, giovani un po’

particolari, quelli tra i 25 e i 34 anni, perché sotto i 25 anni, se i giovani non lavorano ma vanno all’Università, non lo considererei un problema (soprattutto dal nostro punto di vista, che di questo campiamo…). Quindi i divari nei tassi di occupazione restano contenuti e, peraltro, se avessimo fatto il confronto con Toscana, Umbria e Marche, sarebbero stati positivi. Noi abbiamo da sempre, da tanti anni, tassi di occupazione anche giovanili, anche dei laureati, più alti della media italiana, in Umbria.

Reddito disponibile. Il reddito disponibile è rimasto sostanzialmente stazionario, ha avuto una flessione, ma poi anche una ripresa, quindi diciamo pure che ha tenuto, il reddito ha tenuto, invece la spesa per consumi no. La spesa per consumi ha avuto una ripresa soltanto nel 2017, ma ha avuto un calo abbastanza consistente negli anni precedenti. Che vuol dire? C’è stata una maggiore propensione al risparmio? È una situazione tipica delle situazioni di incertezza, quando le famiglie non si fidano molto del loro futuro economico e quindi tendono a risparmiare, a spendere meno?

Probabilmente è questo. Però questa è la situazione che viene fotografata dai dati Istat su questo aspetto.

Andiamo a vedere i divari. Qui abbiamo il divario di PIL per abitante, da una parte, e il divario di reddito disponibile per abitante. Il reddito disponibile per abitante è l’indicatore di benessere economico, è il reddito a disposizione delle famiglie residenti per consumare, per spendere o per risparmiare.

Il PIL per abitante è la produzione che è stata realizzata dalle imprese tutte, comprese in questo caso le attività pubbliche, della regione, in rapporto alla popolazione, in

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entrambi i casi. Abbiamo un divario di PIL per abitante ancora molto consistente, abbiamo invece un divario di reddito disponibile per abitante molto meno rilevante, molto più contenuto. Perché è elevato il divario di PIL per abitante? Qui c’è il peso della bassa produttività media del sistema. Prima abbiamo detto del recupero dell’industria manifatturiera, ma non c’è stato nessun recupero nei servizi, che, peraltro, pesano molto di più, dal punto di vista sia del valore aggiunto che dell’occupazione.

Perché – altra domanda – i divari di reddito sono molto minori dei derivati di PIL per abitante, tutti e due? Di solito, quando vediamo un grafico di questo genere, diciamo che sono i trasferimenti. Questa storia la conosciamo da decenni, in Umbria è stato sempre così. È stato detto, qualche volta forse l’ho detto anch’io, che è un’economia un po’ assistita. Adesso vi farò vedere, invece, che non è – almeno oggi – una lettura molto corretta, dipende anche da altri fattori, anzi, direi che dipende soprattutto da altri fattori. Lo dico velocemente. Immaginate quel segmento più in alto, in corrispondenza di uno, e guardate le differenze rispetto agli istogrammi azzurri.

Da cosa dipende il divario di PIL per abitante? Le prime componenti sono relative alla produttività. Se le moltiplichiamo insieme, è la produttività complessiva, quindi dipende molto dalla produttività. Quella produttività è divisa in due componenti, a sua volta: i divari di produttività settore per settore, che non dipendono dalla composizione dell’economia, ma dipendono da divari proprio di produttività nei singoli settori, nell’industria alimentare, nell’industria tessile, nei servizi di varie tipologie, eccetera. L’altra, invece, è la composizione: in Umbria abbiamo un problema di composizione minore, però c’è un problema di composizione – soprattutto il peso dei servizi tradizionali, che sono a bassa produttività, è piuttosto alto, più alto rispetto alla media di Toscana, Umbria e Marche – e abbiamo anche un problema di divari, settore per settore.

L’altra componente è l’estensione della base produttiva market, questo è importante, perché da cosa deriva il PIL, o il PIL per abitante? Deriva dagli occupati, quanti sono gli occupati in proporzione alla popolazione e quanto sono produttivi questi occupati;

da questo dipende, evidentemente, da quanti sono gli occupati. Nel settore di mercato, in proporzione alla popolazione, sono relativamente pochi, troppo pochi. In Umbria sappiamo che c’è una base produttiva di mercato che riguarda, questa volta, anche l’industria manifatturiera. L’industria manifatturiera non è tanto estesa quanto quella toscana o quanto quella marchigiana, che, anzi, è enormemente più estesa, perché è forse la regione d’Italia che ha la base produttiva manifatturiera più estesa di tutte, in proporzione alla popolazione. Abbiamo un problema di estensione della base produttiva. L’altro problema è invece legato alla produttività di chi è occupato in questa base produttiva di mercato.

Quello che ci fa recuperare un po’, invece, è la quota di valore aggiunto, che dipende dall’attività non di mercato, che non è soltanto la Pubblica Amministrazione, ma sono anche altri servizi, come, per esempio, quelli che le famiglie si producono autonomamente (pensiamo all’economia delle badanti e altro).

Queste sono le ragioni per cui abbiamo un PIL per abitante più basso, quelle che ho

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detto prima: produttività ed estensione della base produttiva di mercato.

Invece, cosa fa ridurre il divario, quando lo misuriamo in termini di reddito disponibile, e quindi di benessere della popolazione per abitante, rispetto al PIL per abitante? Da cosa dipende? Cos’è che produce un effetto positivo? Sono due o tre cose. Una: c’è una maggiore quota di reddito da lavoro dipendente in Umbria, quindi il PIL che viene prodotto viene distribuito più al lavoro dipendente che non alle imprese, rispetto alla media di Toscana, Umbria e Marche; questo può essere un problema per le imprese, che hanno meno risorse per l’autofinanziamento e per crescere, però è una cosa che avvantaggia il livello di benessere della popolazione, perché i lavoratori dipendenti sono quasi tutti, in genere, comunque, residenti nella regione, quindi quel reddito va tutto dentro il reddito disponibile delle famiglie.

L’altra componente, sempre positiva, è che in Umbria c’è quello che qui viene chiamato “effetto del reddito da lavoro fuori regione”: avete visto prima che gli occupati all’interno della regione vanno in diminuzione, ma gli occupati residenti nella regione sono in aumento; come si spiega questa cosa? C’è l’occupazione fuori regione. Questa è una piccola regione interna, con tutte regioni intorno, dove si fa pendolarismo sicuramente, c’è un pendolarismo che porta occupazione fuori regione e che porta reddito da lavoro dipendente nella regione, invece; quindi questa è l’altra componente positiva.

Poi c’è l’effetto trasferimenti, ma l’effetto trasferimenti non dipende dal fatto che in Umbria abbiamo più pensioni, più assistenza, più trasferimenti dello Stato, con quella funzione che siamo abituati a considerare, che è un po’ per compensare le difficoltà di una popolazione che ha bisogno di essere aiutata dallo Stato; non sono questi i trasferimenti. Le pensioni, in Umbria, è vero che sono leggermente più alte, ma la differenza rispetto a Toscana, Umbria e Marche è l’1 per cento. La differenza fondamentale è che in Umbria ci sono meno trasferimenti passivi, cioè si pagano meno imposte e meno contributi. Perché si pagano meno imposte e meno contributi?

Perché c’è una base produttiva meno estesa, quindi l’effetto trasferimenti è più legato all’estensione della base produttiva che ai trasferimenti assistenziali, o comunque di quel tipo che siamo abituati a pensare. Quindi, si riconduce sempre tutto all’estensione della base produttiva, soprattutto, e ai problemi della produttività.

Noi potremmo dire: ma a noi, tutto sommato, del PIL per abitante che ci importa?

Abbiamo il reddito disponibile per abitante, siamo abbastanza vicini a Toscana, Umbria e Marche; se facciamo il confronto con l’Italia, siamo ancora più vicini, potremmo accontentarci di questo. Solo che non è così, sarebbe veramente sbagliato ragionare così, perché questi due divari, come vedete dal grafico, è vero che sono diversi, ma vanno di pari passo. Dal 2012 al 2016, è aumentato il divario di PIL per abitante e, parallelamente, è aumentato anche quello di reddito disponibile per abitante. Il recupero del livello di benessere, anche se vogliamo ragionare soltanto in termini di benessere della popolazione, non potrà prescindere dalla riduzione del divario di PIL per abitante. E noi sappiamo, lo abbiamo visto poco fa, che a sua volta questo recupero del divario di PIL per abitante passa soprattutto per più produttività, quindi per politiche per la produttività, che spettano sia alle imprese che alle

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Istituzioni pubbliche.

Mi fermo qui, per questa parte. Passo la parola ad Alessandro Montrone; poi tornerò, come dicevo, con una piccola postilla finale.

Alessandro MONTRONE, Università degli Studi di Perugia.

Grazie, buongiorno a tutti.

Passiamo dalla prospettiva dello statistico-economico alla prospettiva dell’aziendalista. In sostanza, l’analisi che segue come è stata effettuata? Attingendo a quel database di bilanci che è Orbis (ex Amadeus), abbiamo scaricato tutti i bilanci delle società di capitali sopra i cinque dipendenti, quindi non si tratta di un campione statistico, si tratta propriamente di un’intera popolazione.

I dati che vedremo sono di fatto dati medi, sono dati di un’ideale azienda di cui stiamo analizzando un po’ l’andamento. Da un punto di vista di analisi dei bilanci, fermo restando le prime considerazioni che vedete nella slide, che Bruno Bracalente ha già ha ampiamente spiegato nella fase precedente, c’è solo una precisazione che vorrei fare su questa slide: se io voglio capire, in termini prospettici, quali sono i possibili andamenti di un’azienda, non mi fermo agli indicatori finanziari, perché quelli sono il presente, so che è quello che è successo, è una presa d’atto, ma si vanno a vedere gli indicatori di redditività e, prima ancora, cioè a monte, di produttività. Ecco perché ci siamo concentrati, anche dal punto di vista aziendalistico, su queste grandezze.

Quando poi entriamo nel campo della produttività, la cosa più interessante da fare è ragionare in termini di valore aggiunto, cioè di ricchezza netta, creata.

Come ho avuto occasione di dire al Tavolo di concertazione, in realtà, quando andiamo ad analizzare quello che accade dentro le imprese, bisogna ragionare sistemicamente; allora, le grandezze che si prendono in considerazione non sono delle camere stagne, o qualcosa di separato dal resto, ma c’è una serie di interconnessioni e di collegamenti. Di fatto, cosa vuol dire questo diagramma, che poi verrà utilizzato e trovate nel rapporto? Qui c’è la produttività del lavoro, qui c’è la produttività del capitale, sono le due grandezze che dobbiamo innanzitutto prendere in esame, perché riguardano i due fattori fondamentali dell’economia dell’impresa;

poi, proseguendo idealmente in questa direzione, si arriva alle grandezze relative alla redditività. E nel campo della redditività netta l’unico indicatore di struttura finanziaria sarà questo indice di autonomia finanziaria, il resto sono indicatori di produttività e redditività.

I legami tra i due fondamentali indicatori, se devo sottolineare quali sono i più importanti, chiaramente sono questi due, subito sotto il titolo: produttività del lavoro e produttività del capitale; sono interconnessi a un altro indicatore, che è l’intensità del capitale, cioè quante risorse diamo a questi soggetti, quanto il lavoratore è dotato di capitale. La connessione tra produttività di capitale e cosa si trasforma poi in redditività, soprattutto per la proprietà aziendale, è la fetta di valore aggiunto che, in fase di distribuzione, viene lasciata all’impresa e ai suoi proprietari.

L’analisi, come anticipava Bruno Bracalente, è stata articolata per settori, quindi si parla di manifatturiero, di terziario tradizionale e di terziario avanzato, o servizi alle

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imprese. Una prima annotazione che è d’obbligo fare, prima ancora di andare sugli indicatori veri e propri, è ragionare su come questo universo di imprese, che abbiamo preso in considerazione, si componga diversamente in Umbria, rispetto a quello che accade nelle regioni limitrofe.

Gli istogrammi più importanti da vedere in questo grafico sono proprio il primo e l’ultimo: il primo perché c’è l’Umbria e l’ultimo perché, in realtà, è la cosiddetta TUM (Toscana, Umbria e Marche), in cui si riunisce il tutto. Anche graficamente c’è una cosa che salta agli occhi: l’azzurro è il manifatturiero; come vedete, noi abbiamo un manifatturiero che compone questo universo di aziende per il 42,75, contro un 58,69 nella TUM. A “vantaggio” di chi va questa minore dimensione del manifatturiero?

Ahinoi, va a vantaggio – ed è la parte in arancione – del terziario tradizionale; con tutto il rispetto, è però quel terziario che, di fatto, come si vede nella tabella sotto, è a minor valore aggiunto, è quello che produce meno ricchezza netta.

Se guardate l’ultima riga qui sotto, noi abbiamo un manifatturiero (i dati sono al 2016, poi darò altre precisazioni) che, in termini di valore aggiunto sul valore della produzione – cioè misuro quanto si aggiunge valore, quanta ricchezza netta percentualmente si crea – è quasi in linea. Poi, se guardiamo i dati del 2017, va ancora meglio. Il terziario tradizionale, che è quello che pesa tanto nella nostra regione, purtroppo, oltre a pesare tanto, oltre a essere per definizione un settore – non è sua colpa, è nella natura delle cose – che ha minor valore aggiunto, ha ancora minor valore aggiunto. Infatti, vedete che, contro un 17,44 della TUM, in Umbria siamo al 12,65, quindi significativamente sotto.

In linea, invece, sono i dati relativi al terziario e ai servizi alle imprese.

Ho appena detto 2016: l’analisi è stata inizialmente condotta in maniera generalizzata a tutto il 2016 perché, quando è iniziata, quelli erano i bilanci disponibili. In realtà, proprio in queste ultime settimane, abbiamo fatto un aggiornamento, però limitatamente al settore manifatturiero. Perché il settore manifatturiero? La risposta è in questo grafico: perché in realtà la copertura dell’universo che siamo riusciti a scaricare dal database è decisamente superiore – guardate l’istogramma in verde – proprio per il settore manifatturiero stesso. Quindi è quello, come già anticipavo, dove l’analisi è sicuramente più coprente, passatemi il termine.

Nel fare questa analisi su questa ideale azienda media, sono state prese in considerazione diverse grandezze, alcune grandezze significative, ma utili soprattutto a valutare il profilo dimensionale; volevamo capire se le aziende umbre sono più o meno grandi rispetto a questo riferimento. Possiamo dire da subito che la risposta è generalizzata: tranne che per un aspetto, i servizi alle imprese, la dimensione non è un problema specifico delle nostre aziende. Non abbiamo, almeno sulle società di capitali, aziende sottodimensionate. La misurazione della dimensione è stata fatta tenendo conto di: numero dipendenti, ammontare degli investimenti e valore della produzione, i tre parametri classici per valutare i profili dimensionali.

Poi ci sono, come vedremo, dei tassi di redditività, dei tassi di produttività, privilegiando le misure che tengono conto del valore aggiunto; un’unica misura di struttura finanziaria, cioè risorse proprie sul totale dei finanziamenti, per dire qual è

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la dipendenza dai capitali di terzi piuttosto che il potersi affidare alle risorse proprie;

infine, un unico indice, che è una buona proxy della misura della dematerializzazione, cioè di quanto si investe in beni immateriali, in tutti quegli asset di cui parlava prima Bruno Bracalente, che sono tanto essenziali in termini di innovazione e sviluppo.

L’indicatore – lo dico da aziendalista, da quello che legge i bilanci – ha i suoi limiti, per come sono quantificate queste grandezze nei bilanci, però il confronto è corretto perché è stato fatto il calcolo nella stessa maniera, chiaramente, sia per TUM che per Umbria. L’indicatore è: immobilizzazioni immateriali sul totale di attivo fisso, quindi sul totale delle immobilizzazioni; quanta parte degli investimenti durevoli sono in immobilizzazioni immateriali.

Manifatturiero, 2017 (questo tiene conto dei dati veramente più aggiornati): quelle parti che vedete in rosso sono, più ancora che un evidenziare delle cose, un dire un aggiornamento, cioè quello che è cambiato rispetto alla prima versione, che si fermava al 2016. É stato importante vedere il 2017 perché ci sono notazioni, almeno sul settore manifatturiero, decisamente più positive di quelle che abbiamo trovato fino a tutto il 2016. Quindi c’è, scusate la ripetizione, un valore aggiunto anche in questo. Per il manifatturiero, il profilo dimensionale non è un problema delle imprese manifatturiere umbre, non ci sono sottodimensionamenti. La produttività del lavoro, valore aggiunto per dipendente, prima era sotto; adesso, almeno nel manifatturiero, c’è stato un sorpasso rispetto alla macroregione.

Il costo medio pro capite del lavoro è un po’ più basso nella nostra regione, di poco inferiore, il che potrebbe anche far pensare a qualche problema in termini di qualificazione, di formazione e investimento sulla risorsa lavoro. Anche la produttività di capitale, che prima era un po’ sotto, adesso, seppure di un’incollatura, è superiore in Umbria; questa produttività dipende sia da un’intensità di capitale, che si è accresciuta, sia dalla maggiore produttività del lavoro.

Anche in termini di redditività netta, finalmente c’è un recupero, quindi nei principali indicatori di redditività c’è un quadro migliore. Di poco superiore è anche la redditività operativa. Buona anche l’autonomia finanziaria.

Quindi, il punto debole delle imprese di questa regione, che sembra quasi un ritornello che si ripete, è quello del grado di dematerializzazione: dove più, dove meno, seppure l’indice è migliorato, siamo nettamente sotto. Se visualizzate la linea azzurra, è l’Umbria, mentre la linea rossa tratteggiata è la macroregione; questa è la dematerializzazione: in Umbria, nonostante ci sia stata una leggera chiusura della forbice, vedete quanto siamo al di sotto. Viceversa, per gli altri andamenti (ROE, redditività), si visualizza bene il processo di recupero in questi anni: siamo partiti da sotto zero, nel 2013, cioè mediamente l’impresa manifatturiera umbra ci rimetteva, era in perdita.

L’intensità del capitale investito rimane in leggera crescita. Si stanno incrementando le percentuali di creazione di valore aggiunto; cioè, l’incidenza del valore aggiunto rispetto al totale del valore della produzione è stato da noi in progressiva crescita e anche qui, nel 2017, ha scavalcato la TUM.

Indici di produttività del lavoro e del capitale, sono questi due in basso, a sinistra;

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produttività del lavoro, il primo: vedete che progresso c’è stato, anche in termini di produttività del lavoro e, in parallelo, la stessa cosa in termini di produttività del capitale.

Buona, ripeto, l’autonomia finanziaria, perché siamo comunque su questi valori, mediamente: oltre al terzo dei finanziamenti coperto da risorse proprie.

Prima è stato detto che nel settore manifatturiero c’è stato sviluppo, ma non c’è stato maggior lavoro. Qui si vede anche per altri aspetti. Parto da questa piccola tabella in basso: facendo questo prolungamento al 2017, non abbiamo trovato esattamente lo stesso numero di imprese; ma, come vedete, contro 675 sono 646, quindi la popolazione è rimasta sostanzialmente integra.

29 aziende in meno, gli occupati in tutte queste aziende sono diminuiti di 4.379, prendendo queste aziende. In termini percentuali, significa che abbiamo un 4,3% di aziende in meno. Non significa che hanno chiuso, se ne potrebbero essere aperte altre, potrebbero essersi accorpate o che altro, ma sicuramente c’è meno manodopera, in maniera più significativa.

L’altra indicazione è sulla distribuzione del valore aggiunto. Qui si vede sia in termini monetari, sia in termini percentuali, a chi va il valore aggiunto; qui abbiamo visto tre fette, sostanzialmente. Cosa rimane all’impresa, ai suoi proprietari? Cosa va ai lavoratori? Cosa va agli altri stakeholder, cioè finanziatori esterni, sostanzialmente aziende di credito, e Pubblica Amministrazione? Il rosa è il lavoro, l’istogramma in basso, l’azzurro, è quanto va all’impresa e ai suoi proprietari; sopra sono gli altri stakeholder.

Il primo istogramma della distribuzione percentuale è più esteso – perché, in realtà, poi, il totale sempre 100 deve essere – perché in quell’anno, il 2013, le nostre imprese erano mediamente in perdita, il che significa che per pagare i lavoratori, per pagare gli altri stakeholder, c’è stata della ricchezza che è stata prelevata dalle risorse preesistenti; si va sotto zero. Poi via, via, come la congiuntura migliora per queste aziende, vedete che progressivamente la parte che va alle imprese cresce, sembra erodere le altre. Non è così, in termini monetari; però, quando cresce il valore aggiunto, le quote che vanno ai vari portatori di interessi non crescono proporzionalmente, chi ne beneficia di più è lo stakeholder impresa, il che è una buona notizia per i proprietari, ma è una buona notizia per il sistema economico, perché si pongono in essere i presupposti per un’azione di autofinanziamento, di trattenimento e reinvestimento di risorse nelle imprese.

Questo è di non facile lettura, è solo per dare una serie di indicazioni: i valori che stanno sotto ogni indicatore sono quelli del 2016. Qui sopra, in giallo, per evidenziare, ho riportato quelli del 2017.

Valore aggiunto per dipendente: da 66 euro si passa quasi a 75. Produttività del capitale, quindi valore aggiunto sul capitale investito: dal 23,47 si passa quasi al 26%.

La quota di valore aggiunto, che va a imprese e proprietà, quella che vedevamo poco fa in azzurro, è passata dall’11,65, solo in un anno, al 18,15. Quindi è un’evidente espansione.

Dove vedete le cerchiature continue, sono quei punti del sistema azienda in cui può

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essere opportuno intervenire con politiche economiche; quelli tratteggiati significano che, quando intervengo in una parte del sistema, ci sono altre parti che si spostano, cioè non è che finisce lì. Il professor Bracalente prima diceva di qualificare gli investimenti; ma se li aumento e basta, senza curarmi di dove vado a investire, cosa succede? Aumenta il denominatore (valore aggiunto sul capitale investito) e diminuisce la produttività del capitale, se non c’è un investimento sufficientemente orientato, che mi consente di aumentare di pari passo, anzi, più che proporzionalmente, il valore aggiunto.

Quindi l’invito è che, quando si prendono misure di politica economica, quando si va a incidere sulle imprese, bisogna fare attenzione, perché ci sono dei punti in cui si applica la forza, ma ci sono anche dei punti in cui la forza si propaga, nel bene e nel male, quindi bisogna stare attenti.

Quelli che vedete nei riquadri colorati sono degli input per dire quali potrebbero essere le misure per agire positivamente su quegli indicatori: misure di finanziamento agevolato, ma attentamente selettive; potenziare e introdurre produzioni a maggior valore aggiunto, in modo da incidere positivamente sulla produttività del lavoro. E quando si parla di lavoro, la prima cosa che a chiunque viene in mente è il lavoro dell’operaio piuttosto che dell’impiegato, certamente; ma qui – scusate, siamo del Dipartimento di Economia, siamo in conflitto di interessi – serve la qualità del lavoro manageriale, è essenziale per questi discorsi. Qui c’è un progresso su cui si può puntare, quindi azione formativa mirata, una stessa contrattazione integrativa che tenga conto dei progressi nel valore aggiunto, per commisurare quelli che possono essere i cambiamenti di retribuzione per i dipendenti.

Questo è lo stesso schema 2017, i dati principali li ho visti prima, di fatto c’è un progresso pressoché in tutti gli indicatori presi in esame; addirittura rispetto a una posizione di retroguardia su TUM, in tutti gli anni precedenti, con un recupero progressivo, nel 2017 l’Umbria, settore manifatturiero, performa meglio della macroregione. Quindi c’è questo dato, che sicuramente ha una valenza positiva.

Poi, abbiamo fatto lo stesso tipo di analisi, parallelamente, per il terziario tradizionale e per quello avanzato, servizi alle imprese. Mi limito alle considerazioni, poi nel rapporto trovate assolutamente tutto.

Profilo dimensionale, terziario tradizionale, quel terziario che non aggiunge molto valore, purtroppo, e che è molto presente nella nostra regione. Non è un problema specifico, neanche qui, il profilo dimensionale, assolutamente, anzi. La produttività del lavoro è nettamente inferiore. Scusate, apro una parentesi: qui i dati si fermano – l’ho detto prima, ma va ricordato – al 2016.

Costo medio pro capite del lavoro più basso, anche in questo caso. Produttività del capitale: due punti e mezzo inferiore, lo abbiamo visto anche prima, come altro indicatore. Più ridotta capacità di creazione di valore aggiunto.

Un po’ meglio in termini di redditività. Di nuovo, c’è quel discorso di uno scollamento, in qualche misura, tra produttività bassa, ma redditività che, grazie ad altri canali, riesce a reggere. Buona autonomia finanziaria. Malissimo anche in questo caso, decisamente negativo, il grado di dematerializzazione. Qui visualizzate un po’

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gli andamenti: si vede anche visualmente (la linea azzurra) come l’andamento è certamente meno positivo di quello che abbiamo visto in precedenza.

Sul terziario avanzato, anche qui, stesso tipo di analisi.

Profilo dimensionale: se il profilo dimensionale può dare qualche elemento di debolezza, è proprio in questo settore, nella nostra regione, cioè quella dei servizi alle imprese. Dei tre parametri, non per numero dipendenti, siamo su valori sottodimensionati per valore della produzione e per totale degli investimenti.

Produttività del lavoro: di gran lunga inferiore. Costo medio pro capite: inferiore.

Produttività del capitale: è superiore, ma attenzione, perché gli indici si fanno in due, numeratore e denominatore; qui c’è una produttività del capitale molto buona, non tanto perché c’è un elevato valore aggiunto, ma perché c’è un basso denominatore;

quindi, chiaramente, c’è un effetto positivo, ma in maniera un po’ ingannevole.

Redditività netta: un quadro che migliora, almeno nell’ultimo anno; in linea quella operativa. Buona autonomia finanziaria, ma ricordiamoci che qui di capitale ce n'è poco, per cui è più facile essere autonomi finanziariamente. Grado di dematerializzazione al 2016: di 28 punti percentuali sotto. Detto su un terziario avanzato, è certamente un elemento decisamente negativo, non nascondiamoci dietro un dito. Qui vedete gli andamenti, ma di nuovo c’è un andamento sicuramente meno brillante di quello che abbiamo visto a livello di manifattura.

Qui serve molto fare azione formativa mirata, serve molto aumentare la capacità di aggiungere valore perché, se non si aggiunge valore in un settore di servizi, dove lo vogliamo aggiungere? Bisogna anche qui – si vede sul fronte della redditività operativa – migliorare la qualità del lavoro manageriale, che servirà sicuramente a organizzare meglio, ma anche a posizionare meglio l’attività di queste aziende.

Vi ringrazio della pazienza e ripasso il testimone al professor Bracalente.

Bruno BRACALENTE, Università degli Studi di Perugia.

Se avete pazienza residua, perché qui veramente ci stiamo prendendo molto tempo, vorrei prendermi altri cinque minuti.

Questo è l’approfondimento di cui parlavo prima, sulle imprese ad alta produttività.

La produttività in questo caso è definita in modo un po’ più completo, cioè come produttività totale dei fattori, che non è soltanto valore aggiunto per occupato, ma è valore aggiunto per unità composita di lavoro e capitale fisso (tiene conto anche del capitale fisso).

Qui abbiamo definito le imprese nell’area Toscana, Umbria e Marche, ad alta produttività totale dei fattori: sono quelle che in ogni settore (alimentare, tessile, commercio, servizi alle imprese; settori molto dettagliati) appartengono al primo 25 per cento nella graduatoria decrescente della produttività totale dei fattori. Noi calcoliamo questo indice, che è un buon indice della qualità complessiva delle imprese. È un indice di produttività, ma vedrete che è un indice di qualità delle imprese, ancora di più.

Mettiamo in ordine decrescente questa graduatoria e nel 25 per cento superiore di questa graduatoria consideriamo le imprese ad alta produttività, in ogni settore.

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Questa analisi l’abbiamo fatta per tutto, anche per i servizi avanzati e per i servizi tradizionali; la presento soltanto per l’industria manifatturiera per fare prima, perché poi vi dirò che alcune cose che vediamo qui valgono anche per altri settori e per altri un po’ meno.

Per l’industria manifatturiera si tratta, quindi, di considerare le 1.734 imprese

“migliori”, a più alta produttività totale dei fattori, individuate in quel modo, però, settore per settore, sulle 6.936 complessive. Poi, abbiamo definito le altre classi, a scalare: medio-alta produttività: il 25 per cento successivo; medio bassa produttività:

il 25 per cento successivo; bassa produttività: l’ultimo 25 per cento.

Guardiamo una prima cosa, e questo dimostra perché la produttività totale dei fattori è un buon indicatore di qualità delle imprese. L’istogramma blu, fatto uguale a 100, sono le imprese ad alta produttività; come vedete, quelle sono ad alta produttività totale dei fattori per definizione, sono ad alta produttività del lavoro; la loro produttività del lavoro è il doppio rispetto alla classe immediatamente successiva, sarà due volte e mezzo quella dell’ultima classe, per dire. Sono imprese a più alto costo del lavoro, le imprese ad alta produttività sono a più alto costo del lavoro. Il costo del lavoro è un indicatore della qualità del lavoro. Composizione qualità del lavoro: più lavoro qualificato, più costo del lavoro.

Quindi, maggiore costo del lavoro, maggiore qualità del lavoro; maggiore intensità di capitale investito, molto maggiore, più del doppio rispetto alla classe successiva, le imprese ad alta produttività totale dei fattori. Più quota di capitale intangibile, anche se qui l’indicatore balla, secondo me, bisognerà studiarci meglio, comunque più alta quota di capitale intangibile. Più alta la quota di valore aggiunto che va alle imprese, quindi più autofinanziamento, più possibilità di crescita delle imprese, le imprese che hanno più alta produttività totale dei fattori. Più alta redditività operativa, vedete come va calando la reddittività operativa, quando passiamo dalle imprese ad alta produttività, medio-alta, medio-bassa, bassa, vanno calando regolarmente. Più alta redditività del capitale proprio, molto più alta, dieci volte più rispetto all’ultima classe, più del doppio rispetto alla classe immediatamente successiva alla prima.

Quindi, le imprese ad alta produttività le possiamo definire chiaramente come imprese eccellenti.

Detto questo, vediamo una cosa interessante, che riguarda la relazione tra produttività, efficienza e dimensione delle imprese: non c’è nessuna relazione; stiamo parlando di Toscana, Umbria e Marche, non dell’Umbria adesso. Anche prima stavo parlando del nostro sistema di riferimento Toscana, Umbria e Marche. Anche qui vedete che l’appartenenza alle classi superiori di produttività totale per fattori è indipendente dalla dimensione media delle imprese.

Ci sono molte imprese di dimensioni intermedie, 40-50 dipendenti, che sono molto produttive e molto efficienti, non è la grande impresa necessariamente quella più produttiva e più efficiente. Per la produttività e l’efficienza è più importante la specializzazione produttiva che la scala dimensionale, la scala di produzione; è più importante la specializzazione, presidiare segmenti qualificati della filiera, piuttosto che essere una grande impresa. Questo è vero per il sistema Toscana, Umbria e

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Marche, che è un sistema distrettuale, con sue caratteristiche, dove la dimensione non è tutto. L’integrazione e le relazioni tra imprese sono molto importanti; la specializzazione, di conseguenza, è molto importante.

Come si distribuiscono – stiamo parlando ancora dell’industria manifatturiera – le nostre imprese in quelle quattro classi? Qui viene una nota non positiva per l’industria manifatturiera umbra. Vedete che dovrebbero essere 25% per parte, per ognuna delle classi, infatti quella è la situazione di Toscana, Umbria e Marche, che vedete accanto. L’industria manifatturiera umbra, nella classe ad alta produttività:

non sono il 25%, ma sono il 18,7%. Qui c’è qualcosa da recuperare, bisogna spostare le imprese umbre di più verso questa classe, investire in produttività, per riportarsi in equilibrio, da questo punto di vista. Invece sono troppe, in proporzione, le imprese a bassa produttività; dovrebbero essere il 25%, sono quasi il 35%. Quindi, c’è un problema consistente di frammentazione, di fragilità consistente di una parte delle imprese, anche manifatturiere.

Nel settore dei servizi, sia tradizionali che avanzati, la situazione si ripete un po’, però è meno squilibrata, c’è un maggiore equilibrio sia nei servizi tradizionali che nei servizi avanzati. Qui è più evidente, lo squilibrio.

Vediamo quest’altra cosa: tutta questa parte sta sotto l’asta, questa parte qui sta sotto quel segmento e tutta quest’altra sta sopra o vicino. Cosa c’è in questa parte di qua?

C’è la produttività e i fattori che la determinano: il costo/qualità del lavoro, l’intensità di capitale, la quota di capitale intangibile, tutto più basso rispetto allo standard di riferimento Toscana, Umbria e Marche. Invece, la redditività, a partire dalla quota di valore aggiunto che va alle imprese, e il ROI soprattutto, cioè la redditività operativa, ma anche il ROE, che è un po’ più basso, ma di poco, sono invece o comparabili (il ROE), o più alti (il ROI, la redditività operativa). Cosa vuol dire? Vuol dire che qui le imprese manifatturiere umbre al top, le imprese migliori, quelle a più alta produttività, hanno un modello di equilibrio un po’ diverso da quello dell’area di riferimento Toscana, Umbria e Marche, più attento al contenimento dei costi del lavoro e del capitale – meno capitale investito – e un po’ meno centrato sulla produttività e sui fattori che la determinano. Questo è un problema su cui tornerò fra un attimo, nella conclusione.

La dimensione d’impresa in Umbria non è esattamente quella che abbiamo visto prima, non c’è questa indipendenza tra livello di produttività e dimensione d’impresa; in Umbria, le imprese a più alta produttività sono anche più grandi, perché il nostro è un modello diverso da quello distrettuale tipico di Toscana, Umbria e Marche. Si punta troppo poco, secondo noi, sulla specializzazione produttiva, che si ottiene anche con le piccole dimensioni, e si punta forse troppo sulla dimensione delle imprese, sull’ampiezza delle imprese.

La principale conclusione riguarda questo, ma è un po’ più generale. Il discorso che ho fatto prima vale anche per le imprese degli altri settori, vale anche per il terziario, sia tradizionale che moderno, più attento ai costi che non a investire in produttività e in qualità dell’impresa. Molte imprese umbre, compresa una parte di quelle migliori, devono ricercare un equilibrio diverso, una via più alta, si sarebbe detto in passato,

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alla redditività e competitività aziendale, rispetto a quella che si basa sul contenimento dei costi, in particolare del costo del lavoro, investendo di più in produttività, che vuol dire – come diceva prima Alessandro Montrone – qualità manageriale, sicuramente. L’investimento più importante per aumentare la produttività è la qualità manageriale. La qualità nella composizione del lavoro dipendente, con nuove figure professionali, più adatte alle nuove tecnologie.

Industria 4.0: le macchine di Industria 4.0 hanno bisogno di personale specifico, non dei soliti lavoratori che conosciamo, e anche nuova formazione.

Poi, qualità, composizione del capitale fisso – quello che abbiamo detto prima – immateriale, ricerca e sviluppo, tecnologia dell’informazione; quindi, un investimento in capitale umano e immateriale è quello che serve strategicamente per il futuro di questa regione, per ottenere più innovazione di prodotto e di processo e anche più apertura internazionale.

Investimento: i cosiddetti capitali intangibili. Investimento in capitale umano e immateriale e, quindi, gli investimenti privati e anche le politiche pubbliche. Non ho messo a caso prima gli investimenti privati e poi le politiche pubbliche, perché l’economia la fanno prima le imprese, che poi vengono aiutate dalle Istituzioni. Gli investimenti privati e le politiche pubbliche dovrebbero convergere su questo obiettivo strategico, da cui dipendono sia la forza del sistema delle imprese, sia le opportunità di occupazione qualificata e la possibilità di elevare le remunerazioni dei lavoratori.

Abbiamo concluso davvero, grazie.

Donatella PORZI, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria.

Ringraziamo i professori Bruno Bracalente e Alessandro Montrone per questa interessantissima relazione. Avevamo bisogno di questi dati e di queste riflessioni per avviare la nostra riflessione, così importante, rispetto alla necessità di investire sul capitale umano, sul capitale immateriale, di proseguire un’azione importante rispetto a quello che è Industria 4.0, formazione e innovazione, tutti temi che potrebbero aprire molte riflessioni anche di carattere altro, rispetto a quello della mattinata.

Direi di proseguire chiamando al tavolo il professor Alberto Cestari, che presenterà la sua relazione rispetto al valore delle piccole e medie imprese in Umbria. Passiamo adesso a un tema un pochino più specifico, per cui ringraziamo il professor Cestari.

Alberto CESTARI, Centro Studi Sintesi.

Buongiorno, non sono professore.

Donatella PORZI, Presidente Assemblea legislativa Regione Umbria.

L’ho promossa. Mi ricordava l’Assessore Paparelli che il suo intervento sarà proprio rivolto alle aziende al di sotto dei cinque dipendenti, per dare un quadro di una realtà molto diffusa nella nostra regione, che ci interessa in modo particolare. Prego.

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“Il valore della piccola impresa in Umbria”.

(cfr. Allegato n. 2) Alberto CESTARI, Centro Studi Sintesi.

Grazie, buongiorno a tutti. Grazie, Presidente Porzi; grazie, Presidente Marini, e grazie al Consiglio regionale dell’Umbria per la possibilità di illustrare lo studio che abbiamo realizzato per conto di Confartigianato, Confcommercio e CNA Umbria.

Come si diceva poc’anzi, è uno studio che mette in fila degli elementi statistici mirati sostanzialmente a valorizzare il ruolo e l’entità della piccola impresa, piccola e micro impresa in Umbria.

Da cosa siamo partiti? Siamo partiti dal fatto che nel nostro Paese la piccola e micro impresa è importantissima a livello numerico, a livello occupazionale, a livello di valore aggiunto. Lo dicono dei dati recenti di Eurostat, che collocano il nostro Paese, sostanzialmente, al primo posto in Europa per percentuale di piccole imprese sul totale. Siamo al 99,4%, a questo arriva l’Italia. L’Italia è al primo posto, anzi le piccole imprese italiane sono al primo posto in Europa per occupazione espressa, siamo a due terzi; siamo al secondo posto per valore aggiunto realizzato sul totale, siamo circa al 50%. Questo vale in Italia, ma vale sicuramente anche in Umbria, anche se magari con differenze, con diverse eccezioni. Abbiamo provato a mettere in linea alcuni elementi, oggi presentiamo una sintesi di questo lavoro che abbiamo realizzato, nei prossimi giorni verrà illustrato nella sua interezza.

Abbiamo messo in evidenza quattro punti, quattro elementi: ovviamente, la dinamica e la composizione del numero di imprese, la situazione del mercato del lavoro, le performance economiche, e poi, un ultimo spunto sul credito.

Anche noi, un po’ nel solco tracciato dal professor Bracalente e dal professor Montrone, abbiamo concentrato l’analisi sulla TUM, sulla macroarea Toscana, Umbria e Marche, anche per dare una completezza al lavoro. Abbiamo, in realtà, utilizzato un’analisi settoriale, che abbiamo sperimentato da diversi anni nell’attività di collaborazione che svolgiamo con CNA Umbria, che raggruppa i principali settori.

Cosa è successo in questi cinque anni? Innanzitutto, il dato che balza agli occhi è la diminuzione del numero di imprese attive: in Umbria, fra il 2012 e il 2017, il numero di imprese attive è diminuito di quasi 2.900 unità, siamo poco sopra le 80.000 unità per quanto riguarda le imprese attive. È un dato a livello percentuale sostanzialmente in linea con la TUM, quindi con la macroarea, perché siamo a -3,1 per cento per Toscana, Umbria e Marche e a -3,5 per cento per l’Umbria.

L’altro dato principale che occorre sottolineare è che, comunque, in questo periodo le micro imprese, quindi le imprese fino a nove addetti, rappresentano il 95% della complessiva struttura imprenditoriale umbra. Quindi, se consideriamo anche le imprese di maggiori dimensioni, che arrivano fino ai 50 addetti, vedete che arriviamo a percentuali del 99,5 per cento. Ovviamente, queste sono le imprese. I valori della macroarea sono molto simili, in realtà, anche se comunque in Umbria c’è una percentuale di imprese più piccole leggermente superiore.

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In questo arco temporale, fatta salva la riduzione del numero di imprese, non tutte sono diminuite, ci sono crescite per i settori legati al turismo e ai servizi nel complesso. I segni rossi comunque, purtroppo, sono evidenti e, soprattutto per quanto riguarda le costruzioni, siamo circa a -13 per cento per riduzione delle imprese, ma ci sono contrazioni anche per la manifattura, siamo a -5,5 per cento.

Vado veloce perché poi gli elementi sono collegati, ma sono molti.

Le piccole imprese sono ovunque, cioè occupano tutti i settori economici. Fatto salvo il manifatturiero, dove siamo all’85 per cento della quota occupata dalle micro imprese, in tutti gli altri settori economici siamo sopra il 90 per cento. Quindi, quel 95 per cento che ho detto prima è distribuito praticamente in maniera omogenea in tutte le imprese e per i settori economici.

Abbiamo fatto un piccolo focus sul terziario, soprattutto sul commercio e turismo.

Complessivamente, se prendiamo il settore del commercio e del turismo, essi esprimono il 32 per cento del totale delle imprese dell’Umbria, valore praticamente sovrapponibile a quello della macroarea regionale che abbiamo evidenziato prima.

Nello schema si vede chiaramente che la variazione complessiva è negativa per quanto riguarda il totale delle imprese (l’ho detto prima: -3,5 per cento), mentre abbiamo una crescita minima – ma c’è – del terziario nel suo complesso, +0,8 per cento. Per il commercio e il turismo c’è una lievissima flessione, ma sostanzialmente tengono i valori di cinque anni fa.

All’interno del mondo delle imprese ci sono anche le imprese artigiane, che hanno subito una riduzione, come numero, molto rilevante, in questi ultimi periodi. In realtà, nonostante tutto, in Umbria l’artigianato rappresenta il 26 per cento del mondo imprenditoriale. I settori principali, che si caratterizzano soprattutto per questa presenza di artigianato, sono: le costruzioni, col 72 per cento; la manifattura, con il 65 per cento e poi, a scalare, gli altri servizi alla persona, con il 60 per cento, eccetera. Per i servizi innovativi, l’alloggio e ristorazione, siamo su percentuali molto più basse.

Un brevissimo accenno alle imprese nate negli ultimi anni. Qui abbiamo fatto una fotografia di quelle iscritte nel 2012 confrontate con quelle del 2017. Innanzitutto, c’è un dato da sottolineare: c’è un calo, ma è praticamente irrilevante, siamo a -3%, specialmente se si confronta col complesso della TUM. Quindi, l’anno scorso – dati definitivi – in Umbria sono nate 5.269 imprese; di queste, 5.264 avevano meno di 9 addetti. Anche questo dà la dimensione della tendenza. Ovviamente, le imprese, quando nascono, spesso sono piccole, è difficile che nasca una grande impresa così all’improvviso; però, ovviamente, questo dà la sensazione di un fenomeno che va contestualizzato. È per questo che noi abbiamo cercato di dare importanza e valenza alla piccola impresa, perché anche numericamente è la parte preponderante.

Un brevissimo accenno all’occupazione, andiamo sul macro: a livello occupazionale, l’Umbria l’anno scorso ha fatto registrare complessivamente un saldo positivo, cioè è tornata sostanzialmente, a livello occupazionale, ai valori del 2012, quindi è sicuramente un dato positivo (qui stiamo parlando di occupati).

All’interno di questo pareggio, ci sono dei settori che fanno ancora registrare un calo:

parliamo dell’industria, con -12% e del commercio e turismo, -8%. In pratica, è

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