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Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro

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Academic year: 2022

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Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro

Prof. Giuseppe Pera*

Riassunto

L’autore esamina la problematica delle vessazioni in danno del lavoratore, valutabili negativamente ex art. 2087 c.c. e propone anche talune possibili riforme legislative.

1. In linea di principio non vi sono problemi. È scritto nella coscienza comune, nello stadio odierno della civiltà, che non sono ammissibili angherie ed inurbanità di qualsiasi tipo negli ambienti di lavoro. Per i fatti più grossi c’è il codice penale. Nel nostro ordinamento è codificato (art. 2087 cod. civ.) che l’imprenditore-datore di lavoro deve adoperarsi al massimo per la tutela della personalità morale del lavoratore. E, nel vasto corpo della contrattazione collettiva, è frequente il disposto giusta il quale grava sul lavoratore l’obbligo di un comportamento corretto e collaborativo verso quanti operino in azienda, datore di lavoro, superiori di vario livello, colleghi.1

2. Di conseguenza il problema serio è quello di esaminare quali strumenti giuridici siano utilizzabili per reagire a comportamenti devianti rispetto ai valori, rispetto a qualsiasi fatto ingiusto che possa attentare alla dignità del lavoratore. È questo il compito specifico dei giuristi, nella speranza che anche da questo convegno possa sortire qualche utile contributo. Non dimenticando, però, che il terreno decisivo è quello della sensibilità sociale, come del resto si è verificato nel recente passato per qualche pratica spregevole. Se la media delle persone non sarà più disposta a tollerare, per sé e per tutti, qualsivoglia prevaricazione lesiva della dignità. Per questo do a questa comunicazione un taglio di politica del diritto in senso lato.

3. I valori vincolano tutti. Il datore di lavoro, com’è decisivo soprattutto nelle piccole imprese e nell’artigianato. Ma anche tutti i collaboratori dell’imprenditore, capi e capetti d’ogni livello. Ed anche, reciprocamente, i colleghi di lavoro, così come, ancora vicendevolmente, uomini e donne – quale che sia il tipo sul piano sessuale.2

Ma, al di là del rapporto in senso stretto tra lavoratore ed impresa, è bene non dimenticare quale sia la spinta spontanea dal basso della prevaricazione, secondo la legge naturale del “branco”. Vi è una spinta naturale alla persecuzione del debole in senso lato, specialmente nelle situazioni che sono avvertite come di sostanziale

* Ordinario di Diritto del Lavoro Università degli Studi di Pisa, Lucca.

1 Mi permetto di rinviare alla mia annotazione a Trib. Torino, 16 novembre 1999, in RIDL 2000, 2, 102. Per un recente utile riepilogo sulla questione nei suoi vari aspetti, v. D. GALLOTTI E. CUSMAI, Mobbing, Ed. Ianua, Roma, 2001.

2 v. per le varie possibili “combinazioni” di accoppiamento, la pregevole monografia di A. PIZZOFERRATO, Molestie sessuali sul lavoro. Fattispecie giuridica e tecniche di tutela, Cedam, 2000, p. 10.

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immunità; giacché la gente è anche largamente vigliacca e si asterrebbe da certi comportamenti ove sapesse di dover incorrere quasi certamente in reazioni. Basti ricordare il fenomeno, largamente corrente nelle università fino al 1970, delle pratiche e delle estorsioni in danno alle matricole; fenomeno venuto meno per merito della contestazione (forse l’unico). Mentre resta ancora, nelle caserme, il nonnismo, con esiti talora gravissimi, spesso rimasti, per la corrente omertà, impuniti. E, forse, potrebbe ricordarsi la condizione degli allievi nei collegi e nelle scuole anglosassoni, dove c’è tutta una letteratura.3 Dico forse perché, in quelle istituzioni, le punizioni corporali erano scritte nelle tavole educative e normalmente praticate. Da noi, anche nel secolo scorso, il ‘900, la situazione era diversa. Nei collegi dei salesiani, dove io fui per alcuni anni, non v’erano punizioni corporali, ma l’esclusione dl cinema in ragione del voto in condotta e la “colonna”, cioè il dover restare impalati al muro durante la ricreazione dei colleghi (ma spesso la pena comminata non era eseguita per intero: dopo qualche tempo si veniva liberati).

4. Mi pare di un certo interesse riepilogare alcuni episodi vissuti. In casa nostra fu per molti anni un garzone, sempliciotto e laborioso, Anelito detto Nerito. Aveva fatto tutta la guerra al fronte. Tornato, nel 1919 in una prossima famiglia una bella ragazza rimase incinta e partorì all’ospedale. La madre della giovane, decisa a regolarizzare la situazione, convinse N. a sposarla in cambio di 50 lire e di un pranzo nel più rinomato ristorante della vicina città. Dopo poco il matrimonio naufragò e la ragazza si unì ad un contadino col quale convisse, con diversi figli, per decenni. Begli anni

’40, come spesso succedeva d’estate per le fienagioni, avevamo diverse “opre” e tra queste un diavoletto di donna che cominciò a dire che il duce aveva fatto una legge che obbligava tutti a riprendere la moglie legittima. N. ci credette (non aveva, del resto, imposto dalla sera alla mattina il “voi”?) e ne rimase sconvolto; talora lo si coglieva parlare dal solo smoccolando.

Una volta capitò per alcuni giorni per certi lavori altro sempliciotto, cognato del nostro ottimo mezzadro di Montecarlo. Appena giunto, disse a mio padre “padrone, non dite a nessuno che sono sposato”. Il padre ebbe l’imbeccata per uno scherzo atroce. Si accordò con una vecchia vicina che aveva una figlia zitella di mezza età. E tutte le sere il semplice veniva condotto a veglia in questa casa; talora i due “giovani”

si allontanavano per qualche incombenza, immagino che l’aspirante don Giovanni abbia fatto qualche tentativo e che la donzella matura abbia incoraggiato. Ma una sera ci fu il guaio. Comparve, austero e burbero, un tizio sedicente zio della donzella nonché, soprattutto, segretario del fascio locale: “avete compromesso la donna, dovete sposarla senza indugio”. Il poveretto non dormì e di primo mattino si abbandonò ad un pianto dirotto: “come faccio a dirlo a mia moglie e al cognato?”.

Di altro episodio fui vergognosamente responsabile quando, sul finire degli anni

’50 e nei primi del decennio successivo, ero pretore di campagna. Lavorava presso l’ufficiale giudiziario un giovane che provvedeva per le notifiche e incombenze connesse. Il padre, malato di epilessia, si era suicidato sotto il treno. Il figlio si

3 In particolare, v. G. ORWELL, E tali, tali erano le gioie, in Romanzi e saggi, Mondadori, 2000, p. 1294.

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vantava di essere un eccellente cacciatore e su questo ampiamente si scherzava.

Maturò nell’ambiente l’idea di metterlo a posto ed io mi prestai. Compilai un ordine di comparigione: imputato di omicidio colposo perché, in agro di …, nel pomeriggio del 35 febbraio 2000 e rotti, per colpa, e cioè per assoluta inesperienza venatoria, feriva, mi pare, Gesualdo Spezzafumo, cagionandone, dopo inenarrabili sofferenze, la morte. Il giovane si mise a preparare le copie dei mandati; quando giunse al “suo”

proruppe “ma questo sono io!” e cominciò a piagnucolare. Invano altri cercarono di convincerlo dell’evidente scherzo (“se il pretore ha scritto, qualcosa c’è”); dovetti intervenire e faticai a farlo ragionare. Capii amaramente la lezione.

E tante ne potrei raccontare di vicende nella magistratura di allora. Quando, ad es., in quel sistema allora ferocemente gerarchico promotivo, un collega venne per anni torturato dicendogli che lui la promozione e la poteva sognare: “sei bravo e laborioso, ma hai un fratello noto esponente comunista…”

5. Le conseguenze della persecuzione possono essere gravi. C’è ormai una nutrita letteratura, ad es. sul danno biologico, e ulteriori lumi verranno anche da questo convegno ad opera dei medici. Ma è altrettanto noto che talora la vittima è un furbo matricolato che dissimula. Tra i giuslavoristi ne ha detto in un importante saggio il Prof. Scognamiglio4 ed anche ione parlai in un articolo di pochi anni addietro5, ancora una volta facendo tesoro della mia esperienza di magistrato. Non ho mai dimenticato quanto appresi da ragazzo per episodi verificatisi nel corso della prima guerra mondiale, quando spesso il precettato faceva di tutto pur di evitare il fronte, non evitando talora la mutilazione. Si raccontava di un tizio che, la sera prima della coatta partenza, procedendo in bicicletta, era caduto rovinosamente su un mucchio di ghiaia, riportando ferite sanguinose e soprattutto perdendo la parola, che riacquistò dopo diversi anni, dopo l’armistizio; aveva avuto la forza di fare il muto per ani, anche nella cerchia più intima. Di un altro si raccontava che in caserma, nel cuore della notte, come scosso da un terribile sogno, si alzava sulla branda, urlando e farneticando, e – imbracciato il fucile – chiedeva dove fosse il nemico, così ottenendo il desiderato ricovero in manicomio.

6. Per limiti di competenza, mi astengo dall’entrare su questa tematica delle conseguenze. Mi limito a registrare l’ovvio: che tutto è demandato alla prudente valutazione del magistrato, assistito dai consulenti tecnici, e in ordine alla veridicità delle allegazioni e al preteso nesso causale rispetto all’illecito assunto come determinante. Del resto è una problematica che tormenta da sempre la giustizia penale (ora artt. 40 e 41 cod. pen.). Semmai in zona io soffro di un pregiudizio antropologico-culturale. Da studente, in occasione della preparazione dell’esame di penale, mi appassionai al tema e andai oltre lo studio delle dispense del nostro professore Arturo Santoro, leggendo diverse altre cose, in particolare la monografia di Francesco Antolisei, mi pare del 1934. Nella mia mentalità contadina ebbi una forte attrazione per la teoria estrema della conditio sine qua non: poiché tutto mi è

4 v. Danno biologico e rapp. di lav. sub., in ADL 1997, n. 5, I.

5 v. Considerazioni problematiche sul danno biologico con particolare riguardo al rapp. di lav., in GC 1998, 2, 81.

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capitato, malgrado le mie particolari condizioni, per il tuo illecito, di tutti questo tu sei responsabile. Su questo venni interrogato in occasione del concorso iniziale o del successivo esame aggiunto; fui brillante, ma il presidente mi incitò a moderare alquanto il mio entusiasmo. Ma la lettura di una recente pronuncia mi indice a ribadire l’omogeneità della problematica e a considerare, coerentemente, non trascurabili le obiezioni del commentatore.6

Ho altresì qualche dubbio sulla tesi, largamente corrente,7 giusta la quale si ritiene indispensabile la protrazione nel tempo della persecuzione, richiedendosi, ad es., un periodo minimo di osservazione di almeno sei mesi con episodi persecutori a frequenza almeno settimanale. Anche qui resto dell’idea che ogni teorizzazione assoluta sia pericolosa. Anche un singolo episodio, per la sua oggettiva gravità, tutto concedendo alla particolare emotività della vittima, può essere scatenante, largamente attingente all’immenso archivio storico della psichiatria. Fin oltre gli undici anni, la mia innocenza sul fatto generatore della vita fu assoluta, e quando venni erudito dai colleghi collegiali sghignazzanti, fu un trauma. del resto, ho letto talora di quanto può essere traumatico per un ambino l’aver colto i genitori in rapporto intimo. Prudenza, quindi.

7. Certo, è necessario che in qualche modo la vittima reagisca. Anzi, al fine di indurre la generalità ad un diverso sentire, è desiderabile che la reazione sia immediata e alquanto violenta, pur nella ristrettezza dell’ambiente di lavoro. Ed io conto soprattutto su questo, con meno fiducia sulle possibilità dubbie della macchina giudiziaria. Auspico che la vittima reagisca subito con un paio di solenni ceffoni,, generando un piccolo parapiglia, magari col risultato benefico che il tormentatore se la dia a gambe arrossendo, apprendendo la lezione una volta per tutte.

Ma qui c’è la pur frequente obiezione, almeno nel settore delle molestie sessuali, che spesso la vittima, specie se donna, è indotta piuttosto a tacere. Ma questo era probabilmente molto vero in passato, oggi m’illudo che se ne possa dubitare. Un tempo, dominando la mentalità rozzamente maschilista, la vittima si sentiva a disagio e si trovava impedita. Io ebbi da bambino un episodio del quale parlo per la prima volta oggi, sul declinare della vita. Mi portarono, non ancora decenne, dal contadino di Montecarlo e nel pomeriggio capitai nella cantina del confinante cugino di mia madre. C’era un artigiano che provvedeva alla manutenzione di una botte, una persona che mi parve molto anziana; venne verso di me e ponendomi la mano davanti, sui pantaloni, disse qualcosa di sconveniente che non ricordo; non riuscivo a capacitarmi e scappai. Del resto si è sempre sussurrato che Giacomo Matteotti abbia subìto violenza carnale dagli squadristi, ma la cosa venne messa a tacere; ne sarebbe risultato sminuito8.

Le giovani di oggi mi paiono disinibite e battagliere. Remissive? Intanto largamente mancano del “comune senso del pudore”, come si diceva un tempo, tanto che compaiono, anche in televisione, a cosce largamente scoperte e talora col petto in

6 V. Cass. 2 maggio 2000 n. 5491, in RCDL 2000, 776 con nota critica di G. TAGLIAGAMBE, Un’occasione perduta.

7 v. GALLOTTI e CUSAMI, op. cit., in diversi luoghi e in particolare a p. 18.

8 v. M. CANALI, Il delitto Matteotti, Il Mulino, 1997, pp. 43-44.

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bella mostra. Poi si consideri come parlano. E qui non faccio tesoro della mia esperienza di professore che, per dovere d’ufficio, deve stare spesso in lunga sessione per riguardare i capitoli della tesi con studenti di tutti i sessi. Perché questi rapporti sono falsi. Io sono stato sempre corretto ed essi corrispondentemente (ognuno ha gli studenti che vuole). Ma spesso, andando o tornando dal caffè alla Sapienza, taglio per i gruppuscoli e sento cosa esce da quelle bocche, col “parlar male” che un tempo era tipico nei maschi come prova di virilità. Queste donne hanno paura?

8. Il principio del rispetto della personalità morale del lavoratore posto nel 2087 cod. civ. è sufficiente a reggere tutto. Del resto, per vincere residue remore, giova ricordare che, nella stagione neoliberale, Ludovico Barassi costruì organicamente il diritto del lavoro in senso moderno, largamente attingendo al riferimento all’art. 1124 cod. civ. 1865 alla buona fede e all’equità. Ma volendo, de jure condendo, ci vuol ben poco, politicamente volendo, a far esplicito riferimento, o nel 2087 o in qualche altro luogo prossimo del codice, anche al bando delle molestie sessuali e delle persecuzioni in qualsiasi forma, rimandando poi – per lo svolgimento del principio – alle prudenti valutazioni del magistrato. E la magistratura è oggi molto sensibile, anzi, talora pare francamente eccessiva; in queste ultime settimane ho letto sui giornali di due sentenze toscane con la condanna di taluni che per mesi avevano seguito insistentemente una donna visibilmente desiderata, senza mai rivolgerle la parola; ma è la reazione istintiva del non penalista; come non detto.

9. Se l’atto ingiusto non è del datore di lavoro, ma del capo o capetto o di altro dipendente, l’impresa ha l’obbligo di procedere in via disciplinare contro il responsabile. La reazione è dovuta come, in base alla riforma del 2000 della legge 146 del 1990, per espressa previsione l’impresa esercente un servizio pubblico essenziale deve agire in via disciplinare verso chi non abbia osservato la disciplina limitativa dell’esercizio del diritto di sciopero. E al limite si può agire in giudizio contro l’impresa, quanto meno in accertamento del torto subìto e della mancata reazione dell’impresa medesima. Quale ne sia l’esito, queste azioni sono meritorie, perché il rumore che ne può derivare favorisce il mutamento della sensibilità; specie se vi si accompagni l’appoggio sindacale.9

10. Ancora de lege ferenda, non sarebbe male prevedere che il giudice possa irrogare, a carico del responsabile del fatto ingiusto, nonché dell’impresa che abbia omesso di reagire, una pena privata economica tra un minimo e un massimo, a prescindere dal danno. Anche questa previsione avrebbe valore pedagogico per l’opinione e forse potrebbe in parte attenuare la problematica del danno.

9 Rivedendo di recente il magnifico film di B. WILDER L’appartamento, m’è venuto il dubbio se il fatto di un dirigente aziendale che conquisti le grazie di una dipendente, sia con la corte sia prospettando il possibile divorzio dalla moglie, possa integrare o no il reato di truffa. Certamente di massima no, occorrendo la patrimonialità dell’ingiusto profitto (infatti la truffa è, per il codice, reato contro il patrimonio, dove si dimostra che non solo la rubrica, ma la sistematica di un codice può essere rilevante). Ma se la donna stava per sposare un nababbo? Uno stesso discorso si potrebbe fare sul piano dell’art. 2043 cod. civ.

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11. Qualche cenno, infine, sul tema delle molestie sessuali. Qui, oltre i fatti inequivocabilmente chiari, c’è la zona degli atti invece naturalisticamente equivoci. E i dubbi attengono alle stesse previsioni della 1.15.2.1996 n.66 sulla violenza sessuale.

Si pensi, innanzi agli infiniti fatti della vita, ai concetti di “violenza” o di “atto sessuale”. La questione è esplosa in ragione di recenti pronunciamenti della Cassazione, talora apparentemente contraddittori. Casi in genere spesso malamente riferiti dai giornali, talora dimenticandosi che, nel giudizio di legittimità, tutti si è risolto non tanto sul merito, quanto sul controllo sulla motivazione del giudice di merito, di guisa che, se i princìpi sono salvi, è sufficiente che vi sia stata, in una sorte di cortina fumogena, adeguata argomentazione.

Così è successo, da ultimo, per la “pacca nel sedere”. Ma come distinguere dall’innocente buffetto nella guancia, spiegabile umanamente in certi rapporti, ad es.

verso la paziente che sta soffrendo e che si vuol rincuorare? Per altro verso, proprio in ragione del nuovo essere femminile, potrebbe farsi anche un discorso di segno del tutto opposto. Non mi è facile, provo. Il gesto, qualificabile come molestia o no, è in realtà, mi si perdoni, qualcosa di intimamente spirituale in una certa fase di rapporti tra uomo e donna. Proprio nella logica del rapporto, dovrebbe avvenire quando la situazione è “matura”, quando l’autore ha la certezza che il suo gesto sarà piacevolmente raccolto. Se, al contrario, la reazione è negativa e furibonda, peggio per lui, è sicuramente molestia e va condannato; come quando si fa ex abrupto, senza aver fatto maturare con la pazienza che il certame d’amore esige. Ben gli sta.

12. Nella vita c’è sempre l’altra faccia d’ogni cosa. Una situazione di totale sradicamento dei fenomeni qui deprecati determinerà per qualche verso un clima, negli ambienti di lavoro, alquanto serioso e tedioso. Ogni discorso sarà del tipo

“Signor X, Signora Y, per favore…”, nessuna battuta né fisica né verbale, niente, per intenderci, tipo “amici miei”, il delizioso film toscanaccio di Monicelli. Un po’ come è successo, credo, a seguito dell’enfasi posta sulla pedofilia. Nel senso che la persona perbenisticamente prudente, ad ogni buon conto si terrà alla larga dai bambini, da quelle moine tradizionali che possono essere equivocate. Il mondo sarà sempre, per il bene e per il male, quale noi lo facciamo.

13. Vi sono poi in giro delle prospettazioni difficilmente accettabili circa l’ideale tipo del datore di lavoro divisato. Non ci si limita ad invocare il datore giusto e corretto, si propugna quello ognora misericordioso, sempre di manica larga. In particolare, dovrebbe essere bandita qualsivoglia “strategia” nei confronti della controparte, del datore nei confronti del lavoratore e forse anche viceversa. Ma è una concezione discutibile anche sul piano contrattuale ed anche costituzionale. Si dimentica che il rapporto di lavoro deriva dal conflitto e che ogni contratto è coessenzialmente composizione del conflitto. Qui conflitto tra l’interesse datoriale a fare lavorare seriamente al meglio e l’interesse a pagarlo al minimo possibile; e viceversa. E sul fondo c’è la garanzia costituzionale della libertà dell’iniziativa economica. Il rapporto è tra uomini – l’uno pensa dell’altro liberamente. Il datore registra ad ogni buon fine,

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per gratificare, promuovere, punire, allontanare. Il lavoratore pensa sempre, giudicando l’altro, che se trova di meglio se ne andrà. L’abuso di posizione dominante va represso. Ma non la dialettica che è nelle cose, in quel sano conflitto che è la molla del progresso nel senso dell’utile sociale.

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