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Traccia della relazione del 29 marzo 2022: La società italiana di fronte alle emergenze del XX secolo fra solidarietà e polemiche - 1917: la rotta di Caporetto.

L’evento

L’alba del 24 ottobre 1917 sul fronte orientale che nel corso della Prima guerra mondiale si era stabilizzato lungo il corso dell’Isonzo (sl.3-4) venne attuato da parte delle truppe austriache, rinforzate per l’occasione da quelle tedesche, un violento attacco preceduto da un intenso fuoco di artiglieria.

L’esercito italiano, non addestrato alla strategia difensiva, mal disposto nelle retrovie, privo di un efficace rete di collegamenti ed esausto dopo la recente offensiva sulla Bainsizza, cedette di schianto.

Il nemico, penetrando dalla valle dell’Isonzo e dalle vallate laterali (sl.5), dilagò nella pianura friulana, costringendo gli italiani ad evacuarla in tutta fretta. Le truppe in ritirata (sia quelle del fronte che quelle di retrovia), si mescolarono con la popolazione civile in una rotta disordinata che si manifestò in tutta la sua drammaticità giungendo al Tagliamento ed esercitando una pressione insostenibile sui sette ponti transitabili (sl.6 e lett.1). Il Capo di Stato maggiore Luigi Cadorna fu costretto a fissare la linea di resistenza sul fiume Piave (sl.7) dove il 9 novembre l’avanzata nemica si arrestò: si erano persi 14000 chilometri quadrati di territorio, popolati da un milione e mezzo di abitanti. Vi erano stati 12000 morti, 30000 feriti e la cifra incredibile di 300000 prigionieri (sl.8), oltre alla perdita di numerosi armamenti: la peggiore sconfitta della storia militare italiana

Il contesto

L’Italia era intervenuta nel conflitto quasi un anno dopo il suo scoppio e in un clima che non era quello di unanime entusiasmo che si era manifestato negli altri paesi durante l’agosto del 1914 (sl.10- 2). Gli anni immediatamente precedenti si erano infatti caratterizzati per un clima di profonde divisioni, già evidenziatisi nel corso della guerra di Libia, osteggiata da socialisti e parte dei cattolici, anche perché rivelatasi meno semplice del previsto (sl.13). Il partito socialista, in cui aveva prevalso in quegli anni la corrente massimalista (sl.14), aveva assunto una posizione più intransigente verso Giolitti, spingendo quest’ultimo a rafforzare l’intesa con le correnti più conservatrici del mondo cattolico (Patto Gentiloni) e puntando sul loro voto moderato in occasione delle prime elezioni a suffragio universale maschile del 1913. Nonostante il successo ottenuto (sl.15), il mancato pieno controllo delle forze liberali, spinse lo statista piemontese a cedere (nelle sue intenzioni provvisoriamente) la guida del governo al liberal-conservatore Antonio Salandra, fautore di una politica di pugno di ferro contro le forze di sinistra, come si vide nel corso della ‘settimana rossa’ del 1914 (sl.16).

Allo scoppio del conflitto l’Italia dichiarò la sua neutralità (la Triplice era un’alleanza solo difensiva), ma verso l’intervento spingevano sia le forze irredentiste, sia i nazionalisti, sia la corrente anarcosindacalista, convinta di poter trasformare la guerra esterna in rivoluzione interna, sia Mussolini, espulso dai socialisti proprio per la sua svolta bellicista (sl.17), sia, infine, gli stessi vertici del governo (Salandra e il ministro degli esteri Sonnino (sl.18)) fiduciosi che l’impegno bellico potesse contribuire a sedare i conflitti sociali. Fu in questa prospettiva che vennero avviate segretamente trattative con le potenze dell’Intesa (ma contemporaneamente anche con gli alleati della Triplice per vedere che cosa fossero disposti a cedere in cambio del mantenimento della neutralità).

L’accordo con Francia e Inghilterra fu sancito dal Patto (segreto) di Londra in cui l’Italia si impegnava a entrare nel conflitto in cambio di Trentino, Sud Tirolo, Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, oltre a meno definite prospettive di espansione (Albania e colonie africane). Per superare l’opposizione di un parlamento neutralista – oltre a socialisti e diversi cattolici lo erano i seguaci di Giolitti, convinto che la guerra avrebbe aggravato la fragilità del paese – i vertici del governo e il re sfruttarono le manifestazioni nazionaliste guidate da D’Annunzio (sl.19). Salandra con le sue dimissioni spaventò il Parlamento che, temendo i disordini di piazza, accettò di riconfermarlo al potere, dandogli di fatto carta bianca riguardo all’intervento che venne dichiarato il 23 maggio e reso operativo l’indomani.

Dopo un iniziale avanzamento delle truppe italiane a nord (Trentino) e a oriente (Friuli), anche in virtù della netta superiorità numerica, il fronte si stabilizzò, in buona part esulla cresta delle alpi e, in generale, su un terreno particolarmente arduo (sl.20), più propizio alla difesa che all’attacco. La stessa

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Strafexpedition condotta dagli austriaci nel 1916 non conseguì significativi e duraturi successi (sl.21), a conferma della superiorità della strategia difensiva su quella offensiva. Non era questa per altro la convinzione del Capo di Stato Maggiore Cadorna, rimasto alla guida delle truppe anche dopo la sostituzione nel 1916 alla guida del governo di Salandra con Boselli (sl.22). Egli intendeva infatti sfruttare la superiorità numerica delle nostre truppe con una strategia di furibondi continui attacchi (le 12 battaglie sull’Isonzo) che portarono a limitate conquiste (Gorizia nel 1916 (sl.23) e l’altopiano della Bainsizza (agosto 1917)), ma con terribili perdite umane. In particolare, la conquista della Bainsizza richiese l’impiego della quasi totalità dell’esercito che ne uscì falcidiato e stremato. In più convinse gli austriaci a chieder aiuto ai tedeschi. Per altro lo sforzo bellico stava logorando anche la popolazione civile come dimostrarono le manifestazioni contro le restrizioni alimentari (sl.24). Lo stesso Cadorna finì col rendersi conto di non poter più mantenere la disciplina nelle truppe con la sola repressione. (lett.2)

Solidarietà patriottica

Anche se non nei termini esaltati dal fascismo, Caporetto spinse indubbiamente molti italiani a sentirsi più partecipi di un conflitto che fino a quel momento avevano prevalentemente subito. Quanto meno fu difficile opporsi a una guerra che era divenuta di necessità difensiva. Si accentuò così l’odio per il nemico e si rinsaldò il sentimento di fratellanza e solidarietà a cui si rivolse per altro il re nel suo proclama. Il sovrano prese anche importanti decisioni politiche. Venne varato un nuovo governo di solidarietà nazionale, guidato da Vittorio Emanuele Orlando (sl.26) e nel corso del Convegno di Peschiera (sl.27) venne chiesto aiuto militare agli alleati che decisero di sostenere il fronte con l’invio di truppe soprattutto per mantenervi impegnate le truppe nemiche. Fu però da loro richiesta la sostituzione di Cadorna col generale Armando Diaz che introdusse significativi mutamenti nella gestione delle truppe (rotazione, licenze, vitto).

A impegnarsi nella propaganda a sostegno del paese furono numerose associazioni professionali (sl.28), mentre particolare enfasi venne posta sulla raccolta di denaro (sl.29). L’emergenza più immediata riguardava però i profughi civili, più di mezzo milione di persone che, dopo la loro caotica fuga dalle zone occupate (sl.30 e lett.3), vennero concentrate a Milano e da lì smistate in tutta la penisola. Si dovettero quindi predisporre strutture di accoglienza, inizialmente utilizzando anche l’aiuto fornito dagli alleati (sl.31) e in seguito attraverso l’istituzione di un Alto Commissariato e l’erogazione di un sussidio giornaliero.

Recriminazioni e polemiche

A innescare le polemiche– per altro inevitabili – su Caporetto fu l’iniziale tentativo di Cadorna di scaricarne la responsabilità sui soldati che si sarebbero “vilmente ritiratisi” anche perché “inquinati”

dalla propaganda pacifista. Ma l’innegabile mancata resistenza del fronte all’attacco nemico – di cui quest’ultimo fu per altro il primo a stupirsi (sl.34) – va debitamente circostanziata. Vi contribuì l’innovativa tattica dell’infiltrazione a cui le nostre truppe non erano state addestrate, la mancata predisposizione di efficienti seconde linee che avrebbero potuto ‘tamponare’ la situazione, il totale collasso della catena di comando che contribuì a creare una situazione da “si salvi chi può”, nella convinzione che la guerra fosse ormai persa (lett.4). Sullo sfondo ivi era l logoramento fisico e psicologico di truppe che nessuno aveva cercato di sostenere e motivare.

Alcune di queste conclusioni emersero già dai lavori della Commissione di indagine parlamentare che si costituì nel gennaio del 1918 e che operò fino al giugno del 1919 (sl.35). A Cadorna venne rimproverato anche di non aver colto i numerosi segnali dell’imminente attacco e al generale Capello (sl.36) di essersi ostinato in una miope strategia offensivistica, mentre il generale Badoglio, pur responsabile del mancato uso dell’artiglieria, uscì indenne dall’inchiesta. Il perdurare delle polemiche venne con l’avvento del fascismo tacitato così come il disastro di Caporetto fu di fatto rimosso.

Polemiche riguardarono anche la condizione dei profughi che, collocati in molti casi in territori lontani dalle loro case (sl.37), conobbero spesso l’ostilità delle popolazioni locali mentre, da parte loro, faticarono ad adattarsi a condizioni di vita radicalmente diverse, a conferma delle divisioni culturali che sopravvivevano nel paese. Anche dopo il ritorno dei profughi nelle loro sedi (sl.38) si svilupparono contrasti fra costoro e chi era rimasto. Questi ultimi venivano accusati di non aver

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tutelato le proprietà di chi era fuggito, accusa a cui ribattevano di essere stati loro – a differenza dei profughi – i difensori dell’italianità di quelle terre. Era il prodromo di polemiche e divisioni che il drammatico dopoguerra avrebbe ulteriormente accentuato.

Letture

1. Il caos della rotta

Lo spettacolo che offriva la strada è indescrivibile. Il raccapriccio, lo scoraggiamento provato nel vedere a che punto era arrivato lo sfacelo del nostro esercito, non saprò mai dirlo. Immaginatevi uno stradone largo circa 8 metri, lungo a perdita d’occhio, tutto gremito di carri, carrette, artiglierie, cannoni, automobili, motociclette, insomma tutti i veicoli usati oggigiorno. Immaginatevi tutti questi veicoli rovesciati o spezzati o sfasciati, ribaltati con tutti i carichi sparsi per terra, casse sventrate, fogli per tutto, interi archivi di comandi sparpagliati.

I carreggi della sanità che avevano profuso per ogni dove quantità di medicinali, di fasce, di strumenti chirurgici, tutti alla rinfusa nel fango, nei fossati a lato della strada. Carreggi della sussistenza che avevano sparso per tutto scatolette di carne, di salmone, pagnotte, farina, grano, carne, olio. Carri con le cassette degli ufficiali sventrate, spaccate, con tutte le biancherie, abiti, utensili di ogni genere disseminati. E per ogni carro il relativo mulo o cavallo morto ancora attaccato alle stanghe. Si camminava in fretta calpestando uniformi, biancheria, medicinali, carte. Tutti i rifornimenti necessari ad un'armata per potersi muovere, poter vivere, poter combattere: e gli uomini continuavano a sentire necessità di tutto.

[Luigi Merlini: Diario https://racconta.gelocal.it/la-grande-guerra/index.php?page=estratto&id=76]

2. Come mantenere la disciplina nei soldati secondo Cadorna

Deve ogni soldato esser certo di trovare, all’occorrenza, nel superiore il fratello od il padre, ma anche deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi. Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell’onore, quella che porta alla vittoria od alla morte sulle linee avversarie; ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà, inesorabile, esemplare, immediata – quella dei tribunali militari; ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra.

(Circolare n. 3525 in data 28 settembre 1915, Disciplina di guerra, Comando Supremo)

Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente i maggiori colpevoli e allorché accertamento identità personale non è possibile, rimane ai comandanti il diritto ed il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina si può sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto indeclinabile a tutti i comandanti. Come misura sussidiaria di repressione ordino che quando si verificano reati contro la disciplina, debbono senz’altro essere sospese concessioni licenze invernali a tutti indistintamente i componenti del battaglione o reparto equivalente presso cui avvennero i reati

(Telegramma circolare n. 2910 in data 1° novembre 1916 del Comando Supremo)

Gravi recenti fatti di indisciplina si sono verificati negli ultimi giorni fra le truppe. Una volta di più è stato necessario ricorrere ad una sommaria e ferrea sanzione, che non ammette esitazioni di fronte ai supremi interessi dell’Esercito e della Nazione. Oggi però non basta sopprimere i colpevoli per mantenere sana e salva la compagine dell’Esercito. La fucilazione è una dolorosa necessità, ma rappresenta solo un lato – il negativo – di tutte le misure complessive che devono essere prese per rialzare e rafforzare lo spirito del combattente.

Chi punisce con la morte, si domandi sempre, in coscienza, se tutto è stato fatto da parte sua per migliorare moralmente e materialmente le condizioni dei suoi soldati; se oltre il reprimere egli ha saputo prevenire, se egli è stato a continuo contatto con l’animo delle truppe per comprenderne le aspirazioni, i bisogni, le depressioni, il bene ed il male. […]. Non sempre i Comandanti hanno sentito l’obbligo morale, che è anche una necessità pratica, di conquistare un ascendente personale sulle truppe e di saperlo adoperare. Eppure, quotidiani esempi mostrano quanto può l’autorità, quando è sentita come missione. Dove le truppe parevano talora depresse, stanche ed inquinate da spirito di indisciplina o da teorie sovversive, è bastato un uomo di fede

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e di volontà per infondere in esse un’anima nuova, per mutarne, anche in pochi giorni, il carattere collettivo e per ridonare ad esse l’efficienza bellica infiacchita.

La guerra è lunga, metodica, logorante in quanto tende a meccanizzare anche il combattente. È necessario reagire contro il pericolo della depressione di tutti i valori essenzialmente umani del soldato, senza i quali non si combatte e non si vince. Sia questa una delle maggiori preoccupazioni dei Comandanti di Armata e da essi penetri i comandanti dipendenti, fino al battaglione, fino alla compagnia. Che nessuno sia un assente od un ignoto per le truppe, che ovunque, sulle prime linee come nelle retrovie, la volontà vigorosa dei capi sia presente ed operante. Nulla sia tralasciato dalla ricompensa al valore – più frequente per il soldato – al castigo;

dall’istruzione morale – meglio curata che non lo sia oggi – ad un riposo che non essendo ozio, sia veramente ristoratore; dalla ginnastica al giuoco; dalla licenza al sano divertimento; perché il soldato comprenda che vi è in alto chi si preoccupa di lui, che egli non è abbandonato a tutte le correnti, che egli è uomo trattato con comprensione umana.

(Circolare n. 3224 in data 20 luglio 1917, Spirito e disciplina delle truppe, Comando Supremo) 3. I profughi civili visti da un soldato

Io ho solo 19 anni, non ho istruzione, non ho mai avuto una casa mia, ma nella mia ignoranza comprendo tutto l’atroce dramma di questa gente che causa la guerra e di chi la fa fare, deve abbandonare tutto il suo avere e le proprie case e andarsene esule verso l’ignoto. Partono attaccando i buoi al carro sul quale salgono le donne, i vecchi e i bimbi e nel quale hanno messo qualche cosa da mangiare e un po’ di robe personali, gli uomini marciano a piedi alla guida dei carri, imboccano la strada maestra dove vi sono già altri che vanno con carri e altri svariati mezzi di trasporto. Marciano per uno o due chilometri, poi non si può più andare avanti, la strada è ingombrata, per proseguire bisogna staccare i carri, farli rotolare nella scarpata. Poi prelevano, da ciò che avevano caricato, le cose più necessarie e se ne fanno un fagottino per uno e seguitano marciare portandosi dietro i buoi e i cavalli, ma poi è giocoforza abbandonare anche il bestiame che se ne va per i campi. Per qualche tempo le famiglie marciano unite ma poi, nella confusione, perdono contatto, il marito perde di vista la moglie, il bimbo la madre, ecc. e così il dramma di questo terribile esodo è al completo.

[Giovanni Bussi, Forse nessuno leggerà queste parole – cit. in Antonio Gibelli, La guerra grande. Storie di gente comune]

4. L convinzione/speranza della fine della guerra

Da questa posizione del monte san Michele, abbiamo fatto la famosa ritirata, quindi tutta la Terza Armata ch'era schierata in quella zona di Gorizia, abbiamo indietreggiato senza combattere e in disordine insieme alle famiglie di vecchi e bambini che hanno dovuto abbandonare le loro case come si trovavano piene di ogni ben di Dio, mobilia, biancheria e in certe case col tavolo apparecchiato pronto per il pranzo della famiglia, soldati e gente senza scrupoli saccheggiavano e mandavano per aria tutto quello che non era di loro gusto, ma cercando sempre il meglio, la marcia era lunga e il disordine indescrivibile […].

La confusione era tanta che non si può descrivere, anche perché ad un certo momento, ecco un ufficiale a cavallo di corsa e gridando ad alta voce: ordine del Generale si salvi chi può, potete capire quale situazione ha messo su questo annunzio, la confusione si è accentuata, tanto che, il fante che ancora aveva lo zaino e il fucile buttava tutto via, l'artigliere che rientrava col suo cannone grande o piccolo lo rovesciava in cunetta e qualcuno con la fretta lo rovesciava dove si trovava ostruendo anche la carreggiata e quindi ritardando il passaggio non solo dei militari, ma in modo particolare dei poveri borghesi con le loro famiglie.

Quello ufficiale poi è risultato che era un austriaco e quindi un falso allarme.

Intanto una grande parte dei militari si davano alla pazza gioia e cantando dicevano che la guerra è finita, ma accortosi il nostro comando di questo falso allarme in quanto vedeva che i soldati rientravano disarmati e senza cannoni arrivati al fiume l'Isonzo dove un Generale in persona si è attestato nella estremità del ponte con una squadra di soldati in ginocchio e una squadra in piedi armati di fucile e mitraglia e appena vedeva un soldato rientrare disarmato senza fucile o cannone perché buttato via precedentemente, ordinava fuoco e li uccideva.

[Giovanni Arru: Diario https://racconta.gelocal.it/la-grande-guerra/index.php?page=estratto&id=45]

Per approfondire Tre saggi:

• Nicola Labanca: Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017

• Alessandro Barbero: Caporetto, Laterza, Roma-Bari, 2017

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• Daniele Ceschin: Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande guerra, Laterza, Roma-Bari, 2006

Un classico della narrativa:

• Ernest Hemingway: Addio alle armi, Mondadori, Milano, 2007

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