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Domenico Posca - La storia dei commercialisti

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Academic year: 2022

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Indice

1. L’EVOLUZIONE STORICA DELLA FIGURA DEL COMMERCIALISTA IN ITALIA DAL 1850 AGLI ANNI

2000 ... 3

2. IL PERCORSO VERSO L’UNIFICAZIONE ... 11

3. IL DLGS 139/05 ... 18

BIBLIOGRAFIA ... 19

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1. L’evoluzione storica della figura del commercialista in Italia dal 1850 agli anni 2000

Fino alla metà dell’Ottocento, nel nostro Paese non vi erano istituzioni scolastiche preposte alla formazione del personale amministrativo e contabile. Nel 1859, la legge Casati per la prima volta diede rilievo all’istruzione secondaria tecnica e professionale, ma fu solamente nel 1868 che venne fondata la prima Scuola Superiore di Commercio. Essa sorse a Venezia, con sede a Cà Foscari, e si dovette all’iniziativa dell’economista Luigi Luzzati.

Negli anni successivi furono fondate la Scuola Superiore d’applicazione di studi commerciali di Genova, nel 1884, e la Scuola Superiore di Commercio di Bari due anni dopo. Nel 1906, poi, vennero istituite la Scuola Superiore di Commercio di Torino e l’Istituto Superiore di studi commerciali di Roma. Il tratto distintivo che accomuna le Scuole Superiori di Commercio istituite in questi anni è il fatto di essere state fondate grazie alla azione congiunta delle forze economiche, politiche e culturali locali. Queste scuole, tuttavia, privilegiavano le materie applicative e, di conseguenza, non fornivano gli strumenti conoscitivi necessari per dominare una realtà economica in continua trasformazione. Un deciso punto di svolta si ebbe con la Scuola Superiore di Commercio di Trieste poiché essa prevedeva anche lo studio delle materie giuridiche, e non solo di quelle economiche, così da offrire ai propri allievi una preparazione interdisciplinare e quindi più idonea a tutelare gli interessi delle imprese che si sarebbero servite della loro consulenza.

Nel 1902 venne fondata a Milano l’Università Commerciale grazie all’iniziativa dell’imprenditore Bocconi e del segretario della Camera di commercio cittadina, Leopoldo Sabbatini. Sin dall’inizio il consiglio direttivo dell’Università Bocconi decise di portare a quattro gli anni di corso e scelse il corpo docente tra coloro che si erano maggiormente distinti in ambito scientifico e professionale.

La Bocconi fu altresì la prima ad assumere il titolo di “Università”, un titolo che, però, non trovava una effettiva corrispondenza nella realtà, né lo speciale certificato di laurea che era rilasciato al termine del corso di studi aveva valore agli effetti dei concorsi pubblici. Nel 1903 il

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governo attribuì alle Scuole Superiori di Commercio esistenti di rilasciare un diploma speciale di laurea. Tre anni dopo tale riconoscimento venne concesso anche alla Bocconi.

Un altro importante traguardo venne raggiunto nel 1913 con la riforma dell’istruzione superiore commerciale. Con tale provvedimento veniva attribuito agli Istituti Superiori di Studi Commerciali e all’Università Bocconi “grado e dignità universitaria”, intraprendendo così un processo di progressiva uniformità dell’organizzazione degli studi che si concluse nel 1924 con l’entrata in vigore del Testo Unico sull’ordinamento degli istituti superiori di scienze economiche e commerciali.

A partire dai primi anni del Novecento, una quota sempre più alta dei laureati delle Scuole Superiori di Commercio e dell’Università Bocconi, decise di affiancare le aziende in qualità di consulente esterno. Si diede così vita ad una nuova categoria professionale, quella del dottore commercialista, che nel campo della consulenza andò ad affiancare gli avvocati e i ragionieri. La presenza di più gruppi professionali nello stesso campo di servizi determinava forti tensioni.

In particolare i dottori commercialisti dovevano affrontare due grandi limitazioni, ossia l’assenza di tutela legale da parte dello Stato e il mancato riconoscimento ufficiale del titolo di studio. Questa situazione poneva i commercialisti in una condizione di inferiorità rispetto agli avvocati e ai ragionieri che erano stati disciplinati e riconosciuti rispettivamente nel 1874 e nel 1906.

Così come era avvenuto per altre professioni, in assenza di un intervento normativo da parte dello Stato furono le associazioni che riunivano i laureati delle Scuole Superiori di Commercio e dell’Università Bocconi, e i singoli professionisti a porre in essere azioni concrete: in alcune province furono costituiti i primi ordini professionali e nel 1913 vennero redatti i primi albi dei dottori in scienze economiche e commerciali liberi professionisti.

Nello stesso anno, la Camera di commercio di Milano pubblicò l’elenco di curatori fallimentari, valido per il triennio successivo, nel quale per la prima volta figuravano anche dei laureati dell’Università Bocconi. A questo punto il Collegio dei ragionieri di Milano richiese che i laureati in economia e commercio rispettassero le regole sul praticantato stabilite nel 1906 per i ragionieri liberi professionisti, e al fine di tutelare gli interessi dei ragionieri collegiati fu fatto ricorso al

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Consiglio di Stato invocando la violazione dell’articolo 24 dello Statuto Albertino. Nel settembre del 1913 il Consiglio di Stato respinse però l’istanza presentata dai ragionieri milanesi, sostenendo che

“gli studi posteriori e superiori cui si assoggettavano i laureati in scienze economiche e commerciali erano equiparabili a due anni di praticantato”.

La sentenza del Consiglio di Stato ha rappresentato nella storia della professione di dottore commercialista una tappa importante: essa diede ai laureati in scienze economiche e commerciali la consapevolezza di costituire un gruppo definito e professionalmente qualificato e favorì la costituzione della Federazione nazionale fra le associazioni dei dottori in scienze economiche e degli antichi allievi delle Scuole Superiori di Commercio. La Federazione si proponeva, come sua precipua finalità, di ottenere l’integrazione di diritti già ufficialmente acquisiti e il riconoscimento di nuovi diritti per gli associati che si dedicavano alla libera professione.

Come è facile immaginare, il rafforzamento della categoria dei dottori commercialisti inasprì la conflittualità con le altre professioni, soprattutto con i ragionieri, contrari alla creazione dell’Ordine dei dottori commercialisti, composto da soli laureati e con specifiche ed esclusive competenze stabilite per legge.

Per evitare che ciò accadesse, i ragionieri, che non riconoscevano la “diversità della professione del dottore commercialista”, proposero che i dottori in scienze economiche e commerciali venissero iscritti agli albi professionali dei ragionieri con il grado superiore di laureati posto accanto al nome. I dottori in scienze economiche e commerciali, invece, facevano leva sul grado di preparazione scolastica per enfatizzare le maggiori competenze dei laureati rispetto a quelle di cui erano in possesso i diplomati degli istituti tecnici commerciali, sostenendo che i ragionieri avrebbero dovuto occuparsi della gestione ordinaria della contabilità, mentre ai dottori commercialisti spettava di promuovere lo sviluppo dei traffici e di occuparsi delle trasformazioni bancarie, industriali, commerciali e agricole.

Nel 1924 l’ordinamento didattico degli Istituti Superiori di scienze economiche e commerciali fu oggetto di una riforma complessiva che mirava ad abbinare lo studio delle discipline tecnico-amministrative e di quelle economiche-giuridiche. Nel 1935 gli Istituti Superiori

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vennero trasformati nelle Facoltà di Economia e Commercio. L’istruzione superiore commerciale entrò così a far parte dell’ordinamento universitario. Al contempo un decreto governativo concentrò nelle mani del ministero dell’Educazione nazionale tutti i poteri decisionali in materia di istruzione superiore. Come conseguenza di questo provvedimento, con cui si poneva fine all’autonomia didattica degli Atenei, nel 1938 vennero introdotti ordinamenti didattici uguali e tassativi che le Facoltà erano tenute a rispettare.

La politica scolastica che fu portata avanti dal fascismo era incentrata sul primato della cultura umanistica. I licei preparavano agli studi superiori mentre gli istituti tecnici avevano un carattere professionalizzante. Gli sbocchi universitari per i diplomati degli istituti tecnici vennero fortemente limitati, il diploma rilasciato dall’istituto tecnico commerciale, ad esempio, dava la possibilità di accedere esclusivamente alla Facoltà di Economia e Commercio.

L’università italiana si caratterizzava, quindi, come un sistema rigido ed elitario che offriva scarse possibilità di mobilità sociale.

Alla fine del secondo conflitto mondiale cominciò ad essere percepita la necessità di adeguare l’offerta formativa alle esigenze economiche del Paese. In questa direzione si mossero i consigli delle Facoltà di Economia e Commercio che nel 1959 proposero una riforma dell’ordinamento didattico. Essa prevedeva di conservare il corso di laurea comune, a cui però far seguire un biennio di specializzazione che veniva distinto in due indirizzi, quello tecnico professionale e quello scientifico.

Nel 1969, in seguito alle proteste degli studenti, il sistema universitario italiano venne riformato, passando da un sistema scolastico chiuso ad uno completamento aperto, nel quale gli accessi non erano più sottoposti a selezione. Il risultato fu una università di massa che creava non pochi problemi in quanto gli Atenei e le Facoltà universitarie non erano attrezzate né organizzate per accogliere un così gran numero di studenti. Proprio per rispondere alle crescenti richieste provenienti dal corpo studentesco, le Facoltà attivarono nuovi corsi complementari allo scopo di permettere agli studenti di modellare il proprio percorso formativo sulla base delle proprie aspettative di carriera.

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Nel 1992 è stato introdotto, con la legge n. 206 del 17 febbraio e il successivo regolamento, l’obbligo per gli aspiranti dottori commercialisti di svolgere un periodo di pratica professionale della durata di almeno tre anni presso lo studio e sotto il controllo di un dottore commercialista iscritto all’albo. Questo provvedimento è stato adottato per innalzare lo status collettivo dei membri della professione attraverso un più elevato standard di istruzione.

Nel 1999, infine, è entrata in vigore la riforma del sistema universitario. Il Regolamento normativo sull’autonomia didattica degli Atenei ha attribuito alle Università italiane il potere di disciplinare gli ordinamenti didattici dei propri corsi di studio.

Nel clima del primo dopoguerra i dottori commercialisti ambivano ad essere i protagonisti della nuova fase di progettazione delle strutture economiche del paese, presentandosi come i professionisti più idonei alla gestione delle imprese e all’introduzione di innovazioni tecniche nel processo produttivo.

Tra il 1922 e il 1923 il gruppo professionale dei dottori commercialisti aderì al fascismo, con la speranza che venisse riconosciuto loro un ruolo attivo nel sistema economico e un peso politico maggiore.

Le istanze dei dottori commercialisti finalizzate al riconoscimento giuridico della categoria si incontrarono, almeno in parte, con la politica del governo fascista.

Nel 1924 fu approvato un decreto con cui si stabilì che le categorie professionali non ancora regolate dalla legge venissero costituite in ordine se composte da laureati e diplomati degli istituti di istruzione superiore. Contro questo provvedimento si dichiararono i ragionieri. Negli anni successivi i due gruppi professionali che agivano nel settore contabile tentarono di giungere ad un compromesso. Nel 1926, in particolare, i vertici sindacali delle due professioni si accordarono: fu deciso di istituire l’albo professionale dei commercialisti, aperto sia ai dottori in scienze economiche e commerciali e ai laureati del Corso di Laurea in Ragioneria con almeno due anni di pratica professionale, sia ai ragionieri diplomatisi prima della riforma del 1923, appartenenti al collegio e con almeno sei anni di libero esercizio professionale. Agli iscritti all’albo dei commercialisti sarebbe spettato l’esercizio pubblico ed esclusivo della professione.

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Questo accordo ratificato nel 1926 non ebbe però alcun seguito e nel 1929 furono emanati due distinti regolamenti, uno per i ragionieri e l’altro per gli esercenti in materia di economia e commercio. Per la prima volta, quindi, la professione veniva riconosciuta e disciplinata sotto il profilo giuridico. I dottori in scienze economiche e commerciali rimasero, comunque, insoddisfatti da questo provvedimento che li aveva equiparati ai ragionieri, ossia non si era tenuto conto del diverso titolo di studio, né si erano visti riconosciute competenze esclusive, generando così conflitti di interesse con le categorie professionali che agivano nel settore contabile-giuridico, i ragionieri e gli avvocati. In sostanza, nella diatriba tra i dottori in scienze economiche e commerciali e i ragionieri il governo fascista preferì mantenere un atteggiamento ambiguo per non scontentare nessuna delle categorie professionali interessate. Contemporaneamente, fu portata avanti una politica di graduale esautoramento del potere di autogoverno che aveva caratterizzato le professioni regolamentate in età liberale. Nel 1938, il sindacato fascista, e non più l’ordine o il collegio, divenne l’unico referente politico e istituzionale della categoria.

La nuova normativa sulle libere professioni che fu emanata nel 1938 stabilì, inoltre, l’obbligatorietà dell’iscrizione all’albo per l’esercizio dell’attività libero professionale. In tal modo si poneva fine alla distinzione tra la funzione pubblica e quella privata della libera professione e si tutelava il cliente con l’assicurazione che il professionista era in possesso dei fondamentali requisiti di capacità professionale.

Nel secondo dopoguerra si ebbe il ritorno alla situazione prefascista: gli ordini professionali si riappropriarono del potere di autogoverno e di disciplina sugli iscritti. Nella diatriba che ancora divideva i ragionieri dai dottori commercialisti, nel 1947 si tentò nuovamente di riunificare le due categorie in un solo organo che le rappresentasse entrambe, ma questo tentativo fallì. Si arrivò così all’emanazione nel 1953 di due nuovi e distinti regolamenti professionali.

Rispetto al regolamento del 1929, quello entrato in vigore nel 1953 introdusse la definizione ufficiale di “dottore commercialista”, previde l’obbligo del segreto professionale e attribuì al corpo professionale il potere di autoregolarsi. In base a tale potere, l’Ordine professionale rappresenta e difende gli interessi della categoria; controlla gli accessi, le qualificazioni professionali e l’etica dei

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comportamenti; vigila sul rispetto delle regole interne alla professione e punisce i trasgressori fino alla cancellazione dall’albo. Infine, il regolamento del 1953 sancì che la struttura interna del corpo professionale si fonda sul principio della partecipazione democratica degli iscritti. L’ordinamento del 1953 introdusse per la prima volta il termine “dottore commercialista”: nel regolamento del 1929 il legislatore aveva usato la denominazione di “esercente in materia di economia e commercio”. Tuttavia la terminologia utilizzata era molto confusa; infatti, nello stesso testo, venivano usati altri termini (quali, ad esempio, “dottore in economia e commercio” e “esercenti la professione in materia di economia e commercio”). Nella legge del 25 aprile 1938 veniva invece usata l’espressione “professionisti in materia di economia e commercio”. Il termine di “dottore commercialista” compare per la prima volta in un atto ufficiale nell’art. 33 della legge sulla consulenza tributaria emanata nel giugno 1936 e, successivamente, nel decreto sulla tariffa professionale del 1941. Il regolamento del 1953 attribuiva al libero professionista una “competenza tecnica nelle materie commerciali, economiche, finanziarie, tributarie e di ragioneria”, prevedeva l’obbligo del segreto professionale. Venivano altresì definite le seguenti attività che formavano l’oggetto della professione: amministrazione e liquidazione di aziende, patrimoni e di singoli beni;

perizie e consulenze tecniche; ispezioni e revisioni amministrative; verifica dei bilanci e di ogni altro documento contabile delle imprese; regolamentazione e liquidazione di avarie; funzioni di sindaco e revisore nelle società commerciali.

Ad un confronto tra i due regolamenti del 1953, non può sfuggire che, in effetti, le funzioni attribuite ai dottori commercialisti non si differenziavano sostanzialmente da quelle dei ragionieri.

Le motivazioni della mancata attribuzione di competenze esclusive addotte dalla commissione governativa incaricata di redigere l’ordinamento per le due professioni contabili sono rappresentate dal fatto che la professione del dottore commercialista non era rappresentata sull’intero territorio nazionale e dalla volontà di non ledere gli interessi dei ragionieri, “avendo le due professioni molteplici attività in comune”.

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Come è facile intuire, la mancata attribuzione di competenze esclusive perpetuò una reciproca interferenza di funzioni tra dottori commercialisti e ragionieri, consentendo che, nella materia oggetto delle due professioni, si inserissero con il tempo altre figure professionali.

La sfera di attività del dottore commercialista, infine, è stata ampliata negli ultimi anni con l’adeguamento della normativa italiana alle disposizioni della Comunità Europea. Essa, inoltre, ha sancito la libertà di circolazione delle attività professionali, aprendo così nuove prospettive di lavoro. Con il regolamento del 1953 si è sviluppata per oltre mezzo secolo la professione di dottore commercialista nel nostro paese fino al 2005, quando, come vedremo, nel rispetto dei principi e delle raccomandazioni comunitarie nel senso dell’unificazione della professione contabile in Italia che, unico caso in Europa, aveva due discipline, due percorsi di accesso, due sistemi di governo per la stessa professione.

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2. Il percorso verso l’unificazione

Il processo di unificazione non è stato semplice, nè agevole. Ricostruiamo quanto avvenuto dal ventesimo secolo, partendo dal 1926, quando, come detto, i ragionieri ed i dottori in scienze economiche e commerciali riuscirono a trovare un accordo. Come ci racconta Domenico Lamanna Di Salvo, quell’accordo rappresentava, da un lato, un compromesso tra le due diverse posizioni e, dall’altro, salvaguardava i diritti dei ragionieri già iscritti ai collegi e degli impiegati che venivano inseriti negli albi residui non potendo entrare a far parte del nuovo albo.

In pratica, all’epoca, si decise di istituire l’albo dei commercialisti, ai quali sarebbe spettato l’esercizio pubblico ed esclusivo della libera professione, comprendente i dottori in scienze economiche e commerciali; i dottori in ragioneria liberi professionisti aventi almeno due anni di pratica (ridotti a uno per i combattenti); i ragionieri diplomatisi prima della riforma dell’ordinamento scolastico del 1923, appartenenti al collegio e con almeno sei anni di libero esercizio professionale (diminuito a tre per i combattenti). Quell’albo avrebbe dovuto essere la base per emanare il regolamento della professione di commercialista, ma il progetto naufragò, in quanto, nel corso dei due anni successivi, i dottori in scienze economiche e commerciali assunsero una posizione di netta intransigenza.

Nel febbraio del 1928, il Ministro di Grazia e Giustizia Fedele, nominò una commissione ministeriale per preparare una proposta di legge sulla delimitazione del campo professionale delle due categorie. Tale commissione optò per la divisione giuridica delle due professioni e nel 1929 furono emanati due distinti regolamenti professionali, uno riferito ai soli ragionieri e l’altro riguardante gli esercenti in materia di economia e commercio. Il provvedimento costituì una tappa importante nel processo di professionalizzazione del dottore commercialista, in quanto, per la prima volta, la professione venne riconosciuta e disciplinata sotto il profilo giuridico, ma non accolse completamente le aspettative dei dottori in scienze economiche e commerciali, in quanto il titolo professionale, ossia il possesso della laurea, per questi rappresentava la

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discriminante sulla quale avevano insistito per dimostrare la diversità della propria professione.

All’albo degli esercenti in materia di economia e commercio potevano, infatti, essere iscritti non solo i laureati degli istituti superiori di scienze economiche e commerciali e delle facoltà e scuole di scienze economiche, politiche e sociali a cui spettava il titolo di “dottore in economia e commercio”, ma anche i ragionieri con sei anni di attività professionale, a riprova che già ottanta anni prima dell’unificazione il discrimine principale fosse il titolo di studio abilitante. Inoltre, notevoli perplessità suscitò l’art. 3 del regolamento, ai sensi del quale erano di competenza degli esercenti nel campo economico e commerciale gli incarichi “in materia di commercio, economia, finanza e amministrazione”. Ancora, poiché il provvedimento non attribuiva ai dottori funzioni esclusive, si generarono conflitti di interesse con le categorie affini, tanto che i dottori in scienze economiche e commerciali obiettarono che il suddetto regolamento non prevedeva alcuna sanzione contro l’esercizio abusivo della professione.

Va inoltre ricordato che l’art. 5 del più volte richiamato regolamento introdusse, fra i requisiti necessari per l’iscrizione all’albo, il superamento dell’Esame di Stato, come previsto per le altre libere professioni. Ma tale norma non fu accompagnata da disposizioni per la sua attuazione, le quali furono emanate solo nel 1932 per i laureati dall'anno accademico 1932 – 1933. Per tutti coloro che alla data del 31 dicembre 1923 avevano conseguito la laurea o comunque si trovavano all'ultimo anno di corso, la laurea costituiva, infatti, tanto il titolo accademico quanto il diploma di abilitazione professionale. I rapporti con i ragionieri continuarono ad essere altalenanti fino a quando, alla fine del 1934, le due categorie aderirono ad uno schema comune di convenzione, con cui si stabiliva che all’esercizio della professione in materia di ragioneria, commercio e finanza fossero abilitati esclusivamente gli iscritti all'albo dei professionisti in economia e commercio. L’iscrizione era subordinata al conseguimento della laurea in scienze economiche e commerciali e al superamento dell’esame di Stato, dopo un periodo di pratica di due anni. Alla professione sarebbero state riconosciute competenze esclusive sancite per legge. Con norma transitoria si sarebbe provveduto ad inserire nell’albo dei professionisti in economia e commercio i ragionieri liberi professionisti. Per l’avvenire si stabiliva che gli istituti tecnici commerciali non

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avrebbero più rilasciato il diploma di ragioniere ma di “perito commerciale”, titolo che non avrebbe permesso di accedere alla libera professione. Si arriva così al 1939, quando fu istituita una commissione governativa con l’incarico di creare un’unica categoria professionale, ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale impedì alla Commissione di portare a termine tale compito.

Nel 1944 furono creati gli ordini professionali ed il consiglio nazionale. Per la prima volta era attribuita ai dottori commercialisti la possibilità di autoregolarsi, in quanto vennero conferite ad organi interni alla categoria le competenze in materia di custodia dell’albo, di disciplina e rispetto della deontologia professionale.

Nel 1945 l’Ordine dei dottori commercialisti di Roma fece pressioni sul Ministero di Grazia e Giustizia perché venisse modificato il regolamento ancora vigente ed i dottori commercialisti iniziarono a guardare favorevolmente alla fusione fra le due categorie, consapevoli che questo era l’unico modo per ottenere dallo Stato il riconoscimento di competenze esclusive.

Il 28 maggio del 1947 iniziarono a Roma, presso la sede della Federazione dei collegi dei ragionieri, le trattative per l’unificazione delle due categorie in un solo organo, ma questo tentativo non andò a buon fine, in quanto, alla fine dello stesso anno, la Federazione nazionale dei ragionieri ritenne che le proposte di regolamento dell’ipotetico organismo unico ledevano gli interessi dei ragionieri.

Nella centenaria storia della figura del dottore commercialista c’è un leit motiv ricorrente: la costante richiesta dell’attribuzione di funzioni esclusive, che lo Stato non ha mai voluto prendere seriamente in considerazione. Come gli stessi interessati rilevavano durante le assise di categoria del 1956, l’assenza di esclusive deriva dalla mancanza di attenzione dello Stato e dalla scarsa considerazione di cui godevano i commercialisti presso il Governo. Si legge negli atti congressuali, riportati nel lavoro di Lamanna Di Salvo, come i commercialisti si considerino “declassati, più declassati delle altre categorie. E perché? Perché mentre gli ingegneri che pure sono sotto la tutela del Ministero di Giustizia sono più rispettati di noi, noi, per essere affini agli avvocati, ci tengono in un cantuccio, da parte, appositamente per non valorizzarci”.

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L’obiettivo delle c.d. esclusive poteva essere raggiunto attraverso la fusione con la categoria dei ragionieri, dando vita ad una nuova ed unica categoria professionale. Ma, purtroppo, gli interessi di parte prevalsero sul buon senso, per molti decenni ancora. Non solo sfumava per entrambe le categorie la possibilità di ricevere competenze esclusive, ma rimaneva inalterato l’attrito tra le due categorie, che, anzi, risultava essere ancor più acuito dall’entrata in vigore degli ordinamenti del 1953. La diatriba tra le due categorie professionali si era riaccesa anche a seguito della mossa dei ragionieri di utilizzare il titolo di “ragioniere commercialista” nei biglietti da visita e nelle targhe degli studi professionali. Nel 1959, al congresso nazionale dei ragionieri tenutosi a Bologna, fu approvato un ordine del giorno con il quale si affermava che

“l’uso dell’aggettivo «commercialista» è semplicemente qualificativo del contenuto dell’attività professionale dei ragionieri”, esprimendo inoltre piena solidarietà a quei professionisti della categoria che ne facevano uso. Questione nominalistica durata per oltre cinquanta anni fino a qualche anno addietro, portata avanti con veemenza nelle aule giudiziarie anche da rappresentanti istituzionali, sulla quale si è espressa la Suprema Corte, pochi mesi prima dell’emanazione del decreto istitutivo dell’Albo Unico, affermando che fino all’entrata in vigore del nuovo assetto dell’attuale ordinamento dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali, in base alla legislazione attuale e, in particolare, a quanto disposto con L. n. 173 del 2002 l’uso dell’aggettivo “commercialista” spetta esclusivamente ai dottori commercialisti. Questo rappresenta difatti parte integrante del loro titolo professionale. Conseguentemente, i ragionieri non possono aggiungerlo al loro titolo professionale, sostituendolo a quello di periti commerciali.

Tale assetto normativo non contrasta con i principi costituzionali dal momento che la diversificazione del titolo professionale corrisponde alla competenza tecnica acquisita e pertanto non è in contrasto con i principi di ragionevolezza ed eguaglianza (art. 2 e 3 Cost.), costituendone al contrario attuazione. Inoltre, sussiste conformità anche ai principi di diritto comunitario sull’idoneità professionale corrispondente alla competenza professionale posseduta, espressi oltretutto dall’art. 33, comma 5, Cost., sia perché l’inibizione dell’uso del suddetto aggettivo in aggiunta alla qualifica di ragioniere non può in alcun modo incidere sulla libertà di scelta del

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lavoro autonomo (considerato che, tanto per i dottori commercialisti, quanto per i ragionieri e periti commerciali, l’oggetto della relativa professione non pregiudica l’eventuale esercizio di ogni altra attività professionale anche se non contenuta nel non tassativo elenco ex art. 1, ult. cpv., d.P.R. n. 1068 del 1953), sia perché quella inibizione non si risolve in una prestazione imposta che violi la riserva di legge, di cui all’art. 23 Cost., dal momento che lo status professionale delle due categorie è regolato in modo diverso dalla legge stessa. La diatriba è proseguita anche dopo l’unificazione fino a quando il Consiglio nazionale non ha definitivamente chiarito il corretto utilizzo del titolo.

La tendenza all’unificazione dei due ordinamenti professionali ritorna nel 1979 in un progetto di legge-quadro comprendente le proposte di legge n. 575 e n. 956, rispettivamente per i dottori commercialisti e per i ragionieri.

Nel 1981, un’indagine del Consiglio nazionale dei ragionieri e periti commerciali ha evidenziato che la quasi totalità dei ragionieri collegiati riteneva opportuna la costituzione di un unico ordine, “data l’identicità di competenze professionali”. Invece, la maggior parte dei dottori commercialisti appariva contraria all’ipotesi di unificazione in quanto tale atto, equiparando categorie professionali simili ma pur diverse, negherebbe al dottore commercialista la superiorità del titolo di studio ed il diverso iter formativo e professionale.

Col passare del tempo, tuttavia, una parte sempre più consistente dei dottori commercialisti è diventata disposta a sostenere la proposta di unificazione a condizione, però, che la stessa si traduca, realmente, nella delimitazione di un sicuro terreno di esclusiva, al solo vantaggio delle due categorie.

Cruciale, a mio avviso, nel percorso di unificazione è stata l’assemblea dei presidenti dei dottori commercialisti, tenuta a Roma nell’aprile del 1999 che ha indicato la professione unica nell’area economico-giuridica come una delle strade per non lasciarsi cogliere impreparati dalla riforma degli Ordini. L’importanza del passaggio politico fu senza dubbio la circostanza per la quale la proposta non era stata tra i temi toccati dal presidente del Consiglio nazionale, Francesco Serao, che pure era stato un forte sostenitore dell’unificazione. La sollecitazione venne, a sorpresa,

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dalla “base”, lasciando da parte le diffidenze del passato e l’atteggiamento difensivo che aveva caratterizzato per lungo tempo la categoria di fronte a questa prospettiva. Non

solo di unirsi per contare di più, l’imperativo era lasciare l’iniziativa nelle mani del Governo:

di fronte all’orientamento di ridurre il numero degli Ordini, occorreva giocare d’anticipo, nel segno del rinnovamento. D’altra parte il Consiglio nazionale, nel 1999, aveva già precorso alcune tappe, abolendo il divieto di pubblicità e l’inderogabilità dei minimi tariffari. Lo spunto principale che mosse il Consiglio nazionale era la coerenza con la nuova architettura dei percorsi universitari, basati sulla laurea triennale e quindi sul successivo dottorato biennale (facoltativo). Le funzioni, inoltre, avrebbero dovuto riguardare attività caratterizzate da un diverso grado di rilevanza pubblica.

Era tra i dottori che occorreva superare le forti divisioni e i dissensi motivati da varie ragioni.

In primis, il differente percorso di studi. Non si poteva accettare che diplomati potessero essere equiparati ai laureati, aprendo ai primi le porte di accesso alla professione di commercialista, fino ad allora riservata ai secondi. Poi la previdenza. Il timore che l’unificazione delle professioni potesse portare all’unificazione delle due casse di previdenza di dottori e ragionieri è stato un ostacolo durissimo da superare. Alla fine, dopo un lungo dibattito, svolto anche in Parlamento si è optato nel senso di non intervenire e lasciare sopravvivere i due enti, con l’evidente anomalia di una professione unica e due casse di previdenza, delle quali, quella dei ragionieri con problemi potenziali di tenuta attuariale, atteso che, a regime, non potrà contare che sugli iscritti alla sezione B dell’Albo unico (esperti contabili), numericamente irrilevanti.

Su questo terreno si è mosso l’Esecutivo, giungendo a varare una riforma epocale, che ha posto termine all’anomalia e alla diatriba che ormai da troppo tempo ha riguardato i liberi professionisti delle due più volte richiamate categorie professionali.

Il problema, tuttavia, non è stato quello di unificare i possessori del titolo di “dottore commercialista” con chi invece si fregia dell’altro pur insigne qualifica di “ragioniere commercialista”, vedendolo come un torto nei confronti dell’una categoria, ovvero un eccessivo privilegio per l’altra. Il nodo centrale rimane la tutela delle competenze specifiche del consulente.

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Le due categorie unite potranno meglio affrontare la sfida del mercato attraverso competenza, specializzazione e professionalità con un comune obiettivo, ovverosia la tutela delle competenze e della professionalità della nobile figura del “commercialista”, nel rispetto del diverso percorso di studi svolto e nella suddivisione chiara e netta dei ruoli professionali.

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3. Il dlgs 139/05

Arriviamo così al decreto legislativo 139/05 che, in attuazione degli articoli 2, 3 e 6 della legge 24 febbraio 2005, n. 34, recante delega al Governo per l’istituzione dell’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, ha riscritto per intero l’ordinamento professionale dei commercialisti, assorbendo e disciplinando tutti gli ambiti e le materie già oggetto dei previgenti ordinamenti professionali dei ragionieri e dei dottori commercialisti. La confluenza in un unico provvedimento delle norme dei due distinti ordinamenti professionali, ha evitato il moltiplicarsi delle fonti normative, con complicati rinvii esterni, in molti casi di difficile praticabilità, tenuto conto delle sostanziali differenze tra i due vigenti ordinamenti.

In altri termini, essendo questa l’ambito oggettivo della delega legislativa attribuita al Governo, è apparso inevitabile ridelineare una disciplina organica della nuova professione contabile o delle nuove professioni contabili, atteso la scelta del legislatore di unificare due diverse - anche se collegate - figure professionali organizzandole in un unico organismo di categoria:

l’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.

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Bibliografia

• DOMENICO POSCA, Diritto e Management Del Commercialista, Ad Maiora, 2017.

• GIOVANNI SUPINO, L’evoluzione della figura del commercialista dal 1850 ai giorni nostri: Stati Uniti e Italia a confronto, 2010.

• M.CARLA DE CESARI, I commercialisti puntano all’Albo unico, Il Sole 24 ore del 9 aprile 1999.

Riferimenti

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