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1. Reati omissivi propri e impropri. 2. La funzione della clausola di equivalenza.

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Academic year: 2022

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NON CONCORSISTI

Premessi cenni sulle condizioni necessarie per l’assunzione di un obbligo di garanzia, rilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 40 comma 2 c.p., si soffermi il candidato, in particolare, sulle ipotesi di responsabilità del garante per il mancato impedimento di un reato commesso da altri.

1. Reati omissivi propri e impropri. — Come noto, le condotte penalmente rilevanti possono assumere la forma commissiva o omissiva, a seconda che consistano in un facere o in un nihil facere, ovvero che violino un divieto o un comando. Più precisamente, quella omissiva è la condotta integrata da un comportamento negativo del soggetto agente, il quale non compie l’azione che da lui ci si attende, perché impostagli da una norma giuridica.

I reati omissivi si distinguono in due categorie: propri e impropri.

Secondo la dottrina prevalente, vanno qualificati come reati omissivi propri quelli di pura condotta, che sono integrati dalla mera inosservanza dell’obbligo imposto ex lege, mentre appartengono al genus dei reati omissivi impropri quelli per il cui perfezionamento è necessario, come conseguenza dell’omissione, il verificarsi di un evento naturalistico.

È emerso, di recente, in dottrina, anche un diverso indirizzo, che privilegia un criterio essenzialmente formale, sostenendo che la fattispecie omissiva propria è quella tipizzata dal legislatore, anche come reato di evento, mentre deve definirsi impropria la fattispecie risultante dalla “conversione” — per effetto della clausola generale di equivalenza prevista dall’art. 40 comma 2 c.p. — di un reato commissivo causalmente orientato.

In ogni caso, a prescindere dall’adesione all’una o all’altra tesi, va qualificato come

“improprio” il reato omissivo di evento punito ex art. 40 comma 2 c.p.

Quest’ultima disposizione consente di sanzionare chi, con la sua condotta omissiva, cagioni un evento naturalistico — lesivo del bene giuridico protetto — di cui avrebbe dovuto impedire il verificarsi in forza di un obbligo giuridico. Ecco perché la suddetta previsione normativa viene comunemente definita — in dottrina e in giurisprudenza — “clausola di equivalenza”, che equipara la condotta attiva tipica del “cagionare” l’evento (artt. 575 e 589 c.p.) a quella atipica — non espressamente punita dalla norma incriminatrice — del “non impedire”

l’evento stesso.

2. La funzione della clausola di equivalenza. — La previsione di cui all’art. 40 comma 2 c.p. consente una estensione della tipicità, rendendo possibile l’incriminazione di condotte omissive — ex se atipiche rispetto alla fattispecie di natura commissiva — che diventano punibili in virtù della conversione operata dalla suddetta previsione. La ratio di tale meccanismo di conversione va individuata nell’esigenza di rafforzare la tutela di determinati beni, per l’incapacità, totale o parziale, dei titolari di proteggerli, sanzionando penalmente il mancato intervento di coloro che sono tenuti, in forza di un obbligo giuridico di garanzia, ad evitare la produzione di eventi lesivi. È, dunque, l’obbligo giuridico di garanzia che permette di individuare sia i beni bisognosi di una tutela rafforzata sia i soggetti tenuti a salvaguardarli attraverso una condotta idonea ad impedire l’evento lesivo, che può concretamente manifestarsi nella forma del danno o anche della messa in pericolo.

In sostanza, l’omissione assume la stessa rilevanza penale dell’azione solo quando il mancato impedimento dell’evento si traduce nella violazione dell’obbligo giuridico che imponeva la condotta salvifica.

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Dal tenore letterale della norma si evince che la regola di equivalenza non può applicarsi in modo indiscriminato, ma opera solo in relazione ai reati di “evento” causalmente orientati, ossia quelli a forma libera, volti ad incriminare la realizzazione di un evento lesivo — come accade, ad esempio, per l’omicidio (artt. 575 e 589 c.p.) — indipendentemente dalle modalità di produzione dello stesso. Si tratta, quindi, di reati il cui disvalore è incentrato sulla causazione — e non anche sulle modalità di causazione — dell’evento.

Da ciò consegue che non sono suscettibili di conversione nella corrispondente fattispecie omissiva, ex art. 40 comma 2 c.p., i reati di pura condotta e quelli a forma vincolata — come, ad esempio, la rapina o l’estorsione (artt. 628 e 629 c.p.) — che incriminano condotte realizzabili necessariamente in forma attiva.

Va segnalata, tuttavia, la tendenza giurisprudenziale — nei casi in cui non può operare la clausola di equivalenza — ad ampliare l’area della tipicità della fattispecie a forma vincolata, includendovi anche condotte meramente omissive. È il caso, ad esempio, della cosiddetta

“truffa contrattuale”, configurabile anche quando uno dei contraenti — in violazione dei principi di correttezza e di buona fede desumibili dagli artt. 1337 e 1338 c.c. — omette di riferire all’altro contraente circostanze che avrebbe dovuto comunicare e che si rivelano determinanti ai fini della stipula dell’accordo. In tali ipotesi, il “silenzio malizioso” viene considerato una forma di “raggiro”, idoneo ad integrare la condotta tipica di un reato a forma vincolata come la truffa.

3. Le fonti dell’obbligo giuridico di impedire l’evento: le concezioni elaborate dalla dottrina. — Affinché si realizzi l’equivalenza tra “azione” e “omissione” è necessario — come si legge nell’art. 40 comma 2 c.p. — che l’agente sia gravato da un “obbligo giuridico”

di impedire l’evento (c.d. “obbligo di garanzia”).

La laconicità della previsione di cui all’art. 40 comma 2 c.p. finisce per rimette interamente all’interprete l’individuazione delle fonti dell’obbligo di garanzia e dei criteri per selezionare i casi in cui si possa ritenere sussistente una responsabilità omissiva per mancato impedimento dell’evento lesivo.

A tali interrogativi la dottrina ha dato risposte diverse, elaborando la teoria formale e quella sostanzialistico-funzionale, per poi raggiungere un punto di sintesi con la c.d. “concezione mista”.

La teoria formale, muovendo dal postulato dell’eccezionalità della responsabilità omissiva, esige l’espressa previsione dell’obbligo in fonti formali: la legge (penale ed extrapenale), il contratto (che ha forza di legge tra le parti ex art. 1372 c.c.), la consuetudine (anch’essa inclusa tra le fonti del diritto), la negotiorum gestio (vincolante ai sensi dell’art. 2028 c.c.) e lo svolgimento di un’attività pericolosa (da cui scaturisce l’obbligo di non danneggiare gli altri, in ragione del generale principio del neminem laedere).

Il merito di tale teoria è quello di rimarcare l’esigenza un’applicazione dell’art. 40 comma 2 c.p. aderente al principio di legalità e, in particolare, al corollario della riserva di legge.

La concezione formale è stata criticata da quella parte della dottrina che ritiene la mera previsione formale dell’obbligo, in alcuni casi, inidonea a fondare la responsabilità omissiva ex art. 40 comma 2 c.p. In quest’ottica, si è evidenziato, ad esempio, che l’invalidità del contratto traslativo o costitutivo dell’obbligo di garanzia — secondo la teoria formale — precluderebbe l’affermazione di responsabilità del garante, anche a fronte di un’effettiva presa in carico del bene da custodire o della persona da tutelare e dell'ingenerato affidamento nell’altro contraente. Viceversa, nei casi di contratto valido, il garante dovrebbe essere obbligato — e sanzionato penalmente — sin dalla stipula dell’accordo, anche se non ha, poi, dato esecuzione al contratto, prendendo in carico il bene da custodire o la persona da tutelare

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(classico è l’esempio della bambinaia che conclude l’accordo con i genitori per occuparsi del loro bambino, ma la sera prestabilita non si presenta sul luogo di lavoro e, quindi, non prende in carico il minore).

Inoltre, agli oppositori della concezione formale, appariva contraddittorio considerare fonte dell’obbligo di garanzia la “precedente attività pericolosa”, posto che nessuna norma giuridica prevede, in questi casi, l’obbligo di impedire l'evento lesivo, ma il legislatore detta le norme cautelari da osservare nell’esercizio di tali attività.

Preso atto della inadeguatezza della teoria formale, parte della dottrina ha elaborato la teoria contenutistico-funzionale, che valorizza — all’opposto — l’assunzione di fatto di una posizione di garanzia, a prescindere dalla previsione normativa del relativo obbligo. In altri termini, se una persona è incapace di proteggere autonomamente la propria vita e la propria incolumità, chi ha la possibilità, in concreto, di preservarla dai pericoli che la minacciano, è obbligato a farlo. Tale concezione fa discendere, quindi, l'obbligo impeditivo non solo da fonti formali, ma anche da situazioni di fatto che pongono il garante nelle condizioni di poter tutelare il soggetto incapace di provvedere a se stesso (ad esempio, l’obbligo di impedire la morte del bambino, che grava non solo sui genitori, ma anche, eventualmente, sulla zia convivente).

Sebbene tale ricostruzione abbia il merito di consentire una effettiva selezione degli obblighi impeditivi, essa è stata comunque criticata per la pretesa di configurare la responsabilità omissiva anche in assenza di norme giuridiche che impongano di attivarsi per impedire l'evento lesivo.

Con funzione di sintesi tra la teoria formale e quella funzionale, la concezione mista — attualmente prevalente in dottrina — seleziona gli obblighi impeditivi sulla base dei due criteri: la previsione formale dell'obbligo di agire e l’accertamento, in concreto, della sua funzione di garanzia.

Anche la giurisprudenza di legittimità aderisce alla concezione mista, sia pur previlegiando l’assunzione di fatto della posizione di garanzia, che viene formalmente ricondotta al contratto tacito, al consenso implicito, oppure ai rapporti obbligatori derivanti da contatto sociale, il cui fondamento normativo viene individuato nell’art. 1173 c.c.

4. La finalità della posizione di garanzia: gli obblighi di protezione e di controllo. — Le posizioni di garanzia — giuridicamente rilevanti ai fini dell’applicazione della clausola di equivalenza di cui all’art. 40 comma 2 c.p. — si distinguono, in ragione della loro finalità, in obblighi di protezione e di controllo.

Le posizioni di protezione hanno lo scopo di preservare beni giuridici determinati dai pericoli che possono minacciarne l’integrità, indipendentemente dalla fonte dalla quale derivano tali pericoli. Si pensi, ad esempio, all’obbligo che grava sui genitori — ai sensi dell’art. 30 Cost.

e dell’art. 147 c.c. — di tutelare i figli minori da ogni possibile fonte di pericolo per i loro beni fondamentali (vita, incolumità, libertà personale e sessuale). Nell’ambito dei rapporti familiari rientra anche l’obbligo di protezione che grava sui coniugi, in forza dell’art. 143 c.c., che impone loro il dovere di assistenza reciproca. Alla famiglia legittima o naturale va equiparato, sotto il profilo qui esaminato, il rapporto di convivenza more uxorio, in cui il carattere giuridico dell’obbligo di protezione nasce dal concreto snodarsi del rapporto di fatto.

Le posizioni di garanzia che si estrinsecano in obblighi di controllo hanno ad oggetto la neutralizzazione di fonti di pericolo, per garantire l’integrità di tutti i beni che possono essere minacciati da tali fonti. I pericoli da prevenire sono sia quelli generati da forze della natura, sia quelli connessi allo svolgimento di attività umane. Le fonti delle posizioni di controllo sono costituite da norme che attribuiscono a determinati soggetti il potere di monitorare

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situazioni potenzialmente pericolose, per evitare il verificarsi di eventi dannosi. Gli obblighi di controllo scaturiscono, però, anche da rapporti di educazione, istruzione, lavoro, cura e custodia, come nel caso del minore e dell’infermo di mente, i quali, non avendo la capacità autogovernarsi, possono costituire essi stessi fonte di pericolo per gli altri.

L’obbligo di protezione o di controllo, nella generalità dei casi, può essere trasferito dal titolare ad altro soggetto, che assume la posizione di garante secondario. La dottrina suddivide, infatti, le posizioni di garanzia — siano esse di controllo o di garanzia — in originarie e derivate.

All’obbligato originario spetta la scelta del soggetto al quale trasferire la propria posizione di garanzia e, laddove conservi un potere di vigilanza sul bene o sulla persona garantita, potrà comunque essere chiamato a rispondere degli eventi pericolosi o dannosi che dovessero derivare dall’eventuale omissione del garante secondario, così come sarà responsabile, eventualmente, per la scelta di un garante secondario non idoneo.

5. La responsabilità derivante dalla violazione dell’obbligo di impedire ad altri la commissione di reati. — È opinione largamente diffusa che, nel concetto di “evento”, richiamato dall’art. 40 comma 2 c.p., rientri anche il reato commesso da altri. Da ciò consegue che, per effetto dell’inadempimento dell’obbligo giuridico di impedire l’altrui condotta illecita, il garante è chiamato a rispondere del reato che non ha impedito.

Si tratta, nella generalità dei casi, di una corresponsabilità del garante a titolo di concorso nel reato non impedito (artt. 110 e 113 c.p.), ma non si può escludere l’eventualità che si configuri

— sempre a carico del garante — una responsabilità autonoma, come accade, ad esempio, quando il genitore non eviti, per colpa, l’omicidio volontario del figlio minore. In tale ipotesi, non potendosi configurare — almeno secondo il più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità — un concorso colposo nel delitto doloso, si profila una responsabilità autonoma del genitore ex art. 589 c.p. (reato di evento a forma libera), indipendentemente dalla punibilità, ai sensi dell’art. 575 c.p., dell’autore dell’omicidio volontario del minore.

D’altra parte, fattispecie che configurano una responsabilità autonoma del garante per l’omesso impedimento di reati altrui sono espressamente previste dagli artt. 57 e 57-bis c.p., in relazione al delitto di diffamazione a mezzo stampa, e dall’art. 30 della legge n. 223 del 1990, che punisce l’omesso controllo del concessionario di trasmissioni radiofoniche e televisive.

Al di là di tali ipotesi particolari, l’applicazione dell’art. 40 comma 2 c.p., in combinato disposto con l’art. 110 o con l’art. 113 c.p., consente di configurare il concorso del garante, mediante omissione, nel reato commesso da altri.

Bisogna, tuttavia, verificare quali sono i presupposti affinché possa delinearsi tale forma di responsabilità concorsuale.

A tal fine, occorre, innanzitutto, che l’omissione del garante abbia quantomeno agevolato la commissione del reato, poiché si finirebbe per punire, altrimenti, una condotta priva di qualsivoglia incidenza causale rispetto alla realizzazione della fattispecie plurisoggettiva. È necessario, inoltre, che sul garante incomba l’obbligo di impedire — o almeno di rendere più difficile — la consumazione di reati altrui del tipo di quello effettivamente commesso.

Il garante, di regola, non ha la possibilità materiale di precludere al reo la realizzazione dell’illecito, ma il suo obbligo impeditivo deve ritenersi adempiuto — con la conseguente esclusione della responsabilità concorsuale — anche con la mera denuncia del reato, che è iniziativa comunque idonea ad evitare la protrazione della condotta criminosa, se ancora in atto, oppure a favorire la punizione del colpevole.

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6. La differenza tra omissione penalmente rilevante e mera connivenza. — Occorre anche soffermarsi sulla differenza tra il concorso mediante omissione nel reato commissivo e la mera connivenza, che si identifica nel comportamento di chi assiste passivamente alla realizzazione di un reato, senza intervenire, non avendo alcun obbligo giuridico di impedirne la commissione.

In generale, sui consociati — se non sono titolari di una specifica posizione di garanzia — non incombe un obbligo giuridico di impedire la commissione di reati e, quindi, a loro carico, non può configurarsi alcuna responsabilità penale nel caso in cui rimangano inerti di fronte alla realizzazione di un illecito penale. Tuttavia, allorquando taluno sia presente sul locus commissi delicti all’atto della consumazione del reato, la distinzione tra concorso omissivo e mera connivenza non risulta sempre agevole, dovendosi stabilire se tale presenza, pur se apparentemente passiva, abbia comunque inciso — anche in termini di semplice rafforzamento dell’altrui proposito criminoso — sulla determinazione dell’autore della condotta illecita.

Al riguardo, la giurisprudenza — dopo aver inizialmente assunto un atteggiamento piuttosto rigoroso — ha chiarito che la presenza meramente passiva sulla scena del crimine non è punibile e l’atteggiamento rafforzativo dell’altrui proposito criminoso — insieme ad un’adesione psicologica al fatto — deve necessariamente estrinsecarsi in un comportamento esteriore che tradisca la volontà di partecipare alla commissione del reato. In altri termini, occorre accertare che vi sia stato un contributo effettivo alla realizzazione dell’illecito, la cui rilevanza deve potersi apprezzare oggettivamente e non solo essere ipotizzata sul piano psicologico, in ragione della mera presenza sul locus commissi delicti e della consapevolezza della condotta criminosa in itinere.

7. La peculiare posizione degli appartenenti alle forze dell’ordine. — Il dovere di impedire la commissione di reati rientra tra i compiti istituzionali degli appartenenti alle forze dell’ordine, così come si evince dagli artt. 1 TULPS (testo unico di pubblica sicurezza) e 55 c.p.p.

Da qui, la configurabilità, in capo ad ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, dell’obbligo giuridico di evitare azioni illecite altrui, con la conseguente possibilità di ipotizzare una responsabilità concorsuale — ai sensi degli artt. 40 comma 2 e 110 c.p. — nei confronti di chi resta volutamente inerte di fronte alla consumazione di un reato.

La giurisprudenza condivide pacificamente tale soluzione ermeneutica, mentre una parte (minoritaria) della dottrina sostiene, in senso contrario, che il dovere di impedimento dei reati gravante sui rappresentanti delle forze dell’ordine sia eccessivamente generico e, quindi, in contrasto con il principio di determinatezza.

Difendere tutti i cittadini da tutti i reati è un onere insostenibile, sicché può ipotizzarsi una responsabilità omissiva del rappresentante delle forze dell’ordine solo se gli viene affidato un compito specifico, come il servizio di scorta, la vigilanza ad una sede militare oppure il controllo della sicurezza in occasione di una manifestazione pubblica. Se non è chiamato a svolgere un compito specifico, l’appartenente alle forze dell’ordine può rispondere, per la sua colpevole inerzia, dei reati di omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) oppure, se ne ricorrono i presupposti, di abuso di ufficio (art. 323 c.p.).

In senso opposto, è, tuttavia, orientata la dottrina prevalente, che non ritiene necessaria l’assegnazione di un compito specifico all’operatore di polizia per poter configurare, nei suoi confronti, una responsabilità omissiva ex art. 40 comma 2 c.p.

Del resto, ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dispongono sempre di poteri coercitivi idonei ad impedire la commissione di reati.

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Tuttavia, l’obbligo giuridico di intervenire può concretizzarsi solo se ricorre uno dei seguenti presupposti: assunzione di un compito specifico di protezione (scorta, vigilanza, controllo);

acquisizione della notizia relativa alla commissione di un reato; presenza sul locus commissi delicti e inerzia volontaria — nonostante la possibilità di agire — durante la commissione del reato.

Quanto ai poteri impeditivi, deve ritenersi sufficiente ad escludere la responsabilità concorsuale dell’operatore di polizia anche la mera denuncia dell’illecito, salva la necessità di procedere all’arresto del soggetto agente o al sequestro del corpo del reato, qualora ne ricorrano i presupposti.

Se, poi, l’ufficiale o l’agente di polizia giudiziaria non denuncia il reato a condotta già esaurita, si configura, a suo carico, l’ipotesi di favoreggiamento personale ex art. 378 c.p.

Laddove, infine, l’operante tenga addirittura un contegno rafforzativo dell’altrui proposito criminoso — come, ad esempio, l’allontanamento intenzionale dal locus commissi delicti per dare sicurezza al reo — si profila un suo concorso commissivo nel delitto e non una responsabilità omissiva ex art. 40 comma 2 c.p.

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