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Il Mestiere delle Armi

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Academic year: 2022

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Il Mestiere delle Armi

written by Francesco Linari | 3 Ottobre 2008

Il maestro Ermanno Olmi ci offre in quest’opera un’accurata e toccante ricostruzione degli ultimi sei giorni di vita di Giovanni dé Medici, detto

“delle Bande Nere”, l’ultimo dei grandi capitani di ventura italiani.

Novembre 1526: da alcuni mesi il re di Francia Francesco I e il Papa Clemente VII, insieme a Venezia e Firenze, hanno costituito la Lega di Cognac, una nuova alleanza anti- asburgica, con l’obiettivo di porre fine alla preponderanza di spagnoli e imperiali sulla scena italiana dopo l’umiliante (per Parigi) pace di Madrid. Ma di fronte alla reazione di Carlo V e alla discesa sulla penisola di un’armata di 18 mila mercenari lanzichenecchi, per lo più luterani, decisi a calare su Roma e a punire il Papa per il voltafaccia, solo un contingente di poche centinaia di cavalleggeri mal pagati, comandati dal giovane Medici, tenta di ostacolare il loro cammino.

Giovanni delle Bande Nere ha 28 anni, ma è già un condottiero esperto ed estremamente abile nella tattica militare, oltre che un guerriero valoroso. Conscio della schiacciante superiorità della fanteria tedesca del Frundsberg, priva di artiglieria, ma temuta per l’alto grado di disciplina dei suoi soldati oltre che per il numero, egli decide di inseguirla e attaccarla incessantemente lungo il suo cammino verso Roma, anche di notte, concordando col Della Rovere, comandante del grosso dell’esercito pontificio, la rinuncia alla battaglia campale.

L’azione del condottiero italiano è efficace e procura non pochi problemi al Frundsberg, mentre i suoi uomini si

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apprestano ad attraversare il Po nei pressi di Mantova, ma Giovanni, oltre che con la grande disparità di forze, deve f a r e i c o n t i c o n g l i i n g a n n i , l e c o n v e n i e n z e , i doppiogiochismi della politica. Dopo aver perso il contatto con i lanzichenecchi a causa del tradimento di Federico Gonzaga, che concede loro il passaggio notturno dalla porta fortificata di Curtatone e lo nega ai suoi uomini, il giovane condottiero riesce finalmente ad intercettare l’armata nemica vicino Borgoforte, sulle rive del fiume, e qui attacca battaglia. Ma è un altro tradimento a determinare la sconfitta dei cavalleggeri pontifici, e, con essa, la sorte stessa del loro giovane capitano.

Egli è colpito alla gamba da una palla di falconetto, uno dei tre moderni pezzi di artiglieria che Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, ha appena segretamente consegnato al Frundsberg, dopo averli rifiutati proprio a lui. Trasportato a Mantova, a casa dell’amico Loyso Gonzaga, muore di cancrena, nonostante gli venga amputata la gamba destra, l’ultimo giorno di novembre dell’anno 1526. La primavera successiva l’armata imperiale giunge a Roma e la saccheggia brutalmente.

“Il mestiere delle armi” è un mirabile affresco rappresentante la fine di un’epoca e di un modo di fare la guerra. Il medioevo si è concluso da più di trent’anni: non è più il tempo dei nobili cavalieri, dei duelli a singolar tenzone, che Giovanni ricorda malinconicamente durante le sofferenze negli

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ultimi giorni di vita nel letto di Mantova; è ormai l’era degli stati nazionali, della fanteria che riacquista la superiorità sulla cavalleria persa nei secoli precedenti, del denaro che serve ad equipaggiare gli eserciti con armi moderne e potenti, che sempre meno spazio lasciano al valore individuale dei guerrieri coraggiosi e impavidi come l’eroe mediceo.

Non a caso, la regia di Olmi insiste notevolmente con prolungati primi piani su due oggetti considerati in contrapposizione l’uno con l’altro: la maestosa armatura da cavaliere, osservata con rispetto riverenziale dall’occhio della macchina da presa, e il falconetto, il pezzo di artiglieria che sarà letale per il giovane condottiero italiano. E’ esemplare la scena, estremamente evocativa, nella quale i soldati usano proprio un’armatura come bersaglio per le prove di tiro con il cannone. Il colpo di falconetto che causerà la morte di Giovanni delle Bande Nere è uno dei primi casi in cui l’artiglieria viene usata contro un bersaglio mobile, invece che contro fortificazioni stabili.

Tale evento causerà un certo scalpore tra i principi europei, tanto che alla fine del film è riferito come questi abbiano, successivamente ad esso, sottoscritto un appello perché armi così potenti non venissero più usate contro soldati in carne ed ossa. Viene lasciato allo spettatore il compito di giudicare se gli stessi principi abbiano poi rispettato tale appello.

Con la morte di Giovanni dé Medici si apre e si chiude il film. L’agonia dei suoi ultimi giorni è il momento più drammatico e toccante dell’opera, ed Ermanno Olmi lo fotografa alla perfezione grazie a una sapiente combinazione di colonna sonora, primi piani del sofferente condottiero e immagini dei dipinti sui quali si posano gli occhi del giovane, che, nel momento culminante della sua agonia, ricorda malinconicamente una passata passione amorosa per una nobildonna mantovana. Il regista alterna sapientemente immagini di sesso e sofferenza,

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pone di fronte l’amore alla morte stessa che sta per arrivare.

Tale scena ricca di pathos è la denuncia di un’ingiustizia, quella per cui la giovinezza e la vita stessa vengono strappate via a un valoroso soldato ancora nel fiore degli anni. Certamente molto bravo è il giovane attore che interpreta Giovanni, il bulgaro e semisconosciuto Hristo Jivkov, capace di comunicare allo spettatore la grande drammaticità della scena.

Il dramma della guerra, comunque, non è solo nella morte del protagonista. Il regista rinuncia al sangue nelle scene di battaglia, che nel film quasi non si vede, se si esclude quello della ferita alla gamba di Giovanni dé Medici, ma rappresenta la tragedia che la guerra porta con se attraverso le immagini di luoghi distrutti, di donne e bambini affamati e infreddoliti nell’autunno della Pianura Padana, di soldati stanchi e mal pagati costretti a frequenti spostamenti anche notturni tra nebbia e paludi.

Il film è anche un atto di accusa nei confronti della politica, delle sue ambiguità e dei suoi tradimenti, che condizionano e ostacolano le azioni di Giovanni, come ci annuncia nell’incipit il suo fedele scudiero. I duchi di Ferrara e Mantova, per interesse particolare o per timore dell’armata imperiale vengono in aiuto del Frundsberg, cui concedono preziosi pezzi di artiglieria o il passaggio notturno attraverso una porta fortificata, negando invece gli stessi aiuti ai cavalleggeri pontifici. E’ lo specchio di un’Italia divisa tra principi e duchi il cui unico orizzonte è il confine del proprio territorio, incapaci di far fronte comune contro le invasioni straniere e men che mai di concepire un qualche disegno in grado di rimediare alla inesorabile decadenza politica della penisola avviata alla fine del secolo precedente.

Infine una menzione particolare va fatta per lo stile della narrazione, i dialoghi, i costumi, la fotografia e la scenografia. Un grande lavoro è stato svolto da parte di

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scenografi costumisti e dal direttore della fotografia Fabio Olmi, fratello del regista, per ricreare nel modo migliore possibile l’ambientazione rinascimentale del film. Fa un certo effetto guardare un film in una lingua che non è l’italiano odierno, ma quello del 1500, con tanto di inflessioni ed espressioni dialettali tipiche dell’Italia settentrionale. La scelta è in ogni modo azzeccata e, sebbene i dialoghi non siano sempre facilmente comprensibili, conferisce all’opera un’impronta maggiormente realistica.

In alcune parti il film è accompagnato dalla narrazione della voce fuori campo di Pietro Aretino, scrittore e amico di G i o v a n n i d e l l e B a n d e N e r e , m a , saltuariamente, anche altri personaggi

raccontano la storia rivolgendosi direttamente allo spettatore. Di alto livello sono anche la fotografia, la scenografia e i costumi. In particolare risaltano le scene in campo ampio realizzate nella pianura padana, sia di giorno che di notte, e quella, assomigliante ad un vero e proprio quadro rinascimentale, in cui il duca Gonzaga con la sua corte assiste all’interno del suo palazzo ad uno spettacolo musicale.

“Il mestiere delle armi” è un grande esempio di film storico, una rarità per il cinema italiano degli ultimi anni.

Presentato al Festival di Cannes del 2001, non ha avuto grande fortuna in tale kermesse, ma l’anno successivo Ermanno Olmi si è preso largamente la rivincita totalizzando ben 9 David di Donatello, tra i quali i premi per miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura, oltre che per produzione, scenografia, costumi, montaggio, colonna sonora e fotografia.

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