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L’«ALCESTI» DI GIOVANNI RABONIRiflessione di un regista

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Academic year: 2021

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«I quattro personaggi entrano o sono appena entrati nel Teatro».

La prima indicazione di regia di Giovanni Raboni per la sua Alcesti o La recita del- l’esilio è chiara ed eloquente ma pericolosamente fuorviante. Si parla di quattro perso- naggi (e subito vengono in mente i sei pirandelliani) che entrano, come appunto quei sei, «nel Teatro». Ma appena evocata la somiglianza ecco affiorare le differenze. I per- sonaggi dell’«Alcesti» di Raboni non entrano in un teatro in cui si sta allestendo uno spettacolo, ma «nel Teatro», dove l’articolo determinativo e la designazione maiuscola paiono indicare un luogo più astratto che concreto, un luogo dell’anima o della mente.

Inoltre, tre di loro non sono in cerca di un autore o di un capocomico disponibile a com- pletare lo stato di abbozzo in cui sono stati abbandonati, bensì in fuga. Ma da chi, da che cosa? Il testo non tarda molto a dircelo. I tre fuggono dal loro paese perché la situa- zione politica si è fatta per loro intollerabile (si parla di «persecuzione», di «rischio mortale / che incombe sulle nostre teste», di «arrivo di qualche pattuglia / d’imberbi miliziani / con i mitra spianati...»); inoltre il Teatro, il luogo in cui si sono rifugiati, non è che una tappa, una sosta, in attesa che si crei la situazione propizia all’espatrio, all’ab- bandono dell’Heimat fattasi ostile e mortale.

A Sara, moglie di Stefano e nuora di Simone, quel luogo in cui involontariamente è piombata, è ben noto: è un’attrice e, anche se costretta dalla nuova situazione politica a sospendere la sua professione, sa bene cos’è il Teatro; ma non solo: proprio in quel tea- tro ha debuttato come nutrice nell’Alcesti di Euripide. I suoi ricordi, i suoi rimpianti, la sua riflessione sull’essenza dell’arte scenica vengono così a intrecciarsi con le paure, le angosce e le speranze che lei insieme agli altri due suoi compagni (il marito e il suocero amato in maniera diversa ma altrettanto forte) è costretta a vivere e ad affrontare.

La situazione drammaturgica fin qui descritta precipita ben presto in un’altra ben più problematica e drammatica: i tre vengono a sapere che nella fuga che li porterà lon- tano dalla loro «patria» ostile c’è posto solo per due: uno dovrà restare, il che non signi- fica altro che dovrà morire.

Di fronte a questa prospettiva i tre reagiscono in modo diverso: il padre (e suoce- ro) dichiara di non voler rinunciare – in nome della sua paternità e della sua vecchiaia – alla vita (Raboni riprende qui il nocciolo della tragedia euripidea) e il figlio fa lo stes- so in nome del suo essere figlio e giovane. Sara sta ad ascoltare: non vuole perdere nes- suno dei due e così, alla fine, propone una soluzione inaudita: «non c’è che una cosa da fare: / restare tutti qui». E poi: «È qui, ne sono certa, / qui dove ho ritrovato / la mia pas- sione di una volta, / qui dove non c’è ronda di assassini / che possa scovarci, dove nes- suno, / neanche Thanatos in persona, / potrà separarmi da voi, / è qui che dobbiamo restare!».

CESARE LIEVI

L’«ALCESTI» DI GIOVANNI RABONI

Riflessione di un regista

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L’«ALCESTI» DI GIOVANNI RABONI

A questo proposito il marito e il suocero reagiscono in modo unanime: è un’uto- pia, una follia, una sciocchezza – dicono – e unanimemente decidono di affidarsi al caso: come nella roulette russa, una pistola, puntata su un barattolo, deciderà chi deve partire o restare. Ma mentre i due discutono e decidono il da farsi, Sara scompare; e quando il custode del teatro – quella presenza misteriosa che li ha portati lì e che ha in mano il loro destino – appare e annuncia che il camion che li porterà alla nave della sal- vezza è arrivato – ecco che il loro affannarsi e discutere si risolve in nulla: gli unici due posti disponibili sono per loro, Sara non c’è più. In modo assai sbrigativo i due accet- tano la nuova situazione. Il loro egoismo, la loro sete di vita vince ogni indugio. Ma che ne è di Sara? Il custode non tarda a dircelo: «Ah, a proposito, quasi / me ne dimentica- vo: avrete / una compagna di viaggio. Verrà / con voi fino alla cala / per imbarcarsi insieme a voi». E poi: «dicono che sia una regina, / ma non so di che paese, e nemme- no / se la parola sia da intendere / in senso proprio o figurato. / Basta, ho detto anche troppo? / Ora seguitela...».

Sara ha cambiato ruolo: da semplice ancella (questa parte aveva recitato tanti anni prima) è diventata Alcesti, la guida, la regina.

Ma perché? Per la sua rinuncia? Per l’amore che l’ha portata al sacrificio? Non lo

credo. Sara è diventata regina perché ha detto «restiamo qui, in Teatro», in un luogo

dove si può veramente essere se stessi, mostrare e capire, senza vergogna e pudore, chi

siamo e cosa vogliamo. Sara è diventata la regina perché ha preferito la verità dell’ap-

parire alla menzogna della realtà.

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