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INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO AUTONOMO INVECE DELLA PROPOSIZIONE DI MOTIVI AGGIUNTI NEI GIUDIZI IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI. Ezio Maria Barbieri

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NEI GIUDIZI IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI Ezio Maria Barbieri

1. La giurisprudenza amministrativa sembra decisamente orientata nel senso di ritenere che deve essere dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione degli atti amministrativi concernenti lotti suc- cessivi o comunque nuovi provvedimenti amministrativi conosciuti o emessi successivamente alla proposizione del ricorso originario quando si tratti di atti afferenti a una gara di appalto unitaria (verbali, aggiudicazione alla controinteressata, etc.) e l’impugnazione degli atti successivi al primo impugnato sia stata proposta mediante autonomo ricorso giurisdizionale e non, invece, mediante lo strumento proces- suale dei motivi aggiunti prescritto dall’art. 120, c. 7 del codice del processo amministrativo; questo in conseguenza della suddetta natura unitaria della gara cui tutti quanti gli atti che si intende impugnare afferiscono (1).

Questo orientamento giurisprudenziale suscita molte perplessità e sembra collegato ad una lettura strettamente meccanica delle norme che induce a credere che senza alcun sostanziale interesse si sacrifichi- no ad un formalismo inutile richieste di giustizia meritevoli di esame.

L’art. 120 c. 7 del codice del processo amministrativo dispone che

“i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti”.

Affascinati da questa formula lineare e chiara gli interpreti si sono

(1) In questo senso si sono pronunciati Cons. st. IV, 20 gennaio 2015 n.143;

TAR Sicilia-Palermo I, 7 settembre 2015 n. 2120; TAR Basilicata I, 6 febbraio 2017 n. 135; TAR Lazio-Roma II, 15 gennaio 2021 n. 610; TAR Lazio-Roma III,

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limitati a farne una applicazione letterale e generalizzata, estraniandosi da una visione più ampia del sistema processuale nel quale essa è inserita, forti del fatto che la norma è finalizzata alla semplificazione e quindi alla accelerazione dei processi e che nulla rende più celere la definizione del processo (rectius: la stesura della sentenza) della constatazione che per la impugnazione di provvedimenti successivi al primo già impugnato non siano stati proposti motivi aggiunti, ma un nuovo ricorso. Di qui la dichiarazione, indubbiamente velocissima, di inammissibilità di quest’ultimo.

In questo modo, però, l’obiettivo della velocizzazione della deci- sione finale sembra realizzarsi eludendo alcuni problemi sui quali è opportuno trattenersi, soprattutto in considerazione del fatto che seguendo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente la dichiara- zione di inammissibilità di ricorsi connessi successivi al primo facilita la conclusione del procedimento giurisdizionale sacrificando, però, la primaria funzione di rendere giustizia. In altre parole, il ritenuto rispetto della lettera della legge non consente l’esame di alcune que- stioni di merito per un motivo di celerità che sarebbe stato possibile persegire ugualmente con un più pieno e soddisfacente rispetto di tutte le norme processuali in considerazione della sostanziale equivalenza fra ricorsi autonomi e proposizione di motivi aggiunti.

2. Il primo problema che mi sembra giusto porre riguarda la sostan- ziale identità fra la proposizione di un ricorso e quella di motivi ag- giunti e la conseguente indifferenza che l’utilizzo dell’uno o dell’altro strumento processuale ha sulla celerità del processo amministrativo.

In forza dell’art. 43 c. 1 del c.p.a. “ai motivi aggiunti si applica la disciplina prevista per il ricorso”. Si tratta di un principio generale del processo amministrativo e nessuna norma speciale, nemmeno in riferimento ai soli ricorsi in materia di appalti pubblici, deroga ad esso.

È vero che la giurisprudenza ha ritenuto in alcune occasioni che il

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processo amministrativo in materia di appalti pubblici costituisca un rito speciale relativo a tale materia, ma anche ammesso che si tratti di una considerazione corretta, i motivi aggiunti continuano a costituire uno strumento soggetto alle regole generali del processo come stabilite dal c.p.a. che non li differenzia in sostanza dal ricorso introduttivo.

L’affermato obbligo di proporre motivi aggiunti anziché instaurare un separato ricorso giurisdizionale amministrativo non esclude l’i- dentità della disciplina delle due formalità e non preclude quindi la possibilità di valutare nel merito se la dichiarata sostituzione di uno ad altro strumento processuale abbia una sua obiettiva giustificazione quantomeno in funzione della celerità dei giudizi o non si riduca ad una capricciosa disposizione legislativa la cui violazione significa- tivamente rimane priva di sanzione. È difficile, infatti, trascurare di sottolineare che la giurisprudenza sopra citata non ha mai evidenziato il dato obiettivo che la prescrizione di cui all’art. 120 c. 7 del c.p.a.

non prevede alcuna sanzione nel caso in cui essa non venga rispettata.

Sembra pertanto corretto partire dalla premessa, che ritengo pacifica, per la quale il ricorso autonomamente proposto e la proposizione di motivi aggiunti soggiacciono alla medesima disciplina temporale, formale e fiscale, quale che sia la materia che ha dato origine alla controversia giudiziaria. La sola differenza di effetti è che la pro- posizione di motivi aggiunti si innesta automaticamente sul ricorso principale già avviato, mentre il ricorso autonomo che impugna nuovi atti del medesimo procedimento richiede di essere riunito al ricorso già pendente per poter essere deciso con un’unica sentenza.

Si tratta di stabilire, allora, se questa differenza possa ritenersi rilevante ai fini della celerità del giudizio, che è l’obiettivo perseguito dall’art.

120 c. 7 del c.p.a.

A questo proposito occorre ricordare che l’art. 70 del c.p.a. dispone che

“il collegio può, su istanza di parte o d’ufficio, disporre la riunione di ricorsi connessi” e che l’art. 43 del c.p.a., dopo avere riconosciuto

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ai ricorrenti la facoltà di introdurre motivi aggiunti o domande nuove connesse a quelle già proposte, precisa che “se la domanda nuova ...

è stata proposta con ricorso separato davanti allo stesso tribunale, il giudice provvede alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 70” e quindi d’ufficio o su iniziativa di parte.

Va ricordato ancora, inoltre, che tutte le parti sono ugualmente a co- noscenza delle nuove domande o dei nuovi motivi proposti anche se proposti con un nuovo ricorso autonomo, per cui tutte, se interessate ad accelerare la decisione, possono chiedere la riunione di tutte le do- mande connesse o di tutti i motivi anche se proposti in via autonoma senza sostanziali differenze rispetto ai casi nei quali l’ampliamento del giudizio sia stato richiesto mediante motivi aggiunti.

Questo basta per imporre di per sé una più attenta considerazione della precedente e della attuale normativa, ugualmente idonee a soddisfare le esigenze di celerità del processo amministrativo, in quanto sembra che il codice processuale amministrativo offrisse già gli strumenti per soddisfare le esigenze suddette indipendentemente dalla introduzione e dall’utilizzo dell’art. 120 c. 7 del c.p.a.

La nuova norma di cui all’art. 120 c. 7 del c.p.c. introduce in effetti l’onere per il ricorrente di utilizzare lo strumento dei motivi aggiunti e non quello della proposizione di nuovi ricorsi in presenza di nuove specifiche esigenze, ma non ne sanziona il mancato rispetto, il che comporta un duplice ordine di considerazioni.

Ai ricorrenti si richiede un comportamento vincolato, ma non san- zionato.

Quanto ai giudici, sembra corretto ritenere che la loro facoltà di pro- cedere d’ufficio alla riunione dei ricorsi connessi è stata rafforzata dal legislatore, quando si versi in materia di appalti pubblici, in quanto una corretta lettura di tutte le norme in materia evidentemente introduce un seppure sottinteso vincolo per il giudice ad utilizzare con forza gli effetti della connessione per conseguire con rigore il risultato della

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riunione dei ricorsi.

D’altra parte non rappresenta una novità la formulazione di una norma

“minus quam perfecta” e cioè priva di sanzione quale l’art. 120 c. 7, norma che non ha in sé nulla di contraddittorio, tale non potendosi considerare il semplice fatto dell’omessa previsione di una sanzione in caso di eventuale sua violazione. Direi piuttosto che a tale vio- lazione sarebbe stato semmai problematico proprio connettere una sanzione quale l’inammissibilità che la giurisprudenza ritiene di poter infliggere, sanzione che addirittura incide, precludendolo, sul diritto di azione garantito dall’art. 111 della Costituzione. Si sarebbe corso, e la giurisprudenza corre in questo modo il rischio, che quella che sembra essere in sostanza una semplice preferenza legislativa per una forma processuale impunemente recuperabile anche d’ufficio in caso di violazione finisca con il trasformarsi, per effetto di una pretesa volontà del legislatore o (peggio) in conseguenza di una interpretazione che ne ignora la sostanziale recuperabilità da parte di tutti gli interessati, addirittura nella giustificazione di un diniego di giustizia.

In proposito non si può non ricordare che la Corte costituzionale ritie- ne che “le norme - tali in quanto dettate dal legislatore, e non poste dalla giurisprudenza mediante una interpretazione creativa che dia contenuto a pretesi, ma inutili principi - che determinano cause di inammissibilità degli atti introduttivi dei giudizi non devono frapporre ostacoli all’esercizio del diritto di difesa non giustificati dal premi- nente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo adeguato alla funzione ad esso assegnata” (2) e che in altra occasione la Corte ha richiamato “alla esigenza di non contrastare la realizzazione della giustizia senza ragioni di seria importanza, ed a criteri di equa ra- zionalità nella valutazione di profili di forma” (3). Anche per questo

(2) Sent. 18 marzo 2004 n. 98.

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sembra difficile considerare equo e razionale non accettare un ricorso autonomo che le parti possono ed i giudici devono inserire in altro ricorso, così esattamente attribuendogli tutti gli effetti che avrebbe prodotto la proposizione di motivi aggiunti.

Nello stesso senso si è pronunciata inoltre anche la Corte di cassazione, affermando che “le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una de- cisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale” (4). Tutte considerazioni che corroborano la convinzione che la dichiarata inammissibilità del ricorso autonomo in casi come quelli affrontati dalla giurisprudenza amministrativa nelle decisioni sopra riferite poteva e doveva essere evitata.

3. La giurisprudenza ha talora ritenuto di individuare la norma giu- stificativa della dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione di nuovi atti del medesimo procedimento mediante un nuovo ricorso autonomo anziché mediante la proposizione di motivi aggiunti nell’art.

35 c. 1 lett. b) del c.p.a., secondo il quale “il giudice dichiara, anche d’ufficio, il ricorso … inammissibile quando è carente l’interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito”, quali- ficando questa norma come una “clausola generale, aperta, di natura processuale” (5) come tale applicabile alla situazione processuale in esame.

Credo, però, che il richiamo e l’utilizzo del concetto di clausola ge- nerale non sia pertinente in casi come quello in questione.

“Le clausole generali impartiscono al giudice una misura, una diret- tiva per la ricerca della norma di decisione: esse sono una tecnica di formazione giudiziale della regola da applicare al caso concreto, senza un modello di decisione precostituito da una fattispecie nor-

(4) Sent. 16 novembre 2017 n. 27199.

(5) Così TAR Lazio-Roma II, 15 gennaio 2021 n. 610.

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mativa astratta” (6). Si tratta di strumenti processuali utilizzabili dalle parti per accedere alla giustizia che non possono essere da esse liberamente individuati né il giudice può altrettanto liberamente sta- bilirli scegliendo all’interno di una generica clausola generale quelli che intende accettare. Le regole del processo, insomma, sono quelle puntualmente stabilite dalle norme processuali e non possono essere scelte di volta in volta da chi è chiamato solo ad applicarle.

Preferirei, quindi, ritenere che la norma in questione attribuisca al giudice il potere di dichiarare l’inammissibilità di un ricorso quando la violazione di qualche regola processuale comporti per sé stessa la sussistenza di ragioni ostative ad una pronuncia sul merito, ragioni che devono rinvenirsi, però, nella norma stessa o nel sistema proces- suale. Ma allora, prima di applicare l’art. 35 c. 1 lett. b) in rapporto alla violazione dell’art. 120 c. 7 del c.p.a., i giudici avrebbero dovuto, a mio avviso, verificare all’interno del sistema processuale il preteso carattere ostativo della violazione di legge alla pronuncia sul merito, accertandolo con una più attenta analisi della fattispecie normativa in questione.

4. In conclusione, l’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 120 c.

7 c.p.a., trascurando una lettura più completa del codice processuale amministrativo, induce a credere che si sia pensato che preoccupazione primaria del legislatore sia stata quella di realizzare una accelerazione dei processi amministrativi facilitando ai giudici la stesura di como- de e quindi veloci sentenze, sfruttando banali errori processuali dei ricorrenti, trascurando il fatto che il sistema ne consente un comodo, doveroso ed altrettanto celere recupero, mentre credo vi siano buone ragioni per ritenere che l’accelerazione dei processi da tutti auspicata non debba essere burocraticamente intesa come un commodus disces-

(6) Mi rifaccio in questo modo alla definizione di Mengoni, tratta da Spunti su

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sus consistente nella eliminazione dei fascicoli, ma piuttosto come un decidere con la dovuta celerità il merito delle questioni sollevate.

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