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Casa del volontariato, via Correggio, 59 – Monza Sabato 24 novembre ore 21.00
“La genitorialità e la gestione dell’adolescenza” – dott. Massimo Camiolo, psicologo, psicoterapeuta, già giudice onorario Tribunale per i Minorenni di Milano.
Una volta le fasi evolutive venivano individuate in poche categorie, bambini, ragazzi, adulti ed anziani, successivamente la tendenza delle discipline psicologiche, pedagogiche e sociologiche è diventata quella di dettagliarle ulteriormente, di iperspecializzarle attraverso un’operazione di frammentazione, trasformandole in prima infanzia, seconda infanzia, terza infanzia, pre adolescenza, adolescenza, post adolescenza, ecc…
Seguendo questa opzione si può inquadrare l’adolescenza vera e propria tra i 14 ed i 18 anni, tenendo ben conto, però, che ogni fascia d’età non ha lo stesso significato per tutti gli individui, i processi evolutivi si differenziano a causa di molte variabili, le storie personali sono irripetibili come le impronte digitali e basta pensare alle esperienze differenti nelle diverse parti del mondo per comprendere come ciò che vale qui può non essere compatibile con altri luoghi, per esempio l’esperienza dei bambini in guerra, o del lavoro minorile precoce o delle bambine che diventano mamme a 12 anni.
Altro aspetto importante è quello di ricordare che per necessità di sintesi si tende a generalizzare e quindi va specificato che qui si parla di adolescenza in società complessa, in Europa, in Italia, forse addirittura in Lombardia e quindi siamo condizionati da un imbuto culturale.
Se si vanno a sfogliare i manuali di psicologia, o di pedagogia, o si ascoltano dibattiti in TV oppure si leggono articoli sui giornali, si può fare un’interessante scoperta, le definizioni dell’adolescenza sono prevalentemente improntate a “… fase in cui non si è più condizionati dai codici infantili ma ancora non si utilizzano quelli adulti…fase in cui non si è ancora delineata una identità stabile e duratura…fase in cui non si manifesta una totale percezione di sé…”, insomma, il periodo dell’adolescenza viene trattato e descritto prevalentemente per quello che non è, non si è ancora adulti e non si è più bambini, è una fase evolutiva riconosciuta negativamente e come schiacciata tra due parenti importanti ma scomodi (periodo infantile-periodo adulto), è un momento della vita senza propri significati, letta e definita per quello che non è. Ma è proprio così ?
In effetti la fase adolescenziale è un corto circuito all’interno del processo evolutivo della persona.
Si noti che il concetto di “crisi dei bambini” o “crisi degli adulti” tende a essere utilizzato prevalentemente in situazioni di emergenza ma, se si parla di crisi adolescenziale, si dà per scontato che sia un fatto “normale”, anche se va ricordato che il significato originario di “crisi” è positivo: si tratta di una fase di cambiamento.
Ha detto qualcuno che la vita delle persone è un po’ come un mosaico, si costruisce giorno per giorno, piastrellina per piastrellina, per arrivare al termine con
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un’immagine definita: orbene, rispetto al mosaico, però, la vita ha alcune differenze e una di queste è che, se c’è qualche piastrella rotta o mancante, il risultato finale rischia di essere indefinito o indefinibile, distorto e spesso malato.
L’adolescente è effettivamente schiacciato tra l’essere bimbo e il diventare adulto, respinge gradualmente il senso di appartenenza forte al nucleo familiare, tendendo a infragilirsi, è spinto verso l’avventura della vita con tutte le incertezze e paure che ne derivano; non va dimenticato che subentrano anche i cambiamenti fisici che producono anch’essi paura e stimoli allo stesso tempo e tutti questi mutamenti provocano il fatto che l’adolescenza è una fase complessa (forse con qualche coefficiente di complessità in più rispetto ad altre fasi), che può essere mal vissuta, soprattutto se nei precedenti periodi della crescita non si sono poste le basi per la costruzione armonica di questo splendido mosaico che è la vita.
L’adolescente deve affrontare spinte interne contrastanti, è condizionato da ambivalenze, prevalentemente quella “abbandono – persecuzione” (se mi lasci stare mi sento abbandonato ma se mi stai “addosso” mi sento perseguitato), all’interno del conflitto tra dipendenza e autonomia.
La capacità degli adulti dovrebbe essere quella di rimanere a disposizione per una sorta di contenimento e accoglimento, intervenire a sostegno, non umiliare, dare indicazioni ma sapere tollerare il desiderio di sperimentazione, spesso, invece , anche se inconsapevolmente, si esasperano le situazioni, fomentando momenti di crisi e di ribellione attraverso disinteresse, autoritarismo non integrato con affettività esplicita, incoerenza educativa, si crea confusione quando per comodità si dice “…sei ancora troppo piccolo per uscire…” e nello stesso tempo si invoca per convenienza,
“…ormai sei grande, dovresti essere più responsabile con lo studio…” ; il danno, in realtà, è solo parziale, ma i messaggi contradditori svolgono una funzione di delegittimazione del ruolo genitoriale agli occhi dell’adolescente che già si nutre del proprio bisogno oppositivo .
Già, perché se i bambini tendono a idealizzare e a imitare i genitori, quindi cercano di riproporre i loro codici di comportamento e di valutazione, in adolescenza spesso c’è una forte ribellione/opposizione ai modelli di riferimento, in genere non solo familiari ma più in generale riferiti al mondo adulto, con reazioni spesso veementi e il tentativo di ripiegare su rituali del gruppo dei pari e/o su riferimenti carichi di antagonismo.
In sintesi, si potrebbe semplificare dicendo che nelle fasi di sviluppo si susseguono:
- Pensiero convergente (conformismo infantile) - Pensiero divergente (oppositività adolescenziale)
- Pensiero critico (capacità di discriminare e valutare degli adulti)
L’adolescente tende quindi a muoversi a strappi, attraversando momenti di profondo disagio alternati a picchi di incontenibile euforia, “sceglie e sente” attraverso un filtro che viene definito come “identità diffusa” e l’impegno dell’adulto deve essere quello di dare importanza a questi momenti, non banalizzarne il contenuto,
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rispettarlo, dandogli il giusto valore, ripercorrendo la propria storia personale e rammentando quanto anche per lui fossero importanti certi momenti e certe emozioni.
Nell’adolescenza si fa fatica a definirsi e anche l’ambiente esterno non aiuta;
l’individuo deve riconoscersi nel contesto sociale e da esso essere riconosciuto, un rapporto “dentro-fuori-dentro” fondamentale per lo sviluppo del senso di identità, altrimenti si rischia di rimanere bloccati in una logica esclusiva di autodefinizione che poi non trova riscontro nella percezione che il mondo ha di lui.
Lo studio dei “ riti di passaggio” sostenuto dall’antropologo culturale Arnold Van Gennep é proprio orientato all’osservazione del rapporto “dentro-fuori” e all’importanza che vi sia una percezione dei processi di vita come fatti dinamici, caratterizzati e scanditi da tappe evolutive non casuali bensì armoniche e coerenti e universalmente condivise.
Interessante appare il funzionamento delle società primitive a carattere patriarcale, società semplici nelle quali i ruoli erano definiti e riconosciuti.
La rappresentazione grafica simula un percorso che rappresenta l’iter per andare, come bambino, maschio, dalla fase infantile a quella adulta.
B A
S
E
P P A R R O A V Z E I
O N E
TRASMISSIONE DEL SAPERE ESOTERICO – Storia della tribù, rapporti con gli dei, ecc.
ESSOTERICO – Costruire armi, cacciare, sopravvivere, ecc
Il punto B (bambino) rappresenta il focolare, il luogo di riferimento e di aggregazione della tribù, detto “il mondo delle donne”, dove il “femminile” lavorava e si occupava del villaggio, delle capanne, dell’agricoltura, degli armenti, degli indumenti e dei bambini, insomma della stabilità della collettività, mentre il
“maschile” andava in guerra e a caccia, cioè si occupava della difesa del gruppo e del suo sostentamento.
A un certo punto il bimbo, maschio, veniva allontanato dal mondo delle donne,
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affidato a un anziano, che rappresentava la saggezza e l’esperienza, e portato in luogo solitario: prima fase, quella della “separazione” ; il rapporto a due bambino- anziano consentiva al piccolo una fase di apprendimento utile sia allo sviluppo della sua “anima” ma anche all’acquisizione di capacità operative: seconda fase, la
“trasmissione del sapere”; infine, quando l’anziano lo giudicava pronto, c’era il ritorno al villaggio , dove il discepolo doveva dimostrare il proprio coraggio e la profondità dell’acquisizione dei rudimenti: terza fase, “le prove”. A questo punto vi era il raggiungimento della meta, il punto A, il mondo degli adulti.
Si insiste sul concetto di “maschio” poiché nelle società primitive patriarcali il mondo femminile seguiva percorsi differenti, la crescita della ragazza veniva riconosciuta prevalentemente per motivi fisiologici, cioè attraverso un processo meno scandito da riti, dallo stato di bambina a quello di donna grazie all’irrompere della fertilità.
Questi riti di passaggio sembrano comunque scandire un percorso che prevede la morte di una fase e la rinascita in un’altra, senza soluzione di continuità, proprio un processo dinamico che ben rappresenta l’iter evolutivo del bambino che diventa adulto e alla fine c’è la prova, per dimostrare che si sanno utilizzare gli elementi appresi, perché l’individuo si senta “altro da prima”, perché tutti riconoscano la sua nuova identità e il suo nuovo status, perché lui si senta confermato e integrato (dentro-fuori-dentro). Non si diventava adulto solo perché si superavano le prove, ma anche perché aveva attraversato le fasi e tutta la tribù glielo riconosceva.
Non è facile l’autoriconoscimento ma ancora più difficile è l’eteroriconoscimento che rinforza la percezione di sé.
Sarebbe assurdo riproporre questo modello in una società complessa come la nostra, dove le separazioni sono plurime e continue, la trasmissione del sapere avviene a cura di più agenzie (famiglia, scuola, televisione, internet, gruppo dei pari ) e le prove sono differenziate e spesso più complicate di un tempo (per censo o appartenenza socio-economica, oppure basta pensare all’età e alla modalità di inserimento nel mondo del lavoro), gli ultimi “riti” riconosciuti dalla nostra società erano il servizio militare, ormai abolito, e il matrimonio, istituzione in apparente declino.
Il collega e amico Fulvio Scaparro, nei suoi scritti, sostiene che, al di là dei riti, i bisogni in effetti sono sempre gli stessi, nel tempo e nello spazio: cambia solo lo scenario.
Anche nella legge, area del penale, l’età dell’adolescenza è trattata in modo particolare. Se fino al compimento dei 14 anni non si è imputabili, dai 14 ai 18 anni comunque la commissione di un reato comporta poi un modello di intervento delle istituzioni giudiziarie molto differente rispetto agli adulti; se questi ultimi possono cercare di utilizzare l’incapacità di intendere e di volere a volte strumentalmente per cercare di alleviare l’aspetto sanzionatorio, per gli adolescenti avviene esattamente il contrario, cioè sono a priori “incapaci” e l’eventuale condanna passa dalla dimostrazione esplicita che possiedono la capacità di intendere il disvalore sociale dell’atto commesso e di volere contenere l’impulso a commettere quell’atto delittuoso.
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Agli adolescenti manca anche la capacità predittiva, cioè la possibilità di prevedere le conseguenze di quello che stanno facendo; molto spesso, infatti, gli adolescenti cercano rifugio dal loro disagio, dalla loro tristezza e dalle componenti depressive che li accompagnano, in comportamenti paralegali se non addirittura illegali, e lo fanno proprio per esorcizzare le componenti ansiose che accompagnano il loro processo di crescita: come se fossero tane che permettono risposte più rassicuranti rispetto al mondo esterno.
Spesso anche noi adulti per “esorcizzare aspetti di depressione” ci rifugiamo in atti che in condizioni di “normalità” rifiuteremmo, impulsi di nervosismo, liti per la viabilità, scarsa considerazione degli altri, ecc, e l’adolescente, che sta in una situazione depressiva più complessa, tende a dare spazio alla propria impulsività e si connota per degli “agiti” (dall’inglese acting out), cioè per comportamenti nei quali tra l’impulso e l’azione non c’è la mediazione dell’elaborazione mentale.
Questo non significa certo che bisogna giustificarli: tra comprendere e giustificare c’è una grossa differenza, ma cercare di comprendere può aiutare loro ma anche agevolare gli adulti nell’opera di prevenzione secondaria, non comprenderli può creare ulteriori distanze e disagi.
Oltre a non pensare alle conseguenze delle loro azioni, i ragazzi sono condizionati da quello che clinicamente si definisce “delirio di onnipotenza” (ma a volte anche alcuni adulti non scherzano !) : si muovono come se a loro non potesse succedere mai nulla, si sentono avvolti da impunità, si illudono che la faranno sempre franca, ma questo loro sentire è solo compensativo, orientato al voler negare le loro insicurezze e le loro paure. La logica è questa, “più mi sento fragile e impaurito e quindi sento di crollare più devo illudermi di avere delle risorse: se non le ho me le invento”.
La capacità predittiva, quindi, non è data solo dalla capacità di intendere e di volere:
“…so che non si fa, forse potrei volermi fermare, ma lo faccio ugualmente perché questa volta non mi capiterà nulla, perché sono in grado di gestire e di controllare la situazione...”
Come già accennato, nel periodo adolescenziale, il gruppo dei pari, dei coetanei, tende a diventare l’alternativa al gruppo familiare; anche questo è un dato costante probabilmente da quando esiste l’umanità, ma bisogna considerare che i modi di aggregazione e il loro significato tende a cambiare di generazione in generazione.
In un recente passato l’adesione e la cooptazione contenevano un significato di aggregazione totalizzante, o ideale o funzionale, ora è più difficile per un genitore entrare in contatto con il gruppo frequentato dal figlio, perché di gruppi ne esistono più di uno, i ragazzi hanno contemporaneamente il gruppo del calcetto, quello della discoteca, quello della biblioteca, quello della sala giochi, che spesso non sono composti dalle stesse persone, quindi anche per i ragazzi viene meno la sensazione di unitarietà, ma rischiano di fare parte di un totale globale che non sazia e non consola.
Più ci sentiamo soli e abbandonati più si crea un rapporto morboso con la dipendenza che serve a riequilibrare dei vuoti, ma l’eccesso di spazi non riesce a rappresentare una soluzione alternativa e rassicurante.
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Spesso il mondo adulto si pone il falso problema del tipo di educazione da applicare ai figli, molto sinteticamente si parla di “repressiva o permissiva”: l’elemento fuorviante è proprio quello della permissività, che in ambito educativo non esiste, nel senso che anche se ci si illude di orientarsi così, in realtà se c’è educazione c’è anche indirizzo, prescrizione e induzione.
La diatriba tra repressione e permissivismo è una trappola innescata da quegli adulti che scambiano l’ascolto con la debolezza, la comprensione con la giustificazione, l’autorevolezza con l’autoritarismo, che hanno profondamente paura di ciò che non controllano in modo ferreo e che si illudono di potere stare a distanza dai figli e contemporaneamente condizionarli con lo spauracchio della sanzione: sono in genere adulti che non volevano dei figli ma dei cloni, che vogliono attraverso la prole avere conferme del loro potere e del loro ruolo, probabilmente anch’essi impegnati a coprire e compensare malesseri, fragilità e frustrazioni.
Ma come fare per far rispettare le regole, soprattutto in famiglia?
Chi trovasse una risposta univoca ed esaustiva potrebbe essere candidato al premio Nobel, forse è più facile individuare ciò che non bisogna fare.
In adolescenza l’abusato modello premio/punizione ha il fiato corto, sia perché tende a riconoscere una premialità in situazioni in cui dovrebbe essere privilegiata la normalità, ma anche perché la sanzione deve essere caratterizzata da equilibrio e compatibilità con l’evento. Va detto inoltre che questo modello complica nei ragazzi l’attivazione dei processi di autonomizzazione.
L’eventuale punizione dovrebbe seguire i tre principali criteri dell’azione educativa:
Coerente con il fatto che si commette, se rompe un bicchiere non devo metterlo in punizione per un mese;
Continua: se te la do te la tieni;
Tempestiva: va data nel momento in cui avviene la malefatta.
Le punizioni bisogna, inoltre, usarle con parsimonia perché altrimenti diventano la quotidianità, perdono di significato e si trasformano in consuetudine che alimenta il conflitto tra oppositività (adolescente) e intransigenza (adulto), ampliando la distanza emotiva e rendendo ulteriormente critica la comunicazione.
Altra scelta da fare è quella di evitare il “muro contro muro”, la simmetria; la propensione a giocare sul terreno dell’adolescente complica la vita dell’adulto, parolaccia contro parolaccia, insulto contro insulto, provocazione contro provocazione, violenza contro violenza sono comportamenti che strategicamente delegittimano il ruolo genitoriale, perché l’adolescente, per tutto quanto detto finora, tende a non avere senso del limite e a rilanciare all’infinito mentre l’ adulto arriverà a un punto in cui la sua ragione gli dirà di fermarsi e il ragazzo avrà avuto il sopravvento.
In positivo, bisognerebbe cercare di trasmettere l’importanza di alcuni temi, il rispetto delle regole, delle leggi e delle persone, il valore del senso civico, ma non solo con le parole bensì anche come comportamento , perché anche se non sembra, gli
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adolescenti osservano e giudicano e bisogna loro consentire di recuperare il modello al termine della fase di emergenza.
Bisogna sempre ricordare che l’efficacia educativa è direttamente proporzionale alla nostra presenza, alla esplicitazione di interesse e affettività, alla capacità di contenimento ma anche di sopportare la momentanea frustrazione e di affermare e confermare che qualunque cosa accada, qualunque situazione si debba affrontare, noi adulti siamo lì, anche in modo critico, ma comunque pronti a tendere la mano per aiutare e consolare i nostri figli.