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Le novità del d.d.l. di revisione costituzionale proposto dalla I Commissione del Senato: alcune brevi considerazioni

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Le novità del d.d.l. di revisione costituzionale proposto dalla I Commissione del Senato:

alcune brevi considerazioni

di Giulio M. Salerno

(Straordinario di istituzioni di diritto pubblico nell'Università di Macerata)

Il testo proposto dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, se conferma nelle grandi linee il disegno di legge costituzionale n.2544 presentato dal Governo, apporta nel medesimo tempo un considerevole numero di modifiche che qui non possono essere tutte analizzate con il necessario approfondimento. D’altro canto il testo in esame si colloca in una fase certo iniziale del percorso di revisione costituzionale, ma senz’altro cruciale nella definizione del testo legislativo. Inoltre, da un lato, a quanto è dato di sapere dai mezzi di informazione, le forze politiche di maggioranza hanno già convenuto su taluni mutamenti del testo proposto dalla Commissione, dall’altro lato il relatore di maggioranza ha recentemente auspicato che in assemblea il dibattito

“prenda le mosse da quello svolto in Commissione ma rappresenti anche un nuovo inizio del confronto per il raggiungimento di un ampio consenso” sulle modifiche da apportare alla Costituzione (si veda quanto dichiarato dal sen. D’Onofrio nella seduta del Senato del 22 gennaio u.s.). Dunque, anche al fine di rendere più comprensibile il processo di revisione costituzionale in corso, può essere di una qualche utilità segnalare talune delle più rilevanti novità presenti nel testo della Commissione rispetto a quello di iniziativa governativa. In questa sede, più in particolare, si intendono tratteggiare le innovazione apportate alle parti relative alla composizione del Senato federale, alle modalità di esercizio della funzione legislativa statale, ed alla posizione del Primo ministro.

Sul primo aspetto, quello concernente la composizione del Senato, verosimilmente al fine di dare senso effettivo all’elezione dei senatori “su base regionale” e forse pure per precisare il nuovo principio della “rappresentanza territoriale” dei senatori medesimi (principio cui dovrebbe essere subordinata la relativa legge elettorale), è venuta innanzitutto meno la presenza dei senatori eletti nella circoscrizione estero – e su tale modifica può concordarsi, essendo il nuovo Senato un organo precipuamente destinato ad esprimere le istanze territoriali interne all’ordinamento nazionale - e si sono aggiunte due nuove disposizioni. Con una disposizione di carattere generale, ed in verità bisognosa di una qualche precisazione o almeno di un rinvio ad altra fonte (presumibilmente alla legge), si prescrive il mantenimento di “rapporti di reciproca informazione e collaborazione” tra “i senatori e gli organi della corrispondente Regione”; con un’altra disposizione più specifica, poi, si inserisce tra i requisiti richiesti

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per l’elettorato passivo alla carica di senatore la residenza “nella Regione alla data di indizione delle elezioni”. Su quest’ultima innovazione, il paventato pericolo del cd.

frazionamento etnico del Senato che deriverebbe dall’introduzione del requisito della residenza, non sembra avere particolare consistenza, se solo si pensi che il requisito in questione si aggiunge, in via alternativa e non cumulativa, a quelli già previsti nel testo del d.d.l. costituzionale. Per di più, ne viene richiesta la sussistenza al momento dell’indizione delle elezioni, senza dunque ricorrere a quelle formule più restrittive dell’elettorato passivo che il nostro ordinamento conosce a livello locale, ma a fini ben diversi e senz’altro non giustificabili a livello nazionale. Più significativo appare, invece, il fatto che la Commissione non abbia convenuto con alcune delle proposte emendative presentate dal Governo – e per di più sostanzialmente concordate da quest’ultimo con le Regioni in sede di Conferenza permanente -, quelle cioè che prevedevano la contestualità dell’elezione dei consiglieri regionali e dei corrispondenti senatori, e la presenza dei Presidenti delle Giunte quali componenti a pieno titolo del Senato (cfr.

emendamenti governativi illustrati nella seduta della I Commissione del Senato del 23 novembre 2003). Diversamente, la Commissione si è orientata nel senso della partecipazione dei Presidenti non solo delle Giunte, ma anche dei Consigli regionali “ai lavori del Senato federale” (espressione in vero non molto felice) nei casi previsti dalla Costituzione, ossia, sulla base del testo proposto dalla Commissione, quando si procede all’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici della Corte costituzionale e dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, e quando il Senato delibera in tema di interesse nazionale ai sensi del secondo comma del proposto art. 126, comma 2. Sul punto, come già accennato all’inizio, le forze di maggioranza sono adesso orientate a riproporre la piena partecipazione degli organi di vertice delle Regioni all’interno del Senato, rinunciando nello stesso tempo ad un’altra modifica approvata dalla I Commissione del Senato, quella cioè concernente l’istituzione di “Assemblee di coordinamento delle autonomie” che sarebbero dovute essere istituite dalle Regioni “interessate” e composte per metà da rappresentanti designati dalle Regione e per metà dal Consiglio delle autonomie locali, ed alle quali sarebbe dovuto spettare il compito di esprimere il parere, evidentemente non vincolante, su una delle due specie dei disegni di legge cd. monocamerali (quelli cioè la cui approvazione, secondo il progetto di revisione costituzionale in questione, andrebbe attribuita in via prioritaria al Senato, come si dirà meglio in seguito). A nostro avviso, la presenza dei Presidenti delle Regioni in seno al Senato rappresenta un segnale rilevante – soprattutto perché per un verso appare coerente con la necessità che nel Senato trovino proiezione gli ordinamenti territoriali dotati di potestà legislativa ed in tal senso partecipi della sovranità popolare (come ha ricordato da ultimo la Corte costituzionale nella sent. 29 del 2003), per altro verso implica l’opportuna delimitazione della rappresentanza istituzionale delle Regioni agli organi esponenziali degli indirizzi politico-legislativi ivi operanti -, ma ancora insufficiente a connotare in senso compiutamente federale tale assemblea. Infatti dovrebbe convenirsi che l’equilibrato funzionamento delle istituzioni in un ordinamento legislativamente decentrato richiede la presenza di un organo assembleare in cui gli enti territoriali dotati di potestà legislativa possano concorrere all’adozione di alcune delle decisioni assunte a livello centrale – ed in particolar modo alla formazione delle leggi che toccano direttamente gli interessi territorialmente localizzati -, certo secondo modalità rappresentative diversamente configurabili, ma che sono qualificabili come

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significativamente federali nella misura in cui la composizione dell’organo in questione consenta l’effettiva manifestazione della volontà politica delle istituzioni (o delle collettività) territoriali. Ciò premesso, il sistema complessivamente proposto dalla I Commissione – fondato sull’elezione “su base regionale” della quasi totalità dei senatori (ai quali, ma solo per l’esercizio di specifiche funzioni non legislative, si aggiungerebbero i Presidenti delle Giunte e dei Consigli regionali), e parzialmente integrato e corretto dai vincoli posti all’elettorato passivo, dalla subordinazione della legge elettorale al principio della “rappresentanza territoriale”, e dalla prescrizione della “reciproca informazione e collaborazione” tra i senatori e gli organi della corrispondente Regione - non sembra atto a perseguire pienamente lo scopo, tanto più se si tiene conto del mantenimento di un numero fortemente diseguale tra i senatori provenienti da ciascuna Regione. Dunque, se non si ritiene di seguire integralmente l’esempio tedesco – forse perché si teme che, se lo si facesse, nella rappresentanza di ciascuna Regione sarebbero da un lato del tutto escluse le opposizioni ivi presenti, dall’altro lato fortemente appiattiti gli interessi di livello locale (effetti che presumibilmente sarebbero minori se si adottasse il modello austriaco) –, ma al contempo si intendono accogliere pleno iure nel Senato i Presidenti delle Regioni, la posizione di questi ultimi potrebbe essere utilmente completata e razionalizzata proprio ricorrendo alla proposta già ricordata, quella che prevede la contestuale elezione dei senatori e dei consiglieri regionali, e riducendo nello stesso tempo l’accentuata divaricazione numerica tuttora prevista tra i componenti del Senato provenienti da ciascuna Regione. E le predette obiezioni potrebbe essere vieppiù superate se il meccanismo elettivo dei senatori fosse costituzionalmente conformato in modo tale da consentire di riprodurre tra i senatori elettivi provenienti da ciascuna Regione il rapporto tra le forze politiche esistenti in seno al rispettivo Consiglio regionale, e nel contempo di riflettere, nei limiti del possibile, gli interessi infraregionali di maggior rilievo. Così per un verso l’autonomia regionale - a partire dalla definizione del sistema elettorale - ne risulterebbe esaltata in senso maggiormente equiordinato, per altro verso si consentirebbe l’effettiva proiezione degli enti territoriali all’interno dell’assemblea parlamentare, agevolando per di più l’operatività di quest’ultima e rafforzandone il ruolo nei confronti della Camera.

Circa l’esercizio della funzione legislativa statale, il testo proposto dalla I Commissione del Senato non ha modificato la tavola costituzionale delle competenze legislative sia statali che regionali risultante dalla proposta governativa; a tal proposito, sarebbe auspicabile che in sede di assemblea si procedesse ad un’attenta opera di rivisitazione soprattutto al fine di correggere le più rilevanti contraddizioni ed aporie emerse nella prima esperienza attuativa degli elenchi di materie stabiliti con la riforma del 2001.

D’altro canto, sono stati corretti in più di un punto i procedimenti di approvazione delle leggi statali cd. monocamerali. In particolare, il testo in questione riduce ai due quinti di ciascuna assemblea il quorum necessario per far scattare il meccanismo di riesame dei disegni di legge che spettano in via prioritaria all’altra assemblea, ed attribuisce al Governo il potere di frenare l’approvazione delle leggi che spettano in via prioritaria al Senato – ossia le cd. leggi-cornice -, allorché quest’ultimo si rifiuti di approvare le modifiche proposte dalla Camera e che il Governo ritenga “essenziali per l’attuazione suo programma”: in questo caso il Senato potrebbe approvare la legge soltanto con la maggioranza dei tre quinti dei suoi componenti (cfr. il proposto art. 70, comma 2). Le ragioni che hanno condotto alle modifiche approvate dalla I Commissione appaiono

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condivisibili, perché ispirate a favorire il ripensamento dei testi legislativi senza appesantire particolarmente, in virtù dei termini piuttosto ristretti, l’andamento dei lavori parlamentari; nello stesso tempo si provvede a correggere il procedimento delle predette leggi monocamerali (quelle cioè spettanti in via prioritaria al Senato medesimo) coerentemente con la nuova forma di governo che sottrae il Senato al circuito fiduciario ed allo scioglimento anticipato (salvo che per ”prolungata impossibilità di funzionamento”, ma si tratterebbe di scioglimento rimesso alla sola volontà del Capo dello Stato, essendo escluse sia la proposta che la controfirma del Presidente del Consiglio). La soluzione adottata a quest’ultimo fine, in vero, non appare capace di evitare che una radicale ed irresolubile contrapposizione tra il Senato e l’orientamento della maggioranza governativa presente alla Camera possa condurre ad una perniciosa condizione di non-decisione in ordine a profili di politica nazionale di indubbio rilievo – quali sono senz’altro quelli toccati dalle materie di competenza concorrente -, e dunque a pericolose situazioni di stallo deliberativo superabili soltanto con il ricorso (presumibilmente deprecabile, ma in ultima analisi imposto dall’assenza di altri possibili strumenti) alla decretazione d’urgenza. Forse, piuttosto che orientarsi sulla falsariga dell’ordinamento statunitense – in cui, all’interno di un sistema ben diverso di contrappesi, l’approvazione di entrambe le assemblee a maggioranza qualificata serve per superare il veto presidenziale e dunque proprio per consentire che si giunga all’approvazione della legge – e laddove non si intenda ricorrere ad aggravamenti procedurali che potrebbero ritardare ulteriormente il procedimento legislativo (come, ad esempio, quelli dell’art. 77.3 e 4 della Legge fondamentale tedesca), si potrebbe modificare in senso oppositivo il ruolo attribuito al Senato nel procedimento legislativo, e cioè prevedere che il testo risultante dalle modifiche apportate dalla Camera alla delibera legislativa del Senato, e dichiarato dal Governo essenziale per l’attuazione del suo programma, sia promulgato dal Capo dello Stato salvo che il Senato non deliberi in senso contrario entro un determinato termine e sempre con la maggioranza dei tre quinti dei suoi componenti.

Circa la posizione del Primo ministro, la I Commissione del Senato ha, tra l’altro, modificato alcuni punti piuttosto rilevanti del d.d.l. governativo, dimostrando di non respingere del tutto, ma anzi di tenere in considerazione quelle osservazioni critiche espresse di chi ha ritenuto troppo rigido il modello di premierato prescelto, soprattutto perché nell’originaria proposta del Governo il vincolo determinatosi, sulla base dell’esplicita legittimazione popolare del Primo ministro, tra la maggioranza parlamentare ed il Primo ministro, potrebbe essere rescisso soltanto con un nuovo appello al popolo, appello per di più rimesso, salvo il caso di sfiducia, alla stessa volontà del Premier. Adesso, in primo luogo è venuta meno la disposizione che obbligava ad indicare espressamente il candidato alla carica di Primo Ministro sulla scheda elettorale, ma è rimasto il collegamento – da disciplinarsi con legge - tra i candidati alla predetta carica governativa ed i candidati al seggio parlamentare. In verità, come si vedrà tra poco, nella forma di governo prefigurata dalla I Commissione del Senato il predetto collegamento, oltre a svolgere la funzione di assicurare che la scelta del candidato alla carica di Primo ministro sia compiuta ed esplicitata ufficialmente dalle forze politiche concorrenti prima della competizione elettorale (a tal proposito, peraltro, andrebbe rilevato che la legge di attuazione dovrebbe affrontare i problemi che deriverebbero, ad esempio, dal venir meno del candidato alla carica di Primo ministro, o dalla sua eventuale rinuncia alla candidatura), consente di

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determinare in via legale l’appartenenza del parlamentare alla “maggioranza” in modo tale da precludere il fenomeno del cd. ribaltone e dunque quel trasformismo politico che a questo è collegato, anche nei limitati casi in cui il testo in questione consente la successiva nomina alla carica di Primo ministro di persone diverse da quella inizialmente nominata in virtù dell’esito elettorale. A prescindere dall’opinione che può aversi in merito alle opzioni politico-costituzionali che sono alla base delle scelte della I Commissione del Senato, non può negarsi il tentativo di distanziarsi dalla soluzione israeliana, che scarso successo ha avuto nella prassi e parecchie critiche ha suscitato tra i commentatori. Inoltre nel testo della Commissione, coerentemente con l’impostazione più flessibile che sembra adesso affermarsi, e forse anche al fine di voler tenere conto del concreto funzionamento del modello Westminster ma senza poterne riprodurne integralmente la logica – soprattutto a causa delle presenti condizioni di frazionamento del quadro partitico italiano al cui interno, come è noto, stentano ad affermarsi soggetti, pure in forma di coalizione, dotati di solida struttura - si prevede che al Capo dello Stato sia precluso procedere allo scioglimento della Camera qualora, entro dieci giorni dalla richiesta di scioglimento anticipato presentata dal Primo ministro, venga sottoscritta una mozione da parte dei “deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo primo ministro” (cfr. il proposto art.88, secondo comma). Questa deroga al principio generale, va sottolineato, sarebbe applicabile, sempre secondo il testo della Commissione, anche nel caso sia respinta dalla Camera la questione di fiducia presentata dal Primo ministro, ma non quando sia approvata una mozione di sfiducia (cfr. il proposto art.94, secondo e terzo comma), sicché risulterebbe preclusa nel nostro ordinamento, almeno nei termini classici della Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca, la formula della sfiducia costruttiva. Se le ragioni che hanno condotto alle correzioni adesso illustrate sono apprezzabili, esse tuttavia sembrano testimoniare una condizione, per così dire, di sofferenza di questa parte del progetto di revisione costituzionale. Ciò è probabilmente dovuto all’estrema difficoltà di razionalizzare mediante un complesso compiutamente articolato di disposizioni scritte (che peraltro ben difficilmente sarebbero giustiziabili) una materia intrinsecamente politica – quale quella dei rapporti tra il Primo ministro, il Governo, le forze partitiche, i parlamentari ed i relativi gruppi, ed il Capo dello Stato – che può facilmente sfuggire anche alle più scrupolose previsioni del legislatore costituzionale. Forse il ricorso a formule più elastiche – ad esempio, in ordine al termine sin troppo breve di dieci giorni sopra ricordato - sarebbe opportuno, soprattutto al fine di consentire al Capo dello Stato di affrontare con una qualche maggiore flessibilità quelle situazioni di crisi che non sempre sono inquadrabili e risolvibili secondo schemi astrattamente predeterminati.

(02/02/2004)

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