Q u a d e rn i A SR I
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2007
SERVIZIO SANITARIO REGIONALEEMILIA-ROMAGNA
Azienda Unità Sanitaria Locale di Rimini
A cura di Pretelli Settimio e Gilberto Mussoni
SENZA SPARTITO
Ricordi e riflessioni su un ventennio di esperienze educative
prima parte
Pretelli Settimio ha iniziato ad operare come educatore in una cooperativa sociale circa vent’anni fa. Nel 1994 si è laureato in sociologia e ha acquisito il titolo di educatore. Da allora in avanti ha vissuto varie esperienze professionali (come educatore, dirigente, formatore) e dal 1998 opera come educatore presso il Centro di Salute Mentale dell’AUSL di Rimini.
Gilberto Mussoni lavora da molti anni come educatore presso l’Ausl di Rimini. Ha operato a contatto con persone con problemi psichiatrici, nel ruolo di coordinatore su problemi connessi al lavoro educativo con persone cosiddette disabili e con minori a disagio, nella formazione professionale. Da tempo si occupa della documentazione-narrazione di esperienze professionali di carattere socio-sanitario.
Pretelli Settimio
Senza spartito
Ricordi e riflessioni su un ventennio di esperienze educative
Prima parte
(a cura di Gilberto Mussoni)
Dedicato a D. e C.
INDICE
In forma di presentazione ... pag. 7 Nuove musiche…senza spartito ... pag. 8 Prima intervista ... pag. 10 Seconda intervista ... pag. 33
7 In forma di presentazione
Mi sono incontrato la prima volta con Settimio (Tino) nel 1991. Avevo allora poco più di dieci anni di lavoro educativo alle spalle. Lui due. Abbiamo allora lavorato insieme per un certo numero di anni in un gruppo educativo (io come coordinatore, lui come educatore) e ci siamo poi incontrati nuovamente nel secondo Corso biennale di qualificazione su lavoro per educatori professionali (allora ero responsabile del corso, lui corsista). Dopo questa significativa frequentazione ci siamo visti e sentiti per anni in varie occasioni (in qualche attività formativa, in qualche evento pubblico, in occasioni casuali, per strada, per telefono per chiedere e scambiarci qualche informazione) solo di sfuggita, velocemente, come ormai accade sempre più anche fra chi vive vicino, fianco a fianco.
Alcuni mesi fa lo vedo arrivare al servizio in cui ora lavoro per chiedermi una collaborazione. Mi dice che vorrebbe raccontare i suoi vent’anni di lavoro educativo. Non ama molto scrivere. Nasce così l’idea delle interviste. Benché conosca a grandi linee il suo percorso lavorativo gli chiedo di farmi un sintetico riassunto della sua attività per avere una traccia da seguire e iniziamo ad incontrarci. Io faccio domande, forse troppe, e lui racconta la sue esperienze.
Ogni tanto le mie domande cercano di far emergere il suo pensiero su alcuni punti vitali della sua professione, sul suo modo di intendere il lavoro educativo.
Nel mentre lui racconta e ragiona scopro qualcosa di lui e di me. Lo interrogo e mi interrogo. Misuro le distanze, le vicinanze, le sovrapposizioni. Partiamo senza sapere bene quante interviste saranno necessarie. Ci fermiamo a quattro. Dopo averle trascritte (un aiuto importante è venuto a riguardo da sua figlia che qui colgo l’occasione per ringraziare) le abbiamo riviste insieme una per una, aggiustate, trasformato il parlato in scritto, tolto qualche ripetizione, riscritto qualche ragionamento contorto. La lettura del testo da parte di un amico comune, Primo Pellegrini, ha sollecitato alcune sue riflessioni che precedono le interviste.
Non penso che il testo che presentiamo abbia bisogno di tanti discorsi introduttivi.
Un presupposto anima questo lavoro e altri simili: ascoltare attentamente le esperienze professionali di altri colleghi, cercare di comprendere il loro modo di viverle ed interpretarle è una (non la sola, né necessariamente la migliore) strada per interrogare la propria esperienza, per ripensare e migliorare il nostro modo di lavorare e di essere.
La lettura di questo libretto è a mio parere un’occasione per vivere questa esperienza e sottoporre ancora una volta a verifica questo presupposto.
Ringrazio Tino per l’opportunità che mi ha dato e mi auguro che, soprattutto tra gli educatori, ci siano altri che sappiano coglierla.
Gilberto Mussoni
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Nuove musiche… senza spartito
Fra i mestieri e le professioni ve ne sono sicuramente diverse che possono assumere talvolta connotati di straordinarietà. Per la portata sociale, o per l’impegno, o per i riconoscimenti che il prodotto del loro ingegno e della loro dedizione meritano. A volte a ragione, a volte no.
Il mestiere di educatore – utilizzo il termine “mestiere” e non professione perché nel caso di queste interviste mi sembra più appropriato – ha una storia antica e molto spesso straordinaria, eppure non ha mai entusiasmato le folle, non ha mai creato né miti né eroi. Neanche fra gli stessi educatori ed educatrici. E non a caso: immagino Ferrer, Don Milani, Makarenko, per fare qualche esempio, portati su di un palco a ricevere applausi e non riesco a non immaginarli immediatamente con una smorfia di disgusto per tanto inutile, futile clamore. Li immagino schernirsi e alzarsi il bavero con pudore, nascondersi , sperando che “i loro ragazzi” non li vedano.
Si tratta solo di una mia piccola suggestione, o se volete di una allucinazione. Ma il mestiere di educatore, di educatrice, si fa in silenzio, spesso da soli. Si fa lontano dai riflettori, a volte distanti dal mondo, perché spesso è necessario rimanere da soli, in due, con la persona di cui ci si prende cura, e nessuno deve entrare in quello spazio magico e speciale, così difficile da costruire e difendere. Uno spazio non codificato, sempre diverso, sempre da reinventare. Costi quel che costi, a costo di scomparire, per un po’, insieme. Superando la rabbia e la frustrazione che assalgono quando, al ritorno da questi “spazi”, qualcuno dirà che non si capisce cosa ha fatto l’educatore in quel tempo, a cosa è servito, come è misurabile il suo lavoro…
e magari irridendo dirà che sì, in fondo non è un lavoro, non è una professione, che siamo solo inguaribili Peter Pan che si baloccano con i loro utenti.
Credo fermamente nel valore della formazione specifica, come nell’aggiornamento costante, nel lavoro in equipe, nella necessità della supervisione, nel confronto con le altre professioni sociali e sanitarie: non penso si possa prescindere da tutto questo, si tratta di strumenti di lavoro indispensabili. Ma credo altrettanto che non si possa continuare a lungo il mestiere di educatore senza la curiosità e la passione di un viaggiatore amante dell’avventura. So che questi termini possono suonare blasfemi e irriverenti, accostati ad una quotidianità fatta di sofferenza e dolore, la materia del nostro lavoro: al tempo stesso, non riesco ad immaginare come altrimenti si potrebbe tollerare di entrare ed uscire così disarmati, così poco potenti,
9 dentro a quegli spazi di cui parlavo poco fa. Spazi che a volte fanno davvero paura, spazi in cui altri entrano armati di tutto punto, da appartenenti a professioni forti, con settings, ruoli, tabelle di marcia rigorose e definite. Gli educatori e le educatrici ci entrano con davvero poche armi, e forse non è un caso se tanti e tante di noi erano e sono nonviolenti e pacifisti: non c’è guerra se non ci sono eserciti, non servono armi se non c’è guerra.
E’ davvero, credo, questa passione e curiosità di conoscere l’altro, anche nei suoi aspetti più difficili e a volte terribili, a mantenere viva la speranza e l’idea di poter raggiungere insieme a lui, al suo fianco, un cambiamento che a volte sarà talmente piccolo, impercettibile, da non essere notato dai più.
I riconoscimenti e gli applausi vanno ai grandi direttori di orchestra o alle star, e non a chi suona senza spartito improvvisando nelle stazioni della metropolitana: così nella loro quotidianità fatta di silenzioso anonimato gli educatori a volte cercano di tirare fuori melodie sempre nuove da strumenti che sembrano irrimediabilmente stonati, magari scartati. Né vorrebbero che succedesse altrimenti, né potrebbe diversamente avvenire: stare lontani dagli applausi e dai riflettori è necessario.
A volte, spesso, occorre suonare senza spartito, proprio come dice Settimio: perché non esistono musiche a cui quegli strumenti siano riconducibili, e, allora, bisogna provare a comporne di nuove.
Primo Pellegrini
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PRIMA INTERVISTA
G. Iniziamo dunque questo lavoro, questa esperienza. Non è trascorso molto tempo da quando me ne hai parlato la prima volta. Vedo e sento che c’è in te una certa urgenza e determinazione a intraprenderlo. Prima di iniziare a ricostruire la tua storia, avrei piacere di capire un poco perché, dopo anni che fai questo tipo di lavoro, hai deciso di cercarmi per raccontare, narrare, la tua esperienza lavorativa. Dopo che mi hai parlato di questa tua intenzione, mi sono fatto più volte questa domanda senza rivolgertela… Forse non è il modo migliore di iniziare questo nostro lavoro ma…
T. Come educatore ritengo di avere avuto un’esperienza un po’ anomala rispetto alla media dei miei colleghi, sia per come ho iniziato a fare questa professione sia nel come si è poi evoluto il mio percorso lavorativo. Spero che nel proseguo delle interviste questa anomalia emerga e venga descritta.
Ho cominciato il lavoro come educatore domiciliare nell’89 all’interno della Cooperativa C.A.D. (Cooperativa Assistenza Domiciliare). Oltre ad andare nelle case dei minori a svolgere il mio nuovo lavoro, e aver poi successivamente e parallelamente operato in un piccolo gruppo educativo e in centro estivo, mi sono trovato subito impegnato anche, contemporaneamente, all’interno della cooperativa. La direzione della Coop CAD era a Forlì, nella zona di Rimini c’era allora solo un ufficio aperto due ore alla settimana, senza regolarità. Assieme ai miei colleghi ho iniziato ad organizzare riunioni e a chiedere ai responsabili della cooperativa la possibilità di organizzare meglio l’ufficio di Rimini per permettere a noi educatori di questa zona di avere contatti regolari con lo stesso. Questo impegno mi ha consentito poi di ricoprire molti ruoli al suo interno: come quadro, come Consigliere di amministrazione, come facente parte della R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie) degli operatori prima e dei quadri, come dirigente.
Nel 1996 mi sono licenziato dalla Coop e, per la durata di un anno e mezzo, ho lavorato sempre come educatore, presso il C.E.I.S.
(Centro Educativo Italo Svizzero).
Nel 1998 sono ritornato alla Coop C.A.D. per poter lavorare al C.S.M.
(Centro Salute Mentale) dell’AUSL di Rimini dove tuttora, dopo aver vinto un concorso, opero.
Da un certo punto ho svolto poi anche una certa attività di insegnamento…
11 Ho lavorato in vari contesti, in vari luoghi, ho ricoperto varie funzioni.
Penso che raccontare la mia esperienza e rifletterci sopra, mettere a disposizione di altri questo mio racconto, possa essere in qualche modo utile ai miei colleghi, in particolare ai più giovani…
G. Ma perché proprio ora è nato in te questo desiderio? Perché, che so io, non due o tre anni fa?
T. Perché credo che quasi vent’anni di vita professionale di una persona sia un tempo significativo per poter svolgere su di essa una riflessione. Ancora più ragioni ci sono poi per una professione come quella educativa nata, almeno in questo territorio, con noi. Non siamo andati a fare una professione stabile e definita come quella dei ragionieri o degli Infermieri, che sono categorie ben consolidate e già in possesso di un albo professionale. La nostra professione è nata assieme a noi ed è bene che dell’esperienza di Rimini ci sia una qualche testimonianza.
Considera poi che è stata una fase della mia vita altamente positiva, un’esperienza che non sta volgendo al termine, che tuttora continua.
Sono sempre in attesa di potermi addentrare in situazioni diverse, nuove.
G. Hai iniziato a fare l’educatore nel 1989, prima svolgevi un altro lavoro.
Che cosa è successo? Cosa ti ha fatto cambiare strada?
T. Facevo il commerciante. Per 13 anni ho gestito una Stazione di servizio, un distributore di benzina, assieme a mio fratello. Il lavoro, seppur pesante, mi piaceva, mi consentiva di stare in mezzo alla gente, cosa che io amo! In primavera un mio carissimo amico (Primo) mi dice che ha cominciato a fare un lavoro che sentiva adatto a lui e a suo parere anche molto adatto a me. Ha motivato quest’affermazione dicendo che avevo già una figlia, che ero iscritto all’università e che vedeva il mio carattere congeniale a quel lavoro. .
G. Da quanti anni eri iscritto all’università?
T. Frequentavo il terzo anno della Facoltà di Sociologia a Urbino.
G. Quindi è stato Primo ad indirizzarti verso questo lavoro?
T. Sì. Cercò di spiegarmi in cosa consisteva il lavoro di educatore domiciliare. A dire il vero, non riuscii a capire bene di cosa stesse parlando e così il dialogo in un primo momento si chiuse. Lavoravo in
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una stazione di servizio! Poi mi spiegò che anche sua moglie aveva appena intrapreso quel lavoro. Durante l’estate di quell’anno mi resi conto di essermi stancato di fare il gestore del distributore, anche perché avevo avuto qualche problema di troppo. In settembre, durante una cena a casa di Primo, gli chiesi altre informazioni sul suo lavoro. Mi rispiegò a grandi linee di cosa si trattava e cominciai ad incuriosirmi. Senza perdere ulteriore tempo mi recai subito, nella settimana successiva, presso l’ufficio di Rimini della Coop. Preparai i documenti necessari e chiusi l’iscrizione alla Camera di Commercio di Rimini. Il lunedì successivo iniziai a lavorare come educatore.
Rispettai i tempi burocratici, non feci niente di irresponsabile. Su indicazione della referente della Coop. mi presentai alle due Assistenti Sociali (con le quali collaboro tuttora) in via Bonsi dove erano situati gli uffici della U.S.L.. Mi presentarono la situazione di due ragazzi minori e di lì a poco cominciai gli interventi. Ricordo che nei corridoi incontrai anche una responsabile della U.S.L. che era mia cliente al distributore la quale mi chiese cosa stessi facendo in quella sede. Io risposi : “Ho avuto un incontro con due assistenti sociali, sono il nuovo educatore non mi vedi?!”. Scoppiammo tutti e due in una fragorosa risata!
G. La prima assistenza domiciliare dopo quanto tempo è cominciata?
T. Di lì a pochissimi giorni perché le assistenti sociali mi comunicarono che avevano urgenza di affidare questi casi a uomini (mi dissero che mi aspettavano a braccia aperte). In quel periodo, se non ricordo male, io e Primo eravamo gli unici uomini presenti in Coop a Rimini. I primi casi che mi affidarono furono una bambina di 7 anni che viveva con la madre (ragazza madre) e un ragazzino di 11 che viveva, anche lui, con la madre separata. In entrambi mancava la figura maschile in casa.
G. Che tipo di problematiche c’erano?
T. I problemi erano dovuti all’assenza della figura maschile! La ragazzina, che non aveva mai avuto nessun tipo di assistenza domiciliare, viveva da sola con la madre la quale aveva qualche problema economico, sociale, personale. Il ragazzino, invece, frequentava le scuole medie, viveva con la sola madre ammalata e separata, aveva bisogno di una assistenza per recuperare un ritardo in ambito scolastico. Erano i primi anni che i servizi praticavano questo tipo di interventi. Allora, non come ora, c’erano disponibilità economiche anche per questo. Con l’andare del tempo non si è più
13 fatta attività educativa a partire dal recupero scolastico, si è sempre più intervenuti solo in situazioni di minori portatori di handicap gravi o medio gravi. A parer mio e dei miei colleghi quegli interventi erano molto utili, sia per i minori che per le famiglie. Si entrava all’interno delle famiglie con la “scusa” di aiutare i ragazzi nello svolgimento dei compiti, in realtà si cercava di capire la natura delle problematiche presenti per cercare di attuare un intervento sull’intera famiglia. Ti racconto un aneddoto recente: la settimana scorsa ho incontrato per caso il ragazzino di cui ho parlato ora, che non avevo più rivisto da allora; mi ha riferito di essere sposato, di avere due figli e di lavorare in società con suo suocero.
G. Se ricordo bene hai avuto anche il caso di un ragazzino più grave…
T. Era un ragazzino chiuso, faticava a socializzare con i coetanei. Era scontroso, litigioso, con un livello di autostima molto basso. Andava d’accordo con gli adulti, aiutava le vecchiette ad attraversare la strada; quando arrivava nel campo di calcetto, iniziavano i guai! Dei compiti non si parlava. I genitori litigavano costantemente, il padre aggressivo aveva fratturato in un paio di occasioni le costole alla moglie senza che questa, per paura, lo denunciasse. Ricordo che il padre durante l’unico colloquio, a cui si presentò, con la assistente sociale di riferimento del ragazzo, ammise “candidamente”: “Mio padre mi parlava a suon di schiaffi e io so fare solo questo con mio figlio”.
G. In quali zone lavoravi?
T. Principalmente nelle zone di Villa Verucchio, alle Celle e a Viserba.
G. Hai un aneddoto da raccontare in riferimento al tuo primo giorno di lavoro?
T. Si. Anche molto divertente, a mio parere.
Quando non era possibile farsi presentare alle famiglie dalle assistenti sociali, noi ci recavamo da soli al domicilio. Ci descrivevano il caso ci fornivano l’indirizzo dell’abitazione e… vai! Quasi sempre avvertivano la famiglia con una telefonata fornendo il nome dell’educatore. In occasione del mio primo domiciliare suono al campanello dell’abitazione. Mi risponde la signora domandando chi fosse.
Rispondo presentandomi come “l’educatore”. Allora la sentii chiamare la figlia dicendole di far presto perché era appena arrivato “il maestro”. L’associazione della madre era subito fatta: la bambina
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frequenta le scuole elementari, allora io ero il maestro! Sono entrato in casa, ci siamo presentati, abbiamo fatto i compiti e dopo un’ora e mezza me ne sono andato dando loro l’appuntamento per il giorno successivo.
Subito dopo mi reco dall’altro ragazzino che frequentava le scuole Medie. Suono il campanello e anche qui mi risponde la madre. Mi ripresento come “l’educatore”. La signora chiama il figlio dicendo che era appena arrivato il professore. Anche qui l’associazione è stata subito fatta: mi sono messo a ridere da solo!
A sera al ritorno a casa ho detto a mia moglie: “Sai oggi nella prima ora di lavoro sono diventato maestro e nella seconda professore, se continua di questo passo in una settimana diventerò presidente della Repubblica!”
G. Un buon inizio, non c’è che dire… Quindi facevi assistenza domiciliare prevalentemente in situazioni in cui era necessario un sostegno per il recupero scolastico. Come era organizzato il lavoro?
T. L’assistente sociale era colei che conosceva i ragazzi e che decideva il tipo di intervento da attuare sul minore. Chiamava l’educatore, gli presentava il caso e gli presentava il progetto con tanto di durata dell’intervento, numero di ore a disposizione.
Per esempio nel caso della ragazzina il mio orario era di un’ora e mezza al giorno, dal lunedì al venerdì. Per l’altro ragazzino avevo a disposizione quattro ore suddivise in due giorni alla settimana. Questo esclusivamente per consentire la copertura dei compiti settimanali.
Gli orari si stabilivano con le famiglie seguendo le loro esigenze e tenendo conto della disponibilità oraria dell’operatore.
Era difficile riuscire ad incastrare gli orari in maniera ottimale al fine di avvicinarci il più possibile alle 36/38 ore settimanali per avere uno stipendio adeguato. Venivamo pagati a ore e comunque pagati poco:
tuttora la paga oraria prevista dai contratti nazionali delle cooperative sociali è bassa. Lavoravamo con il sistema “a caselle”. Conservo ancora a casa i piani di lavoro settimanali forniti dalla Coop. Ti davano l’idea immediata dei tuoi impegni settimanali. Le caselle vuote costituivano per noi operatori una specie di “muri del pianto” in termini di stipendio, perché significavano ore non lavorate e quindi non retribuite.
Mediamente si riuscivano ad organizzare tre interventi al giorno per una media oraria di sei ore al giorno per sei giorni settimanali. Erano possibili anche cambiamenti in itinere sia per esigenza della famiglia che dell’operatore. In termini di copertura oraria, noi uomini, dato l’esiguo numero, eravamo certamente favoriti. Ricordo che dovevo
15 combattere più con l’esubero delle ore (che per contratto andavano in flessibilità) che con la carenza di orario! Andavano considerati anche gli spostamenti: in una giornata poteva succedere di dover partire da casa (Rivazzurra di Rimini) per recarmi a Villa Verucchio; di qui alle Celle per raggiungere poi Spadarolo. Come si può notare i chilometri erano tanti e il rimborso spesa era minimo (fra l’altro non previsto dal CCNL, ma riconosciuti come condizione di favore dal regolamento interno C.A.D.). Diciamo che sia da parte della Coop che dell’operatore una media oraria di 25 ore settimanali erano già soddisfacenti e più aumentava l’anzianità di servizio, più miglioravano le cose!
G. Con che criterio assegnavano ai maschi i casi?
T. Secondo me e secondo i miei colleghi i criteri principali erano almeno due: la carenza della figura maschile nelle famiglie degli utenti e il problema del contenimento di utenti aggressivi! A volte la scelta non avveniva in base al fatto che l’uomo è più forte e ha più muscoli, era il ragazzino stesso che sentiva l’uomo più capace di “contenerlo” a livello psico-fisico.
G. Avevi qualcuno che ti seguiva dal punto di vista educativo in Coop o avevi soltanto, come sostegno e spazio di confronto, i colloqui con la assistente sociale? Ogni quanto avvenivano gli incontri di verifica e/o di programmazione degli interventi?
T. Il confronto sui casi avveniva con le assistenti sociali. Dipendeva dai casi e dalle assistenti sociali, mediamente ci si incontrava una volta al mese o all’occorrenza. Era un buon supporto, il problema si poneva nel caso di esigenze urgenti. Ad esempio: se il colloquio era avvenuto il giorno prima di un’urgenza, in caso di necessità avrei teoricamente dovuto aspettare un mese per avere un aiuto.
G. Con quali tipo di risorse hai iniziato a lavorare?
T. Non avendo avuto nessun tipo di formazione (all’atto dell’assunzione dovevamo solo dimostrare di essere in possesso di un diploma delle scuole superiori di qualsiasi indirizzo. Le ragazze in possesso del diploma delle scuole magistrali erano in maggioranza perché era considerato il diploma più “attinente”) l’esperienza personale di ognuno di noi era fondamentale! Nel mio caso è stata importante, e l’ho sempre ribadito, anche nel libro che hai scritto tu (“Nonostante tutto” di Gilberto Mussoni N.d.R.), la mia età anagrafica. Quando mi
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presentavo a domicilio avevo 35 anni, non ero “un ragazzino”! I consigli che fornivamo erano accettati meglio dalle famiglie se provenivano da un adulto piuttosto che da un ragazzino; il rischio era altrimenti di essere poco credibile! Era fondamentale acquistare subito credibilità con le famiglie che frequentavamo a domicilio.
In coincidenza con l’iscrizione di mia figlia alla prima elementare c’è stata poi la mia alla Facoltà di Sociologia a Urbino. È stato il coronamento di un vecchio sogno: iscrivermi alla facoltà di sociologia nella mia città natale. Gli studi approfonditi in questa facoltà mi sono stati utili nel lavoro educativo. Ho potuto affrontare anche temi verso i quali avevo un particolare interesse come quelli riguardanti la devianza, i gruppi, i piccoli gruppi, l’urbanesimo, le classi sociali, il fenomeno della scolarizzazione, la pedagogia moderna, etc. Sono tutte conoscenze che nel tempo mi sono ritornate utili.
G. Dicevi, so, che hai lavorato anche in un Centro Estivo di Bellaria.
Quale era la fascia d’età dei bambini?
T. Era quella delle elementari/medie. Le istituzioni avevano l’obbligo - scritto o non scritto - di seguire i ragazzi di questa fascia d’età. E c’era richiesta di questi interventi educativi.
Naturalmente i casi “più difficili” erano seguiti a domicilio anche d’estate. Ho seguito un caso anche d’estate, proprio per non perdere il rapporto con il ragazzo e la famiglia.
G. Perché sei stato chiamato presso il Centro Estivo di Bellaria?
T. Il comune di Bellaria/Igea Marina dava in appalto il Centro Estivo alle cooperative e la C.A.D. era riuscita ad aggiudicarselo. Fino ad allora erano stati impiegati solo operatori di Cesena e Gatteo. Il Comune garantiva l’apertura del Centro dalle 8 di mattina alle 18 circa del pomeriggio nei mesi di luglio/agosto. In luglio raggiungevamo un numero pari a 120 bambini con 11 educatori e un coordinatore; in agosto scendevamo tra gli 80 e i 90 con 8 educatori e sempre un coordinatore.
La posizione in cui si trova Bellaria/I.M., consentiva di richiedere anche operatori di provenienza del mio territorio; così io, Primo ed altri, siamo stati i primi educatori di Rimini a lavorare in quel Centro estivo riuscendo in tal modo a lavorare anche nell’interruzione del calendario scolastico.
Invece nel secondo anno del C.E. di Bellaria ho lavorato solo nel mese di luglio con la qualifica di educatore. Alla fine dello stesso mese ho ricevuto una telefonata da parte di una mia responsabile, la
17 quale mi comunicava che nel mese di agosto la mia mansione, all’interno del centro estivo, sarebbe cambiata: avrei dovuto fare l’animatore. Questa telefonata è capitata nel mezzo di una mia giornata lavorativa nel momento del pranzo di tutto il C.E. Mi aveva letteralmente preso alla sprovvista: non avevo mai fatto l’animatore.
Mentre la responsabile di fronte alle mie titubanze cercava di tranquillizzarmi, provai a chiedere un po’ di tempo per poter riordinare le idee. Lei continuava imperterrita ad insistere, ripeteva di non preoccuparmi. A suo parere avrei fatto sicuramente un buon lavoro ma continuavo ad essere perplesso. Per tagliare corto è emerso che il Comune, per questo ruolo, voleva una figura maschile con precedente esperienza al C.E. e che conoscesse pertanto i ragazzi.
In definitiva, anche questa volta, mi avevano messo in condizione di non poter rifiutare.
G. Forse qualcuno nella COOP. aveva notato certe tua capacità, certe tue caratteristiche personali, come l’humour, la tua facilità di stare in mezzo alle persone o la disinvoltura ad intervenire in situazioni di gruppo come le assemblee, caratteristiche che possono predisporre a fare il lavoro di animazione…
T. In effetti mi piaceva “animarle” le assemblee C.A.D., magari con interventi “pittoreschi”, a volte “provocatori”, apprezzati e condivisi sicuramente più dagli operatori, che dai dirigenti.
Ritornando al discorso di prima, io di animazione non ne sapevo più di tanto. Non avendo avuto nessun precedente da cui carpire idee o spunti, ho deciso di inventarmelo questo nuovo ruolo. Sono andato in libreria e ho acquistato quattro testi che trattavano temi come giochi di gruppo (piccoli e grandi), giochi all’aperto, al chiuso, giochi di ruolo, giochi in spiaggia, al parco e via dicendo. Come sfondo integratore del C.E. in quell’estate, avevamo individuato quattro grandi temi:
acqua, aria, terra e fuoco. Io ne avevo scelti due, terra e aria, e su quelli avevo lavorato, anche con grande collaborazione da parte dei miei colleghi (eravamo molto uniti e loro erano molto contenti che fossi io l’animatore). Gli altri due temi, fuoco e acqua, li organizzava un animatore professionale dall’esperienza ormai collaudata, quindi sicuramente molto più abile di me.
G. Hai scoperto così questa tua nuova abilità. In fondo animatore e educatore sono due professioni cugine, hanno una affinità stretta, però non tutti gli educatori sono animatori e viceversa.
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T. A dire la verità proprio in quegli anni, e questo ci dovrebbe servire per riflettere sulla nostra professione, l’animatore e l’educatore
“dovevano” essere la stessa cosa. Questo creava malumori all’interno della Coop Molti si opponevano a questa confusione di ruoli, soprattutto nella zona di Rimini. A Forlì alcuni colleghi educatori erano spesso chiamati ad animare feste di compleanno o di altra natura. Per esempio poteva capitare che un genitore chiamasse la Coop chiedendo di organizzare una festa di compleanno per la durata di 4 ore con un gruppo di una ventina di bambini dodicenni. Il responsabile faceva un preventivo di spesa e nel caso il genitore avesse le risorse la cosa procedeva. Noi a Rimini non eravamo predisposti per questa mansione.
G. Tu cosa ne pensi. A tuo parere un educatore deve essere anche animatore?
T. Allora, al momento dell’assunzione, non ti veniva fatta questo tipo di richiesta. All’operatore venivano presentati solo esempi di un suo possibile intervento in cui veniva richiesta una osservazione, un recupero scolastico incentivando le capacità del bambino, un preciso lavoro sulle famiglie e qualche intervento nella rete sociale. Gli Operatori di Rimini non si sentivano culturalmente pronti per questo tipo di esperienza e per rendere, quindi, queste due professioni intercambiabili.
La storia ci ha poi dato ragione, perché nel tempo la professione dell’animatore si è andata specializzando e sono stati istituiti corsi e scuole ad hoc. All’oggi un C.E. chiede l’animatore e l’educatore.
Ironia della sorte, il ruolo dell’animatore mi perseguita, io stesso collaboro ancora con alcuni enti di formazione insegnando tecniche di animazione.
G. Sono stati gli altri a farti vedere una opportunità operativa, una abilità, che altrimenti non avresti visto…
T. Questa esperienza adesso mi fa sorridere, ma ricordo le angosce e le paure di allora. All’inizio non capivo, ma come recita quel detto: “Non capisco, ma mi adeguo”. Forse oggi avrei ancora più paura a fare una cosa del genere. In quel momento, mi sono lanciato.
G. Ritornando a Bellaria, quella è stata la prima occasione in cui hai lavorato insieme a Gloria e Primo?
19 T. Con Primo sicuramente, con Gloria non ricordo bene se in quell’anno o in quello successivo. Ricordo che in quell’estate eravamo 4 o 5 maschi di Rimini, fra l’altro amici anche al di fuori dell’impegno di lavoro. Ci siamo sicuramente divertiti molto!
G. Che ricordi hai di quella esperienza.
T. Molto, molto positivi! Il periodo estivo, le esperienze nuove, sempre belle, lavorare finalmente in un gruppo di colleghi e contemporaneamente amici nella vita privata: cosa vuoi di più?! Certo la fatica era tanta, ma ben sopportata! Pensa che con le colleghe di Cesena e Gatteo mantengo ancora contatti! L’organizzazione era collaudata perché il Centro è stato per molti anni gestito dalla nostra Coop: le coordinatrici erano esperte, conoscevano già i bambini, le famiglie e gli amministratori locali del Comune.
Organizzavamo giochi con piccoli/medi/grandi gruppi sia al mare che al parco vicino, oppure momenti ludici all’interno della struttura nei giorni di pioggia, la merenda, i laboratori per preparare i materiali per la festa di chiusura mensile. Dovevamo gestire anche il momento della colazione, del pranzo e della siesta per i bambini più piccoli.
Non mancavano momenti di discussione accesa: “non è tutto oro quello che luccica”. Non tutti hanno vissuto in questo modo quell’esperienza. Io, però, è così che la ricordo.
G. In sostanza: domiciliari, centro estivo. Questo è il tuo primo anno di lavoro. Hai avuto qualche particolare difficoltà, qualche particolare problema, qualche dubbio sulla scelta che avevi fatto di cambiare lavoro?
T. In quel primo anno “ero un carro armato”, considerando il lavoro pesante che avevo fatto nei 13 anni precedenti…
G. Avevi scoperto un mondo nuovo…
T. Si! Mi divertivo molto, mi trovavo bene con i ragazzi, con i colleghi.
Andavo ripetendo che il nostro era “il più bel lavoro del mondo” anche se davanti ai colleghi più scettici dovevo rettificare dicendo che non era il più pagato, ma a mio parere il più bello.
A parte gli scherzi, mi sentivo bene e gratificato. Avevo finalmente scoperto che cosa avrei potuto fare da …grande.
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G. Nei centri estivi ti è mai successo di vivere un momento particolarmente critico?
T. Al Centro Estivo c’erano difficoltà quotidiane. Ti faccio un esempio: un pomeriggio al ritorno dal parco un bambino ci ha riferito che si era punto un dito con una siringa. Noi educatori, tutti allarmati, abbiamo messo in moto quella che viene definita “la procedura”: abbiamo fatto un sopralluogo al parco, abbiamo avvertito la famiglia con la quale abbiamo fatto un ulteriore sopralluogo, tutto con esito negativo.
Abbiamo allertato inoltre i nostri referenti istituzionali: Coop C.A.D. e gli Uffici Comunali competenti. Ad ulteriori domande il minore ha candidamente ammesso che aveva tratto lo spunto per il suo comportamento da un programma visto il giorno prima in TV, per farci uno scherzo! Per fortuna c’erano anche tanti momenti ludici: scherzi ai colleghi, gavettoni, si ritornava un po’ tutti bambini.
G. Ricordi un caso, una situazione, particolarmente difficile nella tua esperienza a domicilio?
E’ stato nel secondo anno che ho avuto un caso molto difficile. Ero in ferie. Mi telefona una responsabile del Servizio Sociale dell’U.S.L. e mi dice che era stato ricoverato nel reparto di N.P.I. (Neuro Psichiatria Infantile) un ragazzino di 17 anni psicotico delirante grave, con problemi di aggressività che, in precedenza, aveva dato problemi di diversa natura. La responsabile, con la quale avevo una certa confidenza, mi spiega che bisognava cominciare un percorso educativo urgentemente. Le dico che in quei giorni stavo consumando le mie ferie. Non mi lascia finire la frase e mi fa capire in modo risoluto che dovevo assolutamente accettare il caso: non potevo rinunciare. In questo modo ho fatto la prima conoscenza della “psicosi grave” che per un operatore psichiatrico non si scorda mai.
G. Che cosa sapevi allora della psicosi?
T. Onestamente ammetto che allora per me la psicosi era una parola come un’altra! Dalla letteratura avevo dedotto che fosse una malattia grave, ma come tante altre. Era una malattia psichiatrica, a cui di solito si dava poco peso trascurandola.
Ho fatto quel mio primo intervento in NPI di domenica mattina dalle nove a mezzogiorno. Avrei dovuto proseguire l’intervento tutti i giorni di permanenza in reparto del ragazzo, festivi compresi (per un totale di 22 giorni). Mi recai in reparto, non conoscendo nessuno mi presentai agli infermieri, al ragazzo e alla madre. Quest’ultima mi
21 sembrò subito molto contenta perché non aveva mai avuto un educatore per suo figlio nonostante lo avesse chiesto ormai da tempo.
G . In pratica che cosa hai fatto?
T. Gli sono stato vicino, gli parlavo, passeggiavo con lui nel corridoio.
G. Potevi interagire?
T. Non tantissimo, ma parlava e rispondeva in maniera abbastanza adeguata. Poi arrivò il momento del pranzo. Immagina la scena: sul tavolo c’era del pollo con purè, un po’ di pane e l’acqua. D. mangia il pollo e allontana il resto da sé. A questo punto, hai presente cosa consiglia la teoria in questi casi: dare un ordine semplice e preciso con voce ferma e tono convincente.
G. Tutto questo dalla letteratura?
T. La letteratura, i colleghi e gli Infermieri. Mentre osservavo la scena con fare deciso gli avvicino il piatto del purè e gli “ordino” di magiare.
Lui allontana il piatto. Ribadisco la richiesta con fermezza. D. prende il piatto, lo solleva e lo scaraventa con forza a terra. Risultato: purè sparso sul pavimento, sui vetri della finestra e sui muri. Con gli Infermieri e gli altri ricoverati ci siamo fatti tutti una bella risata!
Nei momenti in cui D. andava nel bagno, cominciavo a pormi diverse domande: dovevo seguirlo anche in bagno? E la privacy? In effetti non avevo una confidenza tale che giustificasse la mia presenza in bagno e lui era autosufficiente. Se avesse aperto la finestra? Il ragazzo avrebbe potuto avere atteggiamenti di fuga? Aveva avuto in passato episodi di tentati suicidio? Mi facevo tutte questa domande, senza avere la benché minima risposta (almeno nell’immediato).
G. A che piano vi trovavate?
T. Non ricordo con esattezza: primo o secondo piano, certamente non al piano terra. Ricordo che ero preoccupato, sempre con l’orecchio attaccato alla porta per captare qualche segnale, qualche rumore sospetto. Questi erano i miei problemi in quella situazione.
G. Quindi sei andato dopo quella telefonata senza alcun tipo di presentazione del caso. Quanto è durato questo rapporto?
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T. Ti posso dire che è stato in assoluto il rapporto che è durato di più nel tempo: 3 ore tutti i giorni escluse ferie e festivi, per 33 mesi di seguito, poi altri 3 mesi, dopo la parentesi del mio impegno triennale (Referente zona Rimini più Capo Area negli Uffici C.A.D. a Forlì), per un totale di 36 mesi! Tengo tuttora collegamenti con il ragazzo tra C.S.M. (Centro Salute Mentale) e la struttura che lo ospita. È stato inserito nel 1998, anno in cui io ed un mio collega, ne abbiamo curato l’inserimento.
G. Questo è il caso più lungo e impegnativo come domiciliare. Poi?
T. Poi è nato il Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Lavoravo nel Gruppo e seguivo D. ed altri ragazzi: lavoravo dalle 36 alle 38 ore settimanali.
G. Avevi lavorato già nei Centri Estivi, la dimensione del gruppo, del grande gruppo, l’avevi già vissuta, sperimentata. Questo invece era un piccolo gruppo. Che ricordo hai dell’inizio di questa nuova esperienza?
T. So che mi ripeto, ma complessivamente è un bel ricordo. Come ho specificato nel tuo libro, al momento della richiesta di operare in questa nuova iniziativa, ero un po’ prevenuto. Pensavo che la formazione dei gruppi fosse dettata più dal bisogno della USL di risparmiare risorse che da esigenze di migliorare la qualità del lavoro con i minori. In sintesi lavorando in gruppo si utilizzavano meno operatori per rispondere allo stesso numero dei bambini. Questa era per me la sostanza.
Si sapeva molto poco di questi gruppi o mini gruppi. Tra l’altro questo ha fatto diventare il nostro lavoro pionieristico. La proposta era quella di lavorare due ore tutti i giorni, con quattro operatori e 18/20 ragazzi.
All’inizio, mi ripeto, eravamo preoccupati, ne parlavamo insieme per cercare di capire e “farci coraggio”. Le colleghe donne erano ancora più preoccupate a pensare di dover contenere momenti di aggressività e di violenza. Sapevamo che c’erano psicotici, ragazzi aggressivi, alcuni anche fisicamente più grandi di noi… Poi sai nell’incertezza le cose si amplificano…
G. Come era stato presentato questo gruppo e come erano stati scelti gli operatori?
23 T. C’erano stati incontri della assistente sociale del Distretto con gli
operatori interessati. Alcuni di noi erano stati chiamati, altri erano semplicemente interessati anche per esigenze di servizio.
Nel frattempo c’era un discorso parallelo all’interno della nostra Coop:
si richiedeva con insistenza l’apertura di un ufficio a Rimini. I soci presenti sul nostro territorio aumentavano e, di conseguenza, aumentava la richiesta di operatori da parte dell’U.S.L..
G. Fammi capire. Quando tu sei stato assunto la tua Coop non aveva un ufficio in zona? Era nata da poco…
T. A Forlì era attiva da anni, ma a Rimini, era presente dall’anno stesso in cui ero stato assunto, o da quello precedente.
Alcuni di noi da tempo si stavano mobilitando, anche con l’ausilio del Sindacato, per avere questo famoso ufficio a Rimini, aperto tutti i giorni, con la presenza di un referente/responsabile di zona. Noi dipendevamo da Forlì per tutto: per la modulistica (fogli ore, ferie, permessi), per dubbi di lavoro (come comportarci in caso di assenza del minore, come rispondere a nuove richieste da parte della famiglia), per i rapporti con la Coop (errori di compilazione della modulistica, eventuali errori di conteggio in busta paga), per le sostituzioni in caso di assenze (malattie, permessi). Ci mancava una figura di supporto. L’ufficio di Rimini era solo uno “sportello burocratico” dove venivano portati i curriculum per eventuali assunzioni, dove si svolgevano colloqui di assunzione e dove venivano consegnati i fogli ore a fine mese. Nel caso fosse insorto un problema immediato sul lavoro o un semplice dubbio, dovevamo rivolgerci a Forlì.
G. Quanti operatori della C.A.D. lavoravano nel territorio di Rimini in quel periodo?
T. Il primo anno, e parlo solo di educatori, eravamo una decina.
Sinceramente non saprei riferirti il numero esatto di A.D.B. (addetti all’assistenza di base) che sono nostre colleghe impiegate nel settore anziani. In pochi mesi il numero di soci è cresciuto enormemente.
Questa mobilitazione ha dato buoni frutti: la Coop ha aperto un ufficio a Rimini che all’inizio si occupava di rispondere a tutte le esigenze del socio. Era nata anche a Rimini la figura del C.C. (Capo Cantiere), che non aveva lo stesso ruolo del Coordinatore, ma si occupava delle sostituzioni in caso di malattia, raccoglieva e controllava i fogli ore, si rapportava continuamente con Forlì, aveva a disposizione oltre al telefono anche il fax (strumenti per noi molto utili visto che allora non
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c’erano computer o cellulari a disposizione con la stessa facilità di oggi). A dire il vero contattavamo questa figura e ci rivolgevamo ad essa come fosse un Coordinatore!
G. Quindi il gruppo di Villa Verucchio nasceva parallelamente a questa evoluzione all’interno della Coop Immagino che vivevate la vostra esperienza lavorativa e l’evolversi dell’organizzazione della Coop con non poca incertezza
T. Con incertezza ma con impegno. Cercavamo di lavorare al meglio e nello stesso tempo cercavamo di far capire ai dirigenti della Coop i nostri problemi quotidiani, “costringendoli” a darci certe risposte.
G. Voi educatori facevate incontri e riunioni all’interno della vostra Coop?
T. La Coordinatrice che veniva da Forlì garantiva l’apertura dell’ufficio per due ore alla settimana e, sempre con lei, facevamo una riunione al mese dove approfittavamo dell’occasione per farle domande, scambiarci esperienze, consegnare tutta la documentazione.
G. Nella Coop oltre agli educatori c’erano, come dicevi, le ADB. Quante erano?
T. Nell’ufficio di Rimini (sito in via Covignano) c’era anche la C.C. che si occupava delle ADB. In quel periodo la nostra Coop impiegava educatori nel Settore Minori, ADB per il Comune di Rimini, e ADB per l’USL. Penso che fossero una ventina per gruppo
G. Quando è stato aperto questo ufficio in Via Covignano?
T. La data di apertura dell’ufficio con i C.C. non la ricordo con precisione, ricordo però che nella primavera del 1993 i nostri responsabili avevano convocato tutti i laureati e laureandi della nostra zona (ed eravamo 6 o 7 se non ricordo male), per proporre loro il ruolo di Referente-Coordinatore per la zona di Rimini. Alla proposta, sono seguiti i colloqui individuali. Alcuni colleghi avevano subito declinato l’invito, altri, me compreso, avevano mostrato il loro interessamento. Alla fine questo ruolo è stato affidato a me.
G. Già lavoravi nei gruppi educativi da diverso tempo?
T. Lavoravo nei Gruppi Educativi dal ’90. Nel frattempo all’interno della Coop, erano avvenute molte evoluzioni e cambiamenti, che mi
25 avevano portato prima ad essere eletto, assieme a Primo, come delegato delle R.S.U. (Rappresentanze Sindacali Unitarie), successivamente ad essere eletto nel Consiglio di Amministrazione e a dare, per incompatibilità di carica, le dimissioni dalle R.S.U..
G. Hai ricoperto un doppio incarico all’interno della Coop: come Referente Sindacale e come consigliere…. Ha coinciso con il momento in cui hai cominciato a lavorare nel Gruppo Educativo di Villa Verucchio?
T. Si, più o meno, i tempi coincidevano. Il lavoro da fare era tanto in diversi settori: eravamo più operatori, quindi aumentavano le esigenze. Lavorando in diversi settori, avendo avuto diverse cariche, incominciai a conoscere molti soci sia educatori che impiegati negli uffici.
Avevo avuto anche la fortuna di conoscere il mio lavoro da diverse ottiche, angolazioni.
Nel momento dei colloqui per la carica di Referente/Coordinatore ero certamente favorito perché, come ho detto prima, avevo avuto modo di conoscere e di farmi conoscere. Presumo avessero scelto me proprio per questo motivo.
Pertanto nel ’93, ho dovuto abbandonare definitivamente gli impegni domiciliari e il lavoro educativo nei gruppi per spostarmi in ufficio.
G. Torniamo al Gruppo Educativo di Villa Verucchio. Dopo questa prima fase di dubbi, perplessità, incertezze, si struttura questa esperienza con bambini dell’età elementari/medie. L’obiettivo più esplicito era quello del sostegno scolastico. Era anche un luogo di socializzazione, di incontro, e c’era l’ambizione da parte nostra, o forse soprattutto da parte mia che allora lo coordinavo, di fare anche, tramite esso, una qualche azione di prevenzione del disagio minorile. Lavorammo infatti molto anche con scuola e famiglie. Ci incontravamo regolarmente per attività di coordinamento. Parliamo qui di una attività che abbiamo vissuto assieme e quindi rischiamo di dare molte cose per scontate.
Proviamo per chi legge a descrivere meglio questa esperienza. Se ricordo bene ci vedevamo ogni 15 giorni per coordinarci…
T. All’inizio ci vedevamo più spesso perché dovevamo organizzarci, strutturarci e fissare un po’ di regole.
G. Infatti avevamo costruito insieme il progetto e questo lavoro aveva richiesto molti momenti di confronto e di discussione. Durante gli incontri scrivevamo i verbali per ricordare un po’ quello che facevamo,
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per lasciare una qualche traccia. Poi c’erano gli incontri periodici con le assistenti sociali, la psicologa, la scuola… Avevamo contatti organizzati anche con i genitori…
T. Ci siamo incontrati anche di sera. Ricordi che avevamo prodotto anche materiale fotografico in un album messo a disposizione dei presenti all’incontro? E avevamo mostrato un filmato girato in occasione di un’uscita con i ragazzi.
G. Si, mi sembra fosse alla diga di Ridracoli… E’ difficile ricordare i dettagli. Per fortuna abbiamo scritto “Nonostate tutto”. Poi comunque, a pensarci bene, non possiamo soffermarci troppo su questa esperienza solo perché l’abbiamo vissuta insieme. Ricordi qualcos’altro di particolarmente importante su di essa?
T. Ricordo soprattutto i problemi con le scuole: all’inizio ci avevano un po’ “snobbati”. Questa tendenza l’avevo già vissuta con il lavoro domiciliare. Quando mi si è presentata con i gruppi ho fatto in modo che non passasse inosservata perché non mi sembrava giusto. Gli insegnanti si chiedevano quali attività si svolgessero all’interno della struttura e quale utilità avesse questo gruppo nei confronti dei ragazzi. Non ricordi? Ci vivevano quasi come “rivali”.
Ricordo invece che il tempo ci diede ragione: alcuni ragazzi cambiarono l’approccio all’impegno scolastico, aumentando le autonomie rispetto allo svolgimento dei compiti a casa. Anche in classe non si sentivano più inferiori agli altri e riuscivano a raggiungere obiettivi insperati. Il fatto stesso di riuscire a terminare i compiti, in maniera corretta, magari sotto un aspetto più ludico, era molto apprezzato da tutti. Questo non perché gli educatori fossero dei maghi, ma forse perché finalmente i ragazzi cominciavano ad avere una visione diversa dell’adulto: non più un “rivale al quale contrapporsi”, bensì un alleato. Noi ci presentavamo ai loro occhi in maniera diversa, affrontavamo sia la parte relativa alla scuola che le situazioni di vita quotidiana con tutte le sue problematiche: era nato un feeling nuovo, diverso.
G. Si cercava di partire dai loro bisogni, dai loro problemi. Ricordo ora in particolare una attività di ricerca sugli animali, il non voler rimanere rinchiusi nel gruppo…
T. Le feste finali erano molto interessanti e apprezzate sia dai ragazzi che dal territorio stesso.
27 G. Ci sarebbero molte cose da ricordare… La scuola ci viveva come
rivali… si ricordo…
T. Ricordo bene i contatti che tenevamo con la scuola e tutti gli incontri.
In occasione di un consiglio di classe avevo cercato di spiegare in che cosa consistesse la nostra attività e cosa facessimo con i ragazzi.
Loro non capivano la differenza tra l’azione educativa nostra e il loro lavoro di insegnamento. Una volta, anche in maniera provocatoria, stanco di questo atteggiamento e di queste interminabili spiegazioni, ho detto: “Noi lavoriamo con i ragazzi, io non ho i titoli e le capacità per fare l’insegnante, ma voi non avete titoli e capacità per fare gli educatori. Stiamo facendo due lavori diversi.” Ricordo che queste mie affermazioni destarono non poco fastidio. Fortunatamente, però, con il tempo le cose cambiarono a tal punto che, ad una nostra festa, parteciparono anche insegnati ed alunni delle scuole elementari e addirittura una classe intera. Per noi educatori fu una grande conquista.
G. All’inizio lo spazio ce lo avevano dato i frati…
T. All’inizio abbiamo lavorato nelle stanze del Consultorio, poi dai frati. Il Centro Estivo era stato ospitato sempre dai frati.
G. Hai ricordi più precisi tu di me… Ricordo anch’io la diffidenza iniziale della scuola e come nel tempo le cose sono cambiate. Il territorio stesso ci ha pian piano accolto, accettato. Una dimostrazione del fatto è stato che i frati ci hanno concesso lo spazio per poter effettuare il Centro Estivo, una esperienza molto bella, molto positiva.
Questo lavoro con il piccolo gruppo, il C.E. a Bellaria, ti portavano già da allora ad avere esperienze assai diversificate: intervento individuale a domicilio, piccolo gruppo, C.E. anche con attività di animazione; rapporti con i referenti dell’USL (educatore coordinatore, assistenti sociali, psicologo), il mondo della scuola, ecc. Ad un certo punto hai partecipato al Corso Biennale di Formazione sul Lavoro per Educatori Professionali organizzato dalla U.S.L. su direttive della Regione Emilia Romagna.
T. Sì, nel biennio 92/94
G. Che ricordi hai di questa esperienza?
T. L’ho vissuta con molto interesse. Avevo tentato di iscrivermi nel corso precedente ma mi mancavano pochi mesi di anzianità di servizio per
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raggiungere i requisiti richiesti e necessari per accedere all’iscrizione.
Quasi il 50 % dei partecipanti al corso appartenevamo alla Coop C.A.D., quindi eravamo amici e, allo stesso tempo, colleghi.
G. E’ stata quindi anche un’occasione per vedervi più spesso e quindi per confrontarvi…
T. Esatto. Potevamo apprendere cose nuove e riportarle anche all’interno della cooperativa, sfruttando questi momenti come vera e propria formazione. Anche l’impostazione del corso era interessante.
La suddivisione in moduli ci permetteva di approfondire argomenti attinenti alla nostra professione, affrontavamo materie diverse a cui non eravamo abituati come “legislazione”. Avevamo la possibilità di rivolgere domande specifiche ai professionisti giusti; per esempio abbiamo potuto avere delucidazioni sulle psicosi e sulla schizofrenia direttamente da uno psichiatra. Questo spesso ci rassicurava e avevamo bisogno di certe rassicurazioni, soprattutto noi educatori domiciliari. Il lavoro dell’educatore domiciliare era ed è tuttora ancora purtroppo un lavoro svolto in solitudine dove spesso dubbi e incertezze devono essere affrontati da soli, quotidianamente e in tempi molto ristretti. Lo spazio di confronto datoci allora è stato quindi molto utile.
G. Da quel che hai raccontato sin qui hai svolto i tuoi primi anni di lavoro come educatore con grande soddisfazione e entusiasmo, senza particolari problemi…
T. Non ho mai avuto eccessivi problemi e non dico questo per dare di me un immagine di educatore “Superman”.
La verità è che ho lavorato sempre in mezzo ad altri colleghi e, avendo sempre creduto nell’affiatamento del gruppo, mi ha sempre rassicurato molto sapere di poter condividere esperienze con loro.
G. In quegli anni hai conosciuto educatori in difficoltà. Se sì, perché a tuo parere lo erano?
T. Perché lavoravano esclusivamente a domicilio, non avevano mai avuto esperienza di lavoro in gruppo. Conosco colleghi che hanno sempre lavorato da soli.
G. Pensi che quello sia stato il problema maggiore per tutti coloro che hai visto in difficoltà?
29 T. Lo penso e ne sono convinto, tanto è vero che quando sono diventato coodinatore ho cercato di sfruttare la mia esperienza e la mia anzianità cercando di aiutare al meglio chiunque fosse in difficoltà.
Ti faccio un esempio: durante un coordinamento è emerso il problema di come comportarsi al momento del passaggio da un minore all’altro, da una famiglia all’altra. Domanda pratica: “Alle 15.00 finisco l’intervento con il minore, alle 15.15 devo essere da un altro minore, che fare?”. Risulta chiaro che un minore, sarà lasciato solo. A chi deve toccare questa sorte preservando per quanto si può il lavoro educativo e non rischiando in termini legali? Sembra una domanda stupida ma allora non lo era affatto. In riunione con calma si è trovata la soluzione. Quando la mamma del minore è in ritardo, tu non puoi allontanarti per recarti da un altro (anche perché non sei in grado di quantificare il ritardo, 10 minuti, 30 minuti…), mentre sarà cura del familiare dell’altro minore aspettarti e non lasciare il bambino da solo.
Consideriamo anche che allora non esistevano i cellulari, che le cabine telefoniche non sempre si trovavano nelle vicinanze e spesso le famiglie erano sprovviste di telefono nell’abitazione. Immaginiamo un educatore che si trova solo a dover risolvere questo problema.
Molti colleghi domiciliari, abbandonati a sé stessi e in situazioni di solitudine quotidiana si sono licenziati.
Poi la giovane età è un altro fattore importante: un conto è affrontare queste difficoltà a 35 anni, un altro a 22/23 anni. Questo teniamolo sempre presente! Non pochi di coloro che hanno abbandonato il lavoro educativo era giovani.
G. Dal momento che riunirsi per discutere i problemi non era sempre facile c’erano all’interno della COOP., strumenti informativi?
T. Io sono sempre stato interessato a ricevere e fornire informazioni. Per questo motivo io e Primo, insieme ad altri, abbiamo fondato un giornalino interno alla COOP. per rappresentare “il polmone dei Soci”.
Era uno strumento che era in grado di ricevere e fornire quante più informazioni possibili riguardanti campi più disparati. Chi aveva problemi, idee o dubbi di natura tecnica, sindacale o che riguardasse altro, poteva mettersi in contatto con la redazione del giornalino, la quale avrebbe provveduto a divulgare il quesito pubblicando una lettera o direttamente un’intervista all’interessato. Questa ci sembrava una ricchezza per tutti noi colleghi, un punto di riferimento importante all’interno della Cooperativa. Nella presentazione Primo, tra l’altro, scriveva: “…l’obiettivo è creare sulla carta quel luogo di comunicazione che a noi, che lavoriamo tutti i giorni nei luoghi più disparati, magari da soli, è evidentemente sempre mancato.
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All’interno troverete i nomi di tutti coloro che collaborano ai Q.I.
(Quaderni Informativi); la redazione, che si riunisce ogni due o tre settimane, è aperta a tutte le collaborazioni e ai contributi dei soci, in forma di lettera, intervista, richieste di chiarimenti o spiegazioni rivolte all’amministrazione, inviti a convegni, incontri, cene, segnalazione di corsi, stage, testi o articoli interessanti.”
G. Quanti numeri siete riusciti a pubblicare e quanto è durata questa esperienza?
T. Purtroppo l’esperienza è durata solo un paio d’anni (per un totale di una quindicina di numeri), anche perché è cambiata la redazione (il primo direttore responsabile era Primo) e i collaboratori. Il numero “0”
portava la data del dicembre 1993 e vi si leggeva: “ Contesto:
Quaderni informativi. Organo di informazione e comunicazione della Cooperativa C.A.D. Forlì”.
Abbiamo affrontato diversi temi: conoscere il cedolino (la busta paga), recensioni, formazione, interviste rivolte agli educatori, alle A.D.B.
agli amministratori. Per la scelta del nome, abbiamo fatto un brain storming e a me era venuta l’idea di “contesto” che aveva un triplice significato: CONTESTO, nel senso che siamo in un contesto sociale- politico-lavorativo; CONTESTO, nel senso di contestare- contestazione; CON-TE-STO, nel senso che sono con te, dalla stessa parte.
Carino non trovi?
G. E’ una parola magica… Interessante… Ma scusa voglio tornare indietro. Continuo a disturbarti con una domanda che ti ho già rivolto.
E’ sicuramente una domanda che in qualche modo faccio anche a me stesso. Vorrei capire qualcosa di più. Che cosa era che ti dava tanto entusiasmo in questo lavoro? Lo stare in mezzo alla gente???
T. Io, fortunatamente, ho sempre lavorato in mezzo alla gente.
G. Si, però l’educatore ha sicuramente una modalità diversa di stare in mezzo alla gente di un gestore di un distributore
T. Certamente. Lavorare nel sociale ti fa sentire più utile o, come spesso ripeto, è un egoismo che diventa una specie di altruismo. Occuparsi degli altri cercando di risolvere i loro problemi, di alleviarne le loro sofferenze, di ridurne gli handicap, senza “aspettare solo il 27 del mese”, sono cose che ritengo importanti. Ora lavoro con le persone
31 adulte, ma anche nei riguardi dei bambini conosco l’importanza di avere “l’altro” al proprio fianco!
G. Questo operare per sostenere persone in difficoltà, per favorire “un riscatto sociale” di persone in genere emarginate, non si legava anche alle tue convinzioni ideali?! Nel distributore non avresti potuto sicuramente allo stesso modo realizzarle...
T. Ho vissuto sempre male il fatto di non aver mai avuto un adulto che potesse aiutarmi a fare i compiti. Quando abitavo alla Grotta Rossa oltre a me c’era solo un altro ragazzo che frequentava le scuole superiori. Ho sempre fatto i compiti da solo, in caso di bisogno pensavo: “Non so cosa pagherei per avere l’aiuto di qualcuno!”.
Il diploma mi ha portato ad avere in casa i figli dei miei vicini che aiutavo nello svolgimento dei compiti. Mi è sempre piaciuto e mi piace tuttora aiutare gli studenti che necessitano di aiuto, a fare i compiti.
Nel periodo in cui ho lavorato al C.E.I.S. ero il primo a cominciare e l’ultimo a finire di fare i compiti con i ragazzi, e riuscivo ad ottenere anche buoni risultati. Il mio motto è sempre stato: “Sono in grado di fare amare la storia anche al più somaro”.
Di questa mia particolare attitudine, ora ne stanno beneficiando i nipoti.
G. Penso al fatto che appartieni ad una famiglia numerosa: sei il settimo figlio. Ti sei trovato quindi sempre insieme a tante persone. Che peso ha avuto questo fatto sul tuo modo di essere educatore?
T. Mi sento a mio agio con tante persone attorno, sono come una spugna: assorbo da tutti.
G. Certo che dal lavoro nel distributore, nella stazione di servizio, è stato un bel cambio di vita!
T. Un bel cambio, rischioso. Buttarsi a 35 anni in una esperienza completamente nuova è stato, a livello economico soprattutto, come fare un salto nel buio.
G. Con il nuovo lavoro le entrate economiche erano molto minori?
T. Molto di meno di prima, meno della metà di quello che guadagnavo prima. Il nuovo lavoro era una scommessa con il futuro. Se l’esperienza fosse fallita? Ma ho avuto il sostegno della famiglia; mia moglie aveva appoggiato da subito questa scelta perché aveva visto il
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mio entusiasmo e conosceva i miei interessi. Comunque è stato rischioso.
G. E’ stato un momento di svolta. A 35 anni hai scoperto questa nuova strada…
T. Mi dicevo: “O faccio il benzinaio tutta la vita oppure cambio adesso”.
Trovare lavoro in età più avanzata sappiamo tutti cosa significhi!
33 SECONDA INTERVISTA
G. Abbiamo visto come nel giro di 3 o 4 anni ti sei laureato, hai cominciato a fare il lavoro educativo in cui hai potuto svolgere esperienze molto diversificate (lavoro domiciliare, piccoli gruppi educativi, centri estivi), dalla Coop è arrivata la richiesta di svolgere un’altra attività (l’animatore), hai cominciato un corso di formazione di durata biennale… Hai vissuto molte esperienze… Di alcune abbiamo parlato forse in maniera troppo superficiale. In ogni caso, se non mi sbaglio, questo è un momento della tua vita particolarmente felice e da quello che hai detto ti sei trovato sempre a tuo agio in questo lavoro…
T. Hai detto bene, mi sentivo a mio agio. Mi sono trovato a far qualcosa che nella mia vita precedente avevo sempre fatto. Il lavoro nel sociale e con i minori e i bambini è sempre stato il mio “pane quotidiano”. Ho fatto il baby-sitter di mio nipote quando avevo appena nove anni perché mia sorella d’estate lavorava presso una pensione. In quel periodo mi occupavo di suo figlio che, al tempo, aveva sette mesi. Gli preparavo il biberon, le pappine, lo cambiavo, giocavo con lui, insomma mi occupavo del bambino da mattino a sera. Ho fatto il baby-sitter anche all’altro nipote, Mirco, che anche tu conosci. In casa mia sono sempre stati presenti bambini, in certi periodi estivi ne avevamo addirittura quattro.
G. Eri il più piccolo dei tuoi fratelli e ti venivano affidati i bambini…
T. Sì, ci si aiutava in questo modo. Era naturale occuparsi dei loro bisogni perché i rapporti tra noi erano ottimi. Ora questi bambini hanno più di 40 anni e hanno a loro volta dei figli. Questi dodici nipoti hanno messo al mondo dodici figli (dodici pronipoti): il cerchio-ciclo della vita! Il mio rapporto con i bambini è quindi naturale! Anche l’esperienza dei gruppi di Villa Verucchio non costituiva più di tanto una novità, sono sempre stato attivo nel sociale
G. Ti riferisci alla tua attività politica come anarchico?
T. Sì, anche. Non solo. La mia attività politica risale all’età scolastica.
Quando sono arrivato a Villa Verucchio avevo già alle spalle una quasi ventennale esperienza di intensa attività politica! Penso anche, in particolare, ad un lavoro nel quartiere di Miramare. Noi giovani del
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quartiere avevamo fondato un gruppo (allora noto, si chiamava “Chile Libre”) che contava sull’adesione di tutta la sinistra giovanile del quartiere e che operava sul sociale e sui bambini.
G. E vivere in una famiglia numerosa (ti chiami Settimio, sei il settimo figlio) quanto ha contribuito a condurti alla scelta del lavoro educativo?
T. Conservo a casa uno stato di famiglia di nove persone: i miei genitori, mio fratello con la sua famiglia e tutti gli altri fratelli. Convivevamo tranquillamente in questa specie di “tribù moderna”. La famiglia allargata mi è sempre piaciuta, mi piace tuttora! Una delle mie caratteristiche personali, che mi è stata sempre riconosciuta anche nell’ambiente di lavoro, consiste nella “innata” capacità di smussare gli angoli, stemperare gli attriti, “fare gruppo”. Da sempre ho lavorato in mezzo alle donne, sovente come unico uomo (albergo, stireria, ufficio a Forlì), e mi sono trovato sempre bene.
Inoltre considera che dopo l’esperienza di baby-sitter ho iniziato a lavorare d’estate già all’età di 11 anni (dal giorno successivo all’esame di quinta elementare, allora usava così, per chi non era figlio di Agnelli…). Ho fatto sempre lavori che mi collocavano in mezzo alla gente. Ho iniziato come barbiere (solo in seguito si sono chiamati coiffeur), benzinaio da ragazzino, cameriere in albergo, al bar; ho fatto l’assicuratore (ramo vita), un anno e mezzo in stireria (stiratore di Jeans). Sempre in mezzo alla gente!
G. Hai iniziato a fare l’educatore quindi con una lunga e diversificata esperienza educativa, sociale, politica, lavorativa.
T. Questo è il motivo per cui ritengo fondamentale per il lavoro educativo la risorsa “età”, il bagaglio di esperienze di vita unita all’esperienza sul sociale.
La predisposizione nei confronti dei bambini svantaggiati, altro esempio che ora mi viene in mente, mi portava ad offrire loro almeno l’aiuto nello svolgere i compiti scolastici. Dalla Grotta Rossa a Rivazzurra la mia casa è stata sempre un luogo frequentato da bambini con quaderni in mano! Anche quando frequentava la scuola mia figlia, la cosa si è ripetuta e continua tuttora con i pronipoti.
G. Nella tua famiglia i tuoi fratelli che scuole avevano frequentato?
T. Le elementari, non c’erano allora tante possibilità economiche per continuare gli studi. Solo mio fratello che lavorava al distributore con
35 me ha fatto, per motivi di lavoro, le scuole serali per prendere la licenza media (e anche in quel caso, compiti!).
Ecco, per rispondere alla tua domanda di prima sul “ perché”. C’è un perché a tutto!
G. Ad un certo punto la Coop ti chiede di assumere una funzione di coordinatore, una mansione con più responsabilità (prima a Rimini e poi a Forlì)…
T. L’esperienza di Rimini è stata molto bella. Volevo fare il “dirigente dal volto umano”, quello era il mio sogno! Per cui quando è stata fatta la selezione…
G. Questo dopo quanti anni che facevi l’educatore?
T. Dopo circa quattro anni.
G. Fanno questa selezione per individuare un coordinatore per la zona di Rimini e vieni scelto…
T. Si. Essendo il primo coordinatore di Rimini era mia intenzione dare una impronta personale al ruolo. Questi si sarebbe dovuto occupare non solo del lavoro educativo, ma anche delle colleghe dell’assistenza agli anziani, le A.D.B. (Addette alla Assistenza di Base)
G. Quante erano le A.D.B.allora? Più o meno degli educatori?
T. Sicuramente più. Erano due gruppi di A.D.B., uno per il Comune di Rimini e uno per l’USL. Facevo così tre coordinamenti al mese, uno per gruppo.
G. I concorrenti alla selezione oltre a te chi erano?
T. I laureati della Coop presenti sul territorio, 6/7 in tutto.
G. Da questo momento termini il lavoro educativo a diretto contatto con gli utenti?
T. Facevo solo lavoro d’Ufficio. Mi recavo una volta al mese a Forlì e mi occupavo delle relazioni necessarie allo svolgimento del lavoro educativo/assistenziale, le famose public relation, con i dirigenti dell’U.S.L. di Rimini.
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Il compito era facilitato dal fatto che con i dirigenti avevo già avuto rapporti di lavoro mentre facevo il domiciliare. Spesso prendevamo contatti e decisioni a livello telefonico, data questa consolidata e reciproca fiducia. E’ stato un bellissimo periodo durato, più o meno, un anno e mezzo. In quel periodo noi operatori vivevamo i coordinamenti come momenti di crescita: presentavamo i nostri casi, li discutevamo insieme, accettavamo suggerimenti e trovavamo soluzioni.
G. Mi interessa questa parte. Avevi tre coordinamenti al mese: questi sottogruppi, da quante persone erano composte?
T. Da 18/20 persone.
G. Vi vedevate fuori o in orario di lavoro?
T. A quel tempo non erano ore retribuite. Ora lo sono: due ore al mese per ogni gruppo.
G. Di che cosa discutevate?
T. Impostavo le riunioni nel seguente modo: fissavo un ordine del giorno che comprendeva nella prima parte il passaggio di informazioni dalla Coop ai soci, seguivano poi domande dei soci alla Coop: chiarimenti in merito al cedolino, sostituzioni, difficoltà con le famiglie degli utenti, orari, curiosità, problematiche di natura sindacale, difficoltà con anziani o con minori. Le discussioni erano veramente interessanti, le soluzioni giungevano con il contributo di tutti. C’era un desiderio collettivo di partecipare, ci sentivamo sulla stessa barca. Con questi colleghi coltivavo rapporti di amicizia anche al di fuori del lavoro. Non ero stato scelto solo dalla Coop, godevo anche di un buon credito tra i colleghi, i quali erano gli stessi che mi avevano votato in occasione delle elezioni per il consiglio o per la rappresentanza sindacale.
Quando non riuscivamo a trovare soluzioni soddisfacenti prendevo appunti in attesa di confrontarmi con Forlì per essere in grado di dare risposta nel giro di qualche giorno. Oltre alle questioni all’ordine del giorno c’erano quelle chiamate varie ed eventuali, quelle non prevedibili. Questo era in genere lo svolgimento delle serate. Spesso il tutto finiva con una pizzata o una bevuta al bar. C’era veramente una grande solidarietà!
G. Chi aveva bisogno di qualcosa di particolare, di personale, di urgente in che altri momenti ti poteva incontrare? Facevi orario d’ufficio?