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Capitolo 4

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Academic year: 2021

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Capitolo 4 – Polemiche d’oltralpe 1. Introduzione

La psichiatria italiana, ai propri albori, guardava alla Francia come modello a cui richiamarsi. La cosa appare evidente a chiunque si trovi a sfogliare le opere di Verga, Bonfigli e degli altri esponenti della scuola milanese. Per quanto di origini venete, e nonostante una formazione universitaria in terra austriaca, anche

Lombroso ebbe sempre per la cultura francese un occhio di riguardo1. Era infatti

nel dibattito psichiatrico transalpino che il tema del rapporto tra genio e follia, nella sua veste ottocentesca, aveva conosciuto i primi sviluppi significativi. Non a caso, nelle pagine introduttive del suo più importante studio sul genio, l’alienista veronese asseriva di considerare la propria teoria il degno completamento di quelle di Morel, Moreau e Jacoby. Nomi importanti, citati poi anche da Edouard Toulouse, il protagonista della diatriba a cui intendo dedicare la parte centrale di questo capitolo. Il medico francese fu infatti autore nel 1896 di una celebre inchiesta volta a smentire le tesi di Lombroso intorno alla natura epilettoide del

genio2. Molti i grandi scienziati dell’epoca che diedero il loro contributo. E non

meno celebre era il nome dell’autore oggetto dello studio: quell’ Emile Zola che prendeva così le distanze dal padre dell’antropologia criminale, le cui tesi intorno all’uomo delinquente erano sembrate risuonare in molti dei suoi romanzi.

La relazione tra Lombroso e la Francia fu dunque alquanto controversa3. Per

gettare luce sul tema, credo sia importante anzitutto ricostruire le linee principali lungo le quali il dibattito d’oltralpe si era sviluppato. Questo percorso renderà possibile comprendere gli spunti che contribuirono alla genesi delle tesi lombrosiane e i motivi di una sostanziale incomprensione di fondo.

2. Lelut ed il genio visionario

L’allucinazione è un fenomeno patologico che ha esercitato da sempre un fascino notevole sugli scrittori. Dai poeti visionari, volti ad evocare (spesso tramite l’abuso di alcol e droghe) paesaggi aldilà dell’ordinario, all’inquietante tema del doppio, la letteratura ottocentesca offre a tal proposito numerosi esempi. Sul piano scientifico, fu ancora una volta Esquirol a dare al tema quell’impostazione di fondo destinata poi a rappresentare per quasi mezzo secolo un punto di riferimento imprescindibile per tutti gli scienziati, pur tra inevitabili perplessità e

1 Per un’esauriente ricostruzione della vita universitaria del Lombroso studente rimane riferimento imprescindibile L. Bulferetti, Cesare Lombroso, Torino, UTET, 1971, in part. pp. 32-73. 2

Cfr. E. Toulouse, -psychologique sur les rapports de la supériorité intellectuelle avec le névropathie, Paris, Société d’éditions scientifiques, 1896.

3 Per un approfondimento sul tema, in particolar modo per quel che concerne la ricezione in Francia delle dottrine criminologiche dello scienziato italiano cfr. M. Renneville, La Francia, in S. Montaldo, P. Tappero ( a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, Torino, UTET, 2009, pp. 203-211.

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polemiche4. L’allucinato, per il medico della Salpêtrière, era convinto di star sperimentando una determinata percezione, senza alcun oggetto esteriore a sollecitare i suoi sensi. A distinguere l’allucinazione dall’illusione era proprio

l’assenza, nel primo caso, di un qualsiasi stimolo esterno5. Si trattava dunque di

un disordine mentale che induceva a conferire una veste sensoriale a idee frutto della memoria o dell’immaginazione del malato. Nessun disturbo poteva rendere maggiormente l’idea del malato di mente come ospite di una dimensione esistenziale a parte, nella quale era molto difficile penetrare anche per il medico più esperto.

Il primo a cogliere meglio di ogni altro le implicazioni della distinzione introdotta

da Esquirol fu Franҫois Leuret, che la definì di importanza fondamentale6. Per

secoli, infatti, il mancato riconoscimento del fatto che gli allucinati altro non fossero che degli alienati aveva condotto le persone a prestar fede ai loro deliri. La cultura dell’epoca, di certo, giustificava la credulità degli antenati, ma non le visioni da cui i loro presunti profeti erano affetti:

L’état de l’esprit humain chez nos aïeux concourait sans doute puissamment à la production si fréquente des visions; mais pour dépendre d’une cause générale, une maladie ne cesse pas pour cela d’être une maladie, et comme il n’y a pas de différence essentielle entre les visionnaires d’autrefois et ceux d’aujourd’hui, les uns et les autres doivent être mis au rang des aliénés7.

Una presa di posizione alquanto netta. Ma soprattutto, l’emergere ancora una volta di un modo nuovo di guardare al nostro passato, frutto delle recenti acquisizioni della scienza dell’epoca.

A portare il tema alla ribalta sarà, un paio di anni dopo, lo studio di Louis Franҫois

Lélut dedicato alla figura di Socrate8. Il celebre filosofo veniva infatti descritto

come un vero e proprio allucinato9. Il suo esempio diventava così, nell’ottica

dello psichiatra francese, non solo una chiave per interpretare altri fenomeni

4 Cfr. J.-E. D. Esquirol, Des maladies mentales, in part. pp. 160-201. Il saggio Des hallucinations comparve originariamente nel 1817.

5

Tale distinzione venne criticata anche da Verga, che nel saggio dedicato a Lazzaretti e alla pazzia sensoria sottolineava l’inadeguatezza di un simile criterio dirimente, segnalando come un simile approccio fosse fonte di imbarazzo anche per molti colleghi francesi che si rifacevano ad Esquirol (Cfr. A. Verga, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria). Sulla questione, si veda anche G. Concari, Sul contributo di Andrea Verga in tema di allucinazioni, in <<Acta medicae historiae patavina, XXXII-XXXIV (1985-1988), pp. 31-38.

6

Cfr. F. Leuret, Fragmens psychologiques sur la folie, Paris, Crochard, 1834. 7 Cfr. F. Leuret, op. cit., p. 255.

8 Cfr. L. F. Lelut, Du démon de Socrate : sp ’ appl a la s psy h l g à

ll l’h s r , Paris, Trinquart, 1836.

9

Per una ricostruzione del dibattito intorno al saggio di Lelut tra gli antichisti italiani del XIX secolo si veda M. M. Sassi, Fra Platone e Lucrezio: prime linee di una storia degli studi di filosofia a a ll’O al a , in <<Archivio di storia della cultura, III (1990), pp. 165-199. Gaetano Trezza sosteneva che le allucinazioni fossero state un fenomeno piuttosto frequente nell’antichità. Ciò, a suo dire, aveva contribuito in maniera decisiva al mancato sviluppo, da parte della civiltà classica, di un’autentica concezione scientifica del mondo.

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simili, ma anche un ammonimento contro un’attività speculativa eccessivamente monotematica e protratta per troppo tempo. Il secondo aspetto rappresentava il rimando a un tema, quello dell’igiene mentale degli uomini dediti ai lavori dello spirito, che aveva già conosciuto all’interno del dibattito francese sviluppi

importanti10. La tensione dello sforzo costante che accompagnava la vita del

genio poneva secondo Lelut la sua esistenza ad un solo passo dalla follia. Quel passo che ad esempio separava a suo dire Galileo da Cardano. Nel caso di Socrate, quella che all’inizio altro non era che una pulsione irresistibile all’attività di pensiero, aveva finito per assumere i contorni di una vera e propria allucinazione uditiva, e forse anche visiva. Questa era infatti la vera natura del celebre “demone” socratico. Le allucinazioni non potevano quindi essere definite errori sensoriali. Si trattava in realtà della trasformazione spontanea di determinati pensieri in sensazioni esterne (o meglio nella loro parvenza). L’argomento era senz’ombra di dubbio molto delicato, dato che andava ad intaccare l’immagine di personaggi celebri la cui memoria era da tutti venerata. Si era infatti allora agli inizi di un filone di indagine che, come già abbiamo avuto modo di vedere, non avrebbe poi esitato a mietere numerose “vittime” eccellenti.

Le allucinazioni rappresentavano inoltre un fenomeno patologico estremamente difficile da decifrare. Non a caso, Lelut dedicherà loro molti anni di ricerca, i cui esiti confluirono in un altro lavoro destinato a far molto parlare di sé, dedicato

alla figura di Pascal11. Il grande matematico e filosofo era un altro esempio di

uomo superiore che aveva scambiato per sensazioni esterne quelle che erano

10 Testo capitale all’interno della tradizione francese sul tema è senz’altro J.-H. Réveillé-Parise,

Physiologie et hygiène des hommes livrés aux travaux de l'esprit, Paris, Baillière, 1881 (la prima edizione dell’opera comparve nel 1834). Il tema dell’attitudine degli uomini dediti ai lavori dello spirito a trascurare nel corso della loro attività le più elementari norme igieniche, già caro alla classicità, veniva qui riproposto in chiave moderna. L’abitudine di lavorare ben oltre i limiti imposti dal buonsenso, il soggiorno prolungato in ambienti poco areati e scarsamente illuminati, la sedentarietà e una dieta sregolata erano solo alcune delle abitudini che contribuivano a esasperare il peculiare temperamento di questa categoria di individui. La frequenza tra i letterati di disturbi di natura nervosa era dunque in buona parte causato da uno stile di vita nocivo, per quanto non si escludesse la concomitante rilevanza di un frequente squilibrio congenito. Diventava quindi necessario per gli uomini di lettere scegliersi un buon medico. E proprio a coloro i quali sarebbero stati chiamati a prendersi cura di questi pazienti tanto complicati si rivolgeva Réveillé-Parise, elaborando un vademecum per far fronte ai sofismi con cui gli uomini dediti ai lavori dello spirito erano soliti controbattere alle prescrizioni mediche. Newton, Fontenelle e Voltaire erano infine l’esempio di come l’adozione di uno stile di vita più consono al proprio temperamento nervoso potesse garantire una vita lunga e produttiva. A Réveillé-Parise si richiameranno tutti coloro inclini a vedere nella follia più una conseguenza di un’esasperata attività creativa da parte del genio che una precondizione del suo manifestarsi. Lo stesso Toulouse, nell’introduzione del suo lavoro su Zola, definirà le sue ricerche una vera e propria pietra miliare.

11 Cfr. F. Lelut, D l’a l Pas al. Étude sur les rapports de la santé de ce grand homme à

son génie, in <<Annales médico-psychologiques>>, III (1845), pp. 1-15, 157-180. Lo stesso studio, in forma più estesa, comparve in volume l’anno successivo (cfr. F. Lelut, L’a l Pas al: p r s rv r à l’h s r s hall a s, Paris, Baillière, 1846).

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solo immagini prodotte dal suo cervello. Come poteva però una mente geniale operare i propri prodigi ed essere al contempo affetta da simili disturbi? Lelut sosteneva di avere individuato per primo una peculiare classe di soggetti in cui le allucinazioni si limitavano a tradurre in sensazioni poche idee dominanti, senza che le facoltà razionali del soggetto fossero minimamente intaccate. Si trattava in buona sostanza di una sorta di fenomeno da stress, che poteva tranquillamente verificarsi in una mente per il resto perfettamente integra. La parzialità della lesione qui descritta era secondo l’autore resa possibile dal fatto che le lesioni dell’immaginazione rappresentavano il primo grado di lesione dell’apparato nervoso coinvolto nel processo ideativo. Non a caso, da tali disturbi prendevano le mosse la maggioranza delle malattie mentali descritte dagli psichiatri dell’epoca. Nella vita di Pascal, Lelut andava quindi a ricercare gli elementi da portare a sostegno della propria diagnosi. Segnata sin dall’infanzia da un’interminabile serie di disturbi di natura nervosa, la vita del celebre matematico fu letteralmente un lungo susseguirsi di dolori. A diciotto anni la sua salute era infatti già irreparabilmente minata dagli studi indefessi cui Pascal, genio a dir poco precoce, si era dedicato sin dalla più tenera età. I medici giunsero infine ad ordinargli di interrompere ogni attività di tipo intellettuale. Datosi ad un’intensa vita mondana, conobbe nel 1654, poco più che trentenne, l’evento che avrebbe segnato la sua vita. La carrozza a bordo della quale stava attraversando il ponte di Neuilly, infatti, fu sul punto di precipitare a seguito di un incidente: i cavalli morirono, andandosi a schiantare oltre il parapetto, mentre l’abitacolo che ospitava Pascal si fermò miracolosamente sul ciglio. Convertitosi alla religione ed allo studio della teologia, adottò uno stile di vita austero, rifuggendo ogni minimo piacere. L’immagine di un abisso che si spalancava ai suoi piedi tornerà spesso a tormentarlo, pur non venendo mai meno in lui la consapevolezza della natura illusoria di tale immagine. Diverso il caso della vera e propria visione di cui cadde vittima poche settimane dopo l’incidente. Ne rende testimonianza il celebre “amuleto”, ovvero il foglio su cui Pascal scrisse ancora scosso ciò che gli era apparso: fuoco, il timore dell’eterna dannazione, e la certezza di poter trovare riscatto solo nella fede in Dio. Lelut raccontava infine di come fosse stato l’ennesimo disturbo di origine nervosa, ovvero un ostinato mal di denti, a restituirci l’ultima scintilla del genio matematico di Pascal. L’insonnia dovuta al dolore lo spinse infatti a dedicarsi ai celebri studi sulla cicloide, espediente col quale tentava di distrarsi dall’insopportabile nevralgia. Un episodio interessante, che metteva in luce in modo originale il rapporto tra genio e disturbi di origine nervosa. Nel complesso, invece, si dimostrava come la vita di un grande personaggio potesse essere costellata di miserie e contraddizioni, e come anche la mente più eccelsa non fosse al riparo da fenomeni di natura

patologica12.

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Binet-Il dibattito innestato dai lavori di Lelut fu alquanto animato, e coinvolse molti psichiatri di grande fama. Tra costoro, Alexandre Jacques Franҫois Brière de Boismont fu forse quello che con più decisione si oppose ai nuovi scenari

interpretativi che venivano delineandosi13. Le allucinazioni dei grandi uomini che

avevano fatto la storia e quelle degli alienati non erano affatto equiparabili tra loro. L’estasi mistica esperita in passato da tanti santi e profeti, ad esempio, era un fenomeno fisiologico, frutto di una lunga attività contemplativa. Era questo del resto il modello esplicativo proposto anche da Lelut, le cui asserzioni in fondo non sembravano discostarsi poi granché da quelle di Brière. Mentre il primo però contemplava il darsi di anomalie patologiche in cervelli per il resto integri, nel secondo si intendeva negare la natura morbosa dei fenomeni allucinatori di cui tanti nomi eccellenti del passato sembravano essere stati vittime. Tra gli esempi evocati a sostegno delle proprie stesi, ve ne era uno a cui il medico di Rouen era particolarmente legato, ed intorno al quale il dibattito avrebbe seguitato ad imperversare per decenni: Giovanna d’Arco. La celebre pulzella d’Orleans era al contempo un’eroina cara ai patrioti ed un simbolo di pura devozione in odore di

santità14. Stando a Brière, la preoccupazione per le sorti della patria ed il

desiderio di porre rimedio alla rovina in corso animarono a tal punto la giovane eroina da contribuire alla genesi di vere e proprie allucinazioni visive e uditive. Queste ultime erano però legate alla sua missione, da cui mai si distolse nei sette anni in cui durò la sua impresa. Una simile costanza sarebbe stata impensabile in un alienato, né del resto era possibile rintracciare nelle visioni della condottiera alcunché di puerile o delirante. L’estrema tensione di uno spirito interamente votato ad una causa non andava dunque confuso con lo sprofondare nelle tenebre di una mente preda della follia. Figura di frontiera, il genio non andava

confuso con quanto si trovava aldilà del baratro15.

Sanglé, per il quale il celebre pensatore era affetto da una nevrastenia di chiara origine ereditaria (cfr. C. Binet-Sanglé, La maladie de Blaise Pascal, in <<Annales médico-psychologiques>>, LVII (1899), pp. 177-199). Sia allo studio di Binet-Sanglé sia a quello di Lelut si richiamerà Lombroso nelle pagine dedicate a Pascal dei suoi Nuovi studi sul genio. Il celebre amuleto era per l’alienista veronese il tipico prodotto di una mente paranoica: davano testimonianza di ciò la ripetizione continua delle stesse frasi, le maiuscole fuor di posto ed il contenuto delirante, in cui predominavano il rimorso, l’autoaccusa, il delirio di indegnità e la dissociazione demente (Cfr. C. Lombroso, Nuovi studi sul genio, vol. 1, pp. 141-151).

13

Cfr. A. Brière de Boismont, Des hallucinations, Paris, Baillière, 1845.

14 Ricerche storiche su documenti d’epoca e sulle carte del processo avevano condotto nel XIX secolo ad una completa riabilitazione della pulzella d’Orleans. Simbolo del crescente orgoglio patriottico, era al contempo per gli esponenti dell’ala clericale la dimostrazione del provvidenziale intervento divino nella storia. In un suo articolo (firmato con l’abituale pseudonimo “G. Valbert”) Victor Cherbuliez ben descriverà il clima del dibattito dell’epoca attorno alla celebre eroina, auspicando l’avvento di una ragionevole mediazione tra la visione laica e quella religiosa (cfr. G. Valbert, L l J a ’Ar , in <<Revue des deux mondes>>, LXII (1890), pp. 688-700).

15

Alla diagnosi di Brière si richiamerà Morel, per il quale gli atti di Giovanna d’Arco erano perfettamente ragionevoli, per quanto la catena dei moventi che avevano contribuito al loro prodursi non fosse sempre ricostruibile in toto. Per il grande psichiatra, infatti, poteva accadere

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Una difesa appassionata, quella di Brière, volta a scongiurare ciò che percepiva come uno svilimento della storia. Ad Alphonse Maury la sua opera apparve però poco meditata e scritta più con impeto morale che per mezzo di una logica analisi obiettiva. Per questo, sulle pagine delle <<Annales médico-psychologiques>> lo descrisse preso in mezzo tra scienza e fede religiosa,

definendolo un confuso difensore dell’ortodossia cattolica16. Non vi era motivo di

ritenere che, qualora i grandi profeti del passato fossero risultati essere degli allucinati, la validità del loro messaggio sarebbe venuta meno. Anzi, il cristianesimo dimostrava una volta di più come i folli fossero capaci di compiere imprese impossibili per l’uomo medio. Brière rispose che suo intento non era tanto quello di difendere il cattolicesimo, quanto quello di criticare studi volti a mettere in discussione principi millenari di fondamentale importanza. I grandi personaggi storici non erano tali perché allucinati. Le loro allucinazioni erano piuttosto l’esito finale del protratto sforzo intellettuale necessario ad elaborare e

che in un individuo in cui risiedeva una grande forza di assimilazione (quasi sempre una donna) si concentrasse il sentimento intimo, profondo, che pervadeva un popolo in un determinato periodo. Tale individuo non poteva che fondere il proprio io con questo sentimento. Nei due anni in cui durò la sua impresa, Giovanna d’Arco (che del processo di identificazione prima descritto era la perfetta incarnazione) diede prova di un coraggio e di un’abilità tali da fugare ogni sospetto di delirio o follia sensoriale. I fenomeni di natura allucinatoria cui sarebbe andata soggetta non erano che eventi transitori. La sua mente era e rimase sempre perfettamente integra (cfr. B. A. Morel, Etudes cliniques, pp. 153-155.

Ben diversa era stata invece l’opinione espressa sull’argomento da Louis Florentin Calmeil, per il quale Giovanna d’Arco soffriva di teomania. Si trattava dunque a tutti gli effetti di un’alienata. Fortunatamente per la sua reputazione e per la sua gloria, però, tale condizione del sistema nervoso agì infiammando il suo spirito guerriero, conferendo alle sue capacità di comando un’aura di potere quasi inaudito. Secondo Calmeil, poi, i successi in battaglia della celebre pulzella non dimostravano affatto che avesse dato prova di buon senso nel prestar fede alle proprie visioni: l’animo dell’allucinato poteva dar forma alle più ampie prospettive sul reale, ma il fatto che percepisse ciò che non esisteva e che ritenesse che le sue idee gli fossero state suggerite da creature immaginarie obbligava a ritenerlo una persona malata (cfr. L. F. Calmeil, De la folie considérée sous le point de vue pathologique, philosophique et judiciaire, Paris, Baillière, 1845, vol 1, pp. 127-135).

16 Cfr. A. Maury, D l’hall a v sag a p v philosophique et historique, ou

xa r l’ p nion émise par M. Brière de Boismont touchant les caractères auxquels on r a r l’hall a h z r a s p rs ag s lèbr s l’h s r , in <<Annales médico-psychologiques>>, III (1845), pp. 317-338. Al tema Maury dedicherà anche un articolo comparso sulla <<Revue des deux mondes>>, nel quale tornerà a ribadire la natura prettamente patologica di fenomeni estatici legati al misticismo cristiano. Trattandosi di malattie nervose, la loro propagazione per imitazione (già sottolineata da Calmeil nelle sue ricerche) era piuttosto frequente. Per quanto fenomeni degni per certi versi di ammirazione, l’ascetismo e il misticismo non potevano che risultare sterili per il cristianesimo, religione caratterizzata secondo Maury da un’essenza pragmatica ed attiva, volta ad intervenire nel mondo (cfr. A. Maury, Des hallucinations du mysticisme chrétien, in <<Revue des deux mondes>>, XXVI (1854), pp. 454-482). Uomo di grande erudizione, il medico francese dedicherà poi un’interessante indagine ai miti e alle leggende del Medioevo, sottolineando come in molti casi il cristianesimo sovrappose il proprio culto alle vecchie credenze celtiche. Tornerà in tale sede il riferimento al ruolo svolto nella storia dai folli e dagli allucinati: chi è dominato da un’idea fissa, infatti, non conosce i dubbi e le esitazioni dell’individuo normale (cfr. A. Maury, Croyances et légendes du moyen age, Paris, Champion, 1896).

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porre in atto i loro piani grandiosi17. Questa era la spiegazione fatta propria

anche da uno dei fondatori della rivista, Laurent Cerise18, che a fronte dei toni

sempre più accesi assunti dalle polemiche sull’argomento si troverà poi a difendere in un altro articolo la piena libertà di discussione garantita dalle

<<Annales>>19. A coloro i quali accusavano la rivista di essere apertamente

anticattolica, infatti, Cerise ricordava come lui per primo avesse preso posizione contro le idee di Maury, nei confronti del quale asseriva di nutrire nonostante ciò un’immutata stima umana.

Non meno animato era poi il versante teorico della discussione, facente capo anch’esso a quanto asserito da Lelut nelle sue ricerche. La natura del meccanismo allucinatorio seguitava infatti ad essere avvolta nel mistero. Baillarger, in un celebre saggio dedicato all’argomento, distingueva le allucinazioni psichiche (ovvero le cosiddette “allucinazioni interne”, prive di una componente sensoriale esteriore, e piuttosto frequenti nei disturbi di natura

ipocondriaca) da quelle psico-sensoriali20. Il prodursi di queste ultime era favorito

a suo dire da tre condizioni: l’esercizio involontario della memoria e dell’immaginazione, la sospensione delle impressioni esterne e l’eccitazione interna degli organi di senso. Non a caso, nello stato intermedio tra la veglia e il sonno, si producevano con grande facilità immagini fantastiche. Il “percorso” del processo allucinatorio qui descritto doveva andare con ogni probabilità dal cervello agli organi di senso, secondo modalità che rimanevano ancora da

chiarire21. Rimane comunque interessante il modo in cui la prospettiva di Lelut,

per il quale le allucinazioni erano il frutto di un protratto sforzo intellettuale,

17

Cfr. A. Brière de Boismont, R p s a l’ar l pr , in <<Annales médico- psychologiques>>, III (1845), pp. 339-341.

18

Cfr. al riguardo la sua recensione del Des hallucinations di Brière, in <<Annales médico-Psychologiques>>, III (1845), pp. 300-311.

19 Cfr. L. Cerise, Quelques mots sur la liberté de discussion dans les <<Annales

médico-psychologiques>>, in <<Annales médico-médico-psychologiques>>, IV (1846), pp. 157-162.

20

Cfr. J. Baillarger, D l’ fl l’ a r a r à la v ll au sommeil sur la production et la marche des hallucinations, Paris, Baillière, 1846.

21 Sul tema formulerà un’interessante ipotesi Prosper Despine, per il quale alla base del processo stava l’eccitazione delle cellule cerebrali conservanti le impronte degli oggetti precedentemente conosciuti. Lo stimolo inviato alla corteccia cerebrale dava vita all’idea oggetto dell’allucinazione, che dalla corteccia si propagava per mezzo di un anomalo movimento centrifugo ad uno o più gangli sensitivi, percorrendo in senso inverso il percorso che attraverso le fibre bianche collegava il centro psichico con il ganglio in questione. La scossa così provocata nel ganglio era identica a quella che vi avrebbe prodotto un oggetto reale. L’idea, dotata a questa punto di una veste sensoriale, veniva infine inviata di nuovo alla corteccia cerebrale tramite l’attività centripeta normalmente utilizzata, e veniva ad essere percepita come se avesse avuto un’origine esterna. Tale meccanismo, secondo Despine, metteva in mostra come ciò che di anormale vi era nell’allucinazione avesse un’origine sensoriale e non psichica, spiegando così come un simile fenomeno potesse convivere con una razionalità integra. Stati di forte preoccupazione rendevano più probabile il prodursi del meccanismo centrifugo alla base dell’allucinazione, che sarebbe poi tornato a prodursi ad ogni minima scossa cerebrale (cfr. P. Despine, Théorie physiologique de l’hall a , in <<Annales médico-psychologiques>>, XXXIX (1881), pp. 367-383). Interessante sottolineare come l’ipotesi qui esposta non si discosti molto da quella descritta da Tanzi nel suo celebre manuale (cfr. E. Tanzi, Trattato delle malattie mentali, in part. pp. 101-128).

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veniva radicalmente sovvertita. Maury, che stava dedicando a sua volta importanti studi ai fenomeni onirici e a quelli legati al libero gioco dell’immaginazione, colse in pieno tale implicazione, dando il proprio appoggio

alle tesi di Baillarger22. Opposta era invece l’opinione di Claude Franҫois Michéa,

che respingeva nettamente ogni obiezione contro l’origine sensoriale delle allucinazioni: come si potevano spiegare altrimenti i casi di quei pazienti che vi

andavano soggetti solo ad occhi aperti o alla luce del giorno?23 Non si intendeva

qui negare il ruolo giocato dal cervello, quanto la sua esclusività. Inoltre, si negava recisamente che l’esercizio dell’attenzione fosse incompatibile col prodursi di fenomeni di natura allucinatoria. Secondo Cerise, la diatriba tra i due

era apparente, e celava una sostanziale concordia di fondo24. Non a caso, nel

corso della discussione sulle allucinazioni alla Société Médico-Psychologique, entrambi si trovarono a sostenere (così come anche Castelnau) la natura patologica dei fenomeni allucinatori. Non era affatto vero a loro avviso che intercorresse una semplice distinzione di grado tra questi ultimi ed i normali processi fisiologici, come sostenuto invece da Brière, Delasiauve e Buchez. Maury, pur ammettendo che una lunga pratica meditativa poteva contribuire al prodursi del fenomeno, seguitava a dare il proprio appoggio alle tesi di

Baillarger25. La spaccatura tra le due fazioni rimarrà tale per decenni, per quanto

la teoria psico-sensoriale sembrasse guadagnare sempre più consensi26.

La voce “Hallucination” del Dictionnaire encyclopédique des sciences medicale del 1886, scritta da Jules Christian, può esserci a questo punto d’aiuto per tracciare

un bilancio conclusivo sull’argomento27. L’allucinazione veniva qui descritta

22 Cfr. A. Maury, Des hallucinations hypnag g s s rr rs s s s a s l’ a

intermédiaire entre la veille et le sommeil, in <<Annales médico-psychologiques>>, VI (1848), pp. 26-40. Racconta Maury di come i disturbi di natura ipnagogica fossero alquanto diffusi all’interno della sua famiglia. I disturbi sensoriali legati alla fase intermedia tra il sonno e la veglia erano favoriti a suo avviso dalla predisposizione alla congestione cerebrale. Lo stesso medico francese, a tal proposito, asseriva di soffrire spesso di cefalee, specialmente se aveva dormito poco, o in seguito a protratti sforzi intellettuali. In simili condizioni, aveva riscontrato un più frequente manifestarsi dei disturbi qui oggetto di discussione. Bulferetti racconta di come queste ricerche di Maury suscitarono l’ammirazione del giovane Lombroso, che esternò la propria stima in una lettera, punto di inizio di una lunga amicizia tra i due (cfr. L. Bulferetti, op. cit., pp. 46-47). Credo si possa affermare che Maury influenzerà non poco le ricerche del medico italiano. Rimandano a lui sia l’interesse lombrosiano per i fenomeni inconsci (specialmente in relazione all’attività creativa) sia l’attenzione per il ruolo giocato nella storia da folli e allucinati.

23 Cfr. C. F. Michéa, Du délire des sensations, Paris, Labé, 1851. 24

Si veda a tal proposito la recensione di Cerise al saggio di Michéa, in <<Annales médico-psychologiques>>, VI (1848), p. 132.

25 Per la cronaca delle sedute della Société dedicate all’argomento, cfr. <<Annales médico-psychologiques>>, XIV (1856).

26

Questo almeno è quanto sostenuto alcuni anni dopo dallo stesso Baillarger in un articolo comparso nelle <<Annales>>, nel quale riepilogava le questioni teoriche che separavano le due diverse concezioni (cfr. J. Baillarger, Physiologique des hallucinations. Les deux théories, in <<Annales médico-psychologiques>>, XLIV (1886), pp. 19-39.

27 Cfr. “Hallucination”, in Dictionnaire encyclopédique des sciences médicales, Tome douzième (HAA-HÉM), Paris, Masson, 1886.

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anzitutto come un mero sintomo, la cui importanza variava a seconda delle circostanze. Non era dunque lecito identificare l’allucinato con l’alienato vero e proprio. Si criticava poi la distinzione di Esquirol tra allucinazione ed illusione, dato che la stessa lesione cerebrale era la causa di entrambi i fenomeni. Anche i distinguo operati da Baillarger erano oggetto di critica, non essendo secondo Christian le allucinazioni psichiche nient’altro che una varietà di quelle uditive. In ogni caso si trattava sempre di un fenomeno patologico, la cui natura era prettamente involontaria. Si finiva dunque ancora una volta con lo sconfessare in modo netto la prospettiva descritta da Lelut nei suoi saggi. L’importanza storica di questi ultimi resta però fuori discussione. I saggi dedicati a Socrate e Pascal rappresentarono infatti il primo grande tentativo, da parte della psichiatria ottocentesca, di trattare il tema del rapporto tra genio e patologia mentale. Il numero degli uomini di scienza coinvolti dal dibattito sul tema dimostra quanto l’importanza del tema fosse avvertita in Francia. Ad esso si accompagnavano poi implicazioni di natura teorica estremamente affascinanti, oltre che molto complesse. Una discussione animata e scientificamente rilevante, dunque, che delineava da subito un contesto ben diverso da quello che ci siamo abituati a riscontrare nell’Italia di quegli anni.

3. Il diamante e il carbone

A rendere ancor più acceso il dibattito transalpino sul tema del rapporto tra genio e follia provvederà, nel 1859, il celebre saggio di Jacques-Joseph Moreau

de Tours28. L’autore, che apertamente si richiamava alle indagini del suo illustre

collega, rendeva ben chiari i propri intenti sin dall’inizio dell’opera, cui anteponeva il seguente Argument:

Les dispositions d’esprit qui font qu’un homme se distingue des autres hommes par l’originalité de ses pensées et des ses conceptions, par son excentricité ou l’énergie de ses facultés affectives, par la transcendance de ses facultés intellectuelles, prennent leur sources dans les mêmes conditions organique que les diverses troubles moraux dont la folie et l’idiotie sont l’expression la plus complète29.

Una tesi provocatoria, ancor più radicale rispetto a quella propugnata da Lelut. In quest’ultimo, infatti, si assisteva esclusivamente al presentarsi di esempi storici volti a dimostrare la possibile convivenza di una mente integra con fenomeni di natura patologica, che in determinate condizioni finivano per “favorire” il soggetto. Quella che si proponeva qui era invece una tesi di portata generale, volta a dare un fondamento scientifico a quel legame tra genio e follia che era da millenni un topos della cultura occidentale.

28

Cfr. J.-J. Moreau de Tours, La psychologie morbide dans ses rapports avec la philosophie de l’h s r , D l’ fl s vr pa h s s r l y a s ll l, Paris, Masson, 1859.

29

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Da bravo psichiatra, Moreau iniziava la propria ricerca indagando il secondo polo del binomio al centro della sua tesi. In tale ambito, emergevano da subito elementi volti a porre in relazione superiorità intellettuale ed anomalie intellettuali. Si asseriva ad esempio che le malformazioni craniche spesso riscontrate nei pazienti affetti da idiozia sembravano riconducibili ad un eccesso di materiale cerebrale sviluppatosi anzitempo. Non a caso gli idioti davano spesso prova di una notevole precocità, al punto da sembrare, durante l’infanzia, destinati alla genialità. Il principio morboso dell’idiozia tendeva dunque ad aumentare l’attività intellettuale, non a deprimerla. Il venir meno della salute mentale non sembrava quindi legato al verificarsi di fenomeni di natura privativa, ma ad una sorta di “sovrabbondanza nervosa”.

Su un piano generale, a predisporre l’individuo a sviluppare disturbi dell’intelletto di varia natura sembrava essere una peculiare condizione nervosa detta “sovreccitabilità”. Quest’ultima accomunava secondo Moreau alienati, idioti, scrofolosi e rachitici, rami di quell’albero degenerativo che abbiamo imparato a conoscere nel capitolo precedente. Il richiamo alle indagini di Morel aveva qui l’intento di dimostrare il legame ereditario tra genio e nevropatie. La sovreccitazione del malato di mente era l’equivalente di quella concentrazione delle energie mentali solitamente necessaria per il pieno dispiegarsi di facoltà intellettuali al di sopra della media. L’ispirazione dell’uomo di genio era qui equiparata all’esaltazione maniacale: ad accomunare le due condizioni, un inarrestabile quanto tempestoso susseguirsi di idee, che travolgevano il soggetto, che si trovava come rapito, posseduto, del tutto incapace di opporsi a quanto esperiva. La creazione geniale era quindi per Moreau un atto incosciente, frutto del rilascio di quelle energie nervose in esubero che accomunavano il folle al poeta immortale, al grande scultore, al generale pluridecorato. In conclusione, le facoltà intellettuali superiori alla norma traevano sempre origine da un disturbo nevropatico dell’organo del pensiero. Una visione intrisa di evidenti istanze romantiche, che secondo l’autore sconfessava l’antico adagio “mens sana in corpore sano”. La salute del corpo, infatti, finiva di solito per coincidere con una marcata mediocrità affettiva ed intellettuale: era invece solo a detrimento della salute degli altri organi che il cervello poteva concentrare in sé la maggior parte del flusso nervoso.

Tesi senz’altro provocatoria quella sostenuta da Moreau, che nell’ultima parte del suo saggio proponeva un lungo quanto variegato elenco di esempi storici, volti a dimostrare la fondatezza delle sue intuizioni. Quale forma di rispetto verso le famiglie, si ometteva il nome di artisti contemporanei, andando a pescare nei secoli e negli ambiti più disparati. Un’accozzaglia alquanto eterogenea, apice conclusivo di un’opera che rappresentava un netto cambio di scenario rispetto al dibattito preso in esame nel paragrafo precedente. Con Lelut si assisteva infatti ad una discussione incentrata su pochi casi isolati, esempi celebri di una nuova

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categoria nosografica individuata dall’alienista francese. Qui invece ci si trovava davanti ad un disegno teorico ben più ardito e suggestivo, e di certo molto meno fondato sul piano scientifico. Non stupisce quindi constatare come Moreau avrebbe poi rappresentato un punto di riferimento privilegiato per Lombroso. Questo risulta evidente non solo guardando alla tesi intorno all’origine nevropatica del genio, che sarebbe stata inglobata nel proteiforme lavoro sul genio dello psichiatra veronese. Più in generale, colpisce l’analogo approccio al tema, basato più sulla suggestione che su un rigido protocollo scientifico, nonché l’identifico ricorso a “prove storiche” messe assieme alla rinfusa e senza la dovuta disamina critica. In entrambi gli autori, infine, è facile riscontare l’influenza esercitata dalla cultura romantica e dalla sua concezione della genialità. Lombroso giunse addirittura a far propria una delle immagini evocate da Moreau a supporto delle proprie tesi. Lo psichiatra francese, infatti, rivolgendosi a coloro i quali avrebbero guardato con scetticismo all’analogia tra genio e nevropatia da lui prospettata, così scriveva: <<Avant que la chimie eût parlé, il eût paré insensé d’assimiler l’une à l’autre deux substances dont l’identité de nature ou de composition est démontrée aujourd’hui, le diamant et

le charbon>>30. Un’immagine suggestiva, quella dell’identica natura del diamante

e del carbone, due minerali in apparenza tanto diversi, che Lombroso adotterà, in Genio e degenerazione, per rispondere ad alcune critiche di Morselli:

Voler che esista una fisiologia speciale per ogni tempra di genialità sarebbe come pretendere a una composizione speciale in quelle varianti della anidride silicea che sono il quarzo, l’ametista, l’agata, lo zaffiro, e le pietre focaie, o voler negare che il carbone, la piombaggine e il diamante abbiano una identica composizione chimica, solo perché all’occhio ed al tatto appaiono diversi31.

Diverso l’oggetto del contendere, ma analogo in entrambi i casi l’espediente retorico, segno di un debito culturale profondo. Moreau e Lombroso, come era prevedibile, furono accomunati anche da un altro elemento, ovvero l’accoglienza burrascosa riservata alle loro idee. Sulla sorte riservata in Francia alle tesi dell’alienista veronese mi soffermerò in seguito. L’accoglienza tributata all’opera del suo collega transalpino ne rappresenta comunque una degna anteprima.

Achille-Louis Foville, recensendo La psychologie morbide sulle <<Annales>>32,

non esitava ad esprimere i propri dubbi: la costituzione nevropatica del genio era una regola o rappresentava un’eccezione? Non vi erano molti spiriti superiori tali proprio in virtù della loro perfetta costituzione organica? Più in generale, si riteneva necessario lasciare maggiore spazio al libero arbitrio nella vita degli individui. L’esistenza delle persone, asseriva a tal proposito Foville, non era riducibile al mero espletarsi delle loro attitudini e tendenze ereditarie.

30 Cfr. J.-J. Moreau de Tours, op. cit., p. 3. 31

Cfr. C. Lombroso, Genio e degenerazione, p. 319.

32 Per la recensione in questione, cfr. <<Annales médico-psychologiques>>, XXXVIII (1860), pp. 151-162.

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Perplessità, quelle espresse in questa recensione, destinate a trovare eco nel

lavoro di Emile Deschanel dedicato alla fisiologia di scrittori ed artisti33. Pur

ammettendo che il temperamento nervoso sembrava predisporre in qualche modo gli individui a diventare scrittori, il celebre letterato si mostrava alquanto scettico nei confronti delle tesi di Moreau. Il parallelo tra genio e mania era infatti ritenuto inadeguato. Il maniaco era un individuo del tutto incapace di distinguere la realtà dalle proprie allucinazioni, nonché di esercitare un controllo sulle proprie idee e sul loro casuale concatenarsi. Tranne che nel raro ed effimero momento dell’esaltazione creativa, invece, era un cervello sano e ben costituito a rappresentare la condizione necessaria del genio. Caratteristica principale di quest’ultimo era non solo quella di saper esercitare un pieno controllo sulle proprie idee, ma anche quella di saperle porre tra loro in relazione in maniera efficace ed originale. Niente di più distinto quindi di ciò che impropriamente Moreau aveva tentato di accostare: <<Le génie se juge lui-meme, se sait, se veut et se possède; la folie est inconsciente, c’est là son caractère essentiel. Et c’est par-là que la folie et le génie, loin que l’on soit fondé

à dire in radice conveniunt, diffèrent, au contraire, radicalement>>34 . Se l’ipotesi

per cui lesioni parziali dell’intelletto avrebbero potuto convivere con facoltà raziocinanti integre appariva accettabile, l’estremizzazione operata da Moreau veniva rigettata di netto. Asserire il legame inscindibile tra superiorità intellettuale e nevropatia significava infatti incappare in un errore logico di fondo, volto a derivare dalla casuale concomitanza di due eventi il darsi di una

relazione causale tra loro35. In maniera analoga, già Pierre Flourens aveva

rilevato come Moreau avesse fatto del concetto di “ispirazione” il trait d’union tra ragione e follia, prendendo in senso letterale quella che non era che una metafora, cui spesso gli artisti facevano ricorso per descrivere la fase culminante

del processo creativo36.

Oggetto di molteplici critiche, l’accoglienza ricevuta dalle tesi di Moreau rivelava la loro sostanziale estraneità al contesto francese, tradizionalmente poco incline alle ardite speculazioni di ampio respiro. E come già annunciato, le idee di Lombroso non sarebbero andate incontro a sorte migliore.

33 Cfr. E. Deschanel, Physiologie des écrivains et des artistes, Paris, Hachette, 1864. 34

Cfr. E. Deschanel, op. cit., p. 153. 35

Interessante rilevare come la stessa accusa, ovvero quella di essere incappato nel cosiddetto “cum hoc ergo propter hoc” verrà mossa da Agostino Gemelli a Lombroso, in una feroce quanto ampollosa disamina postuma dell’opera dello scienziato italiano (cfr. A Gemelli, Cesare Lombroso. I funerali di un uomo e di una dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1911, in part. pp. 149-150).

36

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4. “L’ b l l g ”

Le tormentate vicende legate alla teoria criminologica lombrosiana, che in Francia divenne oggetto di critiche feroci, non lasciavano presagire nulla di buono per i suoi studi dedicati all’uomo di genio, che non a caso venne accolta con un diffuso scetticismo. Sarà Charles Richet, autore dell’introduzione dell’edizione francese dell’Homme de génie, uscita nel 1889, a tentare

un’improbabile mediazione37. La teoria dell’alienista veronese veniva presentata

come una sorta di evoluzione delle tesi di Moreau de Tours, di cui Richet era stato allievo. Secondo quest’ultimo, era anzitutto necessario dissipare un equivoco di fondo: affermando che il genio era, come la follia, una forma di degenerazione mentale, non era mai stato intento di Lombroso assimilare l’uomo di genio a un alienato. Nel primo, infatti, alla vivida facoltà creatrice si affiancava uno spirito critico del tutto assente nel secondo. Per questo che il termine “degenerato” utilizzato da Lombroso per riferirsi al genio, risultava secondo Richet quasi sacrilego: in alternativa, si proponeva qui la definizione di “progénéré”. Un cambio di etichetta che non mutava il senso di una teoria destinata a suscitare nuove perplessità.

Ad essere oggetto di critica, infatti, non erano tanto le conclusioni cui Lombroso perveniva, ma il modo in cui lo scienziato italiano pretendeva di giungere a dimostrarne la fondatezza. Erano i suoi criteri scientifici, o meglio la loro completa assenza, a lasciare sconcertati i critici d’Oltralpe. Ben testimoniava questa reazione l’interessante inchiesta di Alfred Odin, intenzionato ad applicare

al tema del genio i metodi della statistica38. Intento dell’autore era quello di

stabilire quali fossero i fattori che contribuivano in maniera più decisiva al formarsi degli intelletti superiori. A tal fine, era anzitutto necessario scegliere un campione adeguato per una prima indagine. La scelta di Odin era caduta sui letterati, categoria facilmente delimitabile, all’interno della quale il successo delle loro opere offriva un semplice criterio dirimente per distinguere quelli di maggior talento. Sul piano storico, ci si limitava qui all’epoca moderna, intorno alla quale erano disponibili fonti documentarie complete. L’apporto dell’elemento ereditario, che non si intendeva negare, rimaneva dubbio e difficile da stabilire. Per questo, l’attenzione di Odin si incentrava sui fattori ambientali, tra cui spiccavano per importanza il contesto educativo, quello sociale e quello economico. I dati emersi conducevano l’autore a ribadire l’assunto di fondo della sua inchiesta, in base al quale tra l’uomo comune e il genio non vi era che una differenza di grado. Tanto la genialità quanto la follia erano l’esito dell’influsso esercitato da un determinato ambiente su di una costituzione delicata. Non doveva quindi stupire il fatto che potessero

37

Cfr. C. Richet, Préface, in C. Lombroso, L’h g , Paris, Alcan, 1899, pp. V-XIII. L’opera era la traduzione francese della sesta edizione italiana.

38

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presentarsi, a turno o simultaneamente, nello stesso individuo. Niente di più lontano di un simile esito dalle suggestioni lombrosiane, a cui Odin esplicitamente si richiamava, definendo gli studi dello psichiatra italiano privi di coerenza e di criteri di fondo uniformi. Ad essere criticato era soprattutto il modo in cui Lombroso soleva assemblare esempi tra loro difformi, giungendo ad esiti teorici tra loro contraddittori: veniva citato ad esempio il modo in cui svariati aneddoti erano richiamati al fine di dimostrare la natura misoneista del genio, definito poi in un altro capitolo alfiere del nuovo contro il misoneismo

delle masse39. Aspetti del modo di fare scienza lombrosiano ben noti, verso i

quali il contesto transalpino si dimostrava più che mai refrattario.

Anche Edouard Toulouse, infatti, sottolineava anzitutto come Lombroso non avesse prodotto prove scientificamente rilevanti per dare fondamento

all’equivalenza tra genio ed epilessia larvata da lui sostenuta40. Anzi, la nozione di

“epilessia” veniva ampliata al punto da coincidere con quella di “nevropatia”. Perché non adottare allora quest’ultimo termine? A questo riguardo, è importante rilevare come, sin dal titolo, i disturbi patologici del sistema nervoso fossero posti in relazione non tanto con la “genialità”, ma con la “superiorità intellettuale”. Uno slittamento semantico che non rappresentava un semplice cambiamento di facciata. Ritengo infatti che l’intento fosse quello di svincolarsi da miti e suggestioni romantiche, incentrando l’indagine su un fenomeno passibile di una più esatta definizione scientifica. Nella stessa direzione andava anche la scelta di non ricostruire la personalità ed il profilo biopsichico di un letterato del passato, ma di realizzare bensì la prima patografia di un autore vivente. Secondo lo psichiatra francese, infatti, non si poteva diagnosticare la follia di una persona sulla base di chiacchiere e pettegolezzi, o peggio ancora sulla base dell’analisi di un ritratto. L’osservazione diretta aveva da questo punto di vista dei vantaggi innegabili, ponendo lo scienziato a diretto contatto col dato empirico. Un simile approccio produceva però anche nuovi problemi, con i quali era necessario fare i conti in via preliminare. Toulouse precisava a tal proposito come fosse dovere del medico limitarsi a pubblicare solo quanto previamente approvato dal soggetto analizzato, onde evitare guai di natura legale. A questo aspetto della questione lo psichiatra francese prestava particolare attenzione, dilungandosi ad indicare le precauzioni da adottare al fine di non incorrere in conseguenze spiacevoli. Ad attirare la sua attenzione era però soprattutto un’altra problematica, ben più rilevante sul piano scientifico. Se gli scenari inediti aperti dall’osservazione diretta rappresentavano infatti un punto di forza, era pur

39

In maniera analoga Victor Cherbuliez, in un articolo comparso sulla <<Revue des deux mondes>> definirà Lombroso un “laborieux compilateur d’anecdotes”. Secondo il letterato transalpino, le sue tesi si fondavano sulla teoria della compensazione, nata per consolare l’uomo medio della propria mediocrità (Cfr. G. Valbert, M. L br s sa h r l’h g , in <<Revue des deux mondes>>, LXVIII (1896), pp. 685-696).

40

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vero che costringevano a domandarsi cosa misurare e perché. Quesiti, questi ultimi, ai quali era impossibile dare una risposta a priori, a patto che non ci si lasciasse influenzare da tesi preconcette. In attesa di responsi definitivi al riguardo, era nel frattempo necessario impegnarsi a misurare tutto ciò che si riteneva potesse avere una qualche rilevanza. Questa la ragione per cui l’inchiesta redatta da Toulouse venne svolta in collaborazione con molti dei più illustri scienziati dell’epoca. Un vero e proprio lavoro d’equipe, che chiamò in causa i massimi esperti di ognuna delle branche scientifiche coinvolte. Credo non si possa immaginare un distacco più netto dal modo di fare scienza adottato in quest’ambito da Lombroso e dalla sua scuola. Una più esatta definizione dell’oggetto di indagine, l’adozione di un protocollo incentrato sull’osservazione diretta, lo sforzo congiunto di scienziati con competenze tra loro distinte. La scienza moderna sembrava essere venuta a reclamare i propri diritti.

Restava da chiarire un dettaglio certo non secondario: quale letterato sottoporre ad esame? Il nome infine emerso, quello di Emile Zola, era davvero significativo. Il più illustre esponente del naturalismo francese, infatti, esemplificava meglio di ogni altro il modo in cui la scienza aveva finito per esercitare sulla letteratura un influsso sempre più profondo ed evidente. Molti, negli abitanti dei bassifondi parigini da lui descritti, avevano più volte ravvisato l’eco del delinquente nato descritto da Lombroso. Ed era proprio dalle tesi di quest’ultimo, adesso, che il grande romanziere intendeva prendere le distanze. A tal fine, in una lettera preposta all’opera, autorizzava la pubblicazione dell’indagine condotta su di lui. Lo spingevano l’amore per la verità e l’esigenza di combattere l’ “imbécile legende” sorta intorno alla natura degenerativa del genio. Una leggenda che negli anni precedenti aveva finito per coinvolgerlo. La letteratura realista era stata infatti uno dei fenomeni culturali fin de siècle ferocemente stigmatizzati da

Nordau41. Il termine “realismo” era infatti a detta di quest’ultimo del tutto privo

di senso in estetica: l’arte non si limitava mai a riprodurre la realtà, da cui prendeva sempre spunto. Nel caso di Zola, poi, si era di fronte ad uno scrittore che, come tutti i degenerati, era estraneo al mondo, e concentrato esclusivamente sul proprio Io. L’antropomorfismo e il simbolismo che ricorrevano nelle sue opere erano atavismi frutto di una mente confusa e non sviluppata. Ogni fenomeno si mostrava a Zola mostruosamente ingrandito e minaccioso, e diventava per lui, come per un selvaggio, un feticcio cui attribuire disegni malvagi e ostili. Secondo il medico ungherese erano poi significative la predilezione dimostrata da Zola per le situazioni immorali e la sua tendenza alla

coprolalia42. Dai suoi romanzi era possibile desumere l’effetto eccitante operato

sullo scrittore francese (definito un vero e proprio maniaco sessuale) dalla

41

Cfr. M. Nordau, Dégénérescence,

42 Curioso notare come, a tal proposito, il medico ungherese rimandasse alla “mania blasfematoria” descritta da Verga.

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biancheria femminile. Ma l’aspetto destinato più di ogni altro a far discutere era il presunto predominio, nelle pagine di Zola, delle sensazioni olfattive. Secondo Nordau, infatti, nel cervello evoluto dell’uomo l’olfatto giocava di solito un ruolo secondario. Il predominio che esercitava invece nella mente del celebre romanziere era l’ennesimo fenomeno atavico, che rimandava ad età

evolutivamente antecedenti l’uomo43. Un quadro a tinte fosche, quello

tratteggiato dal medico ungherese, che bastava a giustificare la scelta di Zola di esporsi in prima persona. L’intento, ben palese, era quello di contribuire a sconfessare una volta per tutte le tesi di Lombroso e di coloro i quali (più o meno lecitamente) si richiamavano a lui.

Chiariti i nodi preliminari della vicenda, Toulouse poteva procedere con l’esposizione dei risultati raccolti. E come in ogni patografia che si rispetti, l’incipit era riservato alla descrizione dell’anamnesi familiare del paziente osservato. Il padre di Zola, Franҫois, era stato un militare ed un ingegnere civile. Uomo dall’ingegno acuto e dalla vita alquanto avventurosa, aveva origini miste greche ed italiane. Sua moglie, Emilie, aveva ventitre anni meno di lui. Difficile, secondo Toulouse, individuare con certezza in questo divario la causa della precoce maturità e serietà di Zola. Quel che è certo, è che questo matrimonio aveva rappresentato un ulteriore incrocio razziale. La madre dello scrittore soffrì a più riprese di coliche epatiche e morì a 61 anni per una malattia cardiaca. Le cardiopatie erano del resto piuttosto diffuse nel ramo materno della famiglia di Zola, che dalla madre aveva ereditato anche una costituzione neuro-artritica sufficiente a spiegare la sua originale disposizione nervosa. Andava però sottolineato anche come entrambi i genitori avessero concorso a trasmettere ad Emile un notevole vigore fisico. Ciononostante, la sua infanzia fu costellata da diverse malattie. A due anni, ad esempio, cadde vittima di una violenta febbre cerebrale, e per qualche ora lo si credette morto. Per niente precoce sul piano intellettuale, a sette anni non sapeva ancora leggere. A svegliarsi anzitempo furono invece le sue idee sessuali, le cui prime avvisaglie si registrarono intorno ai dieci anni. Nonostante ciò, le donne non avrebbero giocato un ruolo predominante nella vita di Zola, il cui istinto sessuale sarà sempre improntato ad una marcata timidezza. Era questo del resto un fenomeno tipico dei nevropatici, nei quali le idee finivano spesso per avere natura inibitoria.

43

Il tema sarà ripreso da Cabanès, che rifacendosi ad uno studio di Leopold Bernard asserirà non essere possibile sciogliere ogni dubbio intorno a tale faccenda. Il predominio delle sensazioni olfattive nei romanzi di Zola era il frutto di un’eccessiva irritabilità delle papille nervose situate nelle fosse nasali? O si trattava di un espediente deliberatamente messo in atto dallo scrittore per evocare il bruto che dorme in fondo a ogni essere umano? Se ne sarebbe potuto discutere a lungo, senza mai giungere a una soluzione definitiva (Cfr. A. Cabanès, Un chapitre de physiologie littéraire. L z a s l’ vr Z la, in <<La Chronique Médicale>>, II (1895), pp. 680-685.

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Passando quindi all’esame diretto del paziente, Toulouse affermava che la fisionomia dello scrittore, all’epoca cinquantaseienne, esprimeva un’indole riflessiva, caratterizzata da una certa emotività. La “fiche segnatelique” di Zola (vedi figura 1), redatta da Alphonse Bertillon (col contributo di Léonce-Pierre Manouvrier per quel che concerneva le misurazioni craniche ed altre particolarità

anatomiche), mostrava come il

romanziere avesse una taglia superiore alla media, ed una “taille assise” (che

includeva solo il busto e la testa) leggermente inferiore a quella solitamente associata alla sua taglia. Le membra superiori di Zola risultavano invece essere di poco superiori alla media, così come le proporzioni del suo cranio (soprattutto

per quel che concerneva il diametro verticale)44. Riguardo a quest’ultima

constatazione si asseriva che, non sembrando le ossa craniche di Zola più voluminose del normale, vi era un’alta probabilità che possedesse un volume cerebrale ragguardevole. Venivano poi rilevate diverse piccole asimmetrie auricolari. L’orecchio destro dello scrittore era molto più alto che largo e leggermente più piccolo della media. Gli avambracci erano voluminosi all’estremità superiore e piccoli all’attaccatura del polso, mentre l’analisi delle mani mostrava una notevole mobilità e l’assenza di arresti di sviluppo. Da ultimo, l’attenzione si spostava su un dettaglio anatomico che aveva iniziato da poco a suscitare l’attenzione degli antropologi: le impronte digitali. Al momento, asseriva Toulouse, non si era ancora in condizione di trarre da queste ultime altre informazioni che quelle relative alla loro frequenza relativa. Feré aveva cercato di individuare un rapporto tra tali forme anatomiche e lo sviluppo generale dell’individuo. A suo dire , infatti, la complessità dei disegni era proporzionale alla complessità della funzione, e sarebbe dunque andata aumentando dal mignolo al pollice. Era inoltre sua opinione che nei degenerati e negli individui malformati le forme più semplici, come l’arco, fossero più frequenti che nelle persone normali. E a quanto pareva, l’impronta del medio sinistro di Zola presentava proprio un arco. Toulouse precisava però che simili conclusioni non erano state confermate dalle osservazioni di altri scienziati. In particolare Francis Galton, uno dei primi uomini di scienza a dedicare un’attenzione particolare a

44 E’ interessante riscontrare come questa superiorità rispetto alla media risultasse tanto dalle misurazioni effettuate da Manouvrier che da quelle di Bertillon. Il metodo adottato da quest’ultimo era infatti diverso da quello tradizionalmente adottato dagli antropologi: il diametro antero-posteriore, ad esempio, era misurato da Bertillon posizionando il punto di riferimento anteriore nel solco naso-frontale e non nella glabella, e quello posteriore nel punto più sporgente all’indietro, anche se non situato lungo la linea mediana. Tali semplificazioni erano state introdotte per ridurre al minimo le possibilità di errore durante le misurazioni effettuate dagli addetti alla procedura di identificazione dei criminali.

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questo dettaglio anatomico, aveva comunicato allo psichiatra francese che non era ancora riuscito a stabilire con certezza alcun nesso preciso tra le impronte digitali e le caratteristiche morali o di altra natura dell’individuo.

Sul piano fisiologico, non si segnalavano anomalie rilevanti né nell’apparato circolatorio né in quello respiratorio. Anche l’esame delle urine era

perfettamente nella norma45. Si riscontrava un lieve tremore delle dita in stato di

riposo, che si accentuava notevolmente in occasione di movimenti volontari, al punto che Zola rovesciava l’acqua mentre si portava il bicchiere alla bocca. L’emozione contribuiva ad accentuare ancora questo fenomeno, al punto da rendere talora impossibile allo scrittore una lettura in pubblico. Tale fenomeno, in base agli accertamenti effettuati, non sembrava in relazione con alcuna lesione organica. Le cifre fatte registrare da Zola col dinamometro di Regnier corrispondevano alle medie della sua età. Charles Henry aveva poi sottoposto il romanziere a dei test con il suo dinamometro di potenza, atto a rilevare la pressione della mano: la curva descritta denotava una brusca partenza, uno sforzo costante privo di durata ed una rapida decrescita. Lo scrittore palesava inoltre una sensibilità cutanea estremamente sviluppata. Le analisi sensoriali tattili avevano infatti rilevato che era in grado di percepire le sensazioni simultanee meglio della media. Questa raffinata ricettività sfociava però in un’eccessiva sensibilità al dolore: una maglia un po’ stretta bastava infatti a far avvertire a Zola un senso di dolorosa oppressione al torace. Per quel che concerneva invece il riposo notturno, il sonno si dimostrava buono, per quanto Emile dormisse solo sette ore e si svegliasse con un diffuso senso di spossatezza, accompagnato da crampi diffusi in tutto il corpo e da una sensazione di indolenzimento. Piccoli disturbi di origine nevropatica, quelli che cominciavano ad emergere, che rappresentavano la chiara espressione del retaggio materno. L’analisi degli occhi condotta da Sauvineau rilevava come, quando lo sguardo veniva portato lontano, si assisteva ad un notevole restringimento del sopracciglio destro, contrattura connessa con la miopia dell’occhio. Si trattava di un tic permanente, considerabile a tutti gli effetti una stigmate nevropatica. La visione dei colori era buona. Di sera, nell’oscurità, Zola affermava di avvertire delle sensazioni luminose, anche se solo in luoghi a lui noti. Era sua opinione che si trattasse forse di un atto evocativo, legato all’emergere intenso del ricordo di oggetti che sapeva trovarsi presso di lui in quel momento. L’esame dell’udito condotto da Bonnier rilevava invece come l’orecchio destro dello scrittore, caratterizzato da una marcata sclerosi, mostrasse una capacità auditiva di un terzo inferiore alla norma. Zola affermava poi di avvertire spesso leggeri brusii da ambo i lati, sotto forma di soffi e squilli. I suoi sensi sembravano dunque trovarsi

45

Toulouse precisava inoltre come, grazie ad un notevole sforzo di volontà, Zola fosse riuscito a sopprimere il bisogno di origine nevropatica di orinare spesso, dal quale era stato condizionato per diversi anni.

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perennemente in uno stato di eccitazione anormale, simile a quello che si aveva modo di riscontrare nelle allucinazioni. A stupire era però soprattutto l’analisi condotta da Passy intorno alle tanto discusse capacità olfattive del romanziere. Emergeva infatti come queste ultime non fossero affatto superiori alla media sul piano quantitativo. A distinguere Zola erano piuttosto la memoria legata agli odori e l’utilizzo psichico che era in grado di farne. Questo induceva Toulouse a sottolineare come un’indagine condotta senza preconcetti potesse produrre esiti inaspettati. Con ciò non si intendeva negare il manifestarsi nel celebre letterato di evidenti disturbi di origine nervosa. A partire dai 20 anni, infatti, Zola era stato soggetto a forti crisi di dolore (coliche nervose, angina pettorale, cistite acuta, reumatismo articolare), che pur essendo scemate nel tempo, erano state rimpiazzate da uno stato di malessere cronico, accompagnato da una debolezza ed un’irritabilità costanti. Pur non essendo riconducibili a una nevrosi caratterizzata come l’isteria o l’epilessia, simili disturbi erano la prova di un’anomalia nervosa congenita, al cui aggravarsi aveva senz’altro contribuito l’eccessivo lavoro intellettuale.

Nel prosieguo dell’indagine, a offrire spunti interessanti era l’esame psicologico. Stando agli esiti degli esami condotti in questo frangente, il pessimo orecchio musicale di Zola era compensato da un buon senso del ritmo, peculiarità che secondo Toulouse trovava riscontro nelle frasi dei suoi romanzi. Più in generale, sembrava poter essere l’esattezza delle percezioni dello scrittore la fonte primigenia del suo realismo letterario. Sul piano del linguaggio interiore, emergeva invece una propensione per le immagini verbali uditive di cui lo stesso soggetto analizzato non era consapevole. Era infatti attraverso l’audizione interna che era capace di giudicare dell’armoniosità delle frasi scritte, senza essere obbligato a ripetere ad alta voce, come doveva fare ad esempio Flaubert. Nonostante ciò, Zola comprendeva bene una frase solo quando la leggeva coi propri occhi, rivelandosi del tutto incapace di seguire un discorso. Il fatto, secondo Toulouse, era riconducibile ad un’abitudine professionale. A rendere poi alquanto misere le qualità oratorie del grande scrittore contribuiva, oltre alla sua emotività, la scarsa capacità di memorizzare parole e frasi. L’esame grafologico condotto da Crapieux-Jamin rilevava quindi come i cambiamenti di direzione della penna fossero indice di un mutamento di intensità nella fase ideativa. Ciò dimostrava la profonda impressionabilità dello scrittore. La scrittura di Zola, però, si mostrava nel complesso sempre sobria, chiara ed estremamente netta, espressione perfetta di una mente lucida e padrona di sé. Dall’esame delle capacità mnemoniche emergeva poi che i primi ricordi del romanziere risalivano ai due anni di età. A risultare poco sviluppata era la sua memoria passiva: in altre parole, ciò che non lo interessava e non serviva ai suoi scopi non veniva trattenuto. Questo fatto era a detta di Toulouse indicativo dell’organizzazione psichica dell’autore di Nana, che era solito concentrare integralmente le proprie

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facoltà mentali sull’opera a cui stava lavorando, escludendo tutto il resto, e

restando fino al compimento del suo progetto in una sorta di monoideismo46.

Sul piano ideativo, il tempo di concentrazione di Zola risultava essere breve ma intenso, come già riscontrato per il suo sforzo muscolare. Le sensazioni visive erano invece quelle capaci di risvegliare in lui il maggior numero di immagini, anche se quelle più nette erano risvegliate dalle parole scritte. Le idee evocate obbedivano nello scrittore alla legge di associazione sia per contiguità sia per somiglianza. Tra le prime, la prossimità spaziale ricorreva con una frequenza nettamente maggiore rispetto a quella temporale, fatto che secondo Toulouse dimostrava una volta di più come il celebre romanziere pensasse visivamente. La sua mente si mostrava in possesso di notevoli capacità di coordinazione, che gli consentivano di mettere tra loro in relazione i fatti più disparati. Ciò che scriveva era già pronto per essere stampato: non tornava mai su quanto scritto, denotando ancora una volta una grande lucidità, che accompagnava l’intero processo creativo. In conclusione, si delineava l’immagine di una mente solida, poco incline alla suggestione o al raptus creativo, quanto piuttosto al lavoro

costante e meditato, sia pur per brevi lassi di tempo47. A offuscare questa

immagine non bastavano certo le piccole manie di cui Zola ammetteva di essere

succube, che non turbavano in alcun modo i suoi processi intellettivi48. Non lo si

poteva definire un alienato mentale, né un degenerato. Affetto da un’evidente iperestesia in diverse parti del suo sistema nervoso, lo si poteva forse etichettare come uno “squilibrato”, dicitura alquanto vaga che finiva per non dimostrare alcunché. La costituzione nevropatica di Zola, pur innegabile, non aveva relazione alcuna con le sue doti creative, né simili disturbi erano condizione necessaria per il manifestarsi del suo talento artistico. La superiorità intellettuale, concetto che rimaneva difficile da quantificare, sembrava essere in relazione con una felice distribuzione delle diverse facoltà. Questo almeno è quello che Toulouse aveva avuto modo di riscontrare in Zola, nel quale all’armonioso sviluppo delle doti

46 Peculiare sul piano mnemonico la tendenza di Zola a soffrire di paramnesie, fenomeno che induce a conferire ai nuovi oggetti o alle nuove situazioni di cui si fa esperienza una falsa impressione di dejà-vu. L’analisi di Toulouse evidenziava poi come fossero estremamente sviluppate nel romanziere la memoria relativa agli oggetti e quella topografica. Si ribadiva inoltre come le percezioni olfattive lasciassero nella memoria di Zola sensazioni forti e durevoli. Stupiva infine riscontrare come fosse poco sviluppata in lui la memoria relativa alle parole: il suo vocabolario era alquanto ristretto, ed era costretto a fare costantemente ricorso al dizionario per evitare errori di ortografia.

47 La caratteristica principale di Zola, secondo Toulouse, era la tenacia, la persistenza nello sforzo. Credeva molto nel lavoro e dedicava una cura maniacale anche ai minimi dettagli. In virtù di ciò, stando allo psichiatra, non lo si poteva certo ritenere un pessimista, nonostante la sua visione alquanto triste della vita.

48 Tra le bizzarrie cui la mente del celebre scrittore andava soggetta, Toulouse cita l’aritmomania, accompagnata da idee superstiziose legate ai numeri. Vi erano poi piccole fissazioni, come la necessità di uscire di casa col piede sinistro, o di posare i piedi sul selciato durante una passeggiata secondo uno schema particolare. Le implicazioni emotive legate a questi atti erano piuttosto lievi, e la loro importanza era in virtù di ciò ritenuta trascurabile.

Figura

Figura 2- Zola a 6 anni

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