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1. INTRODUZIONE

1.1 Le analisi ecotossicologiche

In tutto il mondo quantità sempre crescenti di inquinanti provenienti da attività umane quali agricoltura, produzione di energia, crescita industriale, attività di trasporto e ricreative vengono liberate nell'ambiente. In particolare le acque marine risentono pesantemente degli effetti causati da tali attività. Le principali fonti di contaminazione sono infatti rappresentate da scarichi urbani e industriali, dispersione di pesticidi e fitofarmaci utilizzati in agricoltura, scarti delle attività minerarie e rifiuti radioattivi. Quando l’apporto di queste sostanze supera una certa soglia è possibile che si verifichi una compromissione dell’ecosistema, che in realtà è rappresentata da una sommatoria di eventi, difficilmente identificabili singolarmente, che agiscono in modo cumulativo e sinergico in associazione al continuo utilizzo di risorse naturali (Bolognesi e Venier, 2003). Le conseguenze, oltre a riguardare le comunità biologiche presenti nell’area contaminata, possono avere pesanti ripercussioni su attività umane e salute pubblica. L’interesse sociale dei paesi industrializzati verso questi fenomeni è quindi cresciuto sensibilmente. La conseguenza è un notevole impegno della comunità scientifica, sviluppatosi negli ultimi venti anni, nell’individuazione di sistemi per la “tracciabilità” delle sostanze immesse nell’ambiente marino e dei loro effetti.

In tale contesto alcune agenzie internazionali hanno elaborato criteri guida e definito livelli standard

di qualità, che in ciascun paese sono stati tradotti in direttive e regolamenti che disciplinano le

attività umane. La maggior parte di queste agenzie si è basata per molto tempo essenzialmente su

metodi analitici di tipo fisico-chimico. Nonostante che queste siano considerate ancora uno

strumento fondamentale del monitoraggio ambientale, oggi si ritiene che forniscano informazioni

solo marginali sulla reale condizione degli ecosistemi. Difatti le analisi chimiche permettono di

identificare e quantificare il tipo e la sorgente del contaminante, senza però rilevarne la

biodisponibilità e le conseguenze sugli organismi viventi. In alcuni casi possono evidenziare

modalità più o meno forti con cui sono legate le sostanze (Campanella et al., 1995; Calace et al.,

1998; Tessier et al., 1979), ma non considerano eventuali effetti sinergici e/o antagonisti di miscele

d’inquinanti. L’elevato numero di analisi incide evidentemente anche sui costi che possono

diventare estremamente alti, soprattutto nei casi di disegni di campionamento che prevedono

numerose stazioni.

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Di conseguenza per la valutazione della qualità ambientale, all’approccio chimico è sempre più frequentemente accompagnato un approccio tossicologico, che permette una quantificazione della tossicità a seguito dell’esposizione alle sostanze chimiche prese in considerazione.

La tossicologia classica, nata nel XVI secolo, aveva come obbiettivo iniziale la protezione della salute umana e di animali di particolare interesse (come il cane e il cavallo), determinando il livello d’esposizione tollerato ad una certa sostanza ritenuta nociva. Oggi la tossicologia si occupa in generale della comprensione degli effetti provocati da processi chimici, biochimici e fisiologici, delle diverse sensibilità degli organismi alle sostanze chimiche e della tossicità relativa delle diverse classi di composti chimici (Chapman, 2002). Una particolare branca della tossicologia, che si differenzia dalla tossicologia classica, è la tossicologia ambientale. Quest’ultima ha l’obbiettivo di determinare il livello d’esposizione tollerato da sistemi biologici diversi dall’uomo. La tossicologia ambientale prevede l’esecuzione di prove di tossicità utilizzando organismi che sono in genere facilmente ottenibili, testabili e coltivabili (Ingersoll et al., 1997), da cui anche commercializzabili, ma trascura il significato ecologico di questi organismi, la significatività rispetto alla effettiva presenza delle specie considerate in un dato ambiente (utilizzando specie non necessariamente autoctone). Per tener conto di quest’ultimi aspetti negli ultimi anni sta acquistando sempre maggiore importanza l’ecotossicologia, che comprende l’integrazione della tossicologia e dell’ecologia (Chapman, 1995; Baird et al., 1996). Difatti a differenza della tossicologia ambientale l’ecotossicologia risulta una disciplina trasversale, in quanto si avvale in modo integrato dei concetti di ecologia e chimica ambientale, al fine di valutare gli effetti dei contaminanti non solo su una singola specie, ma sull’intero ecosistema, e quindi anche in relazione all’ambiente di studio. D’altra parte l’ecologia da sola non è in grado di determinare le relazioni tra gli organismi e i contaminanti (o altre fonti di stress), nè come quest’ultimi possano cambiare la struttura delle comunità in modo diretto (tossicità) e indiretto (rete trofica). Appare quindi fondamentale comprendere gli effetti sugli organismi e popolazioni naturali delle fonti di stress. Queste informazioni non possono provenire dalla tossicologia o dall’ecologia separatamente, ma dalla loro combinazione nell’ecotossicologia (Chapman, 2002).

Le prove ecotossicologiche utilizzano quindi come bersaglio i sistemi biologici, ai diversi livelli di organizzazione, a partire dai sistemi biochimici intracellulari fino agli effetti di mortalità su gruppi di individui appartenenti a specie differenti, includendo anche il semplice bioaccumulo delle sostanze potenzialmente tossiche.

I saggi biologici misurano un effetto sugli organismi come conseguenza della compromissione di

una o più funzioni del dato sistema biologico, come sopravvivenza, crescita, mortalità,

riproduzione, fotosintesi, ecc.

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I test di bioaccumulo misurano invece l’assorbimento degli inquinanti da parte degli organismi, stimando i livelli residui di contaminanti nei tessuti.

Rientrano inoltre nello studio ecotossicologico indagini che valutano le risposte a livello di meccanismi biomolecolari (biochimici o fisiologici) che un organismo può generare nei confronti di uno stress chimico ambientale. Tali risposte vengono comunemente chiamate con il nome di biomarkers (Fossi, 1998, 2000).

Nella valutazione della qualità ambientale, l’approccio ecotossicologico permette di rilevare l’inquinamento e non la contaminazione, intendendo per contaminazione di un sito la presenza di sostanze che naturalmente sarebbero presenti a livelli significativamente inferiori (Chapman, 1996, 2005). Si definisce invece inquinamento la presenza di sostanze che alterano le caratteristiche chimico-fisiche-biologiche determinando effetti tossici per gli organismi viventi (Chapman 2005).

Approcci integrati e utilizzo di batterie di saggi per la valutazione della qualità ambientale Proprio per la capacità dell’ecotossicologia di rivelare l’effettivo inquinamento e non solo la contaminazione presente nell’ecosistema oggetto di studio, è cresciuta l’esigenza di adottare criteri con basi ecotossicologiche per testare la qualità degli ambienti marini. In particolare sono stati messi a punto approcci integrati che prevedono l’impiego di metodologie ecotossicologiche e altri criteri di misura. Ad esempio, per quanto riguarda la determinazione dell’inquinamento presente nei sedimenti, è stato messo a punto un approccio integrato multidisciplinare definito “Sediment Quality Triad” (SQT) (Long e Chapman, 1985; Chapman, 1990, 1996; Chapman et al., 1987, 1997;

Carr et al. 1996). Questo consiste in un quadro concettuale per la raccolta di misure sinottiche derivanti da analisi chimiche, studi di comunità bentoniche e analisi tossicologiche al fine di valutare la qualità dei sedimenti. Le analisi vengono così condotte nella stessa area e nelle stesse date di campionamento, permettendo di trarre conclusioni relative al degradamento delle comunità bentoniche e alle cause su base chimica che possono averlo generato. Inoltre, grazie al contemporaneo utilizzo anche delle analisi ecotossicologiche, è possibile identificare i contaminanti con il maggior grado di tossicità e quelli meno pericolosi per l’ecosistema (Chapman et al., 1997).

Tuttavia il SQT non è attuabile con identiche modalità in ogni tipo di applicazione, poiché prevede

indagini a tutto campo con costi e tempi piuttosto elevati. Le tre componenti d’analisi del sistema

possono però essere modulate a seconda della disponibilità di risorse e della priorità delle

informazioni richieste dallo studio, trovando il giusto compromesso costi/benefici. Di conseguenza

all’interno di ciascuna disciplina (chimica, ecotossicologica e biologica) è necessario utilizzare gli

strumenti più adeguati per raggiungere gli obbiettivi preposti.

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Un altro caso di approccio integrato riguarda i criteri promossi dall’ U.S. Environmental Protection Agency (USEPA), che tengono conto di standard chimici, tossicologici e di saggi biologici per la qualità delle acque (USEPA, 1990a). Attualmente anche in Europa vengono adottati approcci integrati e nello specifico in Italia è stata stabilita la necessità di disporre di saggi biologici per testare la qualità delle acque marine con particolare riferimento ai sedimenti (Decreto legislativo n°152). In questo campo applicativo i saggi ecotossicologici sono utilizzati essenzialmente per la valutazione della pericolosità dei contaminanti. Tuttavia le tecniche di indagine ecotossicologica con specie test non adeguate possono talvolta fornire risultati non attendibili, con conseguente sovrastima o sottostima degli effetti di eventuali contaminati per il biota. Tale fenomeno può avvenire per un insieme di motivi quali la scarsa sensibilità degli endpoint considerati ad alcune sostanze (es. mortalità di specie molto resistenti) o eccessiva sensibilità a fattori naturali da parte della specie test (sensibilità a fattori di confusione), oppure per scarsa rappresentatività della matrice. Ne consegue che per una maggiore efficacia dei saggi nella valutazione della qualità ambientale è necessario l’impiego di una batteria di saggi che sia in grado di coprire un ampio spettro di ruoli trofici, livelli evolutivi, habitat e vie di esposizione (Volpi Ghirardini e Pellegrini, 2001). La batteria appropriata dovrebbe essere selezionata in funzione degli obbiettivi del programma e dell’ambiente indagato. In base a queste informazioni occorre quindi valutare le vie di esposizione e gli endpoints di maggiore rilevanza. Su queste basi si sceglie il disegno sperimentale, i metodi di analisi dei dati e l’utilizzo dei risultati. Qualunque batteria dovrebbe comunque rispettare, indipendentemente dall’ambiente e dalla specifica applicazione, alcuni requisiti (Ducrot et al. 2005):

 Almeno tre specie test, indipendentemente dal numero di endpoint

 Specie distinte da un punto di vista filogenetico e appartenenti a diversi livelli funzionali

 Sensibilità e potere discriminatorio della batteria tali da renderla adatta a fornire risposte appropriate per più forme d’inquinamento possibili.

Le specie dovrebbero inoltre essere il più possibile rappresentative della comunità e le esposizioni vicine alla realtà (campioni saggiati subito, manipolazioni ridotte al minimo), in modo da potersi avvicinare alla quantificazione di effetti ecologici reali (Chapman, 1991).

Tuttavia è necessario unire la sensibilità e la valenza ecologica delle specie selezionate alla loro

praticità d’utilizzo, in modo da rendere di routine l’utilizzo delle batterie di saggi. In questo

contesto appare necessario, oltre a utilizzare specie facilmente allevabili e/o reperibili in

commercio, privilegiare una batteria di metodi semplici, rapidi, discriminanti e a basso costo al fine

di valutare un ampio numero di campioni, individuando così quelli che richiedono ulteriori indagini.

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Un approccio integrato che utilizza batterie di saggi biologici e che pesa le diverse informazioni chimico-fisiche è stato messo a punto anche da ICRAM-APAT (2007). In particolare il “Manuale per la Movimentazione di Sedimenti Marini” prevede l’attuazione di una batteria comprendente almeno tre specie test appartenenti a livelli funzionali selezionati tra produttore primario vegetale, decompositore/saprofita, detritico/filtratore o consumatore. Queste analisi ecotossicologiche sono in questo caso previste contestualmente alla caratterizzazione chimico-fisica o successivamente alle risultanze analitiche. Sono previste inoltre analisi fisiche, chimiche e microbiologiche, con l’utilizzo di differenti parametri da analizzare a seconda se la caratterizzazione e classificazione dei sedimenti riguarda aree portuali, aree marine fluviali e litoranee oppure aree marine non costiere.

Un simile approccio (DGR n. 255/09) è stato adottato anche da una recente collaborazione tra ISPRA e Università Politecnica delle Marche. Il modello proposto riguarda la valutazione del rischio di pericolosità dei sedimenti finalizzata alla gestione integrata dei sedimenti dragati e lo sviluppo sostenibile delle aree portuali presenti nella regione Marche. In questo contesto applicativo per la caratterizzazione dei sedimenti sono stati ricercati parametri sia fisico- chimici sia ecotossicologici ed è stato messo a punto un sistema di elaborazione matriciale (Ciaprini et al., 2011).

Dai numerosi esempi appare quindi evidente l’importanza di accompagnare ad un’indagine chimica un approccio ecotossicologico il quale, mediante un’appropriata scelta metodologica, permetterà di ottenere una realistica interpretazione della contaminazione dell’ecosistema oggetto di studio e stimarne gli effetti; in definitiva valutarne il rischio di pericolosità per esso.

1.2 Saggi biologici

Una tecnica consolidata nei paesi anglosassoni e da diversi anni anche nel nostro paese, è

rappresentata dai saggi biologici. Come accennato in precedenza questi costituiscono una procedura

che prevede l’esposizione di organismi appartenenti ad alcune specie-test a matrici ambientali

contenenti miscele di inquinanti in quantità non note in condizioni sperimentali controllate, allo

scopo di verificare se si manifestano effetti tossici (Volpi Ghirardini e Pellegrini, 2001). I “test” di

tossicità consistono invece in esperimenti in cui le singole specie test sono esposte a sostanze pure o

a matrici a cui vengono aggiunte sostanze pure (o miscele di esse) a concentrazioni definite

(SETAC,1993). Attraverso l’utilizzo dei saggi biologici è possibile osservare una vasta gamma di

risposte biologiche (endpoint), come la mortalità od effetti subletali, quali anomalie dello sviluppo,

modificazioni comportamentali e cambiamenti nel successo riproduttivo, al fine di determinare gli

effetti tossici sul biota da parte dei contaminanti. Questo approccio, a causa della rapidità delle

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risposte, alta sensibilità e rilevanza ecologica rappresentano un utile strumento in grado di indirizzare ulteriori e più approfondite indagini chimiche, ecotossicologiche ed ecologiche per la valutazione della qualità ambientale (MacDonald et al., 1997).

I saggi presentano numerosi vantaggi. Innanzitutto valutano gli effetti tossici della frazione biodisponibile dei contaminanti. Inoltre, visto che i saggi misurano la tossicità relativa di una miscela di sostanze chimiche, sono in grado di rilevare gli effetti sinergici e antagonisti che possono manifestarsi tra sostanze, indipendentemente dalla loro concentrazione e forma chimica. Tengono poi conto della tossicità anche se dovuta a sostanze non conosciute o normalmente non ricercate. I saggi di laboratorio sono infine più veloci e generalmente meno dispendiosi rispetto alle analisi chimiche. Tuttavia presentano anche alcuni limiti. I risultati permettono infatti di identificare solo le macrocause responsabili di modificazione della specie test ma non i singoli agenti causativi. I saggi biologici sembrano inoltre essere meno appropriati in presenza di contaminanti con grandi potenzialità di essere bioaccumulati o che causano effetti anche a basse concentrazioni e in periodi a lungo termine, come ad esempio gli endocrine disruptors (Depledge e Billinghurst, 1999). I dati possono poi risultare non estrapolabili a livello di ecosistema e valere esclusivamente per la specie utilizzata, con scarsa capacità predittiva per popolazioni e comunità. A questo proposito risulta di fondamentale importanza, come visto nel precedente paragrafo, parlare di “batterie” di saggi. Infine risulta spesso difficile separare l’effetto dovuto alla contaminazione con quello dovuto alla presenza di possibili fattori di stress, inclusa la stessa manipolazione dei campioni per i saggi in laboratorio.

Per questo motivo risulta opportuno monitorare alcuni parametri della matrice su cui viene condotto il saggio e che potrebbero essere potenziali fonti di stress, come temperatura, salinità, pH, ossigeno disciolto, ecc.

Una misura fondamentale nei saggi biologici è la dose, vale a dire la quantità di sostanza che entra realmente nell’organismo, associandosi ai tessuti biologici. La dose risulta il migliore predittore degli effetti tossici (Chapman e Wang, 2001). Questi cambiano a seconda del tipo di saggio che si vorrà eseguire. In base al tipo di tossicità considerata i vari saggi possono essere classificati in tre tipologie: acuti, cronici, subletali (ANPA, 2001):

 Tossicità acuta - fornisce indicazioni sugli effetti a breve termine di una sostanza. I saggi hanno generalmente una durata compresa tra 15 minuti e 96 ore. Vengono di solitamente registrati i valori di EC50 e LC50. Questi rappresentano la misura quantitativa della tossicità più diffusa (Oddo, 1998) e indicano la concentrazione alla quale la sostanza ha effetto sul 50% degli organismi esposti dopo periodi d’esposizione specifici (es. 48,72 o 96 ore).

 Tossicità cronica - riguarda gli effetti a lungo termine di una sostanza. L’esposizione in

questo caso dura per buona parte del ciclo vitale dell’organismo. La relazione causa effetto è

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quindi maggiormente dilazionata nel tempo, con una maggiore attesa della comparsa dell’evento modificativo. Generalmente questi saggi vengono condotti su stadi del ciclo di sviluppo particolarmente sensibili di organismi, per la maggior parte animali con una posiziona abbastanza elevata nella scala evolutiva. Richiedono un considerevole impegno di tempo e strutture.

 Tossicità subletale - prende in considerazione tutti quegli effetti tossici che non provocano la morte dell’organismo. Si stima quindi sia la tossicità acuta che, successivamente, la tossicità cronica.

Un’ulteriore classificazione dei saggi (test) di laboratorio è fatta a seconda delle condizioni della soluzione da testare:

 Test statici - la soluzione rimane la stessa senza essere cambiata durante tutta la durata dell’esposizione.

 Test con rinnovo periodico della soluzione - il ricambio dell’intera soluzione viene effettuato dall’operatore ad intervalli di tempo regolari.

 Test a flusso continuo - mantenendo inalterata la concentrazione del contaminante in soluzione un sistema di pompa automatica provoca un continuo ricambio d’acqua.

Per quanto riguarda la valutazione della qualità dell’ambiente marino le matrici prese in considerazione dai saggi biologici sono generalmente cinque:

 Colonnna d’acqua - vengono valutati gli effetti degli inquinanti disciolti e particellati che vengono trasportati dalle acque marine

 Acqua interstiziale - viene valutata la tossicità dei composti (soprattutto quelli idrofilici) rilasciati dai sedimenti. Per questo rappresentano la più diffusa via d’esposizione dell’infauna e degli organismi bentonici di fondo molle in generale (Burton e MacPherson, 1995).

 Elutriato - simula la sedimentazione di fondali marini dovuta ad attività umane come movimentazione (ASTM, 1991), dragaggi portuali, rinascimenti, ecc.

 Sedimento tal quale - per quantificare i contaminanti contenuti nei sedimenti

 Sedimento privato dell’acqua interstiziale - per quantificare i contaminanti adesi al sedimento a causa della loro idrofobicità o complessazione.

In riferimento alle specie test da utilizzare, generalmente vengono scelti organismi importanti da un

punto di vista economico o ecologico (Chapman, 2002). Tuttavia vi sono anche altre fondamentali

caratteristiche da tenere in considerazione per ottenere una realistica valutazione della qualità

ambientale. Difatti da un punto di vista ecologico lo stato di salute di poche specie può incidere

sulla struttura e sul funzionamento della comunità biologica molto più rispetto a quello di un

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elevato numero di altre specie (Calow, 1996). In tale contesto appare quindi importante scegliere organismi residenti, che appartengono cioè all’ecosistema oggetto di studio. Tra questi la migliore capacità predittiva sarà associata alle specie più rilevanti da un punto di vista ecologico, come le keystone species. Queste sono definite come specie il cui impatto sulla comunità o ecosistema è enormemente legato alla loro abbondanza (Power et al., 1996). Di conseguenza anche leggere variazioni della loro abbondanza possono provocare consistenti cambiamenti nella composizione, struttura e funzione della comunità (Power and Mills, 1995). Anche alla luce di questi aspetti è stata individuata una serie di requisiti associati alle specie utilizzate nei saggi bilogici (Giesy e Hoke, 1989; Lambertson et al., 1992), secondo cui l’organismo ideale dovrebbe essere:

 di facile reperibilità, manipolabilità e mantenimento in laboratorio, in modo da poter essere utilizzabile con successo al momento dell’analisi

 facilmente identificabile e con endpoints ben osservabili

 con un ciclo vitale non troppo lungo per poter condurre test cronici

 con la possibilità di utilizzare organismi appartenenti a stadi del ciclo vitale particolarmente sensibili (es. embrioni, larve o giovanili)

 prelevato da una popolazione omogenea geneticamente e fisologicamente

 disponibile per tutto l’anno

 con biologia ed ecologia già conosciuta e descritta da precedenti studi di lettaratura

 rilevante da un punto di vista ecologico

 indigeno

 sensibile ad un elevato numero di contaminanti, appartenenti a più classi di composti tossici

 tollerante ad un ampio range di condizioni fisico-chimiche (es. temperatura, salinità, pH, ossigeno disciolto ecc.) in modo da avere effetti dovuti al contaminante e non ad eventuali valori estremi dei parametri ambientali.

Sempre gli autori Giesy e Hoke (1989) e Lambertson et al. (1992) ritengono fondamentali alcuni requisiti al livello delle caratteristiche del saggio biologico. In particolari queste caratteristiche comprendono:

 rapidità

 semplicità di esecuzione

 replicabilità

 riproducibilità

 standardizzazione

 sensibilità

 capacità discriminatoria nei confronti di diversi contaminanti

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 economicità

 correlabilità con effetti in situ.

Appare evidente come un singolo saggio non possa possedere contemporaneamente tutte le caratteristiche elencate, ma che l’importanza di queste varia a seconda del tipo di saggio utilizzato (Volpi Ghirardini e Pellegrini, 2001).

Tuttavia alcuni criteri sono particolarmente importanti, come ad esempio il considerare come endpoints effetti su crescita e riproduzione e avvicinarsi il più possibili alle condizioni reali dell’ambiente indagato (Chapman, 1991; Underwood et al., 2000; Chapman, 2002). Inoltre altri requisiti fondamentali sono l’applicabilità a un elevato numero di matrici ambientali e la scarsa sensibilità a confounding factors, vale a dire quei fattori che possono alterare la risposta biologica della specie test. In conclusione il saggio ideale dovrebbe quindi essere in grado di discriminare livelli diversi d’inquinamento, mantenendo però un basso rumore di fondo nei confronto delle variabili naturali e rilevando gli effetti ecologicamente rappresentativi delle popolazioni esaminate.

Nei saggi biologici il bioindicatore utilizzato può essere selezionato a più livelli di complessità strutturale. Tre principali livelli sono costituiti da: singole specie, comunità ricostruite (mesocosmi multi-specie) e porzioni di ecosistemi naturali (enclosures) (Volpi Ghirardini e Pellegrini, 2001).

Generalmente all’aumentare della complessità del sistema sperimentale, la sensibilità, riproducibilità e velocità di risposta tendono ad essere inversamente correlate alla difficoltà di interpretazione e alla rilevanza ecologica (Persoone e Jannsen, 1992; Burton, 1991). Per questi motivi i metodi più frequentemente impiegati nel biomonitoraggio sono rappresentati da saggi a singola specie.

Inoltre il saggio biologico può essere condotto in condizioni controllate di laboratorio oppure in situ, vale a dire esponendo direttamente all’ambiente gli organismi mediante la costruzione di apposite camere test.

1.3 Saggi biologici in situ

I saggi di laboratorio sono attualmente tra le tecniche più utilizzate per valutare la tossicità di

matrici ambientali (Baudo et al., 2001). Tra le caratteristiche principali di questo tipo saggi

rientrano la relativa economicità, semplicità di attuazione e possibilità di operare in condizioni

controllate. Questi vantaggi hanno portato negli ultimi hanno a un’ampia diffusione di queste

tecniche, attuate con una o più specie, e alla standardizzazione di diverse procedure (Burton et al.,

2005). Tuttavia, sebbene quest’approccio abbia dato prova di essere spesso essenziale, oltre a punti

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di forza, presenta anche numerose limitazioni (Chapman et al., 1992, Burton et al., 1996, Grothe et al., 1996) poste in evidenza da più articoli di letteratura (Cairns, 1983; Cairns et al., 1992; Landis e Ho-Yu, 1994). Tra gli svantaggi dei saggi di laboratorio la questione più dibattuta riguarda la mancanza di affidabilità nello spiegare effetti sito-specifici, ad eccezione che per le validazioni in campo dove viene comparata la tossicità riscontrata in diversi siti o campioni (Pereira et al., 1998).

Tuttavia anche in questo caso le condizioni controllate di esecuzione del test generalmente non rispecchiano le reali condizioni dell’ambiente indagato. Difatti non viene tenuto di conto di parametri ambientali come luce, temperatura, salinità, pH, solidi sospesi, idrodinamismo, ecc., che possono mostrare valori con variazioni significative durante il tempo all’interno dello stesso sito di studio (Baudo et al., 1999). Tali parametri possono interagire con eventuali contaminanti presenti dando luogo a effetti sinergici che possono influenzare la risposta biologica degli organismi alla tossicità (Anderson et al., 2004). L’effetto così generato potrebbe essere diverso nel campione di matrice utilizzato in laboratorio a causa della diversa intensità, frequenza e durata dei fattori di stress rispetto a quelli presenti in campo (Burton et al., 2000). Inoltre un altro svantaggio del saggi di laboratorio è che lo studio e la manipolazione dei campioni, nelle varie fasi precedenti l’esecuzione dei test, possono comportare un’alterazione della biodisponibilità dei tossici (Baudo et al., 2001).

Al fine di ovviare a questi problemi è possibile monitorare i contaminanti presenti nell’ecosistema indagato mediante un’esposizione in situ degli organismi. Questi ultimi sono così sottoposti alle reali condizioni ambientali, consentendo di integrare nel tempo gli effetti della presenza di eventuali tossici e delle loro interazioni con altri fattori ambientali. Di conseguenza il vantaggio di questa metodologia è quello di permettere un’interpretazione più realistica della contaminazione dell’ecosistema oggetto di studio. Ciò assume particolare rilevanza se lo studio viene condotto in aree caratterizzate da un’ampia variabilità dei fattori ambientali, come ad esempio estuari ed in generale zone costiere. Tuttavia sono presenti anche degli svantaggi nell’applicazione di questa tecnica, primi tra tutti la maggiore complessità e i costi più alti. Infatti proprio per queste difficoltà non sempre è possibile compiere esperimenti con un numero adeguato di repliche. Inoltre, soprattutto per tempi di esposizione prolungati aumenta il rischio di furti o danneggiamento dei materiali. Questi aspetti negativi, uniti allo sviluppo relativamente recente dei saggi in situ in ambienti acquatici, sicuramente ne hanno limitato l’applicazione. Di conseguenza si riscontra una carenza di studi e di protocolli standardizzati, i quali potrebbero portare a loro volta ad una maggior semplicità esecutiva.

I test in situ vengono eseguiti in generale isolando una porzione dell’ambiente di studio che

contiene gli organismi. In questo tipo di studi la tecnica più completa è rappresentata probabilmente

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dai “mesocosmi” (Odum, 1984; SETAC-Europe, 1991; Burgess e Scott, 1992; Burton, 1992). I Mesocosmi consistono nell’isolare una porzione di ecosistema al fine di permettere lo studio delle dinamiche delle popolazioni, della tossicità, del bioaccumulo e delle risposte patologiche. Purtroppo però questa tecnica è quella che presenta complessità e costi più elevati tra i test attuabili in campo, pertanto difficilmente si presta ad applicazioni di routine e di conseguenza il suo impiego ne risulta fortemente compromesso (Baudo et al., 1999). Per questo i test ecotossicologici in situ vengono generalmente condotti utilizzando come bioindicatori solo alcune specie test. Ad esempio per quanto riguarda i test di bioaccumulo il “mussel watch” prevede l’esposizione in situ di molluschi bivalvi per determinare effetti negativi e di bioaccumulo dei contaminanti presenti nella colonna d’acqua (Widdows et al., 1981). Tecniche più raffinate includono l’applicazione di sensori elettronici sulle valve in grado di segnalare quando queste vengono chiuse, fenomeno che sembra verificarsi in acque di bassa qualità ambientale. Attraverso sistemi di telemetria è possibile monitorare in tempo reale la qualità dell’acqua (Allen et al., 1996; Borcherding, 1992; Herricks et al., 1997; Sloof et al., 1983; Waller et al., 1995).

I saggi biologici in situ prevedono la costruzione di una o più camere d’esposizione, dove gli

organismi verranno messi a contatto con la matrice ambientale da valutare. I bioindicatori

appartengono a un’ampia gamma di specie test, sia invertebrati che vertebrati acquatici, e vengono

impiegati al fine di misurare eventuali effetti di sostanze tossiche. Gli organismi sono selezionati in

base all’ambiente presente nell’area di studio ed in funzione del periodo in cui si prevede che

avverrà il campionamento. Le risposte fornite dalle specie test consentiranno di trarre conclusioni

circa la tipologia di contaminati presenti nell’ambiente indagato. L’utilizzo di queste specie, le quali

dovranno soddisfare i requisiti in precedenza analizzati per poter essere impiegate nei saggi

biologici, richiede che queste possiedano alcune caratteristiche aggiuntive per poter essere utilizzate

in campo con successo. In particolare si deve evitare l’utilizzo di specie alloctone, sia perché le

condizioni dell’habitat potrebbero non coincidere con le esigenze dell’organismo, sia perché una

possibile “fuga” dalle camere test potrebbe portare all’introduzione di specie aliene. Le abitudini

alimentari e comportamentali degli organismi devono inoltre essere compatibili con una camera

d’esposizione, oltre che con gli endpoints studiati (tossicità acuta, sviluppo, fertilità, fecondità, ecc.)

e con una profondità di studio della colonna d’acqua non troppo elevata che permetta di

semplificare il lavoro anche nel caso sia necessario impiegare subacquei per collocare in loco le

camere (Baudo et al., 1999). Quest’ultime devono essere opportunamente realizzate con volumi

idonei e dotate di aperture ricoperte da rete avente una maglia di dimensioni tali da permettere il

ricambio d’acqua e il mantenimento di buoni livelli di ossigeno all’interno della camera (Clark,

1989; Sibley et al., 1999). Allo stesso tempo però dovrà impedire la fuoriuscita di organismi e

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l’ingresso di specie indigene, che rappresentano potenziali predatori o competitori (Chappie e Burton, 1997; Davis et al., 1988; Sibley et al., 1999).

Fino ad oggi i test in situ sono stati condotti principalmente in ambienti di acqua dolce, dove è stata utilizzata un’ampia gamma di organismi test di vari livelli trofici e selezionati in base al tipo di analisi. Tra queste specie sono compresi organismi appartenenti a fitoplancton, cladoceri, anfipodi, insetti acquatici, bivalvi, idrozoi, briozoi, oligocheti, irudinei (Brooker e Burton, 1998; Burton e Rowland, 1999; Burton et al., 1996; Hatch e Burton, 1999; Ireland et al. 1996; Lavoie e Burton, 1998; Liess, 1996; Moore e Burton, 1999; Morgan et al., 1981; Morgan et al., 1986; Metcalfe e Hayton, 1989; Rowland et al., 1997; Sasson-Bricksin e Burton, 1991; Shultz, 1996; Tucker e Burton, 1999; Waller et al. 1995), ma anche anfibi e pesci (Hartwell et al., 1987, Jonhson et al., 1987; Meletti e Rocha, 2002; 1987; Linder, 1990). Gli studi condotti in ambiente marino sono certamente meno numerosi e la maggior è costituita da test di bioaccumulo che utilizzano molluschi bivalvi. Per quanto riguarda i saggi biologici, gli esempi sono pochi e spesso alcuni accorgimenti tecnici derivano dall’adattamento di prove in situ condotte in acqua dolce. Tuttavia vi sono alcuni lavori che per lo studio degli effetti a breve termine dei contaminanti ambientali hanno utilizzato come organismi-test macro e microalghe come Phaedactylum tricornutum (Moreira et al., 2002) e Ulva sp. (Dalsgard e Krause-Jensen, 2006), oltre che animali. Quelli più frequentemente impiegati sono probabilmente anfipodi come Chaetocorophium cf. lucasi (De Witt el al., 1999), Corophium volutator (Kater et al., 2001) e Eohaustorius estuarinus (Anderson et al., 2004). Per quanto riguarda i molluschi bivalvi, oltre che per essere utilizzati per le prove di bioaccumulo, Geffrad et al. (2001) hanno adattato il saggio embrio-larvale con Crassostea gigas e Mytilus galloprovincialis all’utilizzo in situ. Ci sono inoltre studi che utilizzano policheti come Hediste diversicolor (Moreira et al., 2005), Echinodrmi come Paracentrotus lividus (Beiras et al., 2001; Salamanca et al., 2009) e pesci come il salmonide Oncorhyncus kisutch (Roberts et al., 2006). Alcune delle specie utilizzate sono state impiegate con l’obbiettivo di indagare su possibili effetti di contaminanti presenti nella colonna d’acqua, mentre altre si adattano alla matrice sedimento. L’analisi delle due matrici richiede l’applicazione di differenti soluzioni metodologiche che, oltre che nella scelta del bioindicatore, comprendono la messa a punto della camera d’esposizione e la pianificazione per poterla posizionare in campo.

Saggi in situ sui sedimenti

Questo tipo di saggio permette di eliminare possibili artefatti dovuti alla manipolazione dei sedimenti, ma allo stesso tempo devono essere rispettate alcune condizioni per valutarne la tossicità.

Innanzitutto le camere dovranno essere posizionate diversamente a seconda se si vuole prendere in

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considerazione l’interfaccia acqua-sedimento o una determinata profondità di sedimento. In quest’ultimo caso la camera sarà immersa nella matrice, conservando però un flusso bidirezionale d’acqua tramite aperture coperte da rete (Fig. 1). Le camere vengono posizionate nel sedimento di solito tramite immersioni subacquee. Una volta messo in loco gli organismi le condizioni ambientali risulteranno molto realistiche e il disturbo sarà notevolmente ridotto (Baudo et al., 1999). Come specie test le più utilizzate sono microalghe e anfipodi, mentre policheti sono impiegati per test di bioaccumulo.

Saggi in situ sulla colonna d’acqua

La contaminazione della colonna d’acqua, a causa del dinamismo della matrice, può risultare molto variabile nel tempo. Tale variabilità è massima in tutti quegli ambienti caratterizzati da ampie oscillazioni di parametri chimico-fisici come ad esempio zone di estuario o soggette a elevato idrodinamismo, come le aree costiere. Di conseguenza i saggi biologici in situ appaiono molto adatti per ottenere una realistica interpretazione della contaminazione della matrice, con dati integrati nel tempo durante l’intero periodo d’esposizione degli organismi. Le camere d’esposizione saranno anche in questo caso dotate di aperture coperte da una rete con maglia di dimensioni tali che permetta un ricambio d’acqua senza far passare gli organismi. Per monitorare la colonna d’acqua le camere vengono solitamente tenute sollevate da fondo a una profondità generalmente compresa tra 1 m e 2 m (Beiras et al., 2002; Geffrad et al., 2001). Per collocare le camere in campo vengono utilizzate delle boe alle quali sono collegate le camere d’esposizione e un corpo morto posizionato sul fondo. Una volta messe in campo boe e corpi morti, o nel caso che le camere siano vincolate alla riva può non esserci bisogno dell’intervento di subacquei (Fig. 2). Gli organismi solitamente impiegati vanno dalle alghe a specie meroplanctoniche come larve di molluschi o echinodermi, su cui verranno successivamente eseguite analisi sullo sviluppo embrionale (Beiras et al., 2002; Geffrad et al., 2001; Salamanca, 2009). Possono essere utilizzati anche giovanili di pesci,

Fig. 1 – Camere per la valutazione in situ della tossicità di sedimenti (A= Baudo et al., 1995, B = Sasson-Brickson e Burton, 1991, C = Skalski et al. 1990). Immagine: Baudo et al., 1999.

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visto che per l’allevamento in gabbie per scopi commerciali è ampiamente praticato. Ad esenpio Roberts et al. (2006) ha utilizzato gabbie in rete rigida di nylon per l’esposizione in situ di Oncorhyncus kisutch

Applicazione delle metodologie in situ

Per avere risultati realistici e correttamente interpretabili nei saggi biologici in situ è necessario tenere in considerazione alcuni importanti fattori. Innanzitutto è consigliabile inserire nel disegno di campionamento più siti di riferimento e con un adeguato numero di repliche. Sarà così possibile avere un’informazione più attendibile, considerato anche la variabilità dei fattori ambientali e le possibilità di furti o danneggiamenti durante il periodo d’esposizione. E’ inoltre importante avere un sito di controllo in mare e testare i materiali da utilizzare, in modo da verificare un possibile disturbo dovuto alla metodologia. E’ infine utile poter avere un ulteriore controllo che permetta di verificare la possibile presenza di un artefatto dovuto al trasporto degli organismi (Burton et al., 2004).

Per verificare se i risultati ottenuti in campo differiscono significativamente da quelli di laboratorio è necessario eseguire entrambi i saggi in contemporanea. In particolare occorre allestire un test di laboratorio con le stesse matrici ambientali campionate in occasione della messa in campo delle camere d’esposizione. Vi sono vari studi che hanno confrontato i risultati ottenuti in laboratorio con quelli in situ, come DeWitt et al. (1999), Castro et al. (2003), Ireland et al. (1996), Jacher e Burton (1993), Kater et al. (2001), Perieira et al. (1999), Rossi e Beltrami (1998), Sasson-Brickson e Burton (1991), Sibley et al. (1999). Tuttavia non tutti gli studi che prevedono saggi in situ hanno un adeguato confronto in laboartorio. Ad esempio Geffrad et al. (2001) hanno effettuato il test embrio-larvale utilizzando Crassostrea gigas e Mytilus galloparovincialis, ma non è stato eseguito nessun test di laboratorio per verificare l’attendibilità dei risultati. Poulton e Pascoe (1990) invece

Fig. 2 – Esempio di camera per la valutazione della tossicità della colonna d’acqua (Geffrad et al., 2001 )

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hanno condotto il test sia in situ che in laboratorio, ma senza usare in quest’ultimo caso i campioni d’acqua raccolti in campo.

Oltre al confronto con il test di laboratorio sarebbe inoltre necessario completare lo studio con opportune analisi chimiche, e la registrazione in campo dei valori dei parametri ambientali, in modo da permettere un’interpretazione delle condizioni esistenti il più possibili esenti da artefatti dovuti al campionamento, trasporto e conservazione dei campioni.

Dagli studi condotti fino ad oggi appare evidente come per la corretta applicazione di queste tecniche sia necessaria una standardizzazione delle metodologie, in modo da ottenere risultati il più possibili realistici e confrontabili tra diversi ambienti acquatici (Baudo et al., 1999). Purtroppo però attualmente non sono disponibili protocolli standardizzati, ad eccezione della guida ASTM 2002 relativa a molluschi bivalvi. La diffusione dei test in situ e il loro futuro impiego in attività di monitoraggio è comunque auspicabile, visto la realistica interpretazione della contaminazione che la loro applicazione può permettere, soprattutto se associati ad analisi chimiche e saggi di laboratorio.

1.4 Saggi biologici con il riccio di mare Paracentrotus lividus

I saggi di tossicità con echinoidi sono caratterizzati da un’alta sensibilità e rilevanza ecologica. Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che vengono impiegati gli stadi più sensibili del ciclo di sviluppo come fecondazione e sviluppo embrionale (Dinnel et al., 1988; Pagano et al., 1986). Gli echinodermi sono animali con fecondazione esterna e sia gli embrioni che le larve sono prive di protezioni. Di conseguenza il successo riproduttivo dipende in larga misura dalle condizioni ambientali, le quali possono facilmente influenzare le interazioni tra sperma e uovo durante la fecondazione e le interazioni tra blastomeri e tessuti durante lo sviluppo embrionale (Kobayashi, 1984; Pinto et al., 1995; Arizzi Novelli et al., 2002).

Vi sono molteplici specie di echinoidi utilizzati nei saggi biologici e per alcune di esse sono state

sviluppate procedure standard per i test di fecondazione e sviluppo, come ad esempio per le specie

della cosa orientale (Arbacia punctulata, Strongylocentrotus droebachienensis) e occidentale

(Strongylocentrotus purpuratus, Strongylocentrotus drobachienensis, Dendraster excentricus) degli

Stati Uniti (USEPA, 1994, 1995, 2000; ASTM, 1995, 2004). Queste procedure sono state sviluppate

in seguito al lavoro di Dinnel et al. (1987) e successivamente perfezionate da Chapman (1995). La

scelta della specie da utilizzare dipende essenzialmente dalla loro reperibilità, e quindi dalla

distribuzione, oltre che dalla durata del periodo riproduttivo. Per quanto riguarda l’area

mediterranea le specie maggiormente diffuse sono tre: Arbacia lixula, Pracentrotus lividus e

Sphaerechinus granularis. Tutte sono oggetto di ricerche in campo fisiologico, biochimico ed

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embriologico (Giudice, 1986; Yokota et al., 2002; Matranga, 2005). Il riccio di mare Pracentrotus lividus è quello che però presenta un periodo riproduttivo più lungo rispetto alle altre specie, oltre ad avere molte caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto per l’applicazione in campo ecotossicologico, quali (Dinnel et al., 1988):

 Posizione elevata nella scala evolutiva

 Specie molto diffusa in Mediterraneo e facilmente campionabile

 Facilmente allevabile e stabulabile in laboratorio

 Ciclo riproduttivo naturale che copre un arco di tempo piuttosto lungo

 Sensibilità ad un ampio spettro d’inquinanti

 E’ possibile avvalersi di più stadi del ciclo vitale, utilizzando endpoints differenti (inibizione della fecondazione, difetti nello sviluppo larvale, mortalità)

 Conoscenza approfondita della specie sia da un punto di vista biologico che ecologico

 Durata del saggio piuttosto breve e costi contenuti

 Raccolta di gameti facilmente eseguibile e senza la necessità di alcun condizionamento per ottenere gameti di qualità

 Ciascun individuo produce milioni di gameti, il cui utilizzo permette di ottenere risposte dall’elevato significato statistico considerato l’alto numero di uova e spermatozoi impiegati.

Tuttavia oltre a questi vantaggi vi sono anche dei limiti nell’impiego di questa specie. Tra questi sicuramente la scarsa standardizzazione delle metodiche tra diversi laboratori, sia a livello nazionale che internazionale, oltre che la carenza di dati di comparazione relativi alla sensibilità del test rispetto ad altri test di tossicità (Airizzi Novelli et al., 2001), anche se in questi ultimi anni molti sforzi sono stati compiuti in questa direzione, in particolare a livello dei gruppi di lavoro UNICHIM-ISPRA (Pellegrini, com. pers.). Inoltre, sebbene in alcune regioni del Mediterraneo si osservi l’emissione di gameti per tutto l’anno (Guettaf et al., 2000), il principale va da aprile a giugno (Sellem e Monique, 2007). Nei mari italiani il periodo riproduttivo generalmente dura circa 8 mesi (ottobre-maggio) (Pellegrini, com.pers.), Di conseguenza non risulta possibile utilizzarlo per test ecotossicologici durante il periodo estivo che in media va da luglio a fine settembre. Per cercare di superare questo inconveniente sono tutt’ora in corso sperimentazioni anche presso i laboratori ISPRA di Livorno con l’obbiettivo di estendere l’emissione naturale di P. lividus anche al periodo estivo, mediante mantenimento in acquari refrigerati con regolazione del fotoperiodo e dei parametri fisico-chimici.

L’utilizzo del riccio di mare nei saggi biologici si è sviluppato a partire dagli anni ’70-’80. Tra i

primi a valutare in modo sempre più completo diversi aspetti dell’esposizione dei gameti e degli

embrioni a matrici acquose fu Kobayashi (1971, 1974, 1977, 1980, 1981). Tuttavia già dagli anni

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‘20 sono stati utilizzati stadi vitali del riccio per valutare la tossicità di alcune sostanze, in prevalenza metalli pesanti (Lillie, 1921; Waterman, 1937; Wilson e Amstrong, 1961). Oggi P.lividus viene utilizzato per test sia di spermiotossicità (fecondazione) che di embriotossicità (sviluppo embrionale). Nel primo caso vengono valutati gli effetti sulla fecondazione a seguito dell’esposizione dei gameti maschili al contaminante. Questo tipo di saggio è particolarmente rapido (60 minuti) e tale rapidità riduce il rischio di alterazione del campione rispetto alle condizioni originarie. Per quanto riguarda il saggio di sviluppo embrionale (72 ore d’esposizione) vengono considerati difetti dello sviluppo ed aberrazioni mitotiche in seguito all’esposizione dello sperma a sostanze tossiche (Falugi e Angelini, 2002), oppure, più frequentemente, considerando l’esposizione dell’embrione a partire dalle prime divisioni dello zigote (Arizzi Novelli et al., 2002).

L’endpoint è quindi più complesso rispetto al saggio di fecondazione (dove si registra il semplice sollevamento della membrana di fecondazione), in quanto gli embrioni normoformati allo stadio di plutei quattro braccia devono essere distinti da quelli che presentano malformazioni scheletriche, del tratto digerente e/o delle braccia. L’elevata sensibilità che ne deriva può essere ulteriormente aumentata conducendo anche analisi più approfondite degli effetti sullo sviluppo embrionale, come ad esempio la classificazione in più categorie dei plutei (Warnau et al., 1996; Graillet et al., 1993).

Inoltre, oltre alle anomalie dello sviluppo, possono essere contemporaneamente valutati altri parametri come alterazioni del successo riproduttivo e qualità della progenie, rendendo il saggio adatto a diversi tipi di studi con conseguente possibilità di adattamento delle metodologie. Appare quindi evidente che i due test possano fornire risposte complementari, rappresentando dei metodi affidabili di indagine ecotossicologica.

Sia il test di fecondazione che quello di sviluppo embrionale con P. lividus sono stati utilizzati in

letteratura per l’esposizione a sostanze pure ed effluenti (Pagano et al., 1985, 1988; Bressan et al.,

1991; Pieroni e Falugi, 1992; Graillet et al. 1993; Airizzi Novelli et al., 2002, 2003; Russo et al.,

2003; Angelini et al., 2005; Schoder et al., 2005; Manzo et al., 2006), a miscele (Manzo et al.,

2008) e ad acque e sedimenti naturali (Pagano et al., 1993, 2001; Pinto et al., 1995; Volpi

Ghirardini et al., 1999, 2003, 2005). Numerosi studi hanno dimostrato la grande affidabilità del

riccio di mare come bioindicatore, tanto che il test di fecondazione e sviluppo sono stati inclusi

nella lista ICES (1997) dei test biologici più affidabili per il monitoraggio dell’inquinamento delle

acque e dei sedimenti marini. In questo contesto P. lividus viene spesso impiegato per valutare la

qualità di ambienti marino-costieri attraverso l’analisi sia della colonna d’acqua che dei sedimenti

(Lera e Pellegrini, 2006; Lera et al., 2006). In quest’ultimo caso l’impiego diretto è scosigliato

(Ankley, 1991), mentre vengono utilizzate frazioni acquose da essi derivati come acqua interstiziale

ed elutriati. Nel primo caso vengono presi in considerazione gli effetti dei contaminanti più solubili

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nella colonna d’acqua, l’elutriato fornisce invece informazioni sui contaminanti in fase solida rilasciati in acqua (Schuytema et al., 1996). Per questo motivo gli elutriati sono particolarmente adatti quando utilizzati per valutare gli effetti di una movimentazione di sedimenti (Ross e Henerby, 1989; Long et al., 1999; Edward et al., 1995; Onorati e Volpi Ghirardini, 2001).

Riproduzione e cenni ecologici di Paracentrotus lividus

Il riccio di mare Parcentrotus lividus è una specie diffusa in tutto il Mar Mediterraneo ed in prossimità delle coste dell’Oceano Atlatico nord-orientale, dell’Irlanda e della Scozia fino al Marocco, alle Canarie, a Madeira e alle Azzorre (Tortorense, 1965). La sua raccolta risulta agevole, in quanto si tratta di una specie tipicamente infralitorale oltre che subtidale, che vive sulle coste rocciose dalla superficie fino agli 80 metri di profondità, anche se risulta più abbondante nei primi metri. Si nutre in prevalenza di macroalghe bentoniche, oltre che di foglie di Posidonia oceanica.

La specie è dioica e la maturità sessuale secondo Crapp e Willis (1975) sembra avvenire attorno al

terzo anno di età sui nove anni di vita totale. La riproduzione è esterna ed il rilascio dei gameti nella

colonna d’acqua avviene soprattutto in seguito allo stress meccanico generato dalle mareggiate. Lo

sperma può sopravvivere in acqua per diverse ore, ma col tempo il suo potere fecondante

diminuisce, come dimostrato da Lera e Pellegrini (2006) in condizioni sperimentali utilizzando il

test di sperimitossicità. Lo sviluppo embrionale a temperatura di circa 17 gradi si completa entro 72

ore (Arizzi Novelli, 2002), dopo le quali si formerà un echinopluteo. La larva è planctonica,

plancnotrofica e può vivere tra i 20 e i 40 giorni, per poi fissarsi al substrato e compiere la

metamorfosi che porterà alla formazione dell’individuo adulto. Si avrà così il passaggio da una

simmetria bilaterale ad una simmetria pentamera. In Mediterraneo si osserva un crescita del tessuto

gonadico in inverno, una liberazione dei gameti in primavera e in seguito una crescita moderata in

estate, ma con l’arresto dell’emissione di gameti. Secondo Shpingel et al. (2004), anche alla luce

dei risultati di laboratorio da loro ottenuti, ne conseguirebbe che la maturazione delle gonadi non è

influenzata dalla temperatura dell’acqua, ma innescata da un fotoperiodo inferiore alle 12 ore. La

temperatura giocherebbe invece un ruolo fondamentale nella liberazione della massa dei gameti,

che secondo Barnes et al. (2001) avviene in seguito al raggiungimento di una soglia minima di

temperatura. Lo studio dell’autore è stato condotto per cercare di spiegare la comparsa di crolli

demografici di P. lividus lungo le coste irlandesi, che sembrerebbero proprio essere dovuti alle

basse temperature causate da alterazioni del normale regime idrodinamico in risposta a eventi

ENSO (El Nino Southern Oscillation). Per quanto riguarda i plutei è stata rilevata la presenza di un

picco di insediamento in primavera in seguito alla maturazione gonadica dei mesi invernali (Hereu

et al., 2004), mentre altri autori hanno osservato due picchi: uno più consistente in primavera e un

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secondo di minor consistenza in autunno (Tomas et al., 2004). La temperatura gioca un ruolo fondamentale anche nello sviluppo embrionale, il quale avverrebbe al di sopra di una soglia minima di temperatura. Al di spora di questo valore il tasso di crescita sembra essere positivamente correlato con la temperatura (Beiras et al., 2001).

Per quanto riguarda gli aspetti ecologici, P. lividus (Fig. 3) è considerato fondamentale nella strutturazione delle comunità bentoniche su fondi duri. In particolare i ricci, se presenti in densità elevate, possono svolgere un intenso pascolo con conseguente scomparsa delle alghe erette, le quali sono normalmente favorite nella competizione per lo spazio. Si formano così aree dominate da polamenti di alghe corallinacee incrostanti, definite barren. (Sala et al., 1998; Guidetti, 2007). Tale fenomeno risulta solitamente associato all’assenza di pesci carnivori, quali gli Sparidi Diplodus sargus e D. vulgaris, che se non soggetti ad un eccessivo sforzo di pesca regolano il numero delle loro prede, rappresentate per la maggior parte dai ricci di mare Paracentrotus lividus e Arbacia lixula. Alla grande rilevanza ecologica del riccio di mare sono associate buone capacità predittive dell’utilizzo di questa specie come bioindicatore negli studi ecotossicologici.

E’ inoltre da segnalare che le gonadi di P.lividus vengono utilizzate per fini alimentari in Francia,

Grecia, Sud Italia e occasionalmente in altri paesi, dove è consumato sia cotto che crudo (Falugi e

Angelini, 2002). Per questo motivo la pesca dilettantistica e professionale, quando sono praticate

intensamente, possono causare un notevole riduzione della popolazione del riccio di mare (e in

conseguenza di questo anche una minore reperibilità degli animali per le attività di ricerca), anche

se questo è spesso limitato alle zone più superficiali e a luoghi facilmente accessibili da terra o nelle

vicinanze di piccole marinerie (Guidetti et al., 2004).

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