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Khan et al., 2008)

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CAPITOLO III

TRATTAMENTO DELLE LESIONI OSSEE CON PERDITA DI SOSTANZA:

recenti acquisizioni

L’osso possiede la capacità intrinseca di rigenerare sia in risposta ad un danno, sia durante lo sviluppo scheletrico accrescitivo e sia nel ricambio tissutale che accompagna tutta la vita (Einhorn, 1998; Bates & Ramachandran, 2007; Khan et al., 2008).

Il processo di rigenerazione ossea è un meccanismo complesso che vede coinvolte numerose cellule, proteine e altre molecole, coordinate in una cascata di eventi temporalmente e spazialmente determinati, che portano alla formazione di nuovo tessuto osseo il quale, a differenza dei normali processi di guarigione che esitano nella formazione di una cicatrice di tessuto connettivo, ha le stesse caratteristiche dell’osso sano (Giannodius et al., 2007).

Questa cascata di eventi viene rappresentata da tre processi fondamentali:

l’osteoconduzione, l’osteoinduzione e l’osteogenesi. Queste tre fasi riprendono quelle che sono le tappe fisiologiche della formazione embrionale dell’osso encondrale. E’ chiaro che qualsiasi deficit, alterazione o rallentamento di una di queste fasi può compromettere l’intero processo ed esitare in un ritardo di consolidamento, in una pseudoartrosi o altre complicanze (Westerhuis et al., 2005).

Per osteoinduzione si intende la capacità di supportare la mitogenesi di cellule mesenchimali indifferenziate in cellule osteoprogenitrici (pre-osteoblasti) che porteranno alla formazione di nuovo tessuto osseo per attivazione di una cascata di segnali e di recettori intra- ed extra-cellulari (Cypher & Grossman, 1996; Giannoudis et al., 2005; De Long et al., 2007).

Con osteoconduzione si indica la capacità della matrice di promuovere l’adesione delle cellule pre-osteoblastiche favorendo il corretto orientamento dei vasi sanguinei e la creazione di nuovi sistemi Haversiani (Giannoudis et al., 2005).

L’osteointegrazione rappresenta la perfetta integrazione tra tessuto osseo ospite e impianto (Constantino & Freidman, 1994).

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Osteogenesi è un termine relativamente recente, con il quale si intende la capacità da parte dell’innesto di stimolare la formazione di osso a partire da cellule indifferenziate (Cypher

& Grossman, 1996; De Long et al., 2007).

Sono state evidenziate una serie di complesse condizioni cliniche in cui la rigenerazione ossea diviene fondamentale e particolarmente ricercata quali il trattamento di difetti ossei di grandi dimensioni in esito a traumi, infezioni, resezioni di tumori, anomalie scheletriche o casi in cui è compromesso il fisiologico processo rigenerativo come per le necrosi avascolari e le non unioni atrofiche (Soucacos et al., 2008; Dimitriou et al., 2011).

Lo scopo della medicina rigenerativa è proprio quello di ovviare a questi difetti di guarigione o di accelerare il normale processo fisiologico mediante l’uso di fattori biologici o meccanici che possiedano almeno una tra le proprietà fondamentali osteoconduttive, osteoinduttive o osteogeniche (Westerhuis et al., 2005).

L’approccio standard di maggior impiego, per stimolare e promuovere la rigenerazione ossea in lesioni di grandi dimensioni, include l’osteogenesi per distrazione o trasporto di osso con tecnica di Ilizarov (Green et al., 1992; Aronson, 1997) e l’uso di un ampio numero di innesti ossei quali l’osso autologo (Fleming et al., 2000; Sinibaldi, 2001;

Giannoudis et al., 2005; Khan et al., 2008), l’osso allogenico (Carter, 1999; Giannoudis et al., 2005; Khan et al., 2008), sostituti ossei e fattori di crescita (Giannoudis et al., 2005;

Giannoudis & Einhorn, 2009).

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DISTRAZIONE OSTEOGENICA E TRASPORTO DI OSSO

Si tratta di una tecnica, messa appunto da Illizarov (1989) per ottenere l’allungamento osseo in persone affette da acondroplasia. Essa si basa sul principio di osteodistrazione per cui, applicando un graduale allontanamento (1mm al giorno) di un frammento dall’altro, durante il processo di guarigione, si stimola la neoformazione di tessuto osseo con allungamento dell’osso trattato (Green et al., 1992) (Fig. III.1 e 2).

Questa tecnica si basa sui principi di osteogenesi per distrazione postulati da Ilizarov stesso e prevede l’impiego di fissatori esterni per trasportare gradualmente un frammento di osso da un moncone, cui è saldato, verso l’opposto in modo che l’osso neoformatosi per distrazione copra il gap derivante dalla perdita di sostanza (Barbarossa et al., 2001).

Tuttavia la tecnica di Ilizarov, presenta diverse complicazioni rappresentate, principalmente, da:

- lunghi periodi di disagio per il paziente con controlli frequenti nel tempo per monitorare la stabilità dell’impianto di osteosintesi, l’assenza di segni di sepsi peri- implantare, l’evoluzione del processo riparativo e l’esecuzione di una adeguata fisioterapia (Song et al., 1998; Abdel-Aal, 2006);

- recidive di infezione ossea per scarso debridment dell’osso infetto o infezioni dell’impianto con edema dell’arto trattato (Littlewood, 2011);

- fallimento dell’unione dell’osso “navetta” al moncone di arrivo o ritardato consolidamento dell’osso neoformato (Green et al.,1992; Wiedel, 2002).

Fig. III.1 – Configurazione di un fissatore circolare di Ilizarov per il trattamento delle fratture (Johnson, 2008).

Fig. III.2 - Resezione ossea e osteogenesi per distrazione. Si osserva la presenza di osso rigenerato lungo le linee di trazione di un segmento osseo sottoposto a distrazione (Johnson, 2008).

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INNESTO OSSEO

La tecnica con impiego di innesto osseo è una procedura di frequente utilizzo in numerosi interventi di chirurgia ortopedica e maxillofacciale per stimolare la rigenerazione ossea (Bauer & Muschler, 2000; Dimitriou et al., 2011).

Quando si parla di trapianto o innesto ci si riferisce a tessuti vivi, staccati dai loro rapporti anatomici e trapiantati in un'altra sede dello stesso o di un altro organismo vivente.

(Stevenson, 1993).

I trapianti ossei possono essere classificati sulla base di istocompatibilità, struttura e sede di applicazione.

La classificazione di istocompatibilità considera le proprietà immunogeniche dei vari trapianti, per cui si parla di:

- autotrapianto o autoinnesto, se l’osso è preso da una sede e trasferito in un’altra dello stesso individuo;

- omotrapianto o omoinnesto o allotrapianto se l’osso e prelevato da un animale e trasferito in un altro della stessa specie;

- innesti composti, quando gli omoinnesti sono rafforzati con autoinnesti;

- xenotrapianti o xenoinnesti o eteroinnesti che coinvolgono individui di specie diverse (Weigel, 2001).

Tra tutti i tipi di trapianti ossei sopra elencati, quali che presentano una maggior diffusione d’impiego nella pratica clinica sono l’innesto autologo di osso corticale e quello allogenico (Giannoudis et al., 2005; Khan et al., 2005) (Fig. III.3)

Fig. III.3 - Prelievo di osso spongioso dall’omero. A. Praticare un foro rotondo nella corticale più vicina B. Prelevare l’osso spongioso servendosi di una curette C. Porre il materiale prelevato in una coppa in acciaio inossidabile insieme a sangue intero per la conservazione a breve termine D. Applicare l’osso spongioso sullo spazio di frattura o lungo le linee di frattura (Johnson, 2008).

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INNESTO AUTOLOGO

L’innesto di osso autologo rappresenta il trattamento gold standard in quanto il tessuto, prelevato dallo stesso paziente, si presenta perfettamente istocompatibile con il sito ricevente e in grado di ridurre al minimo la risposta immunogenica e la trasmissione di patologie infettive. Inoltre possiede tutte le caratteristiche dell’innesto osseo ideale (Giannoudis et al., 2005; Dimitriou et al., 2011): osteoinduzione, osteoconduzione, osteointegrazione e osteogenesi.

Gli innesti autologhi sono considerati il supporto ideale per la rigenerazione in quanto contengono cellule osteogeniche, midollo osseo, una matrice di collagene osteoconduttiva che favorisce l’adesione degli elementi cellulari presenti e neoformati, nonché proteine e altri fattori osteoinduttivi endogeni (Soucacos et al., 2008).

L’innesto di osso autologo prevede il trasferimento di tessuto osseo, corticale o spongioso, da un sito donatore a uno ricevente (Sinibaldi, 2001). Il tessuto osseo spongioso ha un impiego maggiormente diffuso, soprattutto per fratture altamente comminute o con segmenti avascolarizzati, in quanto consente una precoce produzione di osso e un altrettanto rapido consolidamento (Giannoudis et al., 2005; Dimitriou et al., 2011).

Sebbene l’uso di innesti ossei autologhi presenti un’ampia gamma di proprietà favorenti la rigenerazione ossea, altrettanto numerosi sono gli aspetti negativi ad esso legati quali: la necessità di un ulteriore intervento chirurgico per il prelievo dell’innesto e l’instaurarsi di complicazioni nel sito donatore come infezione, dolore cronico, fratture iatrogene o instabilità (Giannoudis et al., 2005); la possibilità del fallimento dell’innesto a causa della perdita degli elementi cellulari osteogenici che non sopravvivrebbero al trapianto (Sandhu et al., 1999); la scarsa presenza di siti donatori (Finkemeier, 2002).

INNESTO ALLOGENICO

L’innesto allogenico o allotrapianto consiste nel prelievo di tessuto osso da un donatore (in vita o da cadavere) appartenente alla stessa specie del ricevente (Carter, 1999; Finkemeier, 2002). Questo permette di superare tutte le problematiche legate alla raccolta del campione e della quantità di tessuto prelevato (Dimitriou et al., 2011).

Con il crescente interesse per questa tecnica si sono ampiamente sviluppate anche le banche dell’osso che, oltre a controllare la possibile presenza di infezioni limitandone la diffusione, hanno il compito di elaborare l’osso in vari tipi di forme (pellets, paste, polveri

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ecc) e conservarlo in modo da fornire al chirurgo-ortopedico la più ampia gamma di prodotti pronti per l’innesto sul paziente (Newman-Gage, 2001). L‘osso allogenico può essere, infatti, disponibile in varie preparazioni sotto forma di matrice ossea demineralizzata, di osso spongioso morcellizzato o in chips, di innesti corticali o cortico- spongiosi, di segmenti osteocondrali o porzioni ossee intere a seconda delle esigenze e della conformazione del sito di impianto (Dimitriou et al., 2011). Possiamo, inoltre, trovare allotrapianti in forma fresca, congelata o liofilizzata (Giannoudis et al., 2005).

Gli allo-impianti freschi, presenterebbero, rispetto ai congelati e ai liofilizzati, capacità osteoinduttive maggiori, ma il loro impiego non presenta una vasta diffusione per l’elevato rischio di risposte immunitarie di rigetto o di trasmissione di patologie (Friedlaender et al., 1999). Gli innesti congelati e liofilizzati, per i processi di sterilizzazione cui vengono sottoposti, presentano minor rischio biologico ma non riescono a fornire i buoni risultati, in termini di rigenerazione, degli innesti autologhi (Giannoudis et al., 2005; De Long et al., 2007).

Matrice Ossea Demineralizzata

La matrice ossea demineralizzata (DBM) è prodotta dalla decalcificazione dell’osso corticale allografico e processata per ridurre il potenziale infettivo e la risposta immunogenica dell’ospite (Giannoudis et al., 2005; De Long et al., 2007). Nonostante la perdita della resistenza strutturale posseduta dall’osso originario (Einhorn et al., 1984, Giannoudis et al., 2005), essa mantiene un’ampia gamma di fattori di accrescimento ossei che risultano maggiormente biodisponibili garantendo al prodotto proprietà osteoinduttive maggiori rispetto agli innesti allografici standard (Sandhu et al., 1999; Fleming et al., 2000). Per tanto è ampiamente usata come potenziatore degli impianti ossei, piuttosto che come sostituto osseo tale e quale (Sandhu et al., 1999; Sassard et al., 2000; Cammisa et al., 2004).

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SOSTITUTI OSSEI

Con il termine “sostituti ossei” si intendono strutture tridimensionali, dette anche scaffolds, prodotte con biomateriali sintetici o naturali, in grado di fornire un supporto strutturale al nuovo tessuto in via di formazione e di promuovere la migrazione, la proliferazione e la differenziazione di cellule ossee per la rigenerazione ossea (Giannoudis et al., 2005;

Dimitriou et al., 2011).

L’ingegneria tissutale, ha portato allo sviluppo di numerosi sostituti ossei da utilizzare in alternativa ai convenzionali innesti autologhi e allogenici (Hutmacher, 2001; Calvert et al., 2003). Tra questi vi sono numerosi materiali inorganici quali le ceramiche bioattive sintetiche o naturali (Hench, 1991; Hench & Wilson, 1999) e un’ampia varietà di polimeri naturali o sintetici per l’allestimento di scaffolds per la rigenerazione ossea (Hutmacher, 2000; Meyer et al., 2005).

MATERIALI INORGANICI

Sono considerati materiali inorganici le ceramiche ossee bioattive, in cui la fase di apatite di idrossicarbonato si presenta strutturalmente analoga alla fase minerale dell’osso e provvede a fornire un buon interfaccia per la rigenerazione ossea (Hench, 1991).

L’Idrossiapatite (HA), il Tricalcio Fosfato (TCP) e i silicati bioattivi o biovetri sono considerati ceramiche ossee bioattive.

Biovetri

Questo gruppo di materiali vetrosi sono, appunto, dei silicati contenenti biossido di silicio (SiO2), ossido di sodio (Na2O), pentaossido di fosforo (P2O5), ossido di calcio (CaO) e altro che, interagendo con il substrato osseo, creano uno strato di idrossiapatite carbonata che supporta e sostiene la crescita e l’adesione degli osteoblasti (Gatti et al., 1994; Roether et al., 2002). I prodotti di dissoluzione dei biovetri incrementano l’espressione genica correlata all’osteogenesi e alla produzione di fattori di crescita (Xynos et al., 2000; Xynos et al., 2001). Sono materiali duri, non porosi, con capacità osteointegrative e osteoconduttive (Giannoudis et al., 2005), ma le scarse proprietà meccaniche e di resistenza alla frattura, ne limitano l’impiego per quei casi in cui è necessario sopportare un forte carico (Jones et al., 2006; De Long et al., 2007).

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Idrossiapatite e Fosfato Tricalcico

Queste due ceramiche bioattive sono impiegate in ortodonzia e ortopedia sin dal 1980. Per la loro struttura chimica simile ai precursori ossei, sono altamente biocompatibili, inoltre sono dotate di proprietà osteoconduttive di supporto, differenziazione e proliferazione degli osteoblasti, ma non hanno proprietà osteoinduttive o osteogeniche (Lane et al., 1999;

Giannoudis et al., 2005; De Long et la., 2007). Entrambe sono caratterizzate da una scarsa resistenza meccanica e da una lentissima degradazione (mesi o anni) con lunghi periodi di rimodellamento osseo (in particolare l’idrossiapatite). Questo ha spinto ad ampliarne l’uso più come promotori della rigenerazione in scaffolds ossei compositi piuttosto che come sostituti ossei veri e propri (Giannoudis et al., 2005; De Long et al., 2007).

POLIMERI NATURALI

Un vasto numero di polimeri di origine naturale sono stati proposti e studiati per l’allestimento di scaffolds per la rigenerazione ossea, soprattutto per il loro costo contenuto, la loro alta biocompatibilità e bassa tossicità (Yannas, 1996).

Collagene

Grazie alla sua biocompatibilità, al basso potere antigenico e alla struttura porosa, è stato attentamente valutato per applicazioni di ingegneria tissutale (Lee et al., 2001). È stato, infatti, dimostrato come gli scaffolds a base di collagene risultino in grado di promuovere l’adesione e la proliferazione cellulare e tissutale, e, contemporaneamente, di stimolare la formazione di osso per differenziazione degli osteoblasti (Fleming et al., 2000; Freyman et al., 2001). Il collagene presenta una degradazione piuttosto veloce che determina, altrettanto rapidamente, la perdita delle sue funzioni meccaniche. Questo lo rende scarsamente utilizzabile come materiale di impianto in sé e per sé, ma le sue proprietà sono ampiamente sfruttate quando usato in associazione a proteine morfogenetiche ossee, precursori osteogenetici o idrossiapatite in sostituti ossei compositi (Zerwekh et al., 1992;

Chapman et al., 1997; Giannoudis et al., 2005).

Derivati delle fibre della seta

Le fibre della seta rappresentano un interessante biomateriale per l’ingegneria tissutale ossea grazie alla loro buona biocompatibilità (Altman et al., 2003), bassa degradabilità

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(Horan et al., 2005) ed eccellenti proprietà meccaniche (Gosline et al., 1986). Gli scaffolds derivati dalla seta, associati a idrossiapatite o proteine morfogenetiche ossee, hanno mostrato in vitro buone capacità di sostenere e promuovere l’adesione e la proliferazione di cellule staminali mesenchimali (Jin et al., 2004; Li et al., 2006).

Polisaccaridi

Un’altra classe di polimeri naturali, con ampia diffusione nelle applicazioni biomediche, è rappresentata dai polisaccaridi che mostrano eccellenti proprietà di atossicità, solubilità in acqua e stabilità ai diversi pH, anche se, per contro, presentano scarsa resistenza meccanica e instabilità chimica (Barbosa et al., 2005). Rientrano in questa classe:

• chitosano e derivati: polimero cationico naturale, biodegradabile, presenta una superficie idrofila che promuove l’adesione, la proliferazione e la differenziazione cellulare (Yannas, 1996). È caratterizzato da un’elevata biocompatibilità e osteoconduttività in vitro e in vivo (Muzzarelli et al., 1994) ma anche da scarse proprietà di resistenza meccanica che ne hanno diffuso l’uso in associazione con altri materiali come l’idrossiapatite, il fosfato tricalcico, l’acido poli-L-lattico o il poli-metil- metacrilato (Hu et al., 2004);

• acido ialuronico: è caratterizzato da biocompatibilità e buone proprietà visco- elastiche, ma non è in grado di promuovere l’adesione cellulare e la proliferazione dei tessuti se non associato ad altri fattori (fibronectina, collagene e altro) (Ghosh et al., 2006);

• alginati: estratti da tre tipi di alghe, sono altamente biocompatibili. Il loro impiego in ingegneria tissutale è stato diffuso in forma di gel, soprattutto per migliorare le performance di scaffolds solidi. La limitazione al loro impiego è data dalle difficoltà di sterilizzarli e manipolarli (Hutmacher, 2001);

• materiali a base di amido: i materiali a base di amido sono comunemente miscelati con altri polimeri termoplastici per renderli più resistenti alla degradazione termo- meccanica, meno fragili e più malleabili (Salgado et al., 2007). L’allestimento di scaffolds compositi con derivati dell’amido, è stato proposto per numerose applicazioni biomediche per il rilascio controllato di farmaci (Gomes et al., 2000;

Gomes et al., 2002);

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• cellulosa: costituisce la più abbondante e rinnovabile risorsa di polimeri disponibile nel mondo. La cellulosa batterica, un nano-materiale sintetizzato per via extracellulare dal batterio Acetobacter xylinum, presenta proprietà particolari di purezza, cristallinità, resistenza tensile e biocompatibilità (Bae & Shoda, 2004;

Fang et al., 2009). Recentemente è stata impiegata per diverse applicazioni biomediche (vasi sanguinei e ferite cutanee) dove ha mostrato un buon grado di integrazione col tessuto ospite, senza evidenze di reazioni infiammatorie (Helenius et al., 2006);

• destrani: sono omo-polisaccaridi sintetizzati da alcuni batteri lattici acidi (es.

Leuconostoc mesenteroides) (Leathers, 2002). Presentano numerosi gruppi idrossilici laterali che li rendono suscettibili a modificazioni chimiche, consentendo l’allestimento di scaffolds con siti specifici per il legame con particolari cellule; per contro, però, presentano bassa resistenza meccanica e alla sterilizzazione (Lévesque et al., 2005; Liu & Chan-Park, 2009).

Poliesteri di origine microbica

Sono poliesteri sintetizzati da microorganismi procarioti o eucarioti (Doi & Steinbüchel, 2002).

I Poli(-idrossi-alcanoati) (PHA) sono poliesteri alifatici prodotti da batteri Gram-positivi e Gram-negativi (Schellauf et al., 2001) particolarmente interessanti per le applicazioni di ingegneria tissutale grazie alla loro biocompatibilità, biodegradabilità e maneggevolezza (Chen & Wu, 2005). Presentano, però, proprietà meccaniche limitate (Puppi et al., 2010a).

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POLIMERI SINTETICI

I polimeri sintetici presentano proprietà chimiche, fisiche e di degradazione prevedibili e riproducibili, che possono essere modificate per soddisfare le esigenze specifiche di diverse applicazioni. Possono, inoltre, assumere forme e dimensioni desiderate ed essere miscelati tra loro o con altri materiali, come bio-ceramiche o materiali bioattivi naturali, in modo da poter ampliare l’ampia gamma delle loro proprietà (Puppi et al., 2010a). I rischi legati alla tossicità, immunogenicità e possibilità di infezioni sono ridotti tanto più il polimero sintetico è puro e con struttura molecolare semplice. Talvolta, però risultano carenti di fattori biologici che possono promuovere la risposta cellulare desiderata (Place et al., 2009).

Poliesteri alifatici saturi a catena corta

I poli-α-idrossiacidi sono polimeri sintetici biodegradabili ampiamente valutati per l’allestimento di scaffolds tridimensionali per la rigenerazione ossea e cartilaginea. Essi comprendono: l’Acido Poli-Glicolico (PGA), l’Acido Poli-Lattico (PLA) e i relativi copolimeri Poli(acido-Lattico-co-Glicolico (PLGA) (Kohn & Langer, 1996).

Tutti questi poliesteri possono essere facilmente sottoposti a varie tecniche di processazione, così da poter modificare le loro proprietà fisiche, chimiche e di degradazione. Quest’ultima può comportare, talvolta, il fallimento prematuro dello scaffold. Inoltre, il rilascio di prodotti di degradazione acida, può causare una forte risposta infiammatoria nel sito di impianto (Martin et al., 1996).

Uno dei principali aspetti negativi di questo tipo di polimeri è rappresentato dalla loro idrofobicità, che può rappresentare uno svantaggio per la rigenerazione tissutale a causa della scarsa interazione cellulare che essa può determinare (Place et al., 2009).

Modificazioni alla superficie di interazione col substrato cellulare, mediante inserimento nell’impianto di plasma o polimeri naturali, possono permettere di ovviare a questo problema, così come l’inserimento di idrossiapatite o altri fattori bioattivi (proteine morfogenetiche ossee) (Shen et al., 2009).

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Poli-ε-caprolattone

Il Poli-ε-caprolattone (PCL) è un poliestere alifatico lineare in grado di subire idrolisi auto- catalizzata (Puppi et al., 2010a). A causa della sua natura semicristallina e della sua idrofobicità presenta una velocità di degradazione molto lenta (anni) poiché la struttura macromolecolare, ritarda l’ingresso dell’acqua (Pitt, 1990). Una particolare caratteristica del PCL è la sua elasticità che ne determina un’alta permeabilità e quindi la capacità del polimero di poter rilasciare fattori bioattivi (Benoit et al., 1999; Coombes et al., 2004).

Sistemi compositi allestiti in PCL e idrossipatite hanno mostrato un aumento, in vitro, della deposizione di apatite ossea (precursore della matrice ossea) con un buon grado di mineralizzazione (Taddei et al., 2005). Questi scaffolds sono risultati, inoltre, capaci di promuovere l’accrescimento degli osteoblasti differenziati mostrando buone capacità osteoconduttive. Per migliorare le caratteristiche di interazione con il substrato cellulare, numerose tecniche sono state valutate e sono tutt’ora oggetto di studio per incrementare la porosità delle fibre e, conseguentemente, la superficie di adesione delle cellule al polimero (Puppi et al.,2011a)

Poliuretani biodegradabili

Gli biodegradabili a base di poli-uretano hanno acquistato recentemente un crescente interesse per le loro potenzialità nella rigenerazione ossea e cartilaginea. In uno studio condotto nel 2006, Gorna & Gogolowski, hanno dimostrato come questo tipo di polimero sia in grado di fornire il supporto alla proliferazione degli osteoblasti, alla loro differenziazione e alla neoformazione di vasi a partire da cellule endoteliali in coltura, fornendo le basi per lo sviluppo e il miglioramento degli impianti ossei bio-ingegnerizzati.

Recenti studi (Henry et al., 2009) hanno inoltre suggerito come porosi in poliuretano, con una architettura regolare, siano meglio tollerati, in confronto a quelli non porosi, evidenziando una adesione cellulare e una neoangiogenesi, influenzate all’architettura della struttura.

Poli-propilene fumarato

È un poliestere lineare sintetico, a rapida degradazione idrolitica. Grazie alle sue proprietà meccaniche, che lo rendono idoneo per applicazioni in tessuti sottoposti a carichi, il poli- propilene fumarato è stato ampiamente studiato per applicazioni in ingegneria del tessuto

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osseo, mostrando capacità di promuovere la rigenerazione sia in vitro, sia in vivo (Peter et al., 2000). Lo sviluppo di compositi arricchiti con ceramiche bioattive ha evidenziato il potenziamento delle proprietà osteoconduttive e meccaniche del polimero (Peter et al., 1997).

Polifosfazeni

Sono polimeri ibridi inorganici-organici, studiati negli ultimi anni come sistemi a lento rilascio di farmaci e per le applicazioni di ingegneria tissutale. Gli studi condotti sulle capacità di promuovere la rigenerazione ossea hanno messo in evidenza come, questi polimeri, siano in grado di stimolare l’adesione e la proliferazione degli osteoblasti in vitro, evidenziando un tasso di crescita giornaliero costante per tutto il periodo di osservazione (Laurencin et al., 1996). Risultati simili sono stati ottenuti anche dalla valutazione di compositi a base di polifosfazeni e PLGA (Deng et al., 2008), Idrossiapatite e fosfato tricalcico (Greish et al., 2005).

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FATTORI PROMOTORI DI CRESCITA

Con il crescente interesse per la rigenerazione ossea, sono stati identificati anche un’ampia gamma di fattori molecolari che regolano il processo di crescita e riparazione dell’osso (Dimitriou et al., 2011).

PROTEINE MORFOGENETICHE OSSEE

Tra tutti i fattori valutati per comprendere le capacità rigenerative di queste molecole, le più diffuse, sono le Proteine Morfogenetiche Ossee (BMPs). Esse presentano potenti proprietà osteoconduttive in quanto sono in grado di accelerare il normale processo di accrescimento osseo con, conseguente, riduzione dei tempi di guarigione delle fratture, ma il loro impiego è ancora controverso per il costo sostenuto, per la possibilità di formazione di osso ectopico, e per il rischio che può comportare il sovraddosaggio (necessario per ottenere effetti osteoinduttivi) (Argintar et al., 2011).

ALTRI PROMOTORI

Altri promotori implicati nel processo di rigenerazione ossea, oltre alle BMPs, con funzioni chemio tattiche, proliferative e angiogenetiche diverse, sono attualmente oggetto di studio e comprendono: i fattori piastrinici, fattori insulino-simili, fattori di crescita endoteliale, fattori derivanti dai fibroblasti e altri (Dimitriou et al., 2005). In studi sin ora condotti, sia in vitro che in vivo, tutti hanno presentato risultati piuttosto controversi che ne limitano la diffusione (Nauth et al., 2010).

Plasma Ricco di Piastrine

Il concentrato piastrinico o plasma arricchito di piastrine (PRP, Platelet Rich Plasma) è un prodotto ricavato dal sangue che si presenta come un concentrato autologo di piastrine sospese in un piccolo volume di plasma ed è pertanto considerato un emoderivato. (Marx, 2004; Sutter et al., 2004; Nixon, 2008; Maia et al., 2009).

Le piastrine svolgono un ruolo fondamentale nell’emostasi e possiedono inoltre proprietà pro-infiammatorie, regolatrici e rigenerative mediate dall’interazione con alcune cellule (es. neutrofili, cellule endoteliali) e dalla liberazione di fattori di crescita (GFs), chemochine e altre molecole regolatrici (Chaer et al., 2006;).

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Il vantaggio dell’impiego del PRP potrebbe essere dovuto alla concentrazione soprafisiologica di fattori di crescita che pare sia in grado di incrementare la velocità di riparazione delle ferite, di ridurre l’infiammazione associata al trauma e di ridurre al minimo la produzione di tessuto cicatriziale (Anitua et al., 2005; Carmona et al., 2006;

Marx, 2004).

ASPIRATO DI MIDOLLO OSSEO e CELLULE STAMINALI MESENCHIMALI

L’aspirato di midollo osseo, prelevato dalla cresta iliaca, è considerato un efficace promotore della rigenerazione ossea (Hernigou et al., 2005) in quanto ricco di Cellule staminali mesenchimali (MSCs) e di fattori osteopromotori. Questi, infatti, applicati direttamente nel sito di rigenerazione sono, attualmente il metodo più diffuso per accelerare il processo rigenerativo (Jäger et al., 2001). Ma la concentrazione di MSCs e altri fattori di crescita è correlata a numerose variabili quali, l’età e le condizioni cliniche del soggetto, la tecnica di prelievo, e altro (Huibregtse et al., 2000).

Lo studio sull’impiego di cellule staminali mesenchimali ha avuto ampia diffusione negli ultimi 10 anni. L’uso di queste cellule prevede il prelievo e l’isolamento degli elementi cellulari, la loro espansione in coltura su scaffolds e il successivo impianto nella sede di lesione. Questo comporta, però, costi elevati, numerosi rischi legati alla possibilità di contaminazione batterica o virale delle colture e, non, ultima la necessità di un doppio intervento chirurgico (prelievo e impianto) (McGonagle et al., 2007). È al momento allo studio il prelievo da altre sedi (grasso, vasi sanguinei, muscolo e altro) per la funzionalizzazione degli impianti (Dimitriou et al., 2011).

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RIGENERAZIONE GUIDATA

In condizioni ottimali, le cellule, prelevate dal tessuto donatore, comprese le cellule staminali adulte, possono essere seminate ed “espanse” in coltura e, successivamente, associate a scaffolds riassorbibili di origine naturale e/o sintetica, per poi essere impiantate nel sito ricevente in modo da determinare la rigenerazione del difetto grazie alla perfetta integrazione tra tessuto ospite e innesto. Questo tipo di trattamento sarebbe in grado eliminare le problematiche legate alla scarsità di siti donatori, di reazioni immunitarie avverse, nonché il trasferimento di patogeni (Calvert et al., 2003). I fattori di crescita o bioattivi possono essere impiegati per stimolare la crescita e la differenziazione dei tessuti.

Nella rigenerazione guidata con scaffold, quest’ultimo gioca un ruolo fondamentale, in quanto serve da modello per le interazioni cellulari e la formazione della matrice extracellulare (ECM), fornendo, al tempo stesso, un supporto strutturale tridimensionale al tessuto neoformato.

Lo scaffold ideale deve essere atossico, biocompatibile, biodegradabile, non deve evocare una risposta immunogenica (Drosse et al., 2008; Puppi et al., 2010a). Esso deve costituire una matrice temporanea per la rigenerazione, e le caratteristiche proprie del materiale sono cruciali per il successo del processo rigenerativo (Drosse et al., 2008).

Lo scaffold dovrebbe possedere una diffusa porosità (maggiore del 90%) che consentirebbe una migliore adesione, crescita e riorganizzazione cellulare in vitro, fornendo il corretto supporto alla neo-vascolarizzazione in vivo (LeGeroz & LeGeroz, 1995). Per il tessuto osseo, alcuni autori, hanno individuato come dimensione dei pori ideale un diametro compreso tra 200 e 400 μm (Boyan et al., 1996; Leong et al., 2003). Un diametro dei pori troppo piccolo (75-100 μm) può comportarne una occlusione da parte delle cellule stesse e limitare l’adesione e la penetrazione cellulare nello scaffold (Rout et al., 1988).

Il supporto per la rigenerazione ossea, dovrebbe, inoltre, avere caratteristiche di resistenza meccanica tali da mantenere: in vitro, lo spazio necessario per garantire l’accrescimento della coltura e la formazione della matrice; in vivo, la resistenza allo stress di carico cui è sottoposto (Hutmacher, 2000).

La conformazione e la velocità di degradazione influiscono, inoltre, sul rilascio di fattori bioattivi caricati nelle fibre dello scaffold o sulla sua superficie (Chen & Mooney, 2003;

Tessmar & Göpferich, 2007).

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L’obiettivo finale nel produrre scaffold sintetici è quindi quello di arrivare a ottenere supporti con caratteristiche di resistenza alla compressione maggiori rispetto all’osso spongioso, rimanendo riassorbibili e ottenendo una buona vascolarizzazione e rimodellamento osseo (Carson et al. 2007).

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