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1. INTRODUZIONE ALL’AGRICOLTURA BIOLOGICA

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1. INTRODUZIONE ALL’AGRICOLTURA BIOLOGICA

1.1. STORIA DELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA

Sebbene il biologico sia percepito come un metodo colturale ormai assestato e regolamentato, in realtà è stato caratterizzato da differenti origini e da uno sviluppo multisfaccettato prima che iniziasse in Europa un processo di standardizzazione alla fine degli anni ’80. Infatti, questo metodo colturale deriva da diversi movimenti eco-sociali della prima parte del ventesimo secolo, come i naturalisti, i vegetariani e le filosofie riformiste. Il deterioramento delle condizioni di vita durante la transizione da una società agraria ad una industrializzata era correlata con la innaturalezza della vita cittadina; in questo contesto s’inseriscono i pionieri dell’agricoltura e del giardinaggio ‘naturali’ come i tedeschi Hensel, Bauernfeind, Konemann e la svizzera Hofstetter (Niggli, 2007). L’agricoltura naturale ha rappresentato il primo passo nell’evoluzione del metodo biologico in Europa a partire dagli anni ’20 del novecento, e si riferisce ad un metodo colturale alternativo fondato sulle scienze emergenti del suolo e dell’agricoltura e sulle esperienze pratiche di coltivazione e giardinaggio degli anni ’30. Tali movimenti idealistici di ‘ritorno alla natura’ si svilupparono, oltre che in Germania e in Svizzera, anche in altre parti d’Europa. Quasi contemporaneamente, un gruppo di scrittori inglesi iniziò a promuovere una visione dell’agricoltura basata su dei principi organici, generando uno dei movimenti che in seguito confluì e dette vita alla Soil Association, fondata nel 1946. Il concetto di vitalità del cibo è stato introdotto per la prima volta da Steiner nel 1924 prendendo spunto dal deterioramento qualitativo degli alimenti che già cominciava a notarsi in quegli anni. Steiner sviluppò una teoria spirituale incentrata sulle piante, gli animali e la nutrizione umana, nella quale la qualità reale del cibo era correlata non ai vari componenti e al loro metabolismo, ma alle forze spirituali che egli riteneva li legassero fra loro (Niggli, 2007). Steiner riteneva che l’azienda agricola, al pari di un organismo vivente, dovesse essere gestita come un’unità intera nella sua complessità e integrità. Alcune pratiche colturali da lui introdotte (come i preparati biodinamici, l’attenzione ai ritmi cosmici e lunari durante la coltivazione, la semina o la raccolta) intendono influenzare queste forze spirituali considerate vitali per tutti gli organismi. In seguito, gli scienziati antroposofici introdussero il termine “qualità vitale”. Poiché lo scopo del filosofo era quello di migliorare le qualità immateriali degli alimenti, gli scienziati antroposofici hanno sviluppato dei metodi analitici per visualizzare questo tipo di qualità intrinseca (Niggli, 2007).

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I concetti di ‘autoregolazione’ e di ‘sistema in salute’ sono stati introdotti dal pioniere inglese Sir Albert Howard negli anni ’30. Howard sosteneva che un “suolo fertile comporta colture in salute, animali sani, ed esseri umani sani”. In seguito, Lady Eve Balfour, fondatrice della Soil Association in Gran Bretagna descrisse il medesimo concetto: “La salute del suolo, delle piante, degli animali e dell’uomo è una e indivisibile”. L’idea che l’agricoltura possa mantenere vitale una catena della salute che va dal suolo alla pianta agli animali da allevamento, fino agli esseri umani, ha fortemente stimolato lo sviluppo dell’agricoltura biologica fino al concetto moderno fondato su basi scientifiche. In questo contesto s’inserisce il lavoro dell’austriaco Francé, il primo ecologista del terreno che all’inizio del ventesimo secolo descrisse il suolo come un complesso network di organismi (denominandolo ‘edaphon’). Il suo lavoro, insieme a quello di sua moglie, sull’humus nei suoli arabili, costituisce il vero fondamento su quello che più tardi divenne il concetto chiave del metodo bio (Niggli, 2007).

Muller e Rusch hanno il merito di aver ridotto complesse teorie ad un approccio pratico realizzabile e il loro lavoro è stato estremamente importante per la diffusione dell’agricoltura biologica. Il loro approccio, di tipo partecipativo (i contadini erano ricercatori e consulenti), sviluppò strumenti analitici che aiutarono gli agricoltori a cogliere i progressi e la qualità organica della loro azienda (il così detto Rush test). In questo modo, i due studiosi si resero conto di quanto fosse importante l’educazione e l’insegnamento dei contadini.

In un modo o nell’altro, questi approcci storici dell’agricoltura biologica rappresentavano una risposta ai progressi indesiderati o unilaterali dell’agricoltura intensiva. Nel 2005, l’organizzazione mondiale dei coltivatori biologici, la federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura organica (IFOAM), rinnovò questi concetti storici in quattro principi: il principio della salute, dell’ecologia, dell’equità e della cura, aggiungendo così due importanti concetti etici a quelli storici (Niggli, 2007).

1.2. DEFINIZIONE MODERNA DI AGRICOTURA BIOLOGICA

L’IFOAM (International Federation of Organic Agriculture Movements) definisce l’agricoltura biologica come “un sistema di produzione che sostiene la salute del suolo, dell’ecosistema e delle persone. Si basa su processi ecologici, biodiversità e cicli adatti alle condizioni locali, piuttosto che sull’uso di input con effetti avversi. L’agricoltura biologica combina tradizione, innovazione e

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scienza perché l’ambiente condiviso ne tragga beneficio e per promuovere relazioni corrette e una buona qualità della vita per tutti coloro che sono coinvolti”.

Nel metodo biologico i concimi sintetici sono sostituiti da rotazioni colturali, colture di copertura, e distribuzione del compost per mantenere o innalzare la fertilità del suolo. Inoltre, non ci si serve di fitofarmaci sintetici, ma si preferiscono metodi biologici, colturali (meccanici) e fisici per limitare l’espansione dell’infestazione ed aumentare le popolazioni degli insetti utili. E’ vietato l’utilizzo di organismi geneticamente modificati (OGM), come semi e piante resistenti agli erbicidi, oppure additivi alimentari, perché costituiscono input sintetici ed il loro effetto è per lo più sconosciuto (Delate, 2003).

L’agricoltura biologica è scelta per diverse motivazioni, quali preoccupazioni di ordine economico, ambientale, o per salvaguardare la sicurezza alimentare. Sebbene tutti gli agricoltori biologici escludano l’utilizzo di prodotti chimici sintetici, la percezione degli ideali che caratterizzano il metodo differiscono tra loro. Infatti alcuni escludono totalmente gli input esterni prediligendo le risorse interne l’organismo agricolo, mentre altri si servono di prodotti esterni per incrementare la fertilità o contrastare insetti nocivi e malattie. In realtà, la filosofia della sostituzione dell’input è screditata dai sostenitori lungimiranti del metodo, poiché un metodo biologico realmente sostenibile dovrebbe eliminare il più possibile la dipendenza da input esterni (Delate, 2003).

I principi dell’agricoltura biologica dell’IFOAM si propongono d’ispirare il movimento biologico ed esprimono sia il contributo che questo metodo colturale può apportare nel mondo, sia una visione per migliorare l’agricoltura nel contesto internazionale.

I principi sono i seguenti:

Principio del benessere: “L’Agricoltura Biologica dovrà sostenere e favorire il benessere del suolo, delle piante, degli animali, degli esseri umani e del pianeta, come un insieme unico ed indivisibile.”

Questo principio sottolinea che il benessere degli individui e delle comunità non può essere separato dal benessere degli ecosistemi. Per benessere s’intende la totalità e l’integrità dei sistemi viventi. L’immunità, la capacità di ripresa e la rigenerazione sono i punti chiave caratteristici del benessere. Il ruolo dell’Agricoltura Biologica è sostenere ed ampliare il benessere degli ecosistemi e di tutti gli organismi. In particolare, l’Agricoltura Biologica si propone di produrre alimenti di elevata qualità, che siano nutrienti e che contribuiscano alla prevenzione delle malattie e alla salute. Di conseguenza, essa dovrà evitare l’uso di

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fertilizzanti, fitofarmaci, medicine veterinarie ed additivi alimentari che possano avere effetti dannosi sulla salute (Principi dell’agricoltura biologica, IFOAM, 2005).

Principio dell’ecologia: “L’Agricoltura Biologica dovrà essere basata su sistemi e cicli

ecologici viventi, lavorare con essi, imitarli ed aiutarli a mantenersi.”

Questo principio dichiara che la produzione deve essere basata su processi ecologici e di riciclo. I sistemi colturali, pastorali e di raccolta spontanea dovranno adattarsi ai cicli ed agli equilibri ecologici esistenti in natura. La gestione biologica dovrà essere adattata alle condizioni, all’ecologia, alla cultura e alle dimensioni locali. L’uso dei fattori produttivi va ridotto tramite la riutilizzazione, il riciclo e la gestione efficiente di materiali ed energia, in modo da mantenere e migliorare la qualità dell’ambiente e preservare le risorse. L’Agricoltura Biologica dovrà conseguire un equilibrio ecologico attraverso la concezione di sistemi agricoli, la creazione di habitat ed il mantenimento della diversità genetica ed agricola. Coloro che producono, trasformano, commerciano e consumano prodotti biologici dovranno proteggere ed agire a beneficio dell’ambiente comune, incluso il paesaggio, il clima, l’habitat, la biodiversità, l’aria e l’acqua (Principi dell’agricoltura biologica, IFOAM, 2005).

Principio dell’equità: “L’Agricoltura Biologica dovrà costruire relazioni che assicurino equità rispetto all’ambiente comune e alle opportunità di vita. “

Questo principio sottolinea che coloro che sono impegnati nell’Agricoltura Biologica dovranno intrattenere e coltivare delle relazioni umane in modo tale da assicurare giustizia sociale a tutti i livelli e a tutte le parti interessate – agricoltori, lavoratori, trasformatori, distributori, commercianti e consumatori. L’Agricoltura Biologica dovrà assicurare una buona qualità di vita a tutti coloro che ne sono coinvolti, e contribuire alla sovranità alimentare e alla riduzione della povertà. Questo principio insiste sul fatto che gli animali devono essere allevati in condizioni di vita che siano conformi alla loro fisiologia, comportamento naturale e benessere. Le risorse naturali ed ambientali che sono usate per la produzione ed il consumo dovranno essere gestite in modo socialmente ed ecologicamente giusto e in considerazione del rispetto per le generazioni future. L’equità richiede che i sistemi di produzione, di distribuzione e di mercato siano trasparenti, giusti e

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che tengano in conto i reali costi ambientali e sociali (Principi dell’agricoltura biologica, IFOAM, 2005).

Principio della precauzione: “L’Agricoltura Biologica dovrà essere gestita in modo prudente

e responsabile, al fine di proteggere la salute ed il benessere delle generazioni presenti e future, nonché l’ambiente.”

Chi pratica l’Agricoltura Biologica può migliorarne l’efficacia e la produttività, ma questo non deve essere fatto a rischio di mettere a repentaglio la salute ed il benessere. Di conseguenza, le nuove tecnologie hanno bisogno di essere valutate e i metodi esistenti revisionati. Infatti, tenuto conto della conoscenza incompleta degli ecosistemi e dell’agricoltura, devono essere prese delle precauzioni. Dunque, questo principio stabilisce che la precauzione e la responsabilità sono i concetti chiave nelle scelte di gestione, di sviluppo e di tecnologie in Agricoltura Biologica. L’Agricoltura Biologica dovrà prevenire i rischi maggiori tramite l’adozione di tecnologie appropriate ed il rifiuto di tecnologie imprevedibili, come l’ingegneria genetica. Dovranno essere considerate anche l’esperienza pratica, la saggezza e le conoscenze tradizionali ed indigene accumulate e consolidate nel tempo. Le decisioni dovranno riflettere i valori e le necessità di tutti coloro che potrebbero esserne coinvolti, attraverso dei processi trasparenti e partecipativi (Principi dell’agricoltura biologica, IFOAM, 2005).

Strategie fondamentali in agricoltura biologica sono la prevenzione ed il riciclo: la prevenzione rappresenta una delle misure preferite per il controllo delle infestanti, patogeni e parassiti, mentre il riciclo della sostanza organica conserva la fertilità del suolo e fornisce un’integrazione bilanciata di nutrienti alla coltura (Niggli, 2007).

1.3. FERTILITÀ E SALUTE DEL SUOLO

In agricoltura biologica, la fertilità, così come l’attività biologica del suolo, deve essere mantenuta ed incrementata, perché costituisce una premessa fondamentale per il successo di questo metodo (Emmens, 2003; Delate, 2003). Questi obbiettivi possono essere raggiunti con rotazioni colturali, utilizzo di compost, letame maturo, fertilizzanti organici, o altri ammendanti consentiti. E’ essenziale mantenere il più possibile chiusi i cicli dei nutrienti incrementando la popolazione

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microbica e fungina del terreno. I funghi micorrizici arbuscolari possono instaurare relazioni simbiontiche con le radici delle piante e facilitare l’assorbimento di alcuni nutrienti quali il fosforo (Emmens, 2003).

1.4. CONTROLLO DELLE INFESTANTI

La maggioranza degli agricoltori biologici utilizzano più tattiche per controllare le infestanti: uso di varietà competitive e di semi con elevata purezza (Emmens, 2003);

ritardo delle semine e lavorazioni superficiali per ottenere la germinazione delle infestanti, poi eliminate meccanicamente prima della semina (Emmens, 2003);

aumento della densità di semina per aumentare la competitività della coltura rispetto alle infestanti (Emmens, 2003);

utilizzo di colture con effetto allelopatico o pacciamante (Delate, 2003); devitalizzazione con fiamma al propano (pirodiserbo) (Delate, 2003);

pacciamatura con materiali organici o sintetici, particolarmente in orticoltura (Delate, 2003).

1.5. CONTROLLO DEGLI INSETTI E DELLE MALATTIE

In agricoltura biologica il controllo di insetti, nematodi e malattie dipende dalla presenza o meno di un equilibrio naturale. La maggior parte degli insetti nocivi hanno dei nemici naturali (predatori, parassiti, e patogeni) che limitano la loro espansione. Ovviamente è meglio che gli insetti utili o altri nemici naturali siano presenti spontaneamente nell’ecosistema aziendale. In caso contrario possono essere introdotti dall’esterno. Esistono alcuni fitofarmaci il cui uso è consentito in agricoltura biologica, ma questi dovrebbero essere adoperati soltanto come ultima risorsa. In realtà la prevenzione è la pietra angolare del metodo biologico: l’ecosistema aziendale deve essere il più possibile diversificato, si devono usare sementi esenti da malattie, piantine da trapianto biologiche e cultivar resistenti, il terreno deve essere risanato con metodi opportuni, e così via. Le varietà selezionate per la coltivazione biologica sono caratterizzate da un resistenza o tolleranza contro insetti, nematodi e malattie (Delate, 2003).

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1.6. AGRICOLTURA BIOLOGICA E CAMBIAMENTI CLIMATICI

Secondo l’IFOAM l’agricoltura biologica può mitigare i cambiamenti climatici perché:

riduce i gas serra, specialmente l’ossido nitroso, poiché non utilizza concimi chimici azotati e minimizza le perdite nutritive.

Immagazzina il carbonio nella biomassa del terreno e delle piante mediante la sintesi della materia organica;

minimizza i consumi energetici del 30-70% per unità di suolo, attraverso l’eliminazione delle richieste di energia per la sintesi di fertilizzanti sintetici ed usando input interni all’azienda con conseguente risparmio del carburante consumato per il trasporto (Organic Agriculture’s Role in Countering Climate Change, IFOAM, 2007).

Inoltre l’agricoltura biologica aiuta gli agricoltori ad adattarsi ai cambiamenti climatici perché: Previene la perdita di nutrienti e di acqua grazie all’alto contenuto di sostanza organica ed alla copertura del suolo, rendendo i terreni più resistenti a inondazioni, siccità, e processi di degradazione;

preserva la biodiversità dei semi e delle colture, che aumenta la resistenza colturale a infestazioni e malattie. La conservazione della diversità aiuta anche gli agricoltori a sviluppare nuovi sistemi colturali adatti per i cambiamenti climatici;

minimizza i rischi, grazie alla presenza di agro ecosistemi e raccolti stabili e minori costi di produzione (Organic Agriculture’s Role in Countering Climate Change, IFOAM, 2007).

Al contrario, l’agricoltura convenzionale contribuisce ai cambiamenti climatici perché: utilizza concimi sintetici e pesticidi che richiedono molta energia per essere prodotti; applica quantità eccessive di fertilizzanti azotati che sono rilasciati come ossido nitroso; conduce allevamenti animali intensivi che producono una sovrabbondanza di letame e metano;

adopera concentrati a base di soia esterni all’azienda, che consumano grandi quantità di carburante per il loro trasporto (Organic Agriculture’s Role in Countering Climate Change, IFOAM, 2007).

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1.7. AGRICOLTURA BIOLOGICA E BIODIVERSITÀ

Lo studio delle pratiche peculiari dell’agricoltura biologica ha evidenziato che questo metodo può potenzialmente aiutare la conservazione della biodiversità, cioè la varietà degli esseri viventi sulla terra, attraverso:

- l’aumento del numero e varietà di specie selvatiche nell’azienda; - il supporto di elevati livelli di agro-biodiversità;

- il mantenimento della salute dei suoli e della fauna terricola, come i lombrichi; - la riduzione del rischio di inquinamento delle falde.

Considerando che circa un terzo delle terre emerse è coltivato, i principi e le pratiche dell’agricoltura biologica offrono maggiori garanzie che queste superfici siano gestite in modo più sostenibile per la biodiversità e che gli ecosistemi primari non siano distrutti per estendere le frontiere dell’agricoltura (Koechlin, 2008).

In generale, le pratiche colturali convenzionali hanno esercitato degli effetti negativi sulla biodiversità:

- l’agricoltura ha ridotto gli habitat per le specie selvatiche. La perdita degli habitat è stata identificata come la maggior minaccia per l’85-90% delle specie conosciute e costituisce la motivazione più comune per l’estinzione delle specie negli ultimi vent’anni;

- l’agricoltura convenzionale esercita l’impatto ambientale più importante: è stato stimato che i costi ambientali e sociali dovuti all’utilizzo dei pesticidi si aggirano ogni anno su gli otto bilioni di dollari;

- l’uniformità delle cultivar ad alta produzione ha fortemente ridotto la varietà di specie utilizzabili in agricoltura: circa il 75% dell’agro-biodiversità è stata persa negli ultimi cento

anni. Anche il numero delle razze autoctone è in declino.

- Vi è stato un inquinamento del pool genico naturale data dalla contaminazione delle specie selvatiche e coltivate da parte di invasivi geni esotici introdotti degli organismi geneticamente modificati (Koechlin, 2008).

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1.8. EFFETTI DEI FITOFARMACI

La normativa vigente sul limite massimo di residuo consentito (LMR) negli alimenti ha implicato un maggiore controllo delle sostanze attive impiegate nella produzione dei formulati e l’armonizzazione europea dei limiti consentiti. Tuttavia, ancora non si considera il cosiddetto multi residuo, cioè il quantitativo derivante dall’insieme di residui che si possono ritrovare negli alimenti. La definizione stessa dei limiti di massimo residuo si basa solo sui singoli residui (Sciarra, 2010).

Un altro problema è poi rappresentato dalla rintracciabilità di pesticidi revocati oltre il termine fissato per lo smaltimento delle scorte, poiché non in pochi casi determinati pesticidi sono stati rintracciati ben oltre il termine di smaltimento. A questo riguardo non esiste un riferimento specifico nella normativa che stabilisca per i laboratori una scadenza temporale oltre la quale tracce anche al di sotto degli LMR di pesticidi come il DDT (sostanza revocata) siano da indicare come irregolari (Sciarra, 2010).

L’autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha recentemente iniziato a considerare nelle sue ricerche sul rischio alimentare le diverse fasce di età della popolazione e le diverse abitudini alimentari dei vari popoli europei. D’altra parte, non sono state ancora messe a punto delle metodologie d’analisi per i formulati in uso e ancora non si conoscono gli effetti sinergici che possono derivare dall’uso simultaneo di più pesticidi e il loro relativo residuo sulla salute umana. Va rivolta poi maggiore attenzione anche al problema della contaminazione ambientale (Sciarra, 2010).

Ad oggi, si è ancora troppo incentrati a studiare i rischi relativi a singoli principi attivi e su tali studi si basa anche la definizione dei limiti massimi di residuo (LMR) sanciti dall’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA). Invece, sarebbe fondamentale che le indagini sui rischi connessi all’uso di pesticidi riguardassero l’azione combinata di più principi attivi e tanto più di quelli che vengono utilizzati con maggior frequenza in sincrono o che magari sono miscelati. In questo senso, le analisi condotte da Legambiente nell’ambito dell’iniziativa “Pesticidi nel piatto 2010” hanno evidenziato una maggiore presenza di campioni multi residuo ovvero di campioni che presentano contemporaneamente più e diversi residui chimici, rispetto al 2009 (Sciarra, 2010).

Il dr. Soffritti, direttore dell’Istituto nazionale per lo studio dei tumori B. Ramazzini di Bologna, ha dichiarato che: “Diverse sostanze assunte insieme, seppur a piccole dosi e sotto i limiti stabiliti dalla legge, possono avere un effetto cancerogeno, perché gli agenti cancerogeni hanno la caratteristica peculiare di avere un effetto moltiplicativo. Quindi, una piccola dose di agenti può

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dare una somma tossicologica di 10, ma possono arrivare ad una somma cancerologica di 50” (Corona, 2009).

1.9. COMUNITÀ INDIGENE E RUOLO FEMMINILE NELL’AGRICOLTURA BIOLOGICA

La potenzialità rivoluzionaria di un approccio sostenibile nel rimodellamento del sistema alimentare, e le modalità con cui le persone interagiscono con questi sistemi, non saranno realizzati se non ci sarà uno sforzo condiviso degli agricoltori e dei consumatori per lavorare sull’uguaglianza dei generi. Organizzazioni come l’IFOAM e simili, locati nel mondo sviluppato, possono imparare molto dalle pratiche e tradizioni delle comunità indigene. La profonda conoscenza di queste comunità circa l’agro-ecologia locale, e i molteplici modi con cui queste creano, interpretano e interagiscono con queste relazioni ecologiche, consente lo sviluppo di pratiche colturali verificate empiricamente che rappresentano un approccio sostenibile all’agricoltura. E’ dunque fondamentale studiare e comprendere maggiormente le interazioni tra i saperi delle donne indigene e l’agricoltura ecologica (Farnworth et al., 2009).

Uno studio dell’IFOAM ha rilevato che nel nord del Mondo l’agricoltura convenzionale è strettamente correlata con l’espressione della mascolinità rurale. La stretta associazione dell’agricoltura con l’identità maschile sembra che renda più difficile per gli uomini articolare gli aspetti della vita di famiglia e della spiritualità all’interno del movimento biologico, aspetti che le donne ritengono critici. Per esempio, le donne contadine del biologico si sforzano di applicare il più possibile metodi naturali di produzione (come la scerbatura manuale) rispetto a quanto facciano gli uomini, e preferiscono lavorare con la famiglia piuttosto che avvalersi di stagionali, anche se ciò implica la restrizione del tipo di colture coltivabili. E’ interessante notare che la divisione di genere del lavoro non è mutata passando dall’agricoltura convenzionale a quella biologica, soprattutto nelle aziende del nord del mondo. Infatti il lavoro femminile nelle due tipologie aziendali è simile e consiste in un’attività intensa, per lo più non meccanizzata, che raramente si avvale di agrochimici di sintesi.

Sebbene siano state fatte poche statistiche, quelle esistenti (per esempio dagli USA) evidenziano che la presenza femminile è maggiore nelle aziende biologiche rispetto alle convenzionali: le donne vogliono soprattutto produrre per i mercati locali, che sono la continuazione naturale delle piccole aziende, e come detto prima preferiscono avvalersi del lavoro familiare. E’ chiaro un

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concetto: le donne sono molto più portate rispetto agli uomini a lavorare in aziende di più piccola scala (Farnworth et al., 2009).

Le donne indigene di tutto il mondo hanno tradizionalmente giocato un ruolo chiave nella gestione della biodiversità e delle pratiche colturali sostenibili. Alcune di esse detengono ruoli importanti nella conservazione della biodiversità e particolari forme del sapere attinenti. Solitamente le donne hanno una conoscenza specifica riguardo i semi e la loro selezione e la propagazione vegetativa. La profonda preoccupazione di alcune donne per la salute dell’ambiente è fortemente connessa con la percezione di se stesse come sostenitrici e alimentatrici della vita, compreso il desiderio di allevare dei bambini sani (Farnworth et al., 2009).

1.10. I SISTEMI DI CERTIFICAZIONE

Oggigiorno nel mercato globale del biologico operano circa 500 organismi di certificazione pubblici e privati e i paesi dotati di un regolamento per il biologico sono più di 70. Inoltre nel mondo esistono più di 100 differenti standard di certificazione che riflettono la crescita e la diversità del settore bio. Di conseguenza sia per i consumatori, che i governi, che le organizzazioni di supporto risulta difficoltoso capire il valore di tutti questi standards e classificazioni. Con il patrocinio dell’IFOAM, il movimento biologico internazionale ha sviluppato dei modelli di riferimento a livello internazionale come gli ‘Standards di base dell’IFOAM per la Produzione e Trasformazione Biologica’, e i ‘Principi dell’Agricoltura Biologica’. Tuttavia, anche i regolamenti governativi hanno rafforzato il loro monopolio per definire cosa sia biologico e come questo possa essere verificato. Sfortunatamente, ad oggi non esiste un metodo per stabilire una equivalenza fra i multilaterali regolamenti nazionali (The IFOAM Organic Guarantee System, IFOAM, 2011).

Secondo l’IFOAM, i sistemi di garanzia partecipata sono “sistemi di garanzia della qualità che operano a livello locale. Certificano un produttore basandosi sulla partecipazione attiva degli attori interessati e si fondano sulla fiducia reciproca, su una rete locale e sullo scambio del sapere.” I PGS (Participatory Guarantee Systems) sono creati dagli stessi produttori e dai consumatori, incoraggiando e alle volte richiedendo la partecipazione diretta degli stessi. Sono specifici per ogni comunità, area geografica, ambiente culturale, e tipologia di mercato, implicano meno costi e adempimenti burocratici rispetto ai sistemi partecipativi tradizionali focalizzati sull’esportazione, e posso essere sfruttati per migliorare le condizioni socio-economiche ed ecologiche locali attraverso l’incoraggiamento della produzione e trasformazione su piccola scala. I sistemi di

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certificazione tradizionali, applicati per lo più ai mercati d’esportazione, risultano ‘esagerati’ per gli obbiettivi dei mercati locali e rappresentano un onere eccessivamente costoso per i piccoli agricoltori. Nei paesi in via di sviluppo di solito il potenziale dei piccoli mercati ‘domestici’ è immenso (Organic Agriculture and Participatory Guarantee Systems, IFOAM, 2006).

Gli elementi chiave della filosofia dei PGS sono: una visione condivisa;

la partecipazione; la trasparenza;

la fiducia (approccio basato sull’integrità morale); un processo di apprendimento;

l’orizzontalità (la condivisione del potere) (Participatory Guarantee Systems: Shared Vision, Shared Ideals, IFOAM, 2007).

1.11. CONSUMO DEI PRODOTTI BIOLOGICI

Negli ultimi anni si è osservato un forte aumento del consumo di prodotti bio in Europa e nord America. Questa crescita non può essere attribuita in toto ad un sostanziale cambiamento nell’attitudine del consumatore nei confronti di questi prodotti. Infatti, parte di questo incremento è stato indotto dagli aiuti governativi e dagli obbiettivi ambientali, che hanno indotto alcuni coltivatori a convertirsi alla produzione organica.

Molti studi sul consumo di prodotti bio evidenziano che fra le motivazioni che influenzano la scelta di questi alimenti, quelle riguardanti la salute risultano le più determinanti (Oughton et al., 2007). E’ stato rilevato che solitamente il consumatore biologico è sufficientemente informato, ma in alcuni casi sussistono concetti errati circa certe caratteristiche positive o negative riguardanti i prodotti organici. Ciò può essere particolarmente vero per i consumatori occasionali, che saranno importanti per il futuro sviluppo del mercato. La ragione per cui i consumatori scelgono i prodotti bio riflette le loro credenze circa le caratteristiche di tali prodotti (Oughton et al., 2007). Infatti, non sembra sia diffusa una conoscenza approfondita dei principi del movimento organico, come dei suoi standards e dei sistemi di certificazione. Di conseguenza è necessario informare meglio il consumatore sulle metodologie di produzione e trasformazione utilizzate nel metodo biologico. Inoltre è emerso che, sebbene il consumatore consideri la protezione ambientale un attributo importante e positivo dei cibi bio, sembra che attributi privati/egoistici quali il benessere, il sapore

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e la salute siano determinanti nella scelta. Anche le caratteristiche positive riguardanti la giustizia sociale possono rappresentare una condizione necessaria ma non sufficiente per l’azione del privato (Oughton et al., 2007; Santucci, 2009).

Il boom del bio ha determinato, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, l'ingresso della GDO (Grande Distribuzione Organizzata), prima timidamente e poi massicciamente. Nel tempo, il peso della distribuzione convenzionale, specialmente della GDO, è divenuto sempre più importante. Nei sistemi agro-industriali e distributivi dei paesi consumatori (Europa, USA) da circa dieci anni si stanno strutturando delle filiere sempre più concentrate, mediante fusioni, acquisizioni, accordi operativi, dove l'approvvigionamento delle materie prime tende a corrispondere alle logiche del convenzionale, con economie di scala (importazione massiccia, agricoltura contrattuale) (Santucci, 2009). Scompare sempre di più, anche nel biologico, il legame tra prodotto alimentare ed il territorio (o i territori) da cui provengono gli ingredienti. Da una parte, la definizione di standard certi e la crescita della domanda avrebbe fatto entrare nel settore operatori spinti da motivazioni economiche; dall’altra, la necessità di catturare l’interesse di consumatori ‘convenzionali’ avrebbe generato una spinta all’adeguamento della produzione biologica a standard commerciali convenzionali (l’estetica del prodotto, il confezionamento, la destagionalizzazione) (Brunori, 2009).

A questa tendenza si contrappone quella del legame forte tra prodotto e territorio, tra consumatori finali e produttori agricoli, del chilometro zero (Santucci, 2009). Dal punto di vista economico, i caratteri di stagionalità e territorialità che distinguono la vendita diretta consentono risparmi in termini di costi di produzione. La possibilità di rispettare il ciclo naturale delle stagioni, permette di limitare l’uso dell’energia necessaria. Con la vendita di prodotti su scala locale poi si evita il trasporto su lunghe distanze, risparmiando quindi in costi di conservazione, imballaggio e carburante. I vantaggi dal lato dell’agricoltore dell’utilizzo del canale corto sono maggiori ricavi, la stabilità della domanda, la possibilità di incidere direttamente sul prezzo. Un contenimento dei costi di produzione e l’assenza di intermediazione hanno un impatto determinante sul fattore prezzo, tanto che i prodotti veicolati tramite canale diretto sono generalmente più convenienti per i consumatori rispetto a quelli proposti dai canali tradizionali (Aguglia, 2009).

Contemporaneamente, a questo risparmio dei consumatori corrisponde una possibilità per il produttore di ottenere una remunerazione ritenuta più adeguata dei fattori produttivi impiegati e di riappropriarsi di una parte del valore che usualmente si disperde nei vari passaggi lungo la filiera. Inoltre, si riesce a garantire una trasparenza sulla formazione del prezzo che il consumatore

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può valutare, cosa che diventa complicata nel caso di filiere con numerosi intermediari (Aguglia, 2009). Un ulteriore importante aspetto è il recupero di un contatto con il mondo rurale, spesso dimenticato non solo in termini di freschezza e genuinità dei prodotti, ma anche di conoscenza dei cicli stagionali e delle peculiarità colturali locali e più in generale di riscoperta della cultura rurale (Aguglia, 2009).

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2. EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI QUALITÀ

Il passaggio da un’agricoltura di auto-sussistenza ad una di tipo industriale ha comportato un distacco nel tempo sempre più ampio tra produzione e consumo. Così è nata la figura del consumatore, non più costretto a coltivare per approvvigionarsi il cibo, ma che lo può comprare sui nei mercati. E’ in tale contesto che prende forma il concetto di qualità tecnologico-commerciale degli alimenti, la quale interessa esclusivamente colui che produce e colui che commercia il prodotto. Questo ‘tipo’ di qualità può essere definito attraverso:

le caratteristiche d’uso del prodotto, cioè la conformità agli standard legali, la conformità agli standard volontari e l’attitudine alla conservazione;

le proprietà funzionali o di idoneità tecnologica (attitudine alla manipolazione, alla trasformazione, allo stoccaggio, al trasporto, etc.) (Medaglini, 2005).

Quando, negli anni ’70, è emerso il problema della sovrapproduzione e delle eccedenze, al consumatore fu data la possibilità di scegliere il tipo di alimento desiderato: poiché la tipologia e la quantità degli alimenti erano fortemente aumentate, il consumatore poteva utilizzare un criterio di scelta specifico. In questo modo inizia la ricerca di una qualità nutrizionale, cioè l’insieme dei requisiti strettamente legati alla natura chimica dell’alimento. I principali parametri da considerare sono:

il valore calorico;

il contenuto in macronutrienti (proteine, grassi, zuccheri, fibre); il contenuto in micronutrienti (vitamine, sali minerali, etc.); l’equilibrio tra i nutrienti (Medaglini, 2005).

Questa visione della qualità non dà informazioni sulla tossicità o sanità dell’alimento, cioè sulla sua sicurezza igenico-sanitaria. A partire da questa considerazione prende forma il concetto di qualità igienica o sicurezza d’uso, definita dalla presenza di:

residui tossici di campo (legati all’uso di fertilizzanti, fitofarmaci, antibiotici, etc.), la cui presenza è legata essenzialmente alla tecnica utilizzata nella produzione dell’alimento; inquinanti ambientali (metalli pesanti, radioliti, etc.);

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sostanze tossiche (o antinutrizionali) di origine esogena, che si riscontrano a seguito di trattamenti (riscaldamento, trattamento con radiazioni, aggiunta di additivi, etc.) o manipolazioni errate;

microrganismi patogeni, principalmente batteri e funghi responsabili di intossicazioni e infezioni alimentari, la cui presenza è legata alle modalità di lavorazione e di conservazione del prodotto;

sostanze tossiche (o antinutrizionali) di origine endogena, la cui presenza può essere eliminata o controllata mediante opportuni trattamenti tecnologici (Medaglini, 2005).

In presenza di un numero sempre maggiore e più vario di alimenti, il consumatore tende a operare una selezione basandosi su quel particolare complesso di proprietà apprezzabili attraverso i sensi. In questo contesto, è importante sottolineare che il gusto non può essere considerato un senso "assoluto", ma può essere educato, abituato o indotto in errore. I principali requisiti della qualità organolettica sono:

aspetto (colore, forma e dimensioni); aroma (odore e sapore);

consistenza ( combinazione di proprietà fisico-meccaniche diverse) (Medaglini, 2005).

Poiché oggigiorno il consumatore gode di un relativo benessere e può operare un maggior numero di scelte riguardo al cibo, è possibile approfondire determinati aspetti mai evidenziati in passato, racchiusi nel concetto di qualità etica, la quale considera:

gli effetti ambientali degli alimenti (sistemi di produzione);

gli aspetti e gli impatti sociali degli alimenti (condizioni di lavoro degli agricoltori e degli operai agricoli);

il benessere degli animali in allevamento (Medaglini, 2005).

Infine, il concetto di qualità salutistica è quello introdotto più di recente e può essere definito come l’insieme di quelle particolari proprietà che l’alimento possiede o che il consumatore gli attribuisce, le quali consentono una serie di interazioni con l’organismo umano, contribuendo così al mantenimento del suo benessere. In questo contesto si inseriscono gli alimenti funzionali, quelli cioè che contengono antiossidanti e si pensa apportino specifici benefici fisiologici, tali da regolare

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le funzioni dell’organismo e prevenire alcune malattie degenerative, tenendo presente che occorre considerare il “fitochimico”, cioè l’insieme di vari componenti che conferiscono nella loro totalità aspetti positivi all’alimento stesso, e non il singolo antiossidante presente in maggiore quantità (Medaglini, 2005).

I consumatori biologici e biodinamici richiedono prodotti caratterizzati da proprietà quali la vitalità e la coerenza, che sono difficilmente definibili e condivise. Il concetto di qualità vitale intrinseca (IQC):

correla le caratteristiche del prodotto alle pratiche colturali adottate;

verifica l’assunto della comunità agricola biologica che un cibo salutare deve essere maturo e coerente (definendo come coerente l’alto grado di organizzazione nella pianta) (Bloksma et al., 2007).

La qualità vitale intrinseca è legata ai processi vitali della crescita e differenziazione, e alla loro integrazione. Si indica come ‘crescita’ la produzione di materia organica data dall’incremento della taglia e del volume. Nella piante ciò è reso possibile attraverso il processo fotosintetico che produce componenti primari, quali zuccheri, a partire dai quali derivano l’amido, la cellulosa, aminoacidi e proteine. La ‘differenziazione’ è invece un processo di specializzazione che coinvolge forma e funzione: in questo caso i composti primari si trasformano in componenti secondari come fenoli, vitamine, composti aromatici, cerosi, e così via (Bloksma et al., 2007). Poiché negli organismi viventi questi due processi avvengono contemporaneamente, non è possibile separarli. Tuttavia, come indicano le pratiche agricole, è utile distinguere tra essi, considerando le relative proporzioni. Secondo i produttori organici, per ottenere la massima qualità è necessario bilanciare la crescita e la differenziazione. Le colture che si sviluppano bilanciando i processi vitali, possiedono una moderata resistenza agli stress e alle malattie, e producono alimenti stabili (coerenti) e aromatici. Gli agricoltori biodinamici esprimono questi concetti con i termini “coerenza” e “specificità vegetale” (Bloksma et al., 2007).

Esistono diversi metodi sperimentali per valutare la coerenza dei prodotti alimentari. Tra questi troviamo la biocristallizzazione, che fa parte dei metodi sensibili o morfogenetici, che si basano sull’ottenimento di immagini e sull’analisi delle forze responsabili della loro formazione (la cromatografia circolare di Pfeiffer, la cromatografia WALA e la cristallizzazione sensibile) (Medaglini, 2005). I metodi tecnici invece, utilizzano apparecchiature più o meno complesse come la fotografia, l’emissione e misura di luce, la misura di parametri chimici (metodo bio-elettronico,

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elettro-biofotografia, reofermentografia, emissione di biofotoni). Sia i metodi sensibili che quelli tecnici, appartengono alla categoria dei metodi analitici globali, che si contrappone a quella dei metodi analitici “oggettivi”, cioè in grado di rendere visibili le differenze qualitative legate alla tecnica utilizzata per la produzione, alle concentrazioni di nutrienti e alla origine dei componenti stessi dell’alimento (analisi tradizionali) (Medaglini, 2005).

Le caratteristiche intrinseche del sistema biologico enfatizzano in particolare gli aspetti della qualità etica (attenzione agli effetti ambientali ed impatti sociali del sistema di produzione, benessere degli animali in allevamento) e, secondo recenti ricerche, anche alcuni aspetti della qualità salutistica e nutraceutica (funzionale) di certi alimenti rispetto ai corrispondenti provenienti dall’agricoltura convenzionale, come esposto nel capitolo seguente.

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3. CONFRONTO QUALITATIVO E NUTRIZIONALE TRA ALIMENTI

BIOLOGICI E CONVENZIONALI

Nella loro review Bourn et al. (2002) hanno suddiviso gli studi comparativi tra metodo biologico e convenzionale in tre categorie principali:

gli articoli che hanno confrontato i risultati delle analisi condotte su prodotti (bio e convenzionali) acquistati al dettaglio;

gli articoli che hanno confrontato la qualità di prodotti ottenuti a partire da diverse strategie di concimazione /fertilizzazione;

gli articoli che hanno evidenziato l’effetto della conduzione aziendale nel suo complesso sulle qualità nutrizionali dei prodotti agricoli.

Gli studi che appartengono alla prima categoria precludono qualsiasi tipo di conclusione esaustiva perché chiaramente non vi è certezza in merito alla provenienza del materiale analizzato (non esistono prove che possano attestare che questi prodotti etichettati provengano effettivamente da sistemi colturali biologici); inoltre, solitamente, non si riporta alcun dettaglio circa il metodo di campionamento. Alcuni ricercatori argomentano che il miglior modo per valutare i nutrienti assunti dai consumatori è acquistare gli alimenti, come questi farebbero, presso i dettagliati. In ogni caso questo approccio non controlla pienamente alcune variabili come lo stato di maturità alla raccolta, la freschezza e la cultivar, così che queste variabili possono inquinare le apparenti differenze nutrizionali (Bourn et al., 2002).

Per quanto concerne il secondo caso, la maggioranza degli studi indicano che più azoto è disponibile per la coltura, maggiore è l’assimilazione e l’accumulo di azoto e nitrati nella pianta. Esiste però una moltitudine di fattori addizionali che possono influenzare la composizione della biomassa della coltura, rendendo difficilmente isolabile l’effetto dei fertilizzanti (Bourn et al., 2002). Fra questi fattori, i principali sono:

1. Fattori genetici (il tipo di coltura e la cultivar). 2. L’ambiente:

a. struttura e tipologia del terreno; b. tipo e metodo di concimazione;

c. il clima (luce, temperatura, piogge, umidità) d. popolazione microbica del suolo;

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e. pratiche colturali (rotazioni, utilizzo di pesticidi, irrigazioni, regolatori della crescita,…).

3. Pratiche post-raccolta:

a. epoca del raccolto (maturità della coltura); b. conservazione;

c. metodi e condizioni della trasformazione industriale (Bourn et al., 2002).

E’ possibile che i protocolli di campionamento e i metodi analitici utilizzati (in particolare negli studi più recenti) influenzino le concentrazioni di nutrienti rilevate e di conseguenza, a volte, l’interpretazione dei risultati può essere difficile. Gli studi comparativi mostrano che in alcune situazione l’uso di concimi organici può indurre un minor livello di nitrati in alcune colture e cultivar, ma non è chiaro se questo trend rimanga costante nelle pratiche a lungo termine. Senza dubbio, condizioni climatiche diverse possono influenzare il contenuto di azoto e nitrati alla stessa stregua dei trattamenti fertilizzanti (Bourn et al., 2002).

Gli studi che comparano la conduzione aziendale nel suo complesso spesso non chiariscono l’importanza relativa dei singoli fattori della produzione sul valore nutrizionale poiché pochi ricercatori si sono avvalsi di piani di sperimentazione adeguati e di metodi statistici d’analisi. Anche in questo caso i risultati sono molto variabili. Il contenuto di carotenoidi è stato spesso analizzato sia in studi comparativi dei sistemi di concimazione/fertilizzazione che della conduzione aziendale; dai risultati ottenuti, sembrerebbe che applicazioni di azoto più alte possano abbassare i livelli di beta-carotene e che anche l’utilizzo di alcuni pesticidi in agricoltura convenzionale possa indurre una diminuzione dei livelli di beta-carotene in alcune colture, sebbene altri studi non concordino su tali risultati (Bourn et al., 2002).

Diversi studi hanno confrontato la qualità nutrizionale di prodotti alimentari provenenti da agricoltura biologica e convenzionale e la maggioranza di questi ha limitato la propria analisi ad un gruppo ristretto di componenti alimentari quali proteine, zuccheri, vitamine e minerali. Si tratta di un approccio riduttivo perché la concentrazione di alcuni nutrienti non fornisce informazioni su come questi siano metabolizzati, dunque sulla loro bioassimilabilità. Un altro fattore che può confondere le interpretazioni è il modo con il quale sono espresse le concentrazioni nutritive, cioè se in base alla sostanza secca o fresca (Bourn et al., 2002).

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Meno interesse è stato dedicato ai metaboliti secondari coinvolti nella difesa della pianta (Brandt et al., 2001). Da un punto di vista ecologico, si ritiene che la loro presenza e distribuzione nelle piante derivi da un adattamento e da una selezione naturale attraverso complessi processi di coevoluzione. I metaboliti secondari delle piante possono essere divisi in quattro classi: composti fenolici (ad esempio flavonoidi e acidi fenolici), terpenoidi (come carotenoidi e limonoidi), alcaloidi (per esempio indoli), componenti contenenti solfuro (come glucosinolati).

I fenoli costituiscono il gruppo più vasto fra i fitochimici, sono solitamente concentrati nelle parti più esterne dei tessuti vegetali e dei frutti (anche la taglia del frutto può influire) (Zhao et al., 2006), e sono sintetizzati nella pianta come metaboliti secondari attraverso la via dell’acido scichimico. La fenilalanina ammonioliasi (PAL), enzima chiave per la catalisi della biosintesi dei fenoli a partire dall’aminoacido aromatico fenilalanina, è reattiva a stress biotici e abiotici come raggi UV, basse temperature, attacchi di insetti, infezioni patogene o deficienze nutrizionali (Young et al., 2005). Dunque, la concentrazione e la tipologia di composti fitochimici nella pianta possono essere determinate da una serie di fattori, compreso il genotipo, l’ontogenesi e l’ambiente (Zhao et al., 2006). Le condizioni climatiche possono influenzare profondamente il contenuto in fitochimici: i livelli possono variare secondo il luogo e l’anno, a causa delle differenti situazioni ambientali portando a risultati inconsistenti in alcuni studi (Zhao et al., 2006).

Poiché i fattori genetici ed ambientali esercitano degli effetti differenti sui componenti fitochimici, questi devono essere considerati attentamente nei sistemi produttivi biologici. Il genotipo della coltura, le pratiche colturali biologiche, così come l’andamento stagionale e il sito, meritano uno studio sistematico all’interno delle frammentate analisi degli effetti del metodo biologico (Zhao et al., 2006). Infatti esistono diverse condizioni di produzione biologica che possono variare significativamente sia all’interno che tra le diverse aziende e regioni (Zhao et al., 2006) ed è necessario comprendere quali siano i componenti chiave del metodo biologico rispetto a quello convenzionale correlati ad un innalzamento della concentrazione fitochimica (Zhao et al., 2006).

La più comune argomentazione utilizzata dai sostenitori dell’agricoltura biologica è che le piante coltivate con nutrienti artificiali e pesticidi possono ridurre/perdere i loro naturali meccanismi di difesa. Ciò implica una minor resistenza alle malattie e contenuti inferiori di minerali, vitamine e di metaboliti secondari correlati alla difesa, i quali sono considerati benefici per la salute umana perché simili alle medicine. Al contrario, i detrattori del sistema biologico si avvalgono pressoché delle stesse argomentazioni, ma per arrivare alla conclusione opposta: a causa di un’inadeguata

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nutrizione vegetale e della mancata protezione contro le malattie, i tessuti delle piante possono contenere meno proteine, zuccheri e vitamine e maggiori concentrazioni di metaboliti secondari, che però in questo caso sono considerati pericolosi per la salute a causa della loro similarità con pesticidi ed altre sostanze tossiche (Brandt et al., 2001).

Ad oggi sappiamo che nessun metabolita secondario è noto per essere assolutamente necessario per una vita lunga e in salute. Anzi, comunemente alcuni metaboliti secondari sono noti per essere pericolosi se assunti in alte concentrazioni, mentre altri, come la linamarina nella cassava e la solanina nelle patate, risultano nocivi anche alle normali concentrazioni che si ritrovano nei prodotti vegetali. D’altra parte, molti alimenti che contenengono componenti potenzialmente tossici risultano chiaramente innocui per gli umani perché sono stati utilizzati per anni da molte persone senza un apparente effetto dannoso. Alcuni esempi sono il caffè, i peperoni, il prezzemolo, i ravanelli, la senape, e molti altri. Di conseguenza, sebbene nella maggioranza dei casi non sia stata condotta una ricerca specifica, è generalmente accettato che, ai livelli normali (medi) di consumo, i componenti secondari vegetali non risultano così pericolosi come si potrebbe attendere dai loro valori di LD (Brandt et al., 2001).

Se si considera che, in condizioni di abbondanza, tutti gli animali testati, e probabilmente anche l’uomo, tendono a nutrirsi di più rispetto al livello ottimale per la salute, è ipotizzabile che, se questa condizione persiste, i metaboliti secondari, ritardanti della crescita e dell’assimilazione alimentare, possano promuovere la salute come diretta conseguenza della loro tossicità (infatti la tossicità è spesso assimilata ad un ritardo della crescita nei giovani animali). Poiché è stato già visto che alcuni metaboliti secondari agiscono come antinutrienti, rendendo meno assimilabili le proteine o altri componenti essenziali, l’apparente combinazione contraddittoria di effetti pericolosi e benefici assume un senso se considerata come una sorta di restrizione calorica. Senza dubbio, dato che queste osservazioni riguardano solo le cosiddette ‘malattie del benessere’, molto probabilmente la situazione è assai differente per le popolazioni scarsamente nutrite (Brandt et al., 2001).

Anche se è difficile trarre conclusioni esaustive dalla letteratura disponibile, sembra che il metodo biologico possa potenzialmente produrre frutta e ortaggi più ricchi di composti fitochimici (metaboliti secondari). Infatti, la coltivazione di tipo biologico pone la pianta in una condizione molto più stressante rispetto al metodo convenzionale, visto l’uso limitato di insetticidi, erbicidi e fungicidi, costringendola ad un impiego massiccio di risorse per la sintesi dei metaboliti secondari

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deputati alla difesa (Winter et al., 2006; Zhao et al., 2006). Oltre a ciò, fattori addizionali come la qualità e quantità dei nutrienti disponibili per la pianta, possono indurre differenze nei contenuti fitochimici tra produzione organica e convenzionale (Zhao et al., 2006).

Una delle teorie che potrebbe spiegare la maggior concentrazione di alcuni metaboliti secondari nelle colture biologiche è la teoria del bilancio C/N: quando l’azoto è prontamente assimilabile, come spesso avviene nelle concimazioni effettuate con sostanze di sintesi, le piante sintetizzano prima di tutto i composti con un alto contenuto di azoto, come le proteine. Le risorse della pianta sono indirizzate ai fini della crescita, inducendo una minor produzione di metaboliti secondari (componenti non essenziali per la sopravvivenza della pianta) (Brandt et al., 2001; Winter et al., 2006). Quando invece la disponibilità di azoto è limitata, il metabolismo si dirige maggiormente verso la sintesi di composti contenenti carbonio, come amido, cellulosa, e metaboliti secondari privi di azoto (fenoli e terpenoidi) (Brandt et al., 2001).

Poiché la teoria del bilancio C/N non è in grado di spiegare tutte le variazioni riscontrate nelle piante e indotte dalle condizioni di crescita, è stata sviluppata la più complessa teoria del bilancio crescita/differenziazione: in qualsiasi situazione si trovi, la pianta valuterà la disponibilità di risorse e ottimizzerà i suoi investimenti in processi finalizzati rispettivamente alla crescita o alla differenziazione. In questo caso il termine “differenziazione” comprende sia l’aumento della sintesi dei composti con ruolo attivo nella difesa, sia l’accelerazione della maturazione e lo sviluppo dei semi. Dunque, se si considera che una bassa disponibilità di N è la condizione limitante la crescita più comune negli ecosistemi naturali, la teoria del bilancio C/N può essere vista come un caso particolare della teoria del bilancio crescita/differenziazione (Brandt et al., 2001).

Misurare gli antiossidanti risulta complicato perchè possiedono una biochimica piuttosto complessa. Le piante possono scegliere fra più meccanismi per sintetizzare e metabolizzare gli antiossidanti, così come i mammiferi. La diversità tra i polifenoli secondari della pianta è data dai diversi possibili scheletri carboniosi che possono caratterizzare le molecole fenoliche, così come dai diversi stati ossidativi. Inoltre, gli antiossidanti presenti nei cibi e nel corpo umano cambiano continuamente la loro forma e funzione per opera di glicosilazioni (reazione con molecole zuccherine), idrossilazioni con anelli fenolici aromatici, oppure attraverso la polimerizzazione, o come risultato della biosintesi di vari stereoisomeri (Benbrook, 2005).

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Diversi studi hanno confrontato la qualità di prodotti alimentari provenenti da agricoltura biologica e convenzionale (Raupp et al., 1996; Woese et al., 1997; Worthington, 2001; Bourn et al., 2002; Lairon, 2009) e in generale sono state rilevate differenze piccole e inconsistenti (anche se i risultati sono discordanti tra loro). Solo nel caso del contenuto di nitrati si può parlare di un’apparente tendenza verso una minore concentrazione nei prodotti biologici (Brandt et al., 2001).

Woese et al. (1997) hanno raccolto e valutato parte della letteratura comparativa sulla qualità degli alimenti biologici e convenzionali e sulla qualità dei prodotti ottenuti con diversi sistemi di concimazione. L’analisi comprende più di 150 studi comparativi, pubblicati dal 1926 al 1994, che esaminano la qualità di prodotti alimentari quali cereali, patate, ortaggi, frutta, vino, birra, pane, dolci e pasticceria, latte, uova e miele, così come i prodotti derivati. La maggioranza degli studi valutati consistono in investigazioni fisico-chimiche della concentrazione di ingredienti desiderabili e non, di residui di fitofarmaci e contaminanti ambientali, così come test sensoriali ed esperimenti alimentari con animali. Per quanto riguarda quest’ultimo caso, da altri esperimenti di selezione (preferenza) alimentare, è emerso che gli animali differenziano fra cibi biologici e convenzionali, scegliendo i primi (Woese et al., 1997).

Gli studi che hanno investigato l’effetto dell’alimentazione biologica e convenzionale sulla salute degli animali si sono dimostrati inconcludenti. In ogni caso alcune indicazioni suggeriscono che gli alimenti biologici e convenzionali con composizione simile possono esplicare effetti differenti su alcuni aspetti della fertilità animale. Woese et al. hanno concluso che in alcuni casi non esistono grandi differenze nei livelli nutrizionali tra i diversi metodi produttivi, mentre in altri casi risultati contraddittori non permettono di trarre conclusioni definitive circa l’influenza del metodo colturale sui livelli nutritivi (Woese et al., 1997). E’ bene sottolineare che nello studio di Woese non è stato analizzato l’effetto della pratica colturale sulla concentrazioni dei metaboliti secondari.

Worthington (2001) ha riassunto i risultati di 18 studi che comparavano i livelli di nitrati nei cibi biologici e convenzionali e hanno trovato che in 127 casi il livello di nitrati è più alto negli alimenti convenzionali, in 43 casi è invece maggiore nei cibi biologici e in 6 casi non si rilevano differenze significative. Il tasso di nitrati nei cibi convenzionali comparati a quelli biologici va dal 97% al 819% (Worthington, 2001). I nitrati risultano pericolosi per la salute perché sono facilmente trasformati in nitriti, molecole altamente reattive in grado di competere con l’ossigeno nella circolazione sanguigna legandosi all’emoglobina e inducendo una metemoglobinemia e una possibile anossia.

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Possono anche legarsi ad ammine secondarie per generare nitrosammine, che rappresentano i più potenti cancerogeni naturali. Nella nostra dieta, circa l’80% dei nitrati sono forniti dagli ortaggi, mentre i livelli sono assai più bassi nei frutti, cereali e legumi. Anche i prodotti animali contengono concentrazioni basse di nitrati, mentre le carni conservate possiedono una certa quota di nitriti come conservanti (Lairon, 2009). I nitrati sono naturalmente presenti nelle piante: infatti sono assorbiti dalle radici e utilizzati per la sintesi di aminoacidi e possono accumularsi nei tessuti vegetali, specialmente negli ortaggi (Lairon, 2009). Confrontando l’effetto delle diverse modalità di concimazione sul contenuto di nitrati, è stato osservato che l’uso del compost induce un minor accumulo di questi composti in molti ortaggi (lattuga, patate, carote, rapa, porro, bietola e spinacio), mentre in altri casi non sono state riscontrate differenze rispetto ai concimi chimici. Anche i concimi azotati organici possono generare concentrazioni di nitrati più basse, ma se le condizioni sono molto favorevoli per la mineralizzazione, questi possono similmente indurre un alto accumulo di nitrati. Quindi, il generale minor accumulo di nitrati negli ortaggi biologici può essere spiegato solo se si utilizzano concimi organici con basso, o gradualmente disponibile, contenuto azotato (in particolare il compost) (Lairon, 2009).

Negli ortaggi, in particolare quelli a foglia, è osservabile una maggior concentrazione di sostanza secca per i prodotti coltivati biologicamente o con concimazione organica (Woese et al., 1997) (Lairon, 2009). Se invece si considerano altri parametri nutrizionali d’interesse, si osserva o un’assenza di differenze significative nelle analisi fisico-chimiche di tipo comparativo, oppure dei risultati contraddittori che non permettono conclusioni chiare ed univoche. Lo stesso vale per i test sensoriali (Woese et al., 1997). E’ invece da rilevare un contenuto leggermente maggiore in vitamina C negli ortaggi bio oppure ottenuti da concimazione organica (Woese et al., 1997). Ciò è confermato anche dallo studio di Worthington (2001), che ha analizzato 41 esperimenti comparativi, e ha evidenziato una concentrazione della vitamina C più alta mediamente del 27% nella frutta e negli ortaggi biologici rispetto ai corrispondenti convenzionali. Oltre alla vitamina C, sono state rilevate differenze significative per ferro e magnesio (Worthington, 2001; Lairon, 2009) e fosforo (Worthington, 2001).

L’azoto, da qualsiasi tipo di concime provenga, influenza i contenuti di vitamina C e di nitrati, così come la quantità e qualità di proteine prodotte dalle piante. Come abbiamo detto, quando la pianta dispone di molto azoto aumenta la sintesi di proteine e riduce quella di carboidrati, e poiché la vitamina C è composta da carboidrati, la sua produzione è parimenti ridotta. Inoltre,

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l’incremento proteico che consegue gli alti livelli di azoto, implica livelli inferiori di alcuni aminoacidi essenziali, come la lisina, comportando una minore qualità nutrizionale della frazione proteica. Se è presente più azoto di quello che la pianta può incorporare nelle proteine, l’eccesso è accumulato in forma di nitrati principalmente nelle foglie verdi della pianta (Worthington, 2001).

A partire dal 1958 fino al 1990 Raupp e collaboratori hanno condotto un esperimento per valutare l’effetto di diversi metodi di concimazione (organico e inorganico) sui parametri qualitativi di alcune colture: frumento tenero, trifoglio, patate e barbabietola. Ciò che si è osservato è un minor contenuto proteico nelle colture trattate organicamente, equilibrato da una concentrazione di proteine pure e di aminoacidi essenziali maggiore nel grano e patate ottenute con la concimazione organica, oltre che una più alta resistenza contro la decomposizione ed una maggiore qualità di conservazione nel caso delle patate, e una qualità più elevata dell’amido per il frumento (Raupp et al., 1996). Sull’esempio di questo studio sono stati intrapresi in parallelo altri due esperimenti, il primo condotto tra 1971 e 1976, e il secondo tra il 1971 e il 1979. In entrambi gli studi sono stati confrontati due metodi colturali, quello convenzionale e quello biodinamico. In sintesi, i risultati sono i seguenti (Raupp et al., 1996):

Cereali: I cereali estivi hanno mostrato raccolti simili sia con la concimazione organica che minerale, mentre i cereali vernini sono stati normalmente caratterizzati da raccolti minori nel caso della concimazione organica, rispetto alla minerale. Il contenuto proteico grezzo è superiore nella fertilizzazione minerale, mentre la concentrazione di proteine pure è risultata per lo più minore rispetto alla concimazione organica. Se si considera la qualità panificatoria, la fertilizzazione organica induce un minor contenuto luteinico, mentre l’indice degli aminoacidi essenziali è circa lo stesso o leggermente migliore. La concentrazione minerale è pressoché la stessa nei due sistemi di concimazione, con sporadici valori più alti di calcio, fosforo, magnesio, e potassio. Generalmente le differenze tra le due concimazioni sono più pronunciate nella parti vegetative rispetto a quelle riproduttive (Raupp et al., 1996).

Ortaggi: Gli ortaggi ottenuti con concimazione organica mostrano un contenuto in nitrati inferiore rispetto a quelli trattati con fertilizzazione inorganica, in particolare nelle colture da radice. Poiché questo effetto è stato osservato spesso, si può supporre che sia indipendente dalle peculiarità del luogo, sebbene i livelli assoluti possano variare considerevolmente in funzione dell’anno, varietà e coltura. E’ stata osservata anche una

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tendenza verso un innalzamento dei livelli di magnesio nella fertilizzazione organica, che però dipende principalmente dal contenuto di questo elemento nel concime. Non sono stati rilevati chiari effetti del metodo di fertilizzazione sul contenuto in vitamina C (Raupp et al., 1996).

Altri ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sull’effetto del metodo colturale sulla concentrazione di alcuni componenti fitochimici: ad esempio, Young et al. (2005) non hanno riscontrato un aumento significativo dei livelli fenolici nella lattuga e rapa biologica, comparate ai corrispettivi convenzionali. Sembra che la variabilità dei livelli fenolici sia il principale fattore responsabile dell’assenza di risultati statisticamente significativi. Anche se questo progetto sperimentale ha controllato efficacemente gli stress ambientali abiotici, non ha fatto lo stesso per quelli biotici, che possono aver indotto differenze significative nei livelli fenolici tra i campioni biologici e convenzionali. I campioni della rapa biologica hanno prodotto, in risposta ad un attacco di insetti, livelli maggiori di fenoli totali rispetto ai campioni convenzionali, suggerendo che questo tipo d’attacco possa rappresentare un fattore di stress biotico che innalza i livelli fenolici in alcune colture all’interno dei sistemi produttivi biologici (Young et al., 2005).

Asami et al. (2003) hanno misurato il contenuto fenolico totale di frutti di bosco, fragole e mais coltivati col metodo biologico e convenzionale; inoltre sono stati valutati gli effetti di tre trattamenti post-raccolta (surgelazione, liofilizzazione, ed essiccazione) sul contenuto fenolico totale di questi prodotti agricoli. Gli studiosi hanno rilevato consistenti maggiori livelli di fenoli totali nei prodotti biologici rispetto a quelli ottenuti col metodo convenzionale. Inoltre in tutti i campioni la liofilizzazione ha preservato un maggior contenuto di fenoli totali rispetto all’essiccamento. Anche il contenuto di acido ascorbico è risultato maggiore nei campioni biologici, ed è stata osserva una significativa diminuzione della vitamina C nei campioni liofilizzati ed essiccati rispetto ai corrispettivi surgelati. I campioni essiccati hanno mostrato il minor contenuto di acido ascorbico (Asami et al., 2003).

Lumpkin (2005) ha comparato pomodori provenienti da agricoltura biologica e convenzionale, analizzando diversi parametri qualitativi (solidi solubili, acidità e colore) e nutrizionali (licopene, beta-carotene, acido ascorbico, fenoli totali e attività antiossidante). Sono state condotte prove comparative su 10 coppie di aziende (biologiche e convenzionali). I risultati hanno evidenziato che se si accomunano le aziende per categoria (biologico-convenzionale) non si ottengono differenze significative nei parametri nutrizionali. Al massimo, i sistemi biologici hanno prodotto pomodori

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con un pH più alto ma non sono emerse diversità nel contenuto di solidi solubili, acidità e colore fra i due metodi colturali. Tuttavia, se le varie coppie sono valutate individualmente, in alcuni casi sono riscontrabili differenze significative nella concentrazioni di acido ascorbico, fenoli totali e licopene, così come per il pH, solidi solubili e colore (Lumpkin, 2005).

I componenti fitochimici stanno sempre più dimostrando un drastico effetto regolatorio a livello cellulare, e sono dunque coinvolti nella prevenzione di certi disturbi come cancro, infiammazioni croniche e altre patologie (Lairon, 2009). La maggioranza degli studi ha evidenziato un maggior contenuto in fenoli e polifenoli in prodotti biologici quali mele, pesche, pere, patate, cipolle, pomodori, peperoni, arance e olio di oliva, mentre altri non hanno rilevato differenze significative (Lairon, 2009).

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4. IL FRUMENTO

4.1. STORIA DEL FRUMENTO E SITUAZIONE ATTUALE IN ITALIA

Con il termine “frumento” si intendono diverse specie di graminacee appartenenti al genere Triticum che furono tra le primissime piante ad essere coltivate agli albori della civiltà agricola nell’era Neolitica, 10-11000 anni fa, nell’area geografica denominata per la sua forma “Mezzaluna fertile” (Vicino e Medio Oriente) (Bonciarelli et al., 2001). All’interno della "Mezzaluna", il centro originario della coltura è stato fissato dagli studiosi in più punti differenti. Gli ultimi studi, condotti comparando il corredo genetico dei frumenti selvatici tuttora esistenti e di quelli coltivati, hanno fissato la culla della coltivazione proprio nel centro geometrico della "Mezzaluna fertile" sui monti Karacadag, una catena posta tra l'alveo del Tigri e quello dell'Eufrate (Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Triticum).

Archeologi e storici sottolineano l'importanza che la coltura del frumento ha svolto inducendo le prime società umane a forme di organizzazione più complesse. Infatti, mentre gli ortaggi potevano essere coltivati anche attorno ad un campo di nomadi, il frumento, nelle condizioni climatiche della valle del Tigri Eufrate, spinse i primi coltivatori a realizzare reti di canali per estendere la coltura, le prime città difese da mura per tutelare il raccolto nel corso dell'anno, ad organizzare eserciti per difendere dai nomadi il territorio irrigato dai canali realizzati. In questi termini, il frumento ha costretto l'uomo ad organizzare una prima forma di società civile.

Nell’antica Roma, il cardine della politica dell'impero era costituito dal regolare approvvigionamento di grano. Infatti il frumento rientrava nelle abitudini alimentari della plebe romana, a differenza dei Siciliani, consumatori di hordeum (orzo) sulla base della tradizione agronomica greca (Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Triticum).

Così, dalla regione originaria della Mezzaluna fertile, i frumenti si sono evoluti e diffusi nei millenni successivi in tutti i paesi a clima temperato del continente euroasiatico (dall’Europa occidentale alla Cina) e africano (Nord Africa, Etiopia) e negli ultimi cinque secoli nei continenti di nuova scoperta (Americhe, Australia) (Bonciarelli et al., 2001).

La produzione di grano tenero in Italia è caratterizzata da una forte specializzazione territoriale, con l’83% della superficie nel Nord Italia e una concentrazione di quasi il 70% in tre regioni: Emilia-Romagna (35%), Veneto (18%) e Piemonte (16%) (Frascarelli, 2010). La riduzione delle superfici a

Figura

Figura 1 - La cariosside di frumento (da Encyclopaedia Britannica, http://www.britannica.com)
Figura 2 - Schema dei polifenoli
Figura 3 - I principali acidi fenolici ACIDI FENOLICI
Figura 4 - Struttura chimica degli acidi idrossibenzoici (dal sito www.darapri.it)
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