CAPITOLO 2: Dalla teoria keynesiana alla teoria monetarista
2.1 L'ascesa del monetarismo
2.2 La teoria economica del fondatore del pensiero monetarista: Milton Friedman
2.3 La nuova macroeconomia classica di Robert E. Lucas
2.4 Le politiche economiche monetariste degli anni Settanta e Ottanta
Premessa
Se la teoria keynesiana nacque dal fallimento della teoria classica a trattare la grande
depressione degli anni Trenta, l
'influenza del monetarismo nella cerchia politica si accelerò
quando le teorie economiche keynesiane risultarono incapaci di spiegare (e curare) gli
apparentemente contraddittori fenomeni della crescita della disoccupazione e dell'inflazione
come risposta al collasso del sistema di accordi di Bretton Woods nel 1972 e della crisi
petrolifera del 1973. In questo secondo capitolo, approfondirò dunque l
e politiche
economiche monetariste, riservando particolare attenzione alle critiche mosse verso le
interpretazioni del pensiero keynesiano, che finirono per caratterizzare oltre che la politica
monetaria statunitense della Federal Reserve, anche le politiche neoliberaliste del governo
Reagan negli Stati Uniti e del governo Thatcher nel Regno Unito nel corso degli anni '70-80
1.
2.1 L'ascesa del monetarismo
Tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine del 1973 l'economia del cosiddetto Primo
mondo (Europa occidentale, Nord America e Giappone) visse un periodo di enorme
prosperità
2. Il pianeta intero in quel trentennio vide la sua ricchezza aumentare più di quanto
non fosse accaduto nei mille anni precedenti. In alcuni Paesi, come l’Italia, si parlò di
miracoli economici e l'idea che la crescita del benessere fosse un fenomeno inarrestabile si
consolidò nella mentalità dell'emisfero Nord del pianeta. Alla radice del trentennio glorioso vi
1) Cate Thomas, An encyclopedia of keynesian economics, p. 433, Edward Elgar, seconda edizione, 2013. 2) Si vede a riguardo: http://www.corriere.it/sette/13_marzo_13/2013-11-vigo-boom-economico_8c939f22-8bef-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml .
furono tre fenomeni interconnessi:
•
la ricostruzione post – bellica aveva prodotto in Europa una grande vivacità
economica, e in particolare il settore edilizio conobbe una grande espansione; si
assistette a vere e proprie “ondate migratorie” dei lavoratori delle campagne, attratti
dalla possibilità del benessere urbano, nelle fabbriche cittadine aumentando la
richiesta di nuove case, mobili, elettrodomestici e automobili, in un circolo virtuoso
che sembrava inarrestabile.
•
Il sistema di produzione fordista (la catena di montaggio e l'ottimizzazione dei tempi)
continuò la sua corsa negli USA e si diffuse in Europa, aumentando a dismisura la
quantità di merci prodotte ogni anno ma a differenza di quanto avvenuto negli anni '20
l'aumento delle merci e dei profitti fu accompagnato da un parallelo aumento dei salari
operai che rese possibile ai lavoratori l'acquisto di una buona parte delle stesse merci
da loro prodotte.
•
L'intervento sempre più massiccio dello Stato, sia nella pianificazione economica, sia
nella costruzione dello Stato sociale (welfare state). Entrambe le idee traevano origine
dalle teorie di John Maynard Keynes, secondo cui il sistema dei liberi mercati non era
sempre in grado di mantenere alta la domanda di beni e quando questo fosse accaduto
era inevitabile il manifestarsi di una crisi del sistema. Sarebbe stato necessario quindi
l'intervento dello Stato al fine di sostenere la domanda, attività che, dopo la prematura
morte di Keynes (1946) si realizzò in diversi modi: fu programmata in modo
coordinato la produzione industriale nazionale, si svilupparono una serie di servizi
sociali pubblici, e si favorì l'aumento dei salari
3.
Trent'anni di sviluppo economico tumultuoso avevano radicato nella mentalità comune la
convinzione che l'economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita infinita, che le
generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle
precedenti, e che la crisi fosse il retaggio di epoche passate.
3) In questo contesto, emerse uno dei problemi che portano a far soccombere l'ortodossia keynesiana: i l prevalente ricorso al deficit di bilancio come strumento di finanziamento dell'intervento statale e dei costi crescenti dello Stato sociale provocò una dilatazione del debito pubblico tale da risucchiare gran parte del risparmio privato impegnato nel suo finanziamento mediante sottoscrizione di titoli pubblici. Il mercato finanziario presentò elevati tassi d'interesse (a cui i titoli di debito pubblico si collocavano) assai lontani da quelli necessari per assicurare l'equilibrio di mercato tra risparmi ed investimenti ed ostacolando l'autofinanziamento del capitale privato mediante ricorso al mercato azionario. In più la dilatazione del deficit raggiunse pericolose dimensioni vicine all'instabilità con pericoli di bancarotta generale.
A interrompere il suddetto contesto intervenne improvvisa la crisi del 1973-'74, durante la
quale il mondo occidentale conobbe un fenomeno di profonda influenza sulle sorti
dell'economia: la brusca carenza di petrolio e il conseguente aumento a livelli stellari dei
prezzi dell'energia. Tuttavia la crisi di quel biennio fu l'ultima tappa di un processo di
svuotamento degli elementi che avevano sostenuto i miracoli economici post bellici.
Per questo occorre ripercorrere cronologicamente i fatti strutturali che resero così esplosiva la
carenza petrolifera
4.
In linea generale la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 furono espressione di un
movimento di forza operaia e di crescente difficoltà per l'economia capitalista all'interno delle
economie più avanzate. Il processo innescato negli anni '50 e (soprattutto) negli anni '60,
favorì la ripartizione fra imprenditori e lavoratori degli utili crescenti generati dalle attività
economiche; tuttavia in alcuni paesi la forza delle rivendicazioni operaie aveva portato i
lavoratori ad ottenere aumenti percentualmente superiori a quelli riportati dalla controparte. I
profitti crescevano meno dei salari, un fatto anomalo nell'intera storia del capitalismo, dovuto
principalmente alle condizioni di forza sindacale e politica sviluppatesi nel secondo
dopoguerra.
Un secondo passaggio fondamentale nella storia economica dei primi anni '70, fu
rappresentato dall'abbandono della stabilità monetaria: il 15 agosto 1971 il presidente
statunitense Nixon dichiarò nullo il legame fra dollaro e oro: il dollaro valeva di per sé, scisso
da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica del governo USA
5. Le
conseguenze inizialmente non furono gravi, il sistema mondiale continuò ad andare avanti e le
altre monete ad essere cambiate allo stesso valore; nel corso degli anni '70 e all'inizio degli
anni '80 però i valori delle divise cominciarono ad oscillare pericolosamente e questo fattore
contribuì a potenziare la crisi del 1973-'74 e la successiva del 1979, soprattutto per quei paesi
che dovevano importare petrolio, pagandolo in dollari e che erano pertanto obbligati ad
esborsi sempre maggiori man mano che sia il greggio, sia la divisa statunitense si
apprezzavano.
4) Di Vittorio A. (a cura di), Dall’espansione allo sviluppo. Una storia economica d’Europa, parte VI, G. Giappichelli Torino 2011 (nuova edizione).
5)All'origine del fenomeno vi era la guerra che gli Stati Uniti conducevano contro il Vietnam; per finanziarne i costi il governo USA stampava continuamente dollari il cui valore era garantito dalle riserve in oro detenute a Fort Knox. Ma ad un certo punto la quantità di dollari circolanti divenne eccessiva perché si continuasse ad assicurare la loro trasformazione in oro.
Il fattore più importante nel favorire il mutamento storico fu la crisi da sovrapproduzione che
fin dagli anni '60 negli USA e negli anni '70 e '80 in Europa iniziò a far sentire la sua morsa. A
differenza della crisi da sottoconsumo del 1929 questa volta il problema non era la mancanza
di domanda da parte di lavoratori troppo mal pagati per potersi comprare ciò che
producevano; al contrario, le paghe operaie crescenti e l'intelligenza di alcuni imprenditori
(che avevano cominciato a produrre beni di prezzo accessibili ai loro dipendenti) avevano
evitato il ripetersi delle dinamiche degli anni '20. Il problema del 1973 era un altro: dopo
alcuni decenni di acquisti di massa
6, inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di
nuove merci e ad una vera e propria crisi da eccesso di offerta.
Nel secondo dopoguerra l'economia dei Paesi industrializzati era fortemente dipendente dal
petrolio, da tempo divenuto la più importante fonte di energia per la produzione industriale, la
produzione agricola e il sistema dei trasporti. La sua relativa scarsità veniva vista come un
problema solo guardando a tempi molto lunghi, e il suo prezzo molto basso permetteva di non
appesantire i costi delle economie occidentali. Ma nel 1973 accadde l'imprevisto: l'OPEC
(l'alleanza dei Paesi produttori di petrolio, quasi tutti di lingua araba) decise di sospendere
improvvisamente le forniture di greggio agli Stati occidentali. Questi ultimi avevano infatti
appoggiato Israele, facilitandogli la vittoria nella guerra dello Yom Kippur, che nell'ottobre di
quell'anno lo aveva opposto agli Stati arabi di Siria ed Egitto. La ritorsione dell'OPEC si
tradusse in un aumento improvviso e molto elevato del prezzo del petrolio, che nel giro di
poco tempo crebbe di oltre tre volte. La scarsità di petrolio e la forte crescita dei suoi costi si
tradussero rapidamente nell'intero Occidente in una riduzione generalizzata delle attività di
produzione e di trasporto, in un ulteriore calo dei profitti imprenditoriali e in un aumento del
prezzo di tutte le merci, ossia in un meccanismo di inflazione. Nella mentalità comune il
manifestarsi di aumenti continui e diffusi nei generi di prima necessità portò ad associare
l'inflazione ad un male tout court
7: nel corso di pochi anni la lotta contro l'aumento dei prezzi,
scatenatasi a partire dal 1979, fu uno dei cavalli di Troia utilizzati per cambiare il volto
all'economia e alle società mondiali.
6) Da considerare fondamentale fu lo stimolo eccessivo fatto sulla domanda, caratteristico delle economie keynesiane, che provocò una crescente e cronica inflazione, contribuendo a scoraggiare l'investimento privato e ostacolare la crescita economica.
7) In realtà il fenomeno di aumento generalizzato dei prezzi non è un male o un bene in assoluto, ma come molti fenomeni ha effetti diversi a seconda del gruppo sociale da cui lo si osserva. Per i lavoratori dipendenti l'inflazione è negativa solo se non esistono meccanismi di adeguamento automatico dei salari all'aumento del costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”); è invece tendenzialmente neutra negli altri casi. Per coloro che sono indebitati l'inflazione è un aiuto: al momento della restituzione del prestito il valore del debito in termini reali risulterà infatti diminuito.
La cronaca del 1979 registrò una seconda crisi petrolifera con dinamiche molto simili a quella
del 1973-'74: un forte aumento del prezzo del petrolio dovuto a un evento politico nell'area
asiatica (in quest'occasione si trattò dell'avvento al potere di Khomeyni in Iran e della
successiva guerra con l'Iraq di Saddam Hussein; entrambi gli avvenimenti determinarono un
brusco calo della produzione di petrolio). Anche in questo caso l'aumento dei prezzi del
greggio si tradusse in una forte inflazione, diffusa in tutto il mondo occidentale. Alla fine
degli anni '70 la situazione economica del cosiddetto Primo mondo aveva quindi accumulato
diversi elementi critici da un punto di vista capitalistico: crisi di sovrapproduzione, crescita
dei salari/calo dei profitti, incertezza nei valori delle monete, inflazione.
Nell'arco di un triennio (1979-'82) le risposte di politica economica a questo stato di cose,
provenienti dal mondo anglosassone e diffuse poi in tutto l'Occidente, modificarono
profondamente gli orientamenti economici planetari: è ormai indubbio che in quel periodo si
passò dal keynesismo del “trentennio glorioso”, al declino dello Stato come regista e attore
dello sviluppo economico (complice anche l'avvento al potere di due politici fautori della
primazia del privato, Margareth Tatcher nel Regno Unito dal 1979 e Ronald Reagan negli
USA dal 1980)
8:la crisi delle economie e degli Stati giunse a un punto talmente critico tale da
far pensare a un esaurimento dell'efficacia stessa degli strumenti e delle risorse keynesiane per
il governo delle economie. Per questo il monetarismo, affermandosi solo sul finire degli anni
'70, sostenne l'impossibilità delle economie keynesiane di gestire ulteriormente la crisi e di
dettare nuove condizioni per la ripresa delle economie: il nuovo cambiamento nella politica
economica mise al centro delle responsabilità delle Banche centrali, la lotta all'inflazione, e a
8) Tra i tanti segnali di questo cambio di paradigma, due ebbero un impatto tale da segnare profondamente anche i decenni successivi. Dal primato del lavoro si passò inevitabilmente al primato della lotta all'inflazione. Come già accennato, l'inflazione danneggiando in particolare il detentore di un credito, e essendo questo principalmente il sistema bancario nel suo complesso, fu mosso un attacco senza precedenti all'aumento dei prezzi dal più importante fra i suoi rappresentanti, ossia il governatore della Banca centrale statunitense Paul Volcker. Nel giro di poco tempo Volcker, appena assunto nell'agosto 1979 al ruolo più importante nella politica monetaria mondiale, ridusse bruscamente la quantità di banconote in circolazione per operare un raffreddamento dell'attività economica e dell'inflazione. Il piano diede i suoi frutti, ma le conseguenze di medio e lungo periodo furono pesanti: la riduzione dell'inflazione e del denaro circolante determinò una diminuzione delle attività industriali e dei posti di lavoro, nonché l'inizio di un lungo processo di perdita di valore dei salari (spiegabile attraverso la dinamica del mercato del lavoro: la scarsità di posti disponibili, aveva indotto i lavoratori ad accontentarsi di paghe e condizioni meno vantaggiose).
Il secondo segnale di un cambiamento economico duraturo si ebbe con la deregolamentazione dei movimenti dei capitali: fino alla fine degli anni '70 i capitali bancari e finanziari di un Paese ebbero grossi vincoli nel trasferimento verso altri lidi. Nella nuova situazione di crisi questi impedimenti furono giudicati eccessivi e le leggi che limitavano il movimento internazionale dei capitali furono abolite, a cominciare dagli USA. Il principio che informava le nuove disposizioni era la necessità di rendere più “liquidi” i capitali, ossia più facilmente in grado di arrivare laddove vi fossero occasioni di profitto. Nel tempo tuttavia la deregolamentazione si rivelò un'arma potentissima nelle mani di chi muoveva capitali non per aprire nuove attività produttive in luoghi differenti, ma per operare in un'ottica speculativa di breve e brevissimo periodo, muovendo freneticamente grosse cifre laddove vi fosse l'occasione di spuntare guadagni immediati e ritirandole subito dopo.
partire dagli anni '80 si assistì ad un arretramento dell'intervento dello Stato nell'economia
attraverso processi di deregulation e privatizzazioni di imprese pubbliche
9.
2.2
La teoria economica del fondatore del pensiero monetarista: Milton Friedman
Nei primi anni '70 si affermò soprattutto ad opera di Milton Friedman, economista
dell'Università di Chicago, un'impostazione di teoria e politica economica che per l'attenzione
rivolta ai fenomeni monetari, e in particolare al rapporto tra la quantità di moneta e reddito, ai
prezzi, alla produzione e all'occupazione, fu chiamata monetarismo: rappresentava di fatto, il
tentativo più agguerrito di costruire la teoria macroeconomica sulla base dell'equilibrio
economico walrasiano, che come ben possiamo ricordare, era difficilmente riconducibile alla
teoria keynesiana. Il monetarismo rappresentò la principale alternativa critica alla dominante
teoria di determinazione del reddito d'ispirazione keynesiana e nel corso del tempo, la critica
alle interpretazioni del pensiero di J. M. Keynes si sviluppò su diversi fronti: in un periodo
iniziale (gli anni Cinquanta e Sessanta), oggetto principale di critica fu il ruolo di secondo
piano attribuito alla moneta nella spiegazione delle fluttuazioni nell'attività economica; fu
proposta quindi, una revisione della teoria quantitativa della moneta, modificando alcune
convinzioni che avevano guidato fino ad allora le politiche di governo. In particolare, si andò
a ristabilire la fiducia nell'operare dell'economia di mercato; si assegnò una più elevata
priorità all'obiettivo della stabilità dei prezzi, finendo per attribuire all'intervento pubblico e
alle autorità monetarie la responsabilità del processo inflazionistico. In una seconda fase, dalla
fine degli anni '60, la critica si estese all'interpretazione della curva di Philips e se ne propose
una nuova formulazione, in contrapposizione a quella keynesiana, rivolta a spiegare il
fenomeno inflazionistico postulando l'inefficacia dell'azione di politica fiscale
10.
9) Il governo della Gran Bretagna, verso la fine degli anni '70 e i primi anni '80, con l'ascesa politica di Margaret Thatcher, in effetti abbattè le spese pubbliche, mentre negli Stati Uniti durante il primo mandato di Ronald Reagan queste aumentarono del 4,22% all'anno, a causa dell'aumento della spesa militare. Nel breve termine, la disoccupazione, in entrambi i paesi rimase ostinatamente alta mentre le Banche centrali alzavano i tassi di interesse per restringere il credito. Le politiche di entrambe le banche in compenso abbassarono drasticamente il tasso di inflazione: negli Stati Uniti ad esempio cadde dal 14% nel 1950 a circa il 3% nel 1983. Questo permise la ri-liberalizzazione del credito e la riduzione nei tassi di interesse, cosa che spianò la strada al successivo boom dell'inflazione alla fine degli anni '80. Per approfondimenti: Congdon Tim, Keynes, the Keynesians and
Monetarism, ch. 7,11, Edward Elgar, 2007.
La prima critica monetarista
Per indebolire la posizione di dominio che i keynesiani avevano in politica economica, i
monetaristi cercarono di contrastare il consenso che dilagava tra gli esperti e tra le autorità di
politica economica sulla necessità di attribuire un ruolo prioritario alla lotta alla
disoccupazione. Essi avrebbero dovuto mostrare come l’inflazione fosse un male peggiore
della disoccupazione
11. A tal fine, Milton Friedman cercò di dimostrare come le politiche
monetarie discrezionali proposte da Keynes, invece di stabilizzare il ciclo economico,
avessero rafforzato quegli elementi che erano in grado di portare l’economia alla sua
destabilizzazione, poichè non percepivano l’esistenza del problema inflazionistico in quanto i
loro modelli assumevano dato il livello generale dei prezzi e quindi trascuravano gli effetti
persistenti dell’inflazione.
Friedman partì con il capovolgere l'interpretazione della classica teoria quantitativa,
abbandonando il legame fra produzione, moneta e livello dei prezzi e assumendo invece la
teoria quantitativa come teoria della domanda di moneta
12e quindi come teoria della
determinazione del reddito nominale. Se per J. M. Keynes, la moneta risultava influenzata
dalla propensione alla liquidità (e di seguito dal tasso d'interesse), per l'economista
dell'Università di Chicago, la moneta non era un semplice mezzo di scambio ma contava in
quanto attività patrimoniale detenuta da quelle unità del sistema economico, a titolo di
ricchezza propria e in quanto bene capitale necessario per la produzione dei beni stessi di un
impresa: risultava dunque essere un argomento speciale della teoria del capitale così come
Keynes introdusse le sue determinate caratteristiche all'interno dei beni capitali. La prima
differenza con Keynes emerse dalla definizione del tasso d'interesse
13, ma ancor più
significativa e scostante risultò essere l'analisi delle cinque forme secondo cui la ricchezza a
titolo proprio poteva essere detenuta; le componenti che formavano la funzione di domanda
risultavano simili all'impostazione data da Keynes
14, ma la divergenza era che, una volta
11) I monetaristi riservarono particolare attenzione al problema dell’inflazione e all’obiettivo del reddito a livello
naturale. L’inflazione, nella loro concezione, provocava la perdita di reddito e produzione e in particolare le
seguenti conseguenze negative: aumentava l’incertezza (rinnovi contrattuali), distorceva i segnali di prezzo e pertanto alterava le risposte degli agenti, riduceva i servizi resi dalla liquidità deviando le risorse alle attività finanziarie, non poteva essere fronteggiata con processi di indicizzazione.
12) Friedman Milton, Metodo, consumo e moneta, p. 215, Il Mulino, 1996.
13) Friedman, lo definì come il rapporto tra lo stock di ricchezza totale e il flusso totale di redditi, allontanandosi dall'interpretazione keynesiana di “premio per l'abbandono della liquidità”.
14) Friedman Milton, Metodo, consumo e moneta, p.217, Il Mulino, 1996. Friedman sottolineò come la ricchezza potesse essere tenuta sotto forma di moneta, obbligazioni, azioni, beni fisici e capitale umano. Ognuna di queste forme aveva un proprio rendimento: per la prima era il livello dei prezzi (tanto più risultava elevato, e tanto meno si sarebbe detenuto moneta poiché arrivava a costare troppo), per la seconda era la cedola riscossa alla scadenza del titolo di debito (o la variazione del prezzo qualora lo si vendesse prima della naturale scadenza). Con riferimento all'azione, essa veniva trattata come un'obbligazione con una clausola tipo “scala mobile” che ne avrebbe garantito la costanza in termini di potere d'acquisto: era possibile ottenere dunque un
ottenuta la funzione di domanda, formata dai redditi associati alle varie forme di ricchezza, vi
si aggiungeva una funzione di utilità
15senza sentire il bisogno di distinguere le motivazioni
della detenzione di moneta, poichè l'obiettivo era determinare quelle quantità di equilibrio che
massimizzassero l'utilità dei singoli consumatori (e imprese)
16.
La suddetta funzione di domanda di moneta risultava stabile agli occhi di Friedman: in base
all'evidenza empirica, i gusti dei consumatori risultavano non cambiare con il passare del
tempo, a meno che si trovassero di fronte a circostanze oggettive o se soggetti a insolite
incertezze
17. In base a queste nuove ipotesi, Friedman arrivò alla conclusione che il principale
fattore di instabilità fosse l'offerta di moneta, soggetta alle discrezioni del governo
dell'economia
18e dunque non in grado di essere influenzata dalle determinanti della domanda
di moneta. L'effetto congiunto di queste due ipotesi, determinava un legame causale tra
l'offerta di moneta e il reddito nominale: variazioni della quantità di moneta in circolazione,
decise dalle autorità monetarie, avrebbero determinato, secondo una relazione stabile e perciò
prevedibile, variazioni del reddito nominale. L'effetto sul reddito di un impulso monetario
però si sarebbe manifestato nel tempo con ritardi ''lunghi e variabili'', ecco che i monetaristi
riposero una maggior fiducia nelle proposizioni teoriche riguardanti il lungo periodo. Si
dimostrò inoltre, come il tasso di variazione dei prezzi, ossia il tasso d'inflazione, risultasse
pari alla differenza tra il tasso di crescita dell'offerta di moneta e il tasso di crescita della
domanda di moneta
19, e non causata dall'aumento dei costi, in particolare dei salari, così come
lo era per Keynes: nel breve periodo, se il primo fattore si fosse dimostrato maggiore del
flusso perpetuo di reddito costante. Infine, per i beni fisici, era possibile ottenere un flusso annuale non in moneta, ma in natura, dipendente comunque dal livello dei prezzi come per azioni e obbligazioni; per il capitale umano, non avendo un mercato perfetto, non era possibile usare il prezzo di mercato come usato negli altri casi, ma bensì si andava a definire il rapporto di sostituzione tra capitale umano e le altre forme di capitale, assumendo il salario come espressione di questo stesso rapporto, e non in valore assoluto.
15) Keynes non aveva mai parlato di massimizzare l'utilità dei singoli agenti economici: se di fatto si era circondati da incertezza strutturale, la decisione d'investimento non risultava essere determinata dalla massimizzazione del reddito prospettico poiché ciò risultava impossibile dato che gli stati del mondo risultavano non parametrizzabili a priori.
16) Adottando l'ipotesi di Friedman, secondo la quale una variazione del reddito nominale avrebbe comportato una variazione proporzionale della quantità desiderata di moneta da parte dell'economia, era possibile esprimere la funzione di domanda di moneta in forma semplificata come M=f (y, rb, re, π, w)Y, dove rb ed re denotavano il tasso reale atteso di rendimento rispettivamente sui titoli a reddito fisso e sulle azioni, π era il tasso atteso d'inflazione, w lo stock di ricchezza dell'economia e Y era il reddito nazionale in termini nominali. La riformulazione monetarista della teoria quantitativa si notava più chiaramente se si riesprimeva la funzione di domanda di moneta come Y=V(y, rb, re, π, w)M. La velocità di circolazione della moneta venendo a dipendere da una serie di variabili che influenzavano le scelte di portafoglio degli agenti economici, risultava l'aspetto essenziale della riformulazione monetarista della classica equazione degli scambi richiamata sopra. Per approfondimenti: http://www.treccani.it/enciclopedia/monetarismo_(Enciclopedia-Italiana)/ .
17) Friedman in ogni caso parlava di qualcosa più o meno parametrizzabile, ecco che era più il concetto di rischio piuttosto che quello di incertezza, che emergeva dall'analisi monetarista.
18) Chick V., On Money, Method and Keynes, Selected Essays, ch. 6 p. 101, Palgrave Macmillan UK, 1992. 19) Congdon Tim, Keynes, the Keynesians and Monetarism, ch. 6 p. 135, Edward Elgar, 2007.
secondo, sarebbe risultato inevitabile un aumento generale del livello dei prezzi in quanto
nessuno sarebbe stato disposto a tenere un eccesso di moneta inutilizzato ma bensì si sarebbe
distribuito per l'acquisto di attività finanziarie e di beni reali
20. Allo stesso modo, in caso di
un insufficiente offerta da parte della Banca Centrale, gli attori economici avrebbero ridotto i
loro consumi e conseguentemente la deflazione si sarebbe abbattuta sul sistema economico; la
moneta non poteva che risultare quindi fondamentale nell'influenzare la domanda e i consumi
a livello aggregato, ma non avrebbe avuto alcun potere sullo stimolare le variabili reali quali
produzione e occupazione. L'inflazione era dunque, un fenomeno non solo monetario
21, ma
era in grado di prodursi in conseguenza del comportamento delle autorità monetarie: essendo
un fenomeno controllabile dalle Banche Centrali, esse avrebbero dovuto mantenere l'offerta di
moneta al suo valore di equilibrio, determinato sulla base della crescita della produttività e
dalla domanda, e sopratutto, ogni aumento sarebbe dovuto essere comunicato agli operatori
evitando così che questi ultimi, potessero formulare aspettative
22negative sul futuro
dell'economia. Friedman sostenne come le fluttuazioni economiche che era possibile
osservare (l’inflazione, le crisi..) fossero proprio la conseguenza del tentativo dello Stato di
influenzare l’attività economica seguendo i principi keynesiani: se lo Stato si fosse astenuto
completamente dal tentare di influenzare la vita economica si sarebbe assistito invece ad uno
sviluppo del sistema economico che non avrebbe avuto né sussulti, né strappi, quali noi
conosciamo.
20) E' utile ricordare la concezione keynesiana per cui, la moneta sarebbe un semplice sostituto di attività finanziarie (azioni o obbligazioni) e un'immissione di moneta nell'economia, comportando una diminuzione del tasso d'interesse sui titoli a reddito fisso, avrebbe determinato un aumento della domanda di moneta per fini
''speculativi'' (con relativo aumento del corso azionario e riduzione del loro tasso di rendimento) fino a ristabilire
l'uguaglianza di equilibrio fra domanda e offerta di moneta (salvo cadere nella trappola della liquidità). La diminuzione del tasso d'interesse avrebbe stimolato gli investimenti privati, generando effetti moltiplicativi su reddito, consumo e occupazione, senza mutamenti nel livello generale dei prezzi. Variazioni del tasso d'interesse su attività finanziarie direttamente sostituibili alla moneta, costituivano quindi il canale keynesiano di trasmissione di un impulso monetario al settore reale dell'economia, e la moneta avrebbe di fatto agito nel sistema economico solo indirettamente per via della variazione dei tassi d'interesse. Su un interpretazione del tutto opposta era basata invece la concezione monetarista, dove la trasmissione degli impulsi monetari sull'economia reale sarebbe avvenuta attraverso meccanismi diretti; quanto ai tassi d'interesse, solo in un primo momento sarebbero potuti calare, perchè poi sarebbero stati tirati di nuovo su dal tasso d'inflazione. Sia per questo motivo, sia per il fatto che la nuova moneta in possesso dagli operatori, veniva in parte spesa su attività finanziarie in modo non omogeneo, ma a seconda della congiuntura del mercato finanziario, l'azione sui tassi d'interesse per i monetaristi, rimaneva incerta.
21) In Friedman e Schwartz, A monetary history of the United States, 1867-1960, 1963, le variazioni monetarie nel periodo furono interpretate come la causa e non la conseguenza delle maggiori recessioni economiche: ad esempio, ritenevano come la Grande depressione del 1930 fosse stata causata da una massiccia contrazione dell'offerta di moneta e non dalla mancanza di investimenti, come invece Keynes riteneva. Dall'altra parte, si affermava che l'inflazione del dopoguerra fosse stata causata da una eccessiva espansione dell'offerta di moneta: per questo, fu coniato il famoso motto monetarista l'inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario. 22) Il concetto di aspettative in Friedman era totalmente opposto da quello sostenuto da Keynes: essendo gli individui perfettamente razionali, le aspettative erano a loro volta adattive.
Alla base dello schema monetarista c’era l’idea che esistesse uno stato naturale
dell’economia, che fu identificato con la configurazione di equilibrio economico della teoria
walrsiana tradizionale: in questa posizione, di lungo periodo, tutti i mercati erano in equilibrio
e pertanto tutte le variabili reali si trovavano al loro livello naturale
23. In particolare, il
mercato del lavoro risultava in equilibrio sulla base di fattori reali (quale è il prezzo relativo
della forza lavoro, cioè il salario reale, e non dal livello assoluto dei prezzi) e pertanto anche
l'occupazione si sarebbe trovata al suo livello naturale, ovvero in una posizione di piena
occupazione. Questa condizione, rappresentava il risultato delle scelte liberamente compiute
dai singoli soggetti economici in un regime di concorrenza perfetta, sulla base unicamente dei
prezzi relativi, in modo del tutto indipendente dai prezzi assoluti e quindi, da quanto accadeva
sul mercato della moneta: se un sistema capitalistico non possedesse elementi contrari alla
concorrenza (come per esempio la rigidità dei salari monetari, la presenza di elementi
monopolistici ecc.) allora la libera concorrenza instaurerebbe sempre la piena occupazione.
Coerentemente con l'impostazione walrasiana, ma in contrasto con il pensiero keynesiano, si
affermò come, qualora, a causa di disturbi esterni ad essa, l'economia si fosse allontanata dal
suo stato naturale, necessariamente e automaticamente vi sarebbe ritornata in base alla sua
dinamica interna e alle forze di mercato (di domanda e offerta), anche se il processo di
riequilibrio avrebbe potuto richiedere molto tempo. Da questa concezione si sviluppò il
concetto di tasso naturale di disoccupazione, che, sotto un profilo empirico, rappresentava il
livello di disoccupazione fisiologico di quando l’economia manifestava il suo livello di pieno
impiego
24.
L'ulteriore novità che venne introdotta da questo modello, fu il riferirsi in modo esplicito nella
nozione di equilibrio, alle aspettative: per Friedman, l'equilibrio naturale di lungo periodo era
quello stato dell'economia in cui le aspettative di tutti i soggetti economici risultavano
pienamente realizzate, tuttavia era possibile nel breve periodo il verificarsi di fluttuazioni
cicliche intorno alla posizione di equilibrio di lungo periodo. E la ragione di ciò risiedeva,
secondo i monetaristi, nella possibile differenza tra grandezze economiche effettive e
23) Napoleoni, Ronchetti, Il pensiero economico del Novecento, cap. XVI, Torino, Einaudi, 1990. E' utile notare, come sposando perfettamente la teoria classica, per i monetaristi il mercato del lavoro, domanda e offerta, erano portati all'equilibrio grazie al salario reale, da cui ne discendeva il livello di produzione ottimale. Il tasso d'interesse invece, determinato sul mercato dei capitali, portava in equilibrio il livello di risparmi e di investimenti; la moneta, infine, influenzava il livello generale dei prezzi, ma non i prezzi relativi (quale ad esempio il salario reale). Al contrario, per la teoria keynesiana, il tasso d'interesse non contribuiva a nessun equilibrio in quanto determinato sul mercato della moneta e i risparmi dipendevano dal reddito mentre gli investimenti dal tasso d'interesse. Sul mercato della moneta, se l'offerta era considerata esogena, la domanda dipendeva sia dal reddito (motivo transazionale) che dal tasso d'interesse (motivo speculativo).
24) In Friedman, Metodo, consumo e moneta, p.271, Il Mulino, 1996, lo definì come “quel livello di disoccupazione che sarebbe stato prodotto dal sistema di equazioni dell'equilibrio economico generale”.
grandezze economiche attese (previste) : ebbene, era proprio a questa possibile differenza da
ricondursi la spiegazione dell'origine e del permanere delle fluttuazioni economiche (di breve
periodo) intorno alla posizione di equilibrio (di lungo periodo). In particolare, qualora i
soggetti economici avessero previsto livelli dei prezzi assoluti
25più alti di quelli che in realtà
si sarebbero verificati, si sarebbe avuta una contrazione dell'attività economica, e pertanto un
livello effettivo di disoccupazione superiore a quello definito dal tasso naturale. Ecco che, la
produzione e l'occupazione avrebbero potuto discostarsi dal loro livello naturale se, e soltanto
se, le aspettative fossero risultate errate
26. Dall'altra parte, ciò si sarebbe potuto verificare
soltanto nel breve periodo, poiché nel lungo periodo, i soggetti economici, esseri razionali e
capaci di apprendere, si sarebbero accorti degli errori commessi nel formulare le loro
aspettative e pertanto le avrebbero corrette, finché queste non fossero risultate identiche ai
valori effettivi delle grandezze economiche. Il punto fondamentale che Friedman, e quindi il
monetarismo, volle sottolineare era che in un economia di mercato gli agenti, anche se
decidono esclusivamente sulla base dei prezzi relativi, riceveranno comunque dal mercato le
informazioni sui prezzi nella loro forma più immediata ossia quella monetaria (prezzi
assoluti): proprio in questo stava la possibilità di quegli errori nelle aspettative sui prezzi a cui
l'economista riconduceva gli squilibri economici. Infatti, qualora le variazioni dei prezzi
monetari risultassero inattese, cogliendo di sorpresa i soggetti, questi non sarebbero più in
grado di calcolare correttamente i prezzi relativi e quindi, indotti a compiere scelte sbagliate,
avrebbero provocato quelle famose deviazioni del sistema economico dalla posizione di
equilibrio naturale.
Dunque, sì per i monetaristi, come per la teoria walrasiana, le uniche informazioni rilevanti
erano soltanto quelle che riguardavano i prezzi relativi, ma se ne discostavano facendo venir
meno l'ipotesi essenziale di informazione perfetta e completa: gli agenti economici, non
ricevendo direttamente le informazioni corrette sui prezzi relativi di equilibrio, ma bensì
reperendo le loro informazioni nella forma di prezzi monetari, avrebbero potuto non riuscire a
calcolare correttamente i prezzi relativi così da concretizzarsi la possibilità di errori. Facendo
valere l'ipotesi di aspettative adattive, i soggetti economici avrebbero finito prima o poi per
rivedere le loro aspettative e imparando dagli errori commessi, avrebbero potuto convergere
nuovamente verso l'equilibrio di lungo periodo.
25) Ad esempio a seguito di un imprevisto aumento dell'offerta di moneta, che superi la domanda effettiva. 26) Napoleoni, Ronchetti, Il pensiero economico del Novecento, cap. XVI p.282, Torino, Einaudi, 1990.
La seconda critica monetarista
La direzione dell’attacco monetarista contro la politica fiscale attiva dei keynesiani cambiò
alla fine degli anni ‘60, rivolgendosi esplicitamente a minare le basi della curva di Phillips: la
spiegazione keynesiana
27della possibilità di tassi di disoccupazione non decrescenti al
crescere delle pressioni inflazionistiche venne rifiutata dall’approccio monetarista che postulò
invece l’inefficacia e l’indesiderabilità di politiche di intervento pubblico. Nel 1958, la
proposizione dettata da Phillips secondo cui esisteva una relazione inversa tra tasso di
disoccupazione e tasso di inflazione
28, risultava a detta di Friedman del tutto fallace
29. In
primo luogo infatti, non era affatto legittimo mettere in relazione diretta una variabile
monetaria, quali i prezzi monetari, con una variabile reale, la disoccupazione, in quanto, si
notava come il sistema economico convergesse verso un tasso naturale di disoccupazione
compatibile con le forze reali del sistema economico e con l’accuratezza delle previsioni dei
soggetti economici: la politica monetaria e l'intervento pubblico in generale, non si
dimostravano in grado di ridurre il livello di disoccupazione naturale, a meno che ciò
avvenisse nel breve periodo. Supponendo, infatti, di partire da una situazione di equilibrio, in
cui cioè la produzione, l'occupazione, e pertanto la disoccupazione risultavano ai loro livelli
naturali, così come il livello generale dei prezzi si mostrava stabile (ossia senza inflazione), le
autorità di politica monetaria, intendendo ridurre la disoccupazione al di sotto del tasso
naturale, avrebbero potuto aumentare l'offerta di moneta, provocando così un aumento
27) I risultati di Phillips risultavano del tutto coerenticon la teoria keynesiana, per la quale ad un’alta inflazione faceva riscontro una bassa disoccupazione e viceversa. Infatti, secondo John Maynard Keynes, la piena occupazione, quindi il maggior reddito disponibile per essere speso, aumentava la domanda aggregata nei confronti di un sistema produttivo non sempre capace di rispondere con una offerta adeguata, con la conseguenza che i prezzi dei beni, in quantità rarefatta, almeno fino a che la produzione non sarebbe riuscita a portarsi su livelli idonei alla domanda, sarebbero saliti inducendo quindi inflazione, ossia, tecnicamente, un aumento incontrollato dei prezzi, per eccesso, in tal caso, di domanda. Tuttavia negli anni ’70, suddetto sistema sembrò crollare sotto la spinta dell’inedito fenomeno che all’epoca fu chiamato “stagflazione”. Si trattava della contemporanea presenza, che si registrò in quel decennio, di un’alta inflazione congiunta ad un’alta disoccupazione. Le classiche ricette politiche keynesiane, deficit spending ed aumento dei salari, non sembravano più sortire gli effetti teorizzati da Keynes per riassorbire la disoccupazione. A fronte di questa, apparente, incapacità della teoria keynesiana nello spiegare il nuovo fenomeno della stagflazione tornò a riprendere quota, sia nelle aule accademiche sia nelle stanze del potere politico, la teoria classica, ossia liberista, riveduta, in senso monetarista, da Milton Friedman. La responsabilità della stagflazione era da ricercarsi nell’eccessiva presenza dello Stato nell’economia. Una eccessiva presenza che aveva finito per scoraggiare la responsabilità individuale e lo spirito imprenditoriale e fatto fuggire gli investimenti proprio per il disincentivo a produrre causato dall’alta inflazione. Da qui, poi, quale conseguenza, l’alta disoccupazione.
28) Phillips A. W., The relations between unemployment and the rate of change of wage rates in the United
Kingdom, 1861-1957, in Economica, novembre 1958. Secondo tale interpretazione, un'espansione della domanda
aggregata, comportando aumento della produzione e diminuzione della disoccupazione, avrebbe determinato tensioni sul mercato del lavoro che si sarebbero tradotte in un aumento del livello dei salari nominali e, conseguentemente, dei prezzi dei prodotti. La risultante relazione inversa fra disoccupazione e inflazione, ritenuta stabile anche nel lungo periodo, permetterebbe ai responsabili della politica economica di scegliere la combinazione desiderata delle due variabili, ossia avrebbero dovuto stabilire quale livello di inflazione si era disposti ad accettare in cambio di una maggiore utilizzazione delle risorse.
inatteso della domanda aggregata
30e conseguentemente della produzione e dell'occupazione,
provocando anche una pressione verso l'alto sui prezzi (monetari) dei prodotti e sui salari
(monetari). Fin qui, l'argomentazione risultava del tutto keynesiana: se ne distinse laddove si
introdusse esplicitamente il ruolo delle aspettative e formulando l'ipotesi, tratta
dall'osservazione empirica, che i prezzi dei prodotti sarebbero cresciuti più velocemente dei
salari. Nasceva a questo punto un asimmetria informativa tra imprese e lavoratori: il salario
reale (dato dal rapporto tra il salario monetario pagato dalle imprese e il prezzo del prodotto)
sarebbe risultato infatti diminuito e questo avrebbe indotto le imprese ad aumentare la loro
domanda di lavoro; i lavoratori d'altra parte, osservando l'aumento del loro salario monetario e
non accorgendosi che anche il livello generale dei prezzi era aumentato, sarebbero stati indotti
a interpretare l'aumento del loro salario monetario, come un aumento del loro salario reale, e
pertanto ad aumentare la loro offerta di lavoro
31. A fronte di questo, la disoccupazione si
sarebbe ridotta , ma essendo questo risultato dipeso da un asimmetria di percezione da parte
dei soggetti lavoratori, l'effetto sarebbe stato solo temporaneo: infatti, continuando l'aumento
della domanda aggregata e dei prezzi, i soggetti economici avrebbero corretto prima o poi le
loro percezioni dei prezzi, e conseguentemente il loro salario monetario. Questo processo
sarebbe andato avanti fino a che non si fosse ritornati al precedente (superiore) livello del
salario reale, a cui sarebbe corrisposto il tasso naturale di disoccupazione e i precedenti
(inferiori) livelli di occupazione e di produzione. L'unico risultato permanente della politica
monetaria espansiva sarebbe stato quello di aver generato inflazione poiché il sistema
economico si sarebbe ritrovato esattamente nella stessa posizione di equilibrio da cui era
partito
32.
Se la tradizione keynesiana rivolgeva tutta la sua attenzione al lato della domanda aggregata, e
mostrava come sue variazioni influenzassero i livelli produttivi e occupazionali, Friedman
mise in discussione la validità di questo risultato, poiché secondo la sua concezione, una
variazione della domanda aggregata (nominale) avrebbe avuto effetti soltanto sui prezzi
30) L'aumento dell'offerta di moneta avrebbe da una parte stimolato la domanda di investimenti attraverso l'aumento del saggio d'interesse, ma anche dei consumi aumentando le disponibilità monetarie dei singoli soggetti.
31) Di fatto, era come se gli agenti del sistema vivessero in una sorta di illusione monetaria nel breve periodo; in questo lasso di tempo temporaneo la moneta non risulterebbe neutrale, in quanto comporterebbe degli spostamenti delle variabili reali rispetto al tasso naturale, qualora variazioni inattese della domanda aggregata provocassero un errore di percezione sui prezzi da parte degli individui. Nel lungo periodo, invece la moneta sarebbe tornata a essere neutrale, per i monetaristi (che fanno propria una delle tesi classiche), in quanto i soggetti avrebbero deciso esclusivamente sulla base degli effettivi prezzi relativi, valendo la condizione classica di assenza di illusione monetaria. Si veda a riguardo: Cate Thomas, An encyclopedia of keynesian economics, p. 433, Edward Elgar, seconda edizione, 2013.
assoluti e questi conseguentemente non avrebbero avuto alcun effetto (permanente)
sull'offerta aggregata (ossia la produzione), quindi la variazione non avrebbe potuto
determinare una modifica (permanente) delle variabili reali. La conclusione di Friedman era
che l'ipotesi del tasso naturale
33avrebbe comportato, nel lungo periodo, l'inesistenza di uno
stabile trade-off tra inflazione e disoccupazione: una riduzione di quest'ultima poteva essere
mantenuta soltanto al costo di un inflazione in continua accelerazione poiché in questo caso, i
soggetti economici avrebbero continuato a interpretare in modo sbagliato l'effettivo livello dei
prezzi. L'alternativa migliore risultava quindi, quella di accontentarsi del livello del NAIRU o
agire sulle variabili reali, da cui esso effettivamente dipendeva, e sul migliorare la struttura e
il funzionamento del mercato del lavoro, piuttosto che cercare di agire sul lato della domanda
aggregata.
Nella sua analisi, Friedman sottolineò un altro limite della politica monetaria: essa non
avrebbe potuto stabilizzare il tasso d'interesse, salvo per periodi limitati
34. Se la Banca
centrale avesse avuto come obiettivo la riduzione del saggio d'interesse, sarebbe andata a
comprare titoli sul mercato (aumentando la liquidità nel sistema) e si sarebbe verificato da un
lato l'aumento del prezzo dei titoli stessi e dall'altro un calo del rendimento ossia del loro tasso
d'interesse, con un conseguente aumento delle riserve bancarie e del credito verso i vari
soggetti economici che avrebbero incrementato il livello di spesa. Per Friedman, questo
sarebbe stato solo l'effetto iniziale, perchè nel lungo periodo si avrebbero avuto degli effetti
che cumulativamente e autonomamente, avrebbero riportato in alto il tasso d'interesse.
L'aumento della spesa, con il passare del tempo, avrebbe comportato un aumento dei redditi,
il quale a sua volta avrebbe implicato due effetti concomitanti: l'aumento della domanda di
prestiti e l'aumento della propensione al risparmio. Entrambi, sarebbero stati la causa di un
nuovo innalzamento del livello d'interesse poiché se da un lato la banca, di fronte alla forte
richiesta di credito, avrebbe dato meno credito, avendo meno riserve, a condizioni più
svantaggiose, dall'altro, la tendenza a un maggior risparmio, avrebbe determinato un aumento
generale dei prezzi, che una volta inglobato nelle previsioni degli operatori, avrebbe
contribuito a innalzare il saggio d'interesse (effetto Fisher
35). Alla fine del periodo, gli
33) Friedman denominò il tasso naturale di disoccupazione, in corrispondenza del quale l'economia si trovava in equilibrio, NAIRU, ossia quel livello di disoccupazione al quale l'inflazione non risultava nè accelerata né decelerata.
34) Friedman Milton, Metodo, consumo e moneta, ch. 5, Il Mulino, 1996.
35) Per approfondimenti: Fisher I., Appreciation and Interest, Publications of The American Economic Association, 1896, Vol. XI, No. 4, p. 331-442 ; Fisher, The Rate of Interest, New York, 1907; Fisher, The Theory
operatori, si sarebbero ritrovati con lo stesso livello di reddito, ma con un tasso d'inflazione e
d'interesse più elevato, rispetto alla situazione iniziale. Qualora la Banca Centrale, avesse
voluto continuare a cercare di ridurre il tasso d'interesse, avrebbe ricalcato lo stesso
procedimento, con la differenza che via via l'inflazione sarebbe risultata sempre più accelerata
poichè il meccanismo sarebbe stato inglobato nelle aspettative degli agenti economici. La
deflazione, in questo contesto, risultava la soluzione migliore per ridurre il tasso d'interesse,
poiché la riduzione dei prezzi avrebbe determinato redditi prospettici sempre più bassi tali da
non stimolare il livello di investimenti e conseguentemente avrebbe fatto diminuire il livello
del saggio d'interesse.
Il ruolo della politica monetaria e della politica fiscale
I monetaristi non perdevano occasione per sottolineare il ruolo che lo Stato avrebbe dovuto
avere all'interno di un certo sistema economico; se in un primo
momento prevedevano
dovesse avere un’unica funzione, ossia quella di battere moneta in maniera proporzionale al
tasso di sviluppo dell’economia, successivamente la scuola monetarista limitò ulteriormente il
suo ruolo, sostenendo che questo non avrebbe dovuto far altro che chiudere in attivo il proprio
bilancio preventivo. Secondo tale visione lo Stato non sarebbe dovuto entrare nei problemi dei
suoi cittadini e influenzare la vita economica del sistema perchè avrebbe potuto provocare più
danni che benefici: i disoccupati non dovevano essere sostenuti e così i poveri perché
“l’essere umano è dotato di una razionalità perfetta che lo guida nelle scelte economiche”, e
il risultato di un processo economico su scala nazionale derivava dalla media dei risultati di
ogni singolo operatore economico, anche di quelli che non avessero agito razionalmente,
come i poveri e i disoccupati. Lo Stato non avrebbe dovuto interessarsi alle faccende
economiche, ma solo limitarsi ad abbattere qualsiasi tipo di restrizione alla competizione e al
libero mercato, controllando solo che il Paese, quando si consideri la media dei risultati, eviti
di finire in deficit.
Friedman evidenziò l’alta probabilità che le autorità monetarie avevano, di poter fare errori
nella conduzione discrezionale della politica monetaria: le conoscenze che la scienza
economica offriva alle autorità monetarie, per quanto approfondite, non erano in grado di
limitare il verificarsi di questi errori. Egli osservò che la scienza economica offriva una
conoscenza approssimativa dei tempi di reazione delle variabili economiche agli interventi
discrezionali delle autorità monetarie. La mancanza di informazioni approfondite sui tempi di
queste reazioni aumentava la probabilità che gli interventi delle autorità avessero effetti non
desiderati. Per esempio, una misura espansiva, decisa in un momento di rallentamento del
ciclo, poteva essere dannosa se avesse avuto effetti ritardati quando l’economia fosse uscita
dalla fase depressiva ed entrata in una successiva fase di accelerazione del ciclo economico. Il
secondo argomento critico, evidenziava l’alta probabilità di abusi che si avrebbero potuti
avere quando una società concedeva ampi poteri discrezionali a un individuo o a
un'istituzione. Per Friedman, gli abusi di potere erano frequenti e influenzavano la conduzione
degli interventi del settore pubblico in forma negativa. Inoltre, la probabilità di abusi sarebbe
cresciuta quando maggiore sarebbe stata la concentrazione di potere discrezionale nelle mani
di un individuo o di un’istituzione. Nel caso della politica monetaria questo pericolo era
rilevante perché le decisioni sull’emissione monetaria risultavano cruciali nella vita di una
società
36, ecco che si mostrava come fondamentale attenersi all'applicazione di una regola
fissa.
Friedman sostenne con convinzione che la moneta sarebbe dovuta diventare un elemento
stabilizzante del sistema economico e non il contrario; l'obiettivo che avrebbero dovuto
seguire le autorità monetarie doveva essere quello di garantire la flessibilità dell'offerta di
moneta al fine di creare un percorso di crescita stabile dei prezzi
37. La politica monetaria
avrebbe potuto regolare tre diverse possibili variabili, quali il tasso di cambio, il livello dei
prezzi e la quantità globale di moneta. Il tasso di cambio fu giudicato poco interessante per un
economia poco aperta come quella, per esempio, degli Usa: avrebbero dovuto “legarsi le
mani” quando il commercio estero rappresentava solo una piccola percentuale del loro
reddito; un obiettivo ragionevole allora, sarebbe potuto essere il controllo sui prezzi, ma anche
qui si notò come questo fosse un obiettivo impossibile da raggiungere con precisione a causa
dell'incerta lunghezza del ritardo con cui variazioni della quantità di moneta avrebbero
influenzato il reddito. Rimaneva dunque come obiettivo, il governo dell'offerta di moneta: la
politica monetaria avrebbe dovuto stabilire un percorso di crescita stabile e pubblicamente
dichiarato
38; la crescita della quantità di moneta in circolazione doveva andare di pari passo
con l'aumento del reddito nazionale, tale da ottenere un livello dei prezzi omogeneo che non
subisca inflazione né deflazione. Friedman propose una regola monetaria fissa, chiamata
k-percent rule, secondo la quale l'offerta di moneta sarebbe dovuta essere calcolata sulla base di
36) Friedman chiarì le sue preoccupazioni su questo tema parafrasando un’affermazione di Georges Clemenceau, che fu Primo Ministro in Francia ai tempi della prima guerra mondiale. Clemenceau disse che la guerra era troppo importante perché fosse lasciata alle scelte discrezionali dei generali. Friedman scrisse che “la moneta è
troppo importante perché sia lasciata alle scelte discrezionali dei banchieri centrali”. Si veda a riguardo:
Friedman M., Capitalism and Freedom, p.50, The University of Chicago Press, 1962.
37) Cate Thomas, An encyclopedia of keynesian economics, p. 191, Edward Elgar, seconda edizione, 2013. 38) Congdon Tim, Keynes, the Keynesians and Monetarism, ch. 6 p. 139, Edward Elgar, 2007.
fattori finanziari e macroeconomici conosciuti, avendo come obiettivo uno specifico livello di
inflazione. In questo modo la Banca centrale non avrebbe avuto nessuna libertà d'azione, e gli
imprenditori e attori del mercato finanziario avrebbero potuto conoscere in anticipo tutte le
decisioni di politica monetaria
39.
Un altro importante risultato che i monetaristi ottennero, fu quello di dimostrare come anche
la politica della spesa pubblica (che era per così dire il nocciolo della politica economica
keynesiana) diventasse assolutamente inefficace e distorsiva: qualora i governi avessero
deciso di aumentare la spesa pubblica, finanziandosi tramite l'emissione di titoli pubblici,
temporaneamente si sarebbero potuti anche avere gli effetti keynesiani
40, ma poiché il sistema
tenderebbe già ad arrivare al pieno impiego, questi effetti non avrebbero potuto essere
permanenti: il sistema sarebbe andato oltre le sue possibilità fisiche, e il risultato sarebbe stato
quello di provocare inflazione, ottenendo un risultato esattamente opposto rispetto a quello
voluto: l'aumento del livello dei prezzi avrebbe ridotto la quantità di moneta reale, i tassi di
interesse sarebbero saliti con una conseguente riduzione del livello degli investimento e in
parte, del livello dei consumi.
Quindi in definitiva la spesa pubblica, dato che il sistema si muoveva sempre attorno alla
piena occupazione, non avrebbe prodotto nessun effetto reale ma inefficienza perché un suo
aumento sarebbe andato a sostituirsi all’investimento privato, dimostrandosi
inefficace
rispetto alla possibilità di produrre delle variazioni nel reddito. Friedman, tuttavia, credeva
che la spesa pubblica, finanziata non con la tassazione o con la collocazione di titoli di debito
pubblico ma col deficit di bilancio, coperto da emissione di cartamoneta, potesse avere un
effetto espansivo
41. Ma tali effetti si sarebbero avuti proprio per la maggior moneta in
circolazione, tant'è che allora avremmo potuto agire direttamente sull'allargamento della base
39) Nel tener presenta la teoria quantitativa della moneta originaria, il problema di Friedman risiedeva nello stabilire ex ante il livello del reddito nazionale; essendo questo misurabile solo dopo l'aumento effettivo dell'offerta di moneta, si sarebbe potuto creare un sub ottimo per ovviare al suddetto problema: si sarebbe potuto definire ex ante il livello di crescita di moneta e dei prezzi, tale che fosse risultato omogeneo e pubblico, ipotizzando un 3-5%, al fine di prevedere il nuovo livello di reddito. Se le previsioni fossero risultate errate, e il reddito si fosse mostrato maggiore del previsto, perchè ad esempio il sistema stava attraversando un particolare periodo di innovazione tecnologica, allora si sarebbe dovuto nuovamente aumentare l'offerta di moneta, purchè lo si comunicasse tempestivamente agli agenti economici per evitare che rimanessero spiazzati da fenomeni inflattivi imprevisti.
40) E' doveroso ricordare le misure di politica economica di stampo keynesiano: agire sulla spesa pubblica, significava stimolare gli investimenti e in parte i consumi e quindi, la domanda a livello aggregato, con un conseguente ritorno al livello di pieno impiego.
41) I monetaristi manifestarono una totale sfiducia nell'efficacia di misure di politica fiscale (manovra della spesa pubblica e del livello di tassazione) quando esse non fossero state accompagnate da variazioni dell'offerta di moneta. A parità di quantità di moneta, infatti, un aumento della spesa pubblica effettuato al fine di stimolare la domanda aggregata e il reddito, avrebbe provocato solo un aumento del tasso d'interesse e uno ''spiazzamento'' di investimenti e consumi privati, senza effetti durevoli nella produzione complessiva.
monetaria, senza produrre gli effetti negativi dovuti all'accumulo del deficit pubblico.
2.3 La nuova macroeconomia classica di Robert E. Lucas
Parallelamente, e fino alla metà degli anni Ottanta, nacque e si sviluppò una corrente teorica
che riprese alcuni temi di fondo del monetarismo (in particolare la fiducia nella stabilità del
settore privato dell'economia e l'importanza attribuita alla formazione delle aspettative da
parte degli agenti economici) sviluppandoli però in maniera diversa e giungendo a conclusioni
nuove e più radicali sull'efficacia delle azioni di politica economica. Tale corrente teorica
divenne nota con il nome di nuova macroeconomia classica (e anche, forse più
impropriamente, di neo monetarismo) e fu associata principalmente ai nomi di Robert J.
Barro, Thomas J. Sargent e N. Wallace
42, anche se l'ascesa di questo indirizzo teorico
alternativo avvenne principalmente ad opera di Robert E. Lucas
43. L'obiettivo di Lucas, fu
quello di fondare la macroeconomia sulle basi della teoria classica, opportunamente
modificata in modo da estendere il suo campo di applicazione all'analisi di un'economia
monetaria, sequenziale e in condizioni di informazione imperfetta: avvalendosi del contributo
di Phelps e di Muth, volle superare le insufficienze analitiche esposte nella teoria economica
monetarista di Milton Friedman, e allo stesso tempo dimostrare il radicale fallimento del
pensiero di J. M. Keynes
44.
Innanzitutto, notò come la teoria classica, ossia la teoria walrasiana dell'equilibrio generale,
basata sui postulati di market clearing e di comportamento ottimizzante dei soggetti
economici, fosse una teoria scientificamente rigorosa; tuttavia, non aveva mai saputo dare una
spiegazione soddisfacente del perchè le fluttuazioni dell'occupazione e della produzione
fossero imputabili ai movimenti dei prezzi, a loro volta collegati ai movimenti della moneta
45.
42) E' doveroso ricordare i principali contributi di questi autori; di Sargent T. J sono: Rational Expectations, The
real rate of interest and The natural rate of unemployment, in “Brookings Papers on Economic Activity”, 1973; Rational Expectation and The Teory of Economic Policy (con N. Wallace), in “Journal of monetary economics”,
aprile 1976; Macroeconomic Theory, Academic Press, New York 1979. Tra i contributi di Barro R. J, segnaliamo: Rational Expectations and The role of monetary policy, in “Journal of monetary Economics”, gennaio 1976; Money, Expectation and Business cycles, Academic Press, New York 1981.
43)Cate Thomas, An encyclopedia of keynesian economics, p. 476, Edward Elgar, seconda edizione, 2013. 44) Napoleoni, Ronchetti, Il pensiero economico del Novecento, cap. XVI p. 295, Torino, Einaudi, 1990.
45) Ricordiamo come invece J. M. Keynes avesse saputo dare una risposta a tali fenomeni, negando la validità assoluta dei postulati classici e della tesi della neutralità della moneta: attribuiva infatti, al saggio d'interesse e al
real balance effect, il ruolo di legame essenziale tra il settore monetario e quello reale dell'economia. Per
Lucas voleva spiegare i fenomeni del ciclo economico sulla base dei postulati classici,
utilizzando però due nuovi elementi teorici fondamentali: l'ipotesi di informazione imperfetta
e l'ipotesi di aspettative razionali
46.
In analogia con Friedman, la causa scatenante il ciclo economico, era individuata nei disturbi
monetari, ossia nelle variazioni inattese (non sistematiche) della quantità di moneta
implementata dalle autorità monetarie, la cui principale conseguenza era quella di rendere
difficile la ricezione dei prezzi da parte dei soggetti presenti nel mercato. Però, essendo
l'informazione imperfetta, non solo nel senso che il futuro era ignoto, ma anche che nessun
soggetto era perfettamente informato sullo stato dell'economia, ossia sul livello dei prezzi
correnti né futuri, i soggetti si trovavano di fronte a formulare aspettative individuali sui
prezzi stessi
47. In particolare, gli individui formulavano aspettative errate in quanto
interpretavano erroneamente le variazioni osservate dei prezzi assoluti come variazione dei
prezzi relativi: risultavano indotti ad aumentare, o diminuire, l'offerta della loro merce al di
sopra, o al di sotto, dell'offerta di equilibrio. Ecco quindi, un ulteriore analogia con Friedman:
le fluttuazioni della produzione e dell'occupazione attorno ai loro valori naturali d'equilibrio,
dipendevano essenzialmente dagli errori che i soggetti commettevano nel formulare le loro
aspettative e nel calcolare i prezzi relativi, ma questi errori dipendevano da segnali imperfetti
sui prezzi.
Faceva ben notare Lucas, come le sue aspettative fossero però razionali
48e non adattive, e
come questa ipotesi combaciava perfettamente con il postulato walrasiano di ottimizzazione: a
differenza di quanto ipotizzato da Friedman, gli individui utilizzavano nel loro processo
decisionale, non soltanto le informazioni relative agli eventi passati, ma anche tutte le
informazioni (limitate) di cui disponevano relative alla struttura dell'economia, rivelata dalla
teoria economica, e agli eventi futuri. Dunque, queste aspettative, coincidendo con le
soluzioni del modello matematico, costruito sulla base della teoria economica rilevante,
attaccarono l'impostazione keynesiana: questa ipotesi contraddiceva i principi economici classici e pertanto risultava ai loro occhi priva di ogni valore teorico.
46) Cate Thomas, An encyclopedia of keynesian economics, p. 380, Edward Elgar, seconda edizione, 2013. 47) Nello schema di Lucas, l'informazione era trasmessa unicamente dai prezzi e i soggetti economici decidevano esclusivamente sulla base dei prezzi. La differenza con la teoria walrasiana classica era che con l'introduzione del postulato di informazione imperfetta, anche il sistema dei prezzi risultava parimenti imperfetto; in particolare nel contesto di un economia monetaria e sequenziale, i soggetti ricevevano, in istanti temporalmente separati, informazioni limitate e locali e soltanto nella forma di prezzi assoluti.
48) Muth J. F. , Rational Expectations and the Theory of Price Movements, in “Econometrica”, luglio 1961 (trad.it. Aspettative razionali e teoria dei prezzi, in Visco I. (a cura di), Le aspettative nell'analisi economica, Il Mulino, Bologna, 1985). L'ipotesi di aspettative razionali affermava l'uguaglianza tra i prezzi attesi e i prezzi effettivi, ossia d'equilibrio: i soggetti, conoscendo e utilizzando nei loro calcoli economici, la teoria economica rilevante, avevano aspettative essenzialmente identiche alle previsioni formulate dalla teoria economica.