• Non ci sono risultati.

I IL LABORATORIO DELLA MEMORIA 1 La “ricerca del significato” e la provvisorietà dei ricordi-copia

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "I IL LABORATORIO DELLA MEMORIA 1 La “ricerca del significato” e la provvisorietà dei ricordi-copia"

Copied!
23
0
0

Testo completo

(1)

I

IL LABORATORIO DELLA MEMORIA

1 La “ricerca del significato” e la provvisorietà dei ricordi-copia

Qualche tempo fa mi trovai a dover testimoniare a un processo al tribunale di Messina. Ricordo la vicenda con un senso di fastidio: in qualità di testimone, mi si chiedeva di raccontare esattamente gli accadimenti cui avevo assistito. Le mie parole sarebbero state registrate e riscritte tal quali. Sapevo che mi sarebbero state rivolte le stesse domande più volte per verificare che io dessi sempre la stessa risposta, sapevo che, se fossi caduta in contraddizione, la mia testimonianza sarebbe stata ritenuta “meno valida”. Per questo, il giorno prima dell’udienza, avevo studiato le parole da dire e ripassato con gli altri testimoni quel che era accaduto per non dimenticare alcun passaggio della vicenda e in modo che tutti presentassimo la stessa versione dei fatti.

Seduta davanti a giudice e avvocati fui pregata di leggere una formula, una sorta di “atto di dolore”, in cui mi dichiaravo nel pieno delle mie facoltà mentali e giuravo di “dire la verità” senza ometterne nessuna parte. Nel momento stesso in cui pronunciavo le parole di quel foglio con l’espressione più seria e composta che riuscivo a produrre sul mio viso, mi

(2)

sovveniva la pratica, comune tra i bambini, di incrociare di nascosto le dita mentre si giura il falso per annullare la validità del giuramento stesso.

Quel giorno non avevo certo intenzione di mentire ma il “non mentire” ha ben poco in comune col “dire la Verità”. Avrei forse potuto promettere solennemente di raccontare la mia verità, corrispondente semmai ad un grado abbastanza puro di “realtà”, la realtà che io vissi in quella precisa circostanza, ma la Verità con la “V ” maiuscola ha in sé il seme dell’ineffabile: nel momento stesso in cui si prende a raccontarla, la Verità diventa “mia verità”. Raccontare un evento, per quanto ci si sforzi di essere obiettivi, non ha nulla di algebrico: nonostante i “fattori” che caratterizzano l’evento rimangano invariati, il risultato dell’ “operazione di racconto” non è mai prevedibile. Ricorre così l’eterno quesito di Pilato: “Quid est

veritas?”.

Porgendo il fianco alle domande dell’avvocato, mi sentivo coinvolta in quella che Contini e Martini definiscono una “conversazione tronca” dove

“Il fraintendimento interessato prende una forma articolata: le risposte non vengono realmente “ascoltate”, le domande interrompono le risposte e spostano lo scenario dell’intervista in modo che esso corrisponda più agevolmente alle proprie ipotesi” 1 .

Di fatto l’interrogatorio è un’intervista fallita: non chiede un’opinione o un punto di vista su ciò di cui si è stati testimoni, al contrario pretende di

1

Giovanni Contini, Alfredo Martini Verba Manent. L’uso delle fonti orali per la storia

(3)

ricostruire l’accaduto servendosi di testimonianze che sono ritenute tanto più attendibili quanto più risultano univoche.

In particolare, l’avvocato si era incaponito sulla mia dichiarazione che, al momento dello svolgimento dei fatti, mi fossi appena svegliata. Mi infastidiva il suo continuo rivolgermi la stessa domanda con diversi giri di parole e, al crescere del disagio, corrispondeva il mio impegno a servirmi di un lessico il più possibile forbito nonostante la banalità della domanda; sceglievo le parole meticolosamente come se stessi rispondendo per iscritto, come se un registro più alto mi rendesse automaticamente più credibile. Quando, per l’ennesima volta, mi fu chiesto come fossi vestita al momento dello svolgimento dei fatti, estenuata e piccata risposi con una inequivocabile inflessione toscana: «Co’ i’ mi’ pigiama!». Un moto di ilarità percorse tutta l’aula fino a raggiungere il giudice, il quale, mosso a compassione dalla mia genuinità, disse all’avvocato che riteneva che la testimone avesse già risposto esaurientemente alla domanda. Credo di poter dire che proprio quella vernacolare esclamazione abbia rappresentato il momento di più alta verità all’interno di tutta la mia testimonianza.

Chiedere di ripetere un fatto, un racconto, utilizzando sempre le stesse parole serve a tenersi lontani dalle proprie incertezze. Questo avviene per via della convinzione che ciò che non muta sia scibile in ogni sua parte, che non riservi cioè recessi ignoti che possano rappresentare fonti di opinabilità

(4)

o ambiguità e che per questo traggano in inganno. Serve a non doversi più mettere in discussione una volta etichettato e archiviato un avvenimento con un giudizio immobile. Si sa come è cominciata e andata la storia, se ne conosce l’epilogo, la vicenda raccontata ci è familiare: nella narrazione tutto ha un posto preciso che non lascia spazio a fraintendimenti. Si confonde così l’invariabilità con l’oggettività e quest’ultima fa sentire autorizzati ad emettere giudizi su un fatto. Spesso la ripetizione è piacevole perché si ascolta, in sostanza, ciò che ci si vuole sentir dire. Qualcosa di non molto diverso accade ai bambini che si sentono rassicurati dall’ascolto della loro fiaba preferita raccontata sempre con le stesse parole: sono confortati dalla sensazione che le cose non cambino nel tempo, che non ci siano ostacoli differenti da quelli già sperimentati; la strega, per perfida che sia, ha un comportamento previsto, un numero di azioni limitate e interamente decodificate, ogni problema ha dunque una sua precisa soluzione, ogni incantesimo il suo antidoto sempre efficace 2.

La ripetizione di una vicenda in una forma cristallizzata fornisce l’illusione che il fatto venga riportato invariabilmente rispetto a come si è verificato. In realtà quello che può a prima vista sembrare un “ricordo –copia” è solo il risultato (per giunta quasi sempre temporaneo) di un processo di semplificazione, ristrutturazione e sintesi attuato dalla memoria che cambia la forma dello stimolo originale: di ripetizione in ripetizione questo stimolo

2

(5)

viene familiarizzato e modellato in un formato standard che lo epura da ogni connotazione che sia “estranea” all’ambito del patrimonio di significati di chi lo riceve.

F. C. Bartlett, docente nel 1931 della prima cattedra di Psicologia sperimentale nell’università di Cambridge, definisce la memoria non come un magazzino di dati passati ma come un processo che cerca di ricostruire a posteriori il significato di un ricordo a partire dagli interessi e dalle conoscenze presenti. Uno “sforzo verso il significato” che fa sì che il tentativo di comprensione rappresentato dal ricordo sia inteso come il frutto di una mente in movimento che riporta a un formato accettabile nel presente la sua esperienza di ieri. A questo formato standard dà il nome di schema3. Lo schema agisce sullo stimolo originale secondo due attività principali: quella costrittiva che si occupa di eliminarne o convenzionalizzarne gli elementi difficilmente spiegabili, e quella generativa che si occupa di chiarificarli con aggiunte di sfumature a seconda delle istanze cognitive presenti al momento della rievocazione.

Senza uno schema la realtà non è interiorizzabile e, senza interiorizzazione, non è neppure comunicabile. Inconsapevolmente si dà progressivamente una forma agli stimoli originali per renderli consoni alla propria struttura di significati sociali, culturali e psicologici. Questo processo di familiarizzazione si rende ancora più evidente nel caso in cui la narrazione

3

Giovana Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2002 , pp. 81-85

(6)

di uno stesso evento non avvenga da parte di un unico soggetto ma passi da un soggetto all’altro come in un passaparola. Nel campo della psicologia sperimentale è nota la ricerca in cui si narra ad un partecipante una storia che esula dal proprio contesto culturale, e densa dunque di significati “oscuri”. L’ascoltatore dovrà raccontare ad un altro soggetto la storia, quest’ultimo la ripeterà ad un terzo partecipante e così via fino all’ultimo soggetto che restituirà una storia perfettamente comprensibile, senza significati oscuri, facilmente memorizzabile ma molto diversa dall’originale perché frutto delle successive razionalizzazioni dei soggetti secondo i propri

schemi che rendono un racconto o un evento intelligibili.

Come sia difficile separarsi da un proprio schema secondo cui si interpreta e rappresenta un qualunque stimolo originale, anche nel caso in cui non sia prettamente culturale, è dimostrato da un secondo esempio tratto dagli esperimenti a premio non contingenti (noncontingent reward experiments): lo sperimentatore legge a un soggetto un lungo elenco di coppie di numeri e il soggetto è chiamato a dire per ogni coppia se i due numeri si accordano o meno. Il soggetto è dunque spinto a trovare delle regole secondo le quali i numeri si accordano. Secondo la prassi del “tentativo ed errore” comincia così a fornire allo sperimentatore risposte casuali di “accordo” e “disaccordo”. All’inizio le risposte sono sempre sbagliate, ma gradualmente le risposte riconosciute come corrette dallo sperimentatore aumentano. Il soggetto elabora così una sua ipotesi, riguardo le regole di accordo delle

(7)

coppie di numeri, che si rivela sempre più affidabile. Il soggetto non è però a conoscenza del fatto che lo sperimentatore ritenga “corrette” le risposte poche volte all’inizio e con frequenza crescente in seguito a prescindere da ciò che il soggetto risponde. Quello che stupisce è che, quando lo sperimentatore rivela che le sue risposte sono prive di un qualsiasi nesso causale, alcuni soggetti rimangono convinti di aver comunque scoperto una regolarità, una chiave di interpretazione assolutamente valida e attendibile.4 In maniera analoga abbiamo la percezione che un racconto sia attendibile in base al grado di coerenza che mostra o che sembra mostrare. Istintivamente giudichiamo un racconto coerente, quindi credibile, quando la sua forma non varia rispetto a uno schema che ci è in qualche modo familiare.

Secondo Bartlett di un ricordo rimane indelebile solo ciò che è affine a un personale percorso di ricerca di un significato, il quale carica la mera esperienza del valore aggiunto creato dalla nostra reinterpretazione soggettiva. I ricordi vengono dunque esposti in maniera invariabile solo fino a quando il significato trovato soddisfa le istanze di un soggetto che si trova però inserito in un contesto storico, culturale, sociale e psicologico in continua evoluzione. In quest’ottica non è possibile lasciare spazio all’idea che vi possano essere dei ricordi-copia

“Per Bartlett, il ricordo perfettamente fedele è solo una “spiacevole finzione”, che appartiene al mondo irreale della sperimentazione di laboratorio, ma non ha diritto di cittadinanza nella vita concreta le

4

Paul Watzlawick (a cura di) La realtà inventata. Contributi al costruttivismo, Feltrinelli, Milano 1994 pp. 13-15

(8)

cui mutevoli esigenze adattative ci pongono quotidianamente di fronte a nuove richieste di rielaborazione del significato.”5

2 L’autorappresentazione

La “percezione di sé”, di un singolo o di una comunità, è possibile tramite l’autorappresentazione, il definire cioè i contorni della propria identità per disegnare, davanti a se stessi e agli altri, i confini del proprio io. Proprio perché il raccontarsi è un’attività fortemente caratterizzante, che cioè raccoglie e trasmette i segni della propria peculiare identità (del singolo o del gruppo di cui ci si fa portavoce), ogni soggetto narrante adotta la forma che ritiene più congeniale per presentare in maniera efficace il proprio autoritratto. L’istanza di autorappresentazione di un soggetto è talmente connaturata all’essere umano che fa sì che si possa parlare di “diritto all’autobiografia” il diritto inalienabile cioè di dare un senso o più sensi al proprio passato.

Per dirla con le parole di Gabriel García Marquéz: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. Il tema dell’autoritratto viene affrontato da Luisa Passerini in un saggio contenente alcune testimonianze sui fermenti del ’68. L’autrice riporta le parole di un suo intervistato, Romano Madera, che conclude così il racconto della sua vita:

5

Giovanna Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2002 , pp. 111-114

(9)

«Naufragium feci, bene navigavi. Può darsi che tutta questa storia sia sempre un naufragio, però io allora ho fatto un bel viaggio. Insomma me lo sono raccontato così; allora il fatto di essermelo raccontato non è più un semplice racconto; è la vita che faccio perché me la sono raccontata così (…) tu hai fatto una vita e quella lì dipende da come te la racconti. E da come te la racconti dipende la vita che fai. E l’intensità che metti in questo racconto o in questa rappresentazione è il fatto che decide se vivi una vita ricca o povera.»6

Il racconto è equiparabile ad un viaggio alla ricerca della propria identità ed è nel corso di questo viaggio che l’identità si costituisce, si evolve e cambia diventando nuova e inedita7 .

Per identità si intende

“ il processo di costruzione del sé che non è solo psicologico, ma che si sedimenta attraverso una rete di relazioni tra passato e presente,tra soggettivo e sociale, tra <<pubblico>> e <<privato>>”8.

Luisa Passerini sostiene che l’identità si costruisce in massima parte a partire da contraddizioni e individua alle radici della memoria, anche in racconti che sottolineano la continuità della propria vita, i temi ricorrenti della scissione, della differenza, del contrasto:

6

Luisa Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze, 1988 p. 214

7

Franco Ferrarotti, Il ricordo e la temporalità, Laterza, Bari 1987

8

Paola Falteri e Giovanna Lazzarin (a cura di) Tempo, memoria, identità. Orientamenti per la

formazione storica di base raccolti e proposti dal Gruppo nazionale di antropologia culturale MCE, Firenze, La Nuova Italia, 1986 p.13

(10)

“La memoria ha registrato i contraccolpi: le sofferenze per i dislivelli, le frustrazioni subite o viste subire. Ma non solo. Perché la memoria parla da oggi. Parla da un punto di vista di un’identità che si è costruita, identità politica nel senso antico del termine: di una cittadinanza che si era data e che non è facile cancellare totalmente. Identità condivisa, partecipazione al farsi della propria vita e invenzione di una cultura.

È questa identità che tenta di fondarsi una memoria e che deve reinterpretare il passato”9.

La memoria, dunque, ricerca e ritrova le origini nell’esperienza, vissuta in prima persona o da un altro soggetto appartenente al proprio nucleo, rivisitando e immancabilmente reinterpretando il passato perché la memoria “parla da oggi”, col senno di poi o, meglio ancora, col senno “di adesso”; è il momento stesso in cui si mettono in moto gli ingranaggi del ricordare che conforma la memoria; il momento preciso in cui si racconta, che implica stati d’animo e finalità sempre diversi, è uno stampo che dà forma all’impasto dei ricordi. La memoria non è uno schedario ordinato dove si archiviano eventi, è piuttosto un processo di trasformazione continua di immagini che si hanno nella mente riguardo azioni che si sono compiute e pensieri formulati, di storie che si sono ascoltate, di sentimenti provati, di luoghi vissuti e visitati, di sapori e odori dai quali si è stati accompagnati nel corso della vita. L’esito di questo processo è un “mosaico cangiante” dove appare solo una minima parte di questo enorme bagaglio che viene

9

(11)

filtrato e modellato dall’intento di tramandare o di dimenticare un fatto e dalle stesse parole che si usano per raccontarlo. In quest’ottica i fatti non sono tanto ciò che è accaduto quanto ciò che viene detto di ciò che si ricorda di questi fatti. La memoria cambia con la persona nel tempo. La Passerini apre il suo saggio “Autoritratto di gruppo” con una illuminante citazione di Raymond Queneau che rappresenta un’ottima chiave di lettura per ogni testimonianza che si raccolga:

“ Quando tu avrai un passato, Yvonne, ti accorgerai di che cosa curiosa che è. Prima di tutto , ce ne sono angoli interi , di frane: dove non c’è più niente. Altrove, erbacce che sono cresciute a casaccio, e non ci si capisce più niente neppure lì. E poi ci sono posti che ci sembrano così belli che uno se li rivernicia tutti gli anni, una volta d’un colore, una volta d’un altro, e lì la cosa finisce per non somigliare più per niente a quella che era. Senza contare quello che uno ha creduto molto semplicemente e senza mistero quando è successo, e che poi anni dopo si scopre che non è tanto chiaro come sembrava, così come alle volte tu passi tutti i giorni davanti a un affare qualunque senza farci caso e poi tutt’a un tratto te ne accorgi.”

3 Gli “errori” della memoria

Una memoria autobiografica così strutturata è una memoria che, per definizione, non produrrà ricordi “esatti”, che cioè conservino il più possibile i caratteri e i dettagli dell’esperienza originale. In particolare le

(12)

distorsioni della memoria si possono suddividere in due categorie strettamente connesse al funzionamento del già citato schema bartlettiano: una distorsione costrittiva, cioè per difetto, che porta a dimenticare ciò che stona con le aspettative personali o sociali, e una distorsione generativa, cioè per eccesso, che dà vita ad una memoria ipertrofica che aggiunge particolari e interpretazioni per rendere più dettagliata e organizzata la storia sia davanti all’ascoltatore che a se stessi.

In entrambi i casi è difficile distinguere quando le distorsioni siano prodotte del tutto inconsciamente o con l’intento consapevole di fornire, o semplicemente ricordare, una versione dei fatti manipolata. Inoltre un tipo di “errore” non esclude l’altro, spesso anzi i tagli effettuati da una distorsione costrittiva incoraggiano la ricompilazione da parte della memoria ipertrofica.

Queste due distorsioni sono tanto più visibili nel momento in cui i propri ricordi vengono raccontati insieme ad un’altra persona (o più persone). Nel corso del dialogo gli interventi si intrecciano influenzandosi a vicenda a seconda che si percepisca la persona insieme alla quale si sta ricordando come affine o opposta. Nel primo caso le testimonianze, pur partendo da affermazioni diverse, finiranno per smussarsi a vicenda e trovare accordi fra di loro fino a raggiungere una versione dei fatti “condivisa” con l’effetto di rinsaldare i legami di affinità di pensiero e di appartenenza allo stesso gruppo dell’altra persona. Laddove invece i due soggetti narranti si

(13)

percepiscano come distanti o addirittura opposti, le testimonianze o si focalizzeranno spesso ipertroficamente sui punti di contrasto dando due versioni inconciliabili tra loro ma entrambe plausibili col risultato di aumentare la distanza tra le opinioni dei due interlocutori, o porteranno almeno una delle due parti, se non entrambe, a tacere affermando di non ricordare per non aumentare il divario tra le opinioni. In entrambi i casi si tratta di una presa di posizione del soggetto per indicare la propria appartenenza (o estraneità) a un gruppo.

È così che, grazie agli “errori” della memoria, ogni testimonianza dà indizi su chi la fornisce. Il racconto di un ricordo è un atto creativo: è concepito grazie ad elementi esterni interiorizzati; cresce all’interno del soggetto (inteso sia come singolo che come gruppo) assumendo una forma propria ma senza poter prescindere dai caratteri ereditari; viene dato alla luce esibendo le proprie caratteristiche, presentando al mondo ciò che è, da dove viene e ciò che rappresenta. Nel darlo alla luce, nel farlo crescere, il genitore di un ricordo si riconosce nella propria creatura e, allo stesso tempo, fornisce un ritratto di se stesso -per quanto risulti talvolta astratto o caricaturale- a coloro che stanno intorno. Se non rivelatrice di dati oggettivi o verità “storiche”, la memoria raccontata ci fornisce preziosi indizi sull’identità del narratore che storicamente esiste

“This feeling, breathing person, is the real subject of the biographical metod (…) To argue for a factually correct picture of a real person is

(14)

to ignore how persons are created in texts and other systems of discourse”10

4 L’imprevedibilità della fonte orale

Nel loro saggio sull’uso delle fonti orali, Contini e Martini notano come il testimone

“inizia a interrogarsi sulle possibili domande che gli verranno fatte nel momento stesso in cui viene a sapere che ci sarà l’intervista, e, nel lasso di tempo che intercorre tra i primi approcci e l’incontro (registrato) vero e proprio, fa, per così dire, le prove generali, organizzando tra sé e sé un’autorappresentazione, una “bella storia”. Quella che chiamo “bella storia” è un fatto presuntivo, perché stiamo parlando di una costruzione che resta nello stato di abbozzo confuso che hanno i progetti mentali prima di fissarsi nell’espressione verbale o nella scrittura. Di essa appunto rimangono indizi di tipo negativo, brandelli di un quadro nascosto (…) e l’intervistato finisce per dare vita a un testo nel quale, molto spesso, non si riconoscerà.”11

Le testimonianze sono sostanzialmente di due tipi: 1)legate all’esperienza del vivente: narrano la propria storia o fatti di cui sono stati testimoni 2)legate alla tradizione: che riguardano un patrimonio ricevuto fatto di A) eventi di un passato remoto di cui chi parla non ha esperienza

B) saperi codificati e standardizzati che non si costituiscono nell’arco di una sola vita.

10

Norman K. Denzin, Interpretive biography, SAGE Publications, USA 1989 p.81

11

Giovanni Contini, Alfredo Martini Verba Manent. L’uso delle fonti orali per la storia

(15)

Spesso, in uno stesso racconto, i due tipi di testimonianza si intrecciano fornendo indizi su come si sia costituita l’identità del narratore e sul ruolo che egli ricopre nella società di cui fa parte. Un racconto, per personale che sia, è sempre portatore di significati collettivi, ma, allo stesso tempo, non è un “epifenomeno del sociale”: più che riflettere il sociale se ne appropria e, dopo averlo mediato, filtrato e assunto, lo riproietta nella dimensione della propria soggettività in un’osmosi continua. Considerando ogni uomo come la sintesi individualizzata e attiva di una società, cade la distinzione tra

generale e particolare in un individuo 12.

“La testimonianza orale è il prodotto di una sollecitazione esterna che viene ad attivare, per altri fini, convinzioni e conoscenze che l’intervistato spesso fa già circolare nell’ambito sociale in cui vive. L’intervento esterno può così produrre effetti diversificati a seconda del valore che il testimone dà alla sua vita e alle sue valutazioni, in relazione al ruolo che egli svolge o che gli è riconosciuto all’interno del gruppo sociale di cui fa parte. In generale, il colloquio diventa per il testimone l’occasione per fare il punto sulla propria vita, fornendo un complesso di notizie che egli ritiene importanti per sé o rispetto alle richieste formulategli (…) ribadendo, attraverso la struttura narrativa, la sua funzione all’interno del gruppo di appartenenza.” 13

12

Franco Ferrarotti, Storia e storie di vita, Laterza, Bari, 1981

13

Giovanni Contini, Alfredo Martini Verba Manent. L’uso delle fonti orali per la storia

(16)

La memoria non è lo strumento col quale si compila un freddo inventario di se stessi, ma un momento talvolta tormentoso e decisivo dell’autoidentificazione e della costituzione della persona. L’autobiografia rappresenta dunque al contempo una pausa di riflessione e l’occasione di un’importante presa di coscienza per l’individuo.

Oltre alla costruzione del ricordo, anche la sua esposizione presenta larghi margini di variabilità. L’intervistando è simile a un regista di una rappresentazione teatrale che non avrà mai la certezza di come le cose andranno sul palco. L’elemento umano non è mai totalmente prevedibile e, per quanto le parole di un testo teatrale siano ripetute dagli attori fedelmente a come sono state scritte dal commediografo, ogni prova e ogni rappresentazione è unica e differente dall’altra.

Come due incisioni tratte dalla stessa matrice non sono mai identiche poiché non è possibile ottenere sfumature e sbavature della stessa intensità e nella stessa posizione ad ogni stampa, uno stesso ricordo, raccontato in due momenti differenti darà vita a due testimonianze indubbiamente simili ma non uguali. È d’altro canto risaputo che le riproduzioni grafiche sono ritenute preziose proprio in virtù della variabilità che dà “vitalità” alla stampa e la distingue da una fotocopia. Esistono dunque ambiti in cui la variabilità non è indice di inaffidabilità o incertezza, quanto piuttosto motivo di fascino e originalità e, nell’ambito delle fonti orali, la variabilità è una costante.

(17)

Un ulteriore carico di imprevedibilità si aggiunge col fatto che non solo chi racconta ma anche chi si serve delle fonti orali, non sa in anticipo che aspetto avrà la fonte con cui si troverà a lavorare e non può quindi figurarsi in anticipo che taglio darà alla redazione della fonte stessa.

Per questo motivo Willa Baum, autrice di un manuale per l’uso delle fonti orali, definisce la storia orale come un’arte, non nel senso che si raggiungano prodotti di alta qualificazione estetica, ma nel senso che non è possibile sapere a priori cosa si farà con una persona e cosa si farà con il nastro con cui si lavora.

Alessandro Portelli, il quale si inscrive in un contesto, quello degli anni ‘80, in cui nell’ambito della cosiddetta “storia orale” ci si orienta più sul racconto della storia da parte delle comunità indagate14 che sul percorso storiografico più classico, ricorda che lavorare con le fonti orali significa operare con un elevato grado di complessità: la ricchezza della “fonte orale” è un’arma a doppio taglio poiché rappresenta tanto una miniera di opportunità affascinanti quanto un rischio di dispersione cui ci si può sottrarre solo con una selettiva focalizzazione degli obiettivi del percorso di lavoro. Sottolinea che la “fonte orale” è una fonte costruita che non rappresenta un oggetto ma una fase di un processo, in quanto si tratta prima di tutto una persona che

14

cfr. Alessandro Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, Torino, 1985

(18)

“non è la prima né l’ultima volta che parla in vita sua. La testimonianza che dà è una parte del lungo processo del raccontare che attraversa tutta la vita, che noi blocchiamo e congeliamo artificialmente per motivi operativi, come si fa l’anatomia sui corpi morti sapendo però che quelli vivi sono diversi. È poi una fonte riattivabile continuamente in due modi: il primo riascoltando e rileggendo nastro e trascrizione, il secondo ritornando dalla persona intervistata e facendosi ripetere il suo racconto. È quindi una fonte che in qualche maniera non finisce mai.” 15

5 Il rapporto interattivo

Nel saggio “Intervista a Maria” sul ruolo produttivo della donna nella famiglia patriarcale sarda, Clara Gallini descrive la sua anziana amica come una donna prudente ma non pavida che

“aveva da esporre una sua testimonianza di vita e una sua visione del mondo, e lo fece con la grande dignità di chi, stando sulla vetta di un monte dopo aver compiuto un lungo cammino, ne ripercorre i sentieri seguendoli giù giù fino a valle, al villaggio di origine.”

L’autrice conclude dicendo di aver appreso dall’intervista condotta che non c’è nessuno che, benché non vanti nella propria vita alcun fatto eclatante, non abbia nulla da dirci. Tutto sta nell’individuare il settore della vita in cui ciascuna persona sia maggiormente in grado di esercitare le proprie capacità

15

cfr. Movimento di Cooperazione Educativa (a cura di), Tempo memoria identità, La Nuova Italia, Firenze, 1986. contributo di Alessandro Portelli, Memoria collettiva e racconto orale. p.139

(19)

critiche, dove manifesta la sua “intelligenza segreta” che è tale perché devalorizzata dalla cultura ufficiale che spesso tende a negarla. Inoltre sottolinea la necessità di annullare il divario tra ricercatore e ricercato, tra soggetto e oggetto, che vede un ricercatore che si arroga il diritto di fare domande e un ricercato cui si accolla il dovere di rispondere16

La principale caratteristica di una buona ricerca nell’ambito delle fonti orali, e che dovrebbe essere prerogativa basilare del metodo biografico, è dunque il rapporto interattivo che presuppone una situazione di sostanziale uguaglianza tra ricercatori e gruppi umani indagati.

Prerogativa di una manifestazione orale è la presenza di un interlocutore che stimoli il ricordo; è difficile tacere alla presenza di qualcuno come è impossibile parlare da soli: comunque si rivolge la parola ad un altro io o ad un interlocutore immaginario.

In maniera speculare chi raccoglie una testimonianza orale non può fingersi uno strumento di registrazione e pretendere di ricevere passivamente il racconto dell’intervistato. L’intervista è un contatto diretto, uno scambio di sguardi tra due soggetti che, benché distinti, sono allo stesso livello. Differentemente significherebbe per l’intervistatore ridurre l’intervistato ad un oggetto e perdere un’occasione di vera conoscenza non solo dell’altro ma anche di se stesso. Il vero intervistatore guarda con curiosità alla vita dell’altro e ne partecipa non solo in modo “cerebrale” ma affettivo.

16

(20)

L’ascolto partecipante implica un decentramento dal proprio punto di vista cercando di tenersi alla larga sia dalla proiezione sull’altro dei propri modelli culturali di interpretazione, sia dall’illusione di riuscire a far sparire dal contesto la propria soggettività al momento della relazione dell’incontro. L’intervista riuscita è quella che ci lascia cambiati o con le idee un po’ più chiare su noi stessi; non è un versamento di dati ma un’osmosi di punti di vista: non esistono incontri “asettici” tra due persone che abbiano davvero desiderio di conoscersi, il rapporto tra i due dialoganti diventa di simpatia, di comune sentire, irreversibilmente intimo. Chi racconta fa partecipe chi ascolta della sua più profonda identità, chi ascolta è invitato a farne parte, ad esserne non solo circondato ma toccato. Più che a trovare risposte sugli altri, un’intervista serve a porsi domande su se stessi.

L’interazione propone una sfida sul piano qualitativo affermando la centralità dei rapporti personali: il narratore e l’ascoltatore instaurano un rapporto veramente umano, diretto, imprevedibile e problematico il cui esito non è mai scontato. Durante un dialogo non sono solo le parole a comunicare ma anche i gesti, le espressioni del viso, i moti delle mani, il tono della voce e persino il silenzio:

“il dialogo come momento polifonico in cui nessuno dei presenti è escluso poiché chi conserva il silenzio rientra nell’economia generale del discorso collettivo: è il suo silenzio che consente agli altri di

(21)

parlare. Ecco il dono dell’oralità: la presenza, il sudore, le facce, il timbro delle voci, il significato, il suono del silenzio” 17

6 Lo scudo affettivo

L’atto di ricordare insieme è detto ricordo congiunto. Dal momento che normalmente si ricordano esperienze tratte da un patrimonio comune, questo tipo di ricordo non ha come prima finalità quella puramente informativa, bensì lo sviluppo di un senso di appartenenza a una storia comune che rafforzi l’identità delle persone coinvolte. Oltre al coinvolgimento emotivo, il ricordo congiunto produce un avvicinamento affettivo tra le persone che ricordano18. L’antologia dei ricordi di una famiglia costituisce un prezioso “scudo affettivo”; la situazione classica del nonno che racconta ai nipoti episodi della propria vita, rappresenta molto di più che un momento di intrattenimento. Ascoltando i ricordi del nonno il nipote apprende da dove viene e si sente parte di una realtà più grande, quella della famiglia. Con questa adesione il nipote assume una storia che diventa la sua storia nonostante sia cominciata molti anni prima della sua nascita. Avere un passato significa anche poter contare su un bagaglio di esperienze che sono utili punti di riferimento per affrontare la vita. Il saggio, colui che sa, è vecchio per antonomasia (a differenza del sapiente

17

Franco Ferrarotti, La storia e il quotidiano, Laterza, Bari, 1986 p.11

18

Giovanna Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2002 , pp. 65-66

(22)

che è colui che conosce e che non ha specifiche connotazioni riguardanti l’età). Nonostante la saggezza non sia condizione sufficiente e necessaria per realizzare i propri obiettivi,

“l’opposizione tra saggio e sciocco rappresenta il contrasto tra chi sa usare il proprio sapere e chi no, indipendentemente dal fatto che sia o meno ignorante” 19

dal momento che la saggezza ha a che fare con l’esperienza, è il saper far tesoro di quanto si è vissuto che crea saggezza.

Secondo I. E. Hyman, sono tre i fattori che fanno in modo che un ricordo possa essere assunto come proprio anche nel caso che addirittura si tratti si di un ricordo interamente artefatto: la plausibilità, cioè il fatto che la memoria deve essere simile all’insieme dei ricordi già posseduti dai soggetti; la presenza di un’immagine mentale, una persona che sia convinta ad immaginare un episodio che non ha mai avuto luogo nella realtà comincia a creare dei contenuti mentali che, al momento del recupero, sono difficili da distinguere dalle memorie proprie; la difficoltà al monitorare

quale sia la nostra fonte informativa, solo una minima parte delle

informazioni che elaboriamo, anche se riguardano la nostra vita, provengono da un’esperienza diretta, più spesso le informazioni derivano da cose che sono state dette da altri.20

19

Mariano Pavanello, Il formicaleone e la rana. Liti, storie e tradizioni in Apollonia, Liguori, Napoli, 2000

20

Giovanna Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Carocci, Roma 2002 , pp. 122 -123

(23)

Ecco come, ancora una volta, il presunto mal funzionamento della memoria manifesta la sua ricchezza: il vantaggio è che il funzionamento della memoria tende a catalogare come proprie esperienze anche esperienze plausibili che ci vengono raccontate; da questo punto di vista diventa quindi poco importante che le esperienze, con il loro enorme bagaglio di saggezza, siano state vissute in prima persona o se semplicemente le abbiamo assunte, o addirittura forgiate, nell’ambito del ricordo congiunto.

Riferimenti

Documenti correlati

mothers, verified the failure of microglial microbicidal mechanisms previously suggested in vitro [19], and therefore, microglial dysfunction. Microglial dysfunction in

This switch is an important component of STAT3 pro-oncogenic activities, since inhibition of STAT3 tyrosine phosphorylation and dimerization via the small molecule

1) Yogurt addizionato di perisperma – Nella tabella 1 sono riportati i dati composi- tivi, il contenuto in polifenoli e l’attività antiossidante dello yogurt funzionalizzato

Sullo stesso versante, ma più a valle – in prossimità della confluenza del Fosso dei Cappuccini nel Rio Maggiore –, sempre ad un livello superiore nel costone tufaceo, si ravvisa

1 Cfr.. 1) “So What?” (business as usual): USA, Olanda e “resto del mondo” avrebbero continuato a macinare la stessa modellistica, con larga prevalenza, rispetto alla

Si ritiene che sia l’influenza degli steroidi sessuali a mediare le differenze di sesso nell’omeostasi dei lipidi plasmatici; un concetto che viene avvalorato dal fatto che la

Values are reported as sum of ranks, Table S2: Values (mean ± standard deviation) after normalization of total phenolic content (TPC) and radical scavenging activity (RSA) for