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Oggi chi si azzarda a parlare di etica corre il rischio di essere definito, con spregiudicato cinismo, moralista

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Academic year: 2022

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L'ETICA NELLA PROFESSIONE MEDICA di

Francesco Geraci*

Certamente, in questi ultimi tempi, muri che sembravano incrollabili sono crollati e molti vessilli che garrivano al forte vento dell'utopia sono stati ammainati dalla storia.

Contestualmente sono crollati molti di quei valori che costituivano ed ancora costituiscono l'essenza del vivere civile. E tra questi deve essere collocato, in posizione privilegiata, quanto Aristotele introdusse nel linguaggio filosofico con il concetto di etica, quale filosofia della pratica ovvero come indagine e riflessione sul comportamento operativo dell'uomo.

Oggi chi si azzarda a parlare di etica corre il rischio di essere definito, con spregiudicato cinismo, moralista. Perché con la caduta del rispetto dei valori, viene adoperato un metro di misura dell'uomo fondato sullo spessore del conto in banca, privilegiando l'avere sull'essere.

Discutere di questione morale, di etica professionale in un drammatico contesto socio- politico come quello di questi giorni, potrebbe farci apparire come dei marziani. Nel V secolo a.C., nella felice e irripetibile stagione di Pericle il medico, con l'alto magistero di Ippocrate, riusciva a spogliarsi dei paludamenti sacerdotali e magico-mistici ed iniziava la sua

"laicizzazione" acquistando una valenza filosofica ed una notevole capacità di riflessione sull'uomo in quanto tale.

Anche se sono trascorsi 25 secoli l'insegnamento ippocratico conserva la sua attualità, proprio perché fa riferimento all'uomo in quanto tale e al suo benessere. Il giuramento di Ippocrate conserva intatta la sua valenza deontologica e l'ispirazione etica tant'è che ancora oggi in quasi tutte le università gli studenti di medicina il giorno della laurea, giurano secondo la formula ippocratica.

Nessuno penserà suppongo di ritenere superate queste solenni affermazioni:

- onorerò come fosse mio padre il maestro che mi avrà insegnato l'arte di guarire;

considererò i suoi figli alla stregua dei miei;

- prescriverò agli ammalati le cure che giudicherò convenienti alla loro situazione secondo scienza e coscienza; eviterò tutto quello che potrebbe essere loro di pregiudizio;

- conserverò l'integrità della mia vita e l'onore della mia arte;

- non prenderò parte alla provocazione criminosa dell'aborto in nessun caso;

- qualunque sia la casa dove sarò chiamato, vi entrerò con la sola intenzione di soccorrere i malati;

- se dovessi scoprire nella vita dei miei clienti cose che non conviene siano divulgate, le conserverò come un segreto e mi imporrò il più assoluto silenzio.

Ci sono momenti, in cui purtroppo, non sempre i medici riescono a conservare intatto l'onore della loro arte.

Dopo la seconda guerra mondiale, il processo di Norimberga fece conoscere al mondo orrendi e disumani delitti perpetrati sui prigionieri, e non soltanto su di essi, con la complicità dei medici. Migliaia e migliaia di anziani tedeschi, anche se perfettamente integrati ed ubbidienti al regime hitleriano, furono destinati all'eutanasia, in quanto "persone prive di vigore vitale" e quindi superflue e di peso alla società.

Risultò dal processo che per sperimentare nei campi di sterminio di massa la resistenza ai gas tossici, al freddo e a farmaci di ogni tipo, il regime politico si avvalse dell'opera di medici, colpevoli di inumani delitti contro la vita.

* Medico Legale. Componente Comitato Centrale della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatrici

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Da ciò nacque l'esigenza, subito dopo la guerra, di stabilire delle frontiere di etica e di comportamento che fossero valide per tutti ed in ogni particolare circostanza, periodi di guerra e detenzione compresi.

Dal punto di vista giuridico il problema dell'etica è stato affrontato nel 1948 con la

"proclamazione dei diritti dell'uomo", che all'art. 3 afferma: "ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona" e all'art. 5 condanna ogni forma di tortura.

Nel 1949 le Associazioni mediche approntarono il "Codice di etica medica" con il giuramento di Ginevra simile nella sostanza a quello ippocratico che richiede il rispetto della vita dal "momento del concepimento".

Nell'agosto del 1968, l'Associazione medica mondiale approvò la "Dichiarazione sulla determinazione del momento della morte" ove, tra l'altro, si afferma che "qualora il trapianto di un organo sia possibile la decisione che la morte è presente (problema ancora oggi non definitivamente risolto) dovrà essere presa da due o più medici e costoro non dovranno essere gli stessi medici che eseguiranno l'operazione di trapianto".

Nell'ottobre del ‘75, l'Associazione Medica Mondiale approvò la "Dichiarazione sulla tortura e le altre pene o trattamenti crudeli disumani o avvilenti, in relazione alla detenzione e alla carcerazione" che all'art. 1 afferma che "il medico non dovrà assistere, partecipare o commettere atti di tortura o altre forme di trattamenti crudeli, disumani o avvilenti, qualsiasi siano le colpe commesse, l'accusa, le credenze o i motivi della vittima, in tutte le situazioni di conflitto civile o armato"; mentre all'art. 5 prescrive "quando un prigioniero rifiuta qualsiasi nutrimento ed il medico ritiene che costui è in condizione di formulare un giudizio cosciente e razionale, malgrado le conseguenze che provocherebbe il rifiuto di nutrirsi esso non dovrà essere alimentato artificialmente. Il medico avrà il dovere di spiegare al prigioniero le conseguenze che la sua decisione di non nutrirsi potrebbe avere sulla sua salute".

L'elenco potrebbe continuare: ma non possiamo chiudere questa rapida rassegna senza menzionare la dichiarazione dell'Associazione Medica Mondiale, che prima ad Helsinki nel 1966 e poi a Tokyo nel 1975, sulle "ricerche biomediche" pone precisi limiti di ordine etico alla ricerca medica associata alle cure mediche (ricerca clinica) e alla ricerca biomedica non terapeutica, nel pieno ed inderogabile rispetto dei diritti dell'uomo.

Ma a questo punto nasce la domanda: dove si fondano i diritti dell'uomo, fin dove possono arrivare?

Come qualche autorevole cultore della materia afferma, questi diritti non si enunciano "per volontà di maggioranza", ma debbono essere giustificati per "fondazione razionale". Ecco la riflessione filosofica che definisce la bioetica come quella parte della filosofia morale che concerne gli interventi sull'uomo in campo biologico e medico. Si tratta di una razionale elaborazione che riguarda l'aspetto etico (quello che è lecito o non è lecito fare) nell'ambito dell'attività medica, sia di pura ricerca che di diagnosi e cura.

Le ultime scoperte in campo biomedico hanno ulteriormente stimolato la crescita e la maturazione di un discorso etico, impensabile sino a pochi anni fa.

Nella nostra epoca di sempre più avanzate conquiste scientifiche, si cerca di estendere il successo ottenuto per la cura delle malattie a genesi microbica a quelle di origine genetica e cromosomica, approdando a quella spiaggia della ricerca che si suole chiamare "ingegneria genetica".

Su questo terreno, per quanto affascinante, i confini invalicabili dell'etica debbono essere ben tracciati.

La manipolazione genetica offre inimmaginabili sbocchi terapeutici, ma può anche condurre il ricercatore a pericolose manipolazioni, sino alla costruzione di soggetti con caratteristiche determinate a priori.

Allorquando Fermi approdò alla fusione dell'atomo riteneva di avere regalato una nuova fonte di energia all'umanità, ma quando il potere politico si impadronì della scoperta si arrivò al grande dramma della bomba atomica.

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Con la fecondazione in vitro la medicina è entrata nel terreno della fecondazione artificiale che può essere omologa (con seme del marito) o eterologa (con seme di donatore diverso dal marito), di donna nubile e di donna coniugata con o senza consenso del marito. Né va taciuto il grosso problema che nasce dall'uso dell'utero di un'altra donna (utero taxi).

Qui il confine tra attività medica più o meno moralmente corretta è incerto e labile, per cui si reputa opportuno regolamentare con legge la fecondazione artificiale per dare certezza giuridica al medico e per chiarire e tutelare la posizione civilistica dei "figli della provetta".

I progressi scientifici hanno indubbiamente esaltato il potere di biologi e medici, ma ne hanno accentuato i doveri, legati non soltanto al risultato da conseguire, ma anche a regole morali ed alla libertà della persona.

Per questo tanto interesse alla bioetica anche da parte della opinione pubblica e del Parlamento.

E questo campo non può essere considerato come riserva di caccia culturale esclusiva per medici e ricercatori, ma deve coinvolgere filosofi, teologi, giuristi, medici: tutti consapevoli che al centro emerge la fondamentale questione della vita e della sua difesa.

Da qui la sentita esigenza di un viatico comportamentale per lo scienziato, per il medico che lo renda cosciente della sua potestà di migliorare la qualità della vita, ma anche della sua impotenza morale (in qualunque ideologia etica) di possedere la vita altrui, di infrangere la sacralità della humanitas.

Resta il problema della condotta individuale strettamente legato alla necessaria evoluzione del progresso ma anche alla legittimità delle scelte morali.

Gran parte dei principi etici e delle dichiarazioni dell'Associazione Medica Mondiale, sono ripresi dal nuovo codice di deontologia medica. Questo codice, che possiamo definire "una raccolta ufficiale di regole di etica medica e di precetti professionali", non ha nel nostro paese valore di legge, al quale il medico deve sottostare per imposizione dello Stato, ma non si può neppure considerare come una semplice dichiarazione di principi che possono con libera discrezione essere accettati dal medico.

Ha preciso valore di regolamento interno del corpo medico costituito nell'ordine professionale, che gli iscritti all'albo sono tenuti ad osservare nell'esercizio della loro attività, secondo quanto previsto dal D.L.C.P.S. del 13/9/46 n. 233, concernente la ricostituzione degli ordini delle professioni sanitarie con il relativo regolamento di esecuzione di cui al DPR del 5/4/50 n. 221.

Il compito di fare osservare le norme deontologiche spetta per legge agli Ordini Provinciali, che esercitano il potere disciplinare, nell'ambito del loro potere di supremazia speciale sugli iscritti.

Secondo il codice deontologico, l'esercizio della professione medica è uniformato ai precetti etici della tradizione ippocratica, compendiati nel "giuramento” come principi fondamentali ed irrinunciabili della professione stessa, e quindi:

- di esercitare la professione in libertà ed indipendenza di giudizio e di comportamento;

- di perseguire come scopo esclusivo dell'attività professionale la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo ed il sollievo della sofferenza;

- di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente;

- di attenersi nell'attività professionale ai principi etici della solidarietà umana, nel rispetto della vita e della persona;

- di curare tutti i pazienti con eguale scrupolo ed impegno prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale ed ideologia politica;

- di prestare assistenza d'urgenza a qualsiasi infermo ne abbisogni e per il quale non si possibile assicurare tempestivamente altra assistenza.

Si ha motivo di ritenere che questi fondamentali precetti etici siano sufficienti a tracciare un preciso sentiero che ogni medico è tenuto a percorrere se vuole esercitare secondo coscienza,

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quindi in modo conforme alla funzione umanitaria e sociale della medicina e all'interesse superiore e preminente del paziente.

Non dimenticando, però di rispettare i principi della correttezza dei rapporti col malato ed i suoi familiari con i colleghi e con le pubbliche autorità; di difendere sempre la propria dignità ed indipendenza. L'onesto e dignitoso operare del medico - afferma qualcuno - costituisce un valido rimedio per arrestare la grave decadenza dei valori morali nel tempo in cui viviamo e per evitare gli inevitabili scompensi della medicina socializzata.

Certo basterebbe l'osservanza di questi precetti morali per fare di ogni medico un sacerdote laico di un corretto, civile ed umano esercizio professionale.

Ma il codice impartisce precise indicazioni circa il comportamento che il medico è tenuto ad osservare nei confronti degli anziani dei minori e degli handicappati e nei riguardi delle persone recluse.

Ovviamente si potrebbe obiettare che se ci si sofferma a parlare di etica per i grossi e complessi problemi che sollevano la fecondazione artificiale, il trapianto di organo, la sperimentazione sull'uomo e la manipolazione genetica, finiremmo col fare un discorso riduttivo, limitato cioè ad un gruppo ristretto ed elitario di medici e ricercatori.

Ma, oltre alle norme di comportamento di ordine generale alle quali si è appena accennato, il codice si sofferma, tra l'altro, con molta chiarezza e senza equivoci, sul comportamento che bisogna assumere nell'assistenza ai morenti e nei confronti del consenso informato.

Queste norme di comportamento etico riguardano tutti i medici esercenti, compresi i medici di medicina generale. Recita l'art. 43 del codice: "ogni atto mirante a provocare deliberatamente la morte di un paziente è contrario all'etica medica". Da questa affermazione di principio discende che "in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta e pervenute alla fase terminale, il medico, nel rispetto della volontà del paziente potrà limitare la sua opera all'assistenza morale ed alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenze, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando per quanto possibile la qualità di una vita che si spegne".

Ricordo che le norme giuridiche vigenti non prevedono espressamente l'eutanasia, la quale se messa in essere fa scattare tre differenti ipotesi di reato (omicidio del consenziente, omicidio volontario, istigazione o aiuto al suicidio).

Sempre a proposito di pazienti in fase terminale, l'art. 20 del codice afferma che "il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento terapeutico consistente nell'irragionevole ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita".

In certi momenti della sua attività il medico viene spesso a trovarsi dinanzi al dibattuto problema "se dire o non dire la verità al proprio paziente circa una prognosi grave e infausta".

Esistono diverse scuole di pensiero sovente contrastanti: il nostro codice all'art. 39 afferma che "il medico potrà valutare, segnatamente in rapporto con la reattività del paziente, l'opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta, nel qual caso questa dovrà essere comunicata ai congiunti. In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico elemento al quale ispirare il proprio comportamento".

Per quanto infine riguarda il consenso-informato, si ha motivo di ritenere che il non ottemperare alla necessità imprescindibile dell'ottenimento del consenso da parte del paziente, opportunamente e correttamente informato non abbia soltanto risvolti giuridici ma anche e, soprattutto, morali.

Mentire al proprio paziente (esagerando o minimizzando) sulla diagnosi, sulla prognosi, le prospettive terapeutiche e le loro conseguenze diventa un atto altamente immorale, oltre che penalmente perseguibile.

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E' noto che il trattamento medico-chirurgico poggia i fondamenti della sua liceità, al di la delle tante teorie man mano elaborate, sul consenso dell'avente diritto e sullo stato di necessità.

Il consenso del paziente, per integrare la condizione di liceità del trattamento medico chirurgico deve avere questi connotati:

- deve essere manifestato esplicitamente al medico;

- deve provenire dalla persona che ha la disponibilità del bene giuridico protetto e, quindi, dal paziente; nessuna efficacia giuridica può essere riconosciuta alla volontà espressa dai familiari del paziente, in quanto nessuna norma dell'ordinamento giuridico prevede che i familiari possano sostituirsi al malato nella manifestazione del consenso, tranne che nei casi di esercizio della potestà dei genitori o della tutela;

- deve provenire da un soggetto, che oltre ad essere titolare del diritto tutelato, sia anche capace di intendere e di volere ed abbia l'età idonea a poter disporre di quel diritto;

- deve formarsi liberamente ed essere immune, secondo i principi generali dell'ordinamento, da vizi, ossia la volontà che alla base della manifestazione deve essere libera da coartazioni, da inganno o da errore. Non è quindi da considerare valido il consenso prestato dal malato che sia stato in realtà ingannato nella vera natura e gravità della malattia prospettando al paziente interventi di ordinaria e facile soluzione; oppure inducendo il paziente ad un intervento del tutto inutile prospettandogli falsamente immaginari pericoli per la salute.

Queste per grandi linee le indicazioni deontologiche ed etiche cui ogni medico deve ubbidire per un corretto esercizio dell'attività professionale.

In verità non si fa mai abbastanza per diffondere tra gli iscritti tutta la problematica legata all'etica professionale.

Soprattutto oggi, che a causa della occupazione partitica del servizio sanitario nazionale e della concomitante pletora medica, si è dovuto registrare una verticale caduta della tensione morale di molti medici italiani.

La pletora medica ha determinato disoccupazione e sottoccupazione: nell'infido e mortificante terreno della sottoccupazione certamente molti precetti, quali il decoro e l'indipendenza, vengono soffocati dallo stato di necessità con un evidente deterioramento della figura del medico e dell'ordine che lo rappresenta.

Ma anche tra i medici occupati la difesa del decoro e dell'indipendenza diventa ogni giorno un compito sempre più arduo.

Il decoro professionale il medico cerca di tutelarlo compiendo una lotta impari con una riforma sanitaria che ignora il medico persino nel nome, se si considera che questa parola nemmeno viene citata nel voluminoso testo della 833.

L'indipendenza della professione è un valore fondamentale non solo per i medici ma per rendere corretta ed efficace ogni loro prestazione.

Purtroppo oggi l'ordine diventa sempre di più guscio vuoto, non è più un punto di doveroso riferimento per i medici: in questa funzione ormai è stato spodestato dalla USL, visto che il medico in qualsiasi ambito del servizio sanitario inserito, per garantire i suoi interessi di carriera, è troppo spesso costretto a tener conto del colore politico del presidente o del manager della sua USL.

Questo vassallaggio partitico porta i medici a contribuire allo sfaldamento della loro identità, integrata ed armonica, storicamente costruita. Senza aver approntato una opportuna strategia, senza alcuna politica progettuale, i medici, divisi da lotte interne tra gruppi e settori, sono costretti a praticare una medicina sempre più disumanizzata, ove il paziente-navetta, il paziente ping-pong viene sballottato tra gli scogli di una burocrazia, sempre più cinica, sempre più sorda, sempre più avida.

Sforzarsi per combattere questo degrado, ove il medico e il paziente perdono entrambi l'esperienza di un rapporto privilegiato fatto di coinvolgimento reciproco, dovrebbe essere l'imperativo etico del medico per recuperare ed attualizzare valori perduti e già suoi, oppure

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per trovarne di nuovi e più stabili, etico-politici; non solo di bioetica, ma anche di etica della polis.

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