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Note in tema di giudicato - Judicium

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Academic year: 2022

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Giulio Nicola Nardo NOTE IN TEMA DI GIUDICATO

Secondo l’art. 2909 c.c., la cosa giudicata sostanziale (o giudicato sostanziale) è il far stato ad ogni effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato formale nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa. La funzione dell’istituto è quella di soddisfare il bisogno di certezza giuridica circa la regola di diritto che disciplina i rapporti sostanziali tra le parti e va necessariamente messa in relazione col tipico effetto vincolante della sentenza quale effetto d’accertamento. A tal fine, è necessario comprendere quale sia il processo di formazione del giudicato e quali siano gli ostacoli che detto processo incontra, distinguendo tra limiti soggettivi, oggettivi e temporali del giudicato.

SOMMARIO:1. Profili introduttivi. – 2. Giudicato formale e giudicato sostanziale – 3. Il regime processuale del giudicato.

– 4. I provvedimenti suscettibili di acquisire l’autorità del giudicato. – 5. I limiti oggettivi del giudicato. – 6. I limiti soggettivi del giudicato. – 7. I limiti cronologici del giudicato. – 8. La rinuncia e l’interpretazione del giudicato.

1. Profili introduttivi

Secondo l’opinione tradizionalmente accolta dagli interpreti, il termine giudicato cui si riferisce l’art. 2909 c.c. va inteso in senso “sostanziale” (o “materiale”), poiché, nel “fare stato” “a ogni effetto”, esprime un vincolo decisorio della sentenza finale di merito, che è irretrattabile, in quanto destinato ad operare tanto nei confronti del diverso giudice chiamato eventualmente a pronunziarsi ex novo sulla stessa domanda giudiziale, quanto nei confronti delle stesse

“parti” che la ripropongano in futuro.

La disposizione normativa citata – collocata sistematicamente nel titolo IV del libro sesto del codice civile, intitolato

«Della tutela giurisdizionale dei diritti» - va messa in relazione con la previsione di cui all’art. 324 c.p.c., il quale disciplina la cosa giudicata formale, consistente nell’inimpugnabilità della sentenza dal momento in cui non siano più esperibili i mezzi ordinari di impugnazione.

Vi è, in altri termini, un legame diretto ed immediato tra la tutela delle situazioni soggettive e la sentenza conclusiva del processo a cognizione ordinaria: detto legame è così stringente da poter affermare che la formazione del giudicato sia la caratteristica precipua dell’attività giurisdizionale.

La cosa giudicata, da un lato, si riferisce, in termini testualmente limitativi, all’accertamento contenuto nella sentenza che abbia acquisito l’autorità della cosa giudicata formale, in quanto non sia più soggetta ad alcuno dei mezzi ordinari di impugnazione, dall’altro, si traduce e si realizza in un preciso vincolo giuridico, in forza del quale il tipico effetto vincolante della sentenza, vale a dire l’accertamento e la tutela delle situazioni soggettive, assurge a vincolo che «fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi ed aventi causa».

Si tratta di una correlazione che ne evidenzia, al contempo, la profonda differenza: il giudicato formale attiene all’irrevocabilità della sentenza, mentre la cosa giudicata sostanziale – garantendo la stabilità del rapporto giuridico deciso – riguarda il diritto tutelato.

E’ proprio in forza dell’accertamento contenuto nella sentenza che riesce a comprendersi la ragione in forza della quale il giudicato si espande al di fuori del processo in corso: il fenomeno va correttamente inquadrato sotto due differenti prospettive, l’una caratterizzata da un limite negativo, l’altra da un’evidente funzione positiva.

L’art. 2909 c.c. descrive quest’ultimo aspetto, consistente nell’efficacia vincolante ed ultrattiva dell’accertamento, perché destinato a prodursi anche al di fuori della singola vicenda processuale1.

Il vincolo negativo assurge, invece, a divieto di svolgimento di un secondo giudizio, tra le stesse parti e caratterizzato da un identico petitum.

Per Chiovenda la «cosa giudicata in senso sostanziale consiste nell’indiscutibilità dell’esistenza della volontà concreta di legge affermata nella sentenza»2; la decisione di merito, che esprime la volontà del diritto nel caso

                                                                                                               

1 CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1980, Ristampa, 906, 914; PUGLIESE, Giudicato civile, in ED, XVIII, Milano, 1968, 818 ss.

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concreto attribuendo un bene della vita ad una delle parti, una volta divenuta definitiva, acquista autorità di cosa giudicata, ossia l’accertamento in essa contenuto deve «tenersi in futuro come norma immutabile del caso deciso»3. Ragioni di opportunità pratica e di utilità sociale inducono ad introdurre un limite alla discutibilità di ciò che è stato statuito dal giudice: l’espressione della volontà del diritto nel caso concreto, la quale garantisce un bene della vita ad una parte di fronte all’altra, quando promana da un provvedimento giurisdizionale definitivo, deve essere assistita dai caratteri della stabilità e della irretrattabilità.

Pertanto, il giudicato è da intendersi nel senso della immutabilità del contenuto della decisione resa dal giudice, la quale si realizza in presenza di una duplice condizione: la sentenza deve essere definitiva, per l’avvenuto esperimento dei mezzi di impugnazione ordinari, e deve avere per oggetto l’attribuzione di un bene della vita, ossia deve avere funzione decisoria di una domanda giudiziale.

Seguendo il modello napoleonico (artt. 1350, n. 3, e 1351 del code civil del 1806), gli artt. 1350, 1351 del codice civile del 1865 annoveravano fra le presunzioni legali - in coerenza con il brocardo res judicata pro veritate accipitur – l’«autorità che la legge attribuisce alla cosa giudicata» dando l’impressione di volerne restringere gli effetti ad una funzione meramente negativa o preclusiva, nei confronti del diverso giudice dinanzi al quale la stessa domanda giudiziale fosse stata eventualmente proposta.

Compiute queste precisazioni può dunque enuclearsi la nozione di giudicato in senso materiale: esso consiste in un vincolo che opera nei confronti delle parti e del giudice e che si traduce nella “normatività” della sentenza ossia nell’accertamento – alla stregua di un precetto di legge – del caso concreto4.

L’oggetto dell’indagine deve ora essere affrontato sotto due differenti profili: da un lato, ponendo preliminarmente a raffronto il giudicato formale e quello sostanziale – in quanto trattasi, come accennato, di fenomeni complementari ma distinti – dall’altro lato evidenziando la reale efficacia applicativa della cosa giudicata, in relazione alla quale occorre sia esaminare i provvedimenti idonei al passaggio in giudicato sia i limiti della cosa giudicata sostanziale, tradizionalmente distinti in limiti soggettivi, oggettivi e temporali.

2. Giudicato formale e giudicato sostanziale

L’art. 2909 c.c. si riferisce non ad ogni accertamento di volontà ma soltanto a quello contenuto nella sentenza passata in giudicato: è dunque evidente come per il diritto positivo il giudicato formale costituisca il presupposto necessario della cosa giudicata sostanziale5.

Si tratta di istituti distinti ma complementari6: entrambi sono necessari per la realizzazione del fine perseguito dal Legislatore, consistente nel conferire certezza alle relazioni giuridiche intersoggettive.

Detto collegamento – già presente nella tradizione romanistica (interest reipublicae ut sit finis litis; res judicata dicitur, quae finem controversiarum pronuntiatione judicis accipit) – è ormai elemento caratterizzante di ogni sistema giuridico7.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

2 CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, cit., 906.

3 CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, cit., 906.

4 MENCHINI, Regiudicata civile, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 404 ss.

5 ALLORIO, Natura della cosa giudicata, in RDPr, 1935, I, 215 ss., specie 216 in nt. 1; CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, in Saggi di diritto processuale civile, III, Milano, 1993 (Ristampa), 231 ss., specie 235; PUGLIESE, Giudicato civile,cit., 805 ss., specie 809, il quale evidenzia che la strumentalità del giudicato formale rispetto a quello sostanziale non è imposta da ragioni logiche, ma rappresenta piuttosto il frutto di scelte compiute dal nostro ordinamento; ATTARDI, Diritto processuale civile, I. Parte generale, Padova, 1994, 422 ss.; SATTA, Commentario al c.p.c., Milano, 1959-1962, II, 2, 26; LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, in Tratt. Rescigno, XIX, Torino, 1985, 5 ss., specie 39; CERINO CANOVA, Per la chiarezza di idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in RDC, 1987, 449; MANDRIOLI-CARRATTA, Corso di diritto processuale civile, I - Nozioni introduttive e disposizioni generali, Torino, 2011, 11 ss.

6 CHIOVENDA, Sulla cosa giudicata, in Saggi di diritto processuale civile, II, Milano, 1993 (Ristampa), 399 ss., specie 404- 405; FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1996, 458 ss.; PUGLIESE, «Giudicato civile (dir. vig.) », cit., 785 ss., specie 800 ss.; VERDE, Diritto processuale civile,Volume 2 - Processo di cognizione, Quarta edizione,Bologna, 2015.

7 BONSIGNORI, Tutela giurisdizionale dei diritti, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1999, 49, 125; COMOGLIO, Il principio di economia processuale, II, Padova, 1982, 107.

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Volendo utilizzare un’espressione esemplificativa, può dirsi che la cosa giudicata sostanziale, per poter realizzare la funzione di tutela delle situazioni giuridiche soggettive cui è preordinata, deve preliminarmente configurarsi, sul piano processuale, come preclusione alla possibilità che quanto oggetto di contestazione tra le parti sia nuovamente discusso:

detta preclusione si traduce nell’impossibilità per le parti di proporre, entro i termini perentori di cui agli artt. 326 e 327 c.p.c. i mezzi di impugnazione ordinari8.

Occorre peraltro chiarire che l’effetto preclusivo, cui si è fatto cenno, da un lato non deve essere inteso in senso assoluto, essendo ammessa la proponibilità di mezzi di impugnazione c.d. straordinari: si pensi alla revocazione nei casi di cui all’art. 395 nn. 1-3 e 6 c.p.c. e all’opposizione di terzo nella fattispecie di cui all’art. 404 c.p.c.; dall’altro lato9, l’effetto preclusivo consente di sanare le eventuali nullità di cui sia affetta la sentenza emessa dal giudice, come previsto dall’art.

161 c.p.c. ed eccezion fatta per l’invalidità derivante da difetto di sottoscrizione dell’organo giudicante.

Come è stato messo in evidenza in dottrina10, i nostri autori per lungo tempo si sono chiesti se il giudicato modifica lo stato di diritto preesistente, imprimendo una nuova configurazione al rapporto deciso, oppure se lascia immutata la situazione di diritto materiale, esaurendo la propria efficacia nella formazione di un vincolo processuale, che impedisce al giudice ed alle parti di tornare a discutere in futuri processi in ordine al rapporto giuridico accertato.

E’ in questo solco che si colloca il dibattito sviluppatosi sin dal secolo XIX soprattutto in Germania in ordine alla natura giuridica del giudicato11: un primo orientamento (c.d. teoria sostanziale) sostiene la tesi secondo cui la cosa giudicata opera come nuova fonte di regolamento del rapporto dedotto in giudizio, che si affianca al rapporto preesistente12 o a quello si sostituisce estinguendolo13; un secondo orientamento (c.d. teoria processuale) sostiene, invece, che la natura giuridica del giudicato si sostanzia semplicemente nel divieto fatto ai giudici dei futuri processi di pronunciare nuovamente sulla questione già decisa, senza che alla sentenza possa perciò riconoscersi l’effetto di estinguere il rapporto dedotto in giudizio per costituirne uno nuovo14.

Giova tuttavia sottolineare come si sia autorevolmente dubitato15 che l’accoglimento dell’una o dell’altra teoria possa comportare la produzione di conseguenze pratiche rilevanti, non potendosi negare che il giudicato possieda entrambe le connotazioni16: esso, per un verso, dà certezza alle relazioni intersoggettive delle parti, ponendo fine, mediante la dichiarazione autoritativa della volontà di legge che regola il caso concreto, alla crisi verificatasi nel mondo sostanziale, e, per altro verso, esplica i propri effetti sul piano processuale, facendo sì che nessun giudice possa rimettere in discussione quanto è stato precedentemente deciso17.

In definitiva, la cosa giudicata sostanziale determina un effetto impeditivo, preclusivo alla cognizione della situazione giuridica già oggetto di decisione da parte del giudice, il quale – in un eventuale successivo giudizio – sarà vincolato alla decisione precedente sotto due differenti profili: da un lato, egli dovrà necessariamente attenersi alla statuizione compiuta in precedenza quando la domanda successiva abbia il medesimo oggetto della precedente; dall’altro lato, nel caso in cui la

                                                                                                               

8 Nel cui novero, oggi, va inclusa pure la revocazione per errore di fatto delle sentenze di Cassazione. Sul tema cfr. CONSOLO, La revocazione delle decisioni della Cassazione e la formazione del giudicato, Padova, 1989, 195; SILVESTRI, La revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione: aspetti procedimentali, in NGCC, 1999, 680.

9 Aspetto sottolineato espressamente dalla Relazione del Guardasigilli sul c.p.c. (n. 30, 1° cpv.).

10 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

11 BONSIGNORI, Tutela giurisdizionale dei diritti, I, Disposizioni generali, cit., 125.

12 ALLORIO, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano, 1935, 14.

13 ATTARDI, La cosa giudicata, in J, 1961, 201.

14 PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 812; SEGNI, Della tutela giurisdizionale dei diritti. Disposizioni generali, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt.

2900-2969, Bologna-Roma, 1960, 290-295.

15 Cfr. ATTARDI, La cosa giudicata, cit., 201.

16 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

17 In senso favorevole al superamento della contrapposizione tra efficacia sostanziale ed efficacia processuale, con impostazioni capaci di dare conto sia dei profili materiali sia degli aspetti processuali, si veda: ANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 995-996; PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 818 ss.; LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Principi, 6a ed., Milano, 2002 II, 425-426.

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domanda successiva abbia un oggetto diverso ma connesso (nel senso che la definizione del secondo non può prescindere dall’accertamento precedentemente compiuto in via definitiva) a quello precedente, di quest’ultima statuizione il giudice dovrà necessariamente tenere conto come evento non più contestabile nella formazione del proprio iter decisionale18.

3. Il regime processuale del giudicato

Un aspetto particolarmente controverso in dottrina ed in giurisprudenza è quello concernente l’eccezione di cosa giudicata nel corso del processo: occorre cioè comprendere se si tratti di un’eccezione di parte ovvero se sia consentito al giudice di rilevare d’ufficio la sussistenza della cosa giudicata.

Sul punto è possibile rinvenire due differenti orientamenti.

Il primo – che risente evidentemente dell’influenza francese propensa a configurare l’istituto come mera “finzione di verità”19 - qualifica l’eccezione di cosa giudicata alla stregua di un’eccezione in senso proprio20.

Il secondo orientamento – che risente dell’influenza giuridica tedesca – propende invece a ritenere che l’eccezione di cosa giudicata rappresenti un’eccezione in senso lato, enfatizzando la natura pubblicistica dell’istituto, finalizzato a garantire la certezza del diritto e l’economia processuale nella tutela della situazioni giuridiche21.

Anche la dottrina italiana è decisamente orientata in quest’ultimo senso22.

In particolare, detto assunto si basa su due differenti indici normativi: in primo luogo, la previsione di cui all’art. 39 c.p.c., la quale – con riguardo alla disciplina della litispendenza – consente la rilevabilità d’ufficio in qualunque stato e grado del processo e costituisce una sorta di anticipazione dell’eccezione di cosa giudicata; in secondo luogo, la disposizione normativa di cui all’art. 395 comma 1 n. 5 c.p.c. che consente l’esperimento della revocazione se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata, purchè – ed è questo l’aspetto su cui incentrare l’attenzione – la sentenza medesima non abbia pronunciato sulla relativa eccezione.

Parimenti diffuso è il diverso orientamento della giurisprudenza, la quale ha tradizionalmente distinto la questione della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione a seconda che si tratti di giudicato interno od esterno.

Nel primo caso (c.d. giudicato interno) si afferma che allorquando si tratti di giudicato formatosi nello stesso processo riguardante, ad esempio, una sentenza non definitiva, la preclusione che ne deriva può essere rilevata d’ufficio in qualunque grado e stato della causa anche d’ufficio23 e che a tal fine l’accertamento compiuto dalla Corte di Cassazione in ordine alla formazione del giudicato interno non è vincolato dall’interpretazione degli atti processuali data dai giudici di merito24.

Nel secondo caso (c.d. giudicato esterno), trattandosi di giudicato formatosi in un diverso processo, la cosa giudicata agisce come un’eccezione proponibile nei modi stabiliti dal codice di rito e non opponibile per la prima volta in Cassazione25.

                                                                                                               

18 Cfr. PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 826 secondo cui «il giudicato esplica, a seconda della situazione sostanziale e processuale in cui esso si inserisce o in cui viene fatto valere, una funzione ora negativa ora positiva, aventi l’una e l’altra l’obbiettivo di assicurare che la situazione o il rapporto oggetto del giudicato, nei limiti naturalmente in cui questo opera, costituisca una certezza giuridica e come tale valga».

19 Cfr. l’art. 1350, n. 3, del c.c. francese del 1803, e l’art. 1350, n. 3, del c.c. italiano del 1865.

20 Cass. S.U., 4-11-1994, n. 9124, RFI, 1994, cit., n. 4; Id. S.U., 11-11-1991, n. 12011, ivi, 1994, cit., n. 20; Id., 10-3-1986, n. 1608, ivi, 1986, cit., n. 40;

Id., 15-9-1981, n. 5097, GC, 1982, I, 446 ss.; Id., 11-5-1977, n. 1855, GI, 1978, I, 1, 518 ss. Contra, T. Napoli, 2-1-1991 FI, 1992, I, 225 ss.; Cass. S.U., 23- 10-1995, n. 11018 RDPr, 1996, I, 824 ss., con nota di SCARSELLI, Note in tema di eccezione di cosa giudicata.

21 CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, cit., 914; ANDRIOLI, Diritto processuale civile , cit., 993; LIEBMAN, Sulla rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di cosa giudicata, in RTPC, 1947, 359 ss.; PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 832 ss.; VALCAVI, Sulla rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di cosa giudicata, in RDPr, 1953, II, 163 ss. Invece, in senso favorevole alla necessità dell’eccezione di parte, SATTA, Commentario al c.p.c., cit., II, 2, 30; CIFFO BONACCORSO, Il giudicato civile, Napoli 1955, 145 ss.

22 LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, cit., 315; MENCHINI, Il giudicato civile, in Giur. sist. dir. proc. civ. Proto Pisani, Torino, 1988, 13 ss.

23 Cass. 3221/1980, in Mass. Giur. It., 1980; Cass. 3176/1974, inMass. Giur. It., 1974; Cass. 810/1965, in Mass. Giur. It., 1965.

24 Cass. 1758/1986, in Mass. Giur. It., 1986.

25 Cass., S.U., 460/1999, inMass. Giur. It., 1999; Cass. 8622/1998, inMass. Giur. It., 1998;Cass. 6337/1995, inMass. Giur. It., 1995 ; Cass. 2667/1984,in Giust. Civ., 1985, I, 452 nota di MENCHINI. Sul punto giova inoltre sottolineare come la giurisprudenza abbia sottolineato sia che l’eccezione di cosa giudicata è deducibile per la prima volta in appello, senza violare il divieto, previsto nell’art. 345, 2° co., c.p.c., se essa si basi su di un fatto sopravvenuto

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Il panorama giurisprudenziale appena descritto ha subito tuttavia negli ultimi anni alcuni decisi cambiamenti: si sono ricondotti ad unità i due differenti orientamenti, affermandosi che in presenza di un giudicato, sia interno che esterno, la Cassazione deve rilevarlo anche d’ufficio26 a prescindere da qualsiasi istanza di parte e al fine di verificare se sia formato un giudicato può anche procedere al relativo accertamento con cognizione piena, che comprende la valutazione e l’interpretazione degli atti del processo, mediante indagini ed accertamenti anche di fatto.

In altri termini, gli orientamenti più recenti della giurisprudenza evidenziano la tendenza a riprendere gli argomenti ermeneutici ed esegetici, favorevoli alla rilevabilità d’ufficio, che si desumono dall’art. 39, 1° co., c.p.c., o dall’art. 395, n.

5, c.p.c.: si tende a sottolineare come il divieto del bis in idem, incidendo sull’esercizio della giurisdizione, si sottragga alla disponibilità privatistica e sia quindi rimesso al rilievo d’ufficio del giudice.

Detto ultimo orientamento si giustifica alla luce di una diversa considerazione della distinzione tra eccezioni in senso proprio – proponibili soltanto dalle parti - ed eccezioni in senso lato – rilevabili anche d’ufficio dal giudice.

In via meramente esemplificativa, potrebbe dirsi che il principio affermato è quello secondo cui, allorquando l’eccezione non sia diversamente qualificata dalla legge, essa può essere dedotta e rilevata ex officio, mentre, affinchè un’eccezione possa essere considerata rimessa all’autonoma ed esclusiva volontà della parti, occorre una specifica disposizione normativa.

Di conseguenza, poiché nessuna disposizione normativa qualifica l’eccezione di giudicato esterno è da ritenersi che esso sia rilevabile d’ufficio dal giudice27.

Questo orientamento è stato accolto dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12159 del 201128 con la quale è stato affermato che “l’esistenza di un giudicato, anche esterno, non costituisce oggetto di eccezione in senso tecnico, ma è rilevabile in ogni stato e grado anche d’ufficio, senza che in ciò sia riscontrabile alcuna violazione dei principi del giusto processo”.Del resto, questo assunto può facilmente giustificarsi proprio alla luce dei principi regolatori del giusto processo.

La sentenza contraria ad un precedente giudicato non solo può essere impugnata con i normali mezzi di impugnazione e soprattutto con ricorso in Cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 2 o n. 4, c.p.c. ma, nel caso in cui non abbia pronunziato sulla dedotta o rilevata exceptio rei judicatae, può formare oggetto di revocazione ordinaria, ai sensi dell’art. 395, n. 5, c.p.c.29.

Recentemente le Sezioni Unite della Suprema Corte sono di nuovo intervenute sul tema del giudicato esterno affermando che il principio secondo cui l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quello interno, rilevabile d’ufficio, non solo quando emerga da atti prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto ex art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata al fine di dimostrare l’effettiva

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

dopo lo scadere del termine per la sua deducibilità in primo grado (Cfr. Cass. 5703/2001, in Mass. Giur. It., 2001) e che, per essere eccepito, il giudicato non richiede l’uso di formule sacramentali, ma esige che la volontà di invocarne gli effetti vincolanti assuma comunque un’espressione inequivoca (Cass.

1415/1986, in Mass. Giur. It., 1986), non ravvisabile di per sé nella mera produzione documentale della sentenza passata in giudicato ( Cass. 2524/1999, in Mass. Giur. It., 1999); nonchè infine che il giudicato è suscettibile di interpretazione unicamente da parte del giudice di merito, costituendo un apprezzamento di fatto che può essere sindacato in Cassazione solo se sia affetto da vizi logico-giuridici, inficianti l’accertamento della sua formazione o l’identificazione dei suoi limiti di efficacia, alla luce dell’art. 2909 (è, quindi, inammissibile un’azione autonoma di mero accertamento, che sia diretta ad interpretare un precedente giudicato fra le stesse parti (Cass. 5339/2000, in Mass. Giur. It., 2000).

26 Cass. 19090/2007 in Foro It., 2008, 6, 1, 1966 nota di RENDA.

27 Cass., S.U., 9050/2001, in Nuova Giur. Civ., 2002, II, 265 nota di VOLPINO; Cass. S.U., 226/2001 in Foro It., 2001, I nota di IOZZO ; adde nel medesimo senso,: Cass. 630/2004 in Arch. Civ., 2004, 1320; Cass. 5140/2003, in Mass. Giur. It., 2003; Cass. 1153/2003, in Arch. Civ., 2003, 1222; Cass.

735/2002, in Mass. Giur. It., 2002 .

28 In CED Cassazione, 2011.

29 Secondo Cass. 2082/1998, in Foro It., 1999, I, 2348 , quando tale sentenza sia comunque divenuta inoppugnabile, per mancato esperimento o per intervenuta consumazione di questi rimedi preventivi, il vizio che la inficia risulta definitivamente “sanato” ed il contrasto fra i due giudicati viene per lo più risolto alla stregua del criterio temporale, nel senso che il secondo prevale sul primo, sostituendosi a quello.

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sussistenza, o meno, dei fatti, poiché, in tal caso, il giudicato ha valenza non già di regola di diritto cui conformarsi bensì solo in relazione a valutazioni di stretto merito.

In altre parole, secondo l’ultimo orientamento della giurisprudenza di legittimità il regime processuale dell’eccezione di cosa giudicata deve tenere conto – quando proposta in sede di Cassazione – della natura di detto ultimo giudizio: non trattandosi di giudizio sul fatto, dovrà conseguentemente escludersi la rilevabilità d’ufficio ogniqualvolta l’eccezione di cosa giudicata si traduca in un giudizio di merito.

Ne deriva, sostanzialmente, una limitazione all’assunto della rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di cosa giudicata “in ogni stato e grado del processo”: si badi che non si tratta di un “ritorno al passato” ma della mera affermazione della necessità di limitare il più possibile lo snaturamento del giudizio di legittimità.

Un ultimo aspetto che occorre considerare è quello relativo alla rinuncia della parti agli effetti del giudicato.

Si ritiene in dottrina che occorra compiere una distinzione30 tra il divieto del bis in idem e l’immutabilità dell’“accertamento” contenuto in una sentenza passata in cosa giudicata, da un lato, e l’oggetto di quell’“accertamento”, ossia la situazione giuridica sostanziale su cui si ripercuote l’“autorità” del giudicato, dall’altro lato.

La ratio dell’istituto ed in particolare la sua funzione pratica inducono a ritenere che l’“autorità”

dell’“accertamento” è del tutto indisponibile, derivando da norme imperative di ordine pubblico, che la sottrae ad ogni deroga da parte dei privati, precludendo alle parti qualsiasi possibilità di pretendere un bis in idem, e cioè che le questioni irretrattabilmente decise vengano riesaminate e ridecise da un nuovo giudice, malgrado quel giudicato già formatosi: è ormai risalente e consolidato l’orientamento della giurisprudenza secondo cui le parti del rapporto giuridico irretrattabilmente “accertato” possono validamente rinunziare agli effetti sostanziali del giudicato, ma non agli effetti processuali ed alla preclusione del bis in idem, che ne sono derivati.

È quindi nullo, ai sensi dell’art. 1418, l’eventuale accordo di parte che si proponga di rimuovere gli effetti preclusivi del giudicato e di sottoporre ex novo la medesima controversia ad un nuovo giudice, al fine di ottenerne una nuova decisione31.

4. I provvedimenti suscettibili di acquisire l’autorità del giudicato

Enucleato il concetto di giudicato sostanziale ed evidenziata la distinzione intercorrente con la cosa giudicata formale, occorre ora focalizzare l’attenzione in ordine ai provvedimenti suscettibili di acquisire l’autorità del giudicato sostanziale alla stregua della disposizione normativa di cui all’art. 2909 c.c. .

Come giustamente sottolineato in dottrina32, la tutela giurisdizionale dei diritti viene realizzata, di regola, mediante processi a cognizione piena, che possono assumere, oltre alla forma ordinaria delineata dal libro primo del codice di procedura civile, anche la forma dei procedimenti speciali; basti ricordare al riguardo: il rito del lavoro, ex art. 413 c.p.c. e seg.; il rito delle locazioni, ex art. 447-bis c.p.c.; il giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione irrogatrice di sanzioni amministrative, ex art. 23, l. n. 689 del 1981; il procedimento di divorzio di cui all’art. 4, l. 6 marzo 1987, n. 74, i quali tutti sono caratterizzati dalla circostanza che il Legislatore predetermina i poteri, i doveri e le facoltà delle parti e del giudice, nonché i tempi e le forme di esercizio di queste situazioni soggettive processuali33.

Per tali provvedimenti l’acquisizione degli effetti della cosa giudicata sostanziale si verifica in modo automatico – indipendentemente dal carattere ordinario o meno del relativo procedimento – in quanto il fenomeno del giudicato è stato storicamente finalizzato con precipuo riferimento alle sentenze conclusive del giudizio, le quali affermano o negano il diritto fatto valere con la domanda giudiziale34. Ciò risponde all’esigenza di certezza del diritto ed, in particolar modo, di

                                                                                                               

30 LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, cit., 286.

31 Cass. 3988/1979, in Mass. Giur. It., 1989; Cass. 444/1974 in Mass. Giur. It., 1974.

32 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

33 FABBRINI, «Potere del giudice (dir. proc. civ.) », in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 721 ss.

34 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

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tutela della situazione giuridica sostanziale, il cui accertamento assume efficacia vincolante nell’ambito delle relazioni intersoggettive e dei futuri processi.

Ne sono una dimostrazione evidente le disposizioni normative di cui agli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c.: la prima, collocata sistematicamente nel titolo relativo alla «tutela giurisdizionale dei diritti», richiama la seconda, chiarendo che la vincolatività del giudicato non appartiene ad ogni accertamento giudiziale, bensì ai soli provvedimenti emessi in esito all’ordinario processo di cognizione.

Più in particolare detti provvedimenti assumono la forma di sentenza, la quale per un verso, è l’atto conclusivo dei giudizi a cognizione ordinaria relativi a diritti soggettivi o a stati della persona (artt. 279 e 429 c.p.c.), e, per altro verso, è sottoposta ai rimedi elencati nell’art. 324 c.p.c. (art. 323 c.p.c.).

Essa presenta, dunque, tutti i caratteri costitutivi della cosa giudicata sostanziale: accerta la sussistenza o meno di una data situazione giuridica sostanziale e diviene immodificabile una volta esauriti i mezzi di impugnazione predisposti dall’ordinamento35.

E’ proprio la forma della sentenza, di cui agli artt. 278 e 279 c.p.c., che consente a provvedimenti, tra loro eterogenei, di poter assumere un identico trattamento processuale: l’immodificabilità e l’irrevocabilità da parte del giudice che li ha emessi; l’impugnabilità nei modi e nei termini previsti dalla legge; l’acquisizione, una volta esauriti i mezzi di impugnazione, della c.d. efficacia preclusiva interna, ovvero della capacità di rendere incontestabile, all’interno del procedimento in corso, il loro contenuto36.

Deve peraltro sottolinearsi come vi sia una contrapposizione di opinioni in dottrina: da un lato, infatti, vi è chi37 sostiene che l’accertamento destinato a “fare stato” con autorità di giudicato sia solo quello riferibile ad una sentenza in senso proprio – avente i caratteri appena sopra delineati – e che non possa estendersi detta qualifica ai provvedimenti giurisdizionali emessi nell’ambito dei procedimento a cognizione sommaria; dall’altro lato, vi è la tesi – oggi dominante – secondo cui l’autorità della cosa giudicata sostanziale apparterrebbe a tutti i provvedimenti aventi il carattere della decisorietà, i quali, – sulla scia di quanto affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 2593 del 1953 – anche se resi in forma diversa da quella della sentenza, hanno l’attitudine a pronunciarsi su diritti al termine di procedimenti a carattere contenzioso.

Ne deriva che nella nozione di sentenza alla quale fa riferimento l’art. 2909 c.c. dovrebbe farsi primariamente rientrare la decisorietà del provvedimento e che detto carattere dovrebbe addirittura reputarsi prevalente nel raffronto con la forma di volta in volta attribuita ai provvedimenti emessi dal giudice38.

Non si ravvisa, invece, unanimità di vedute in ordine al novero delle sentenze idonee ad acquisire l’autorità della cosa giudicata sostanziale.

                                                                                                               

35 Come messo in evidenza da MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss., si possono assimilare ai processi, ordinari o speciali, a cognizione piena quelle strutture cognitive speciali ma non sommarie, per lo più introdotte dalla legislazione degli ultimi anni, che, pur presentandosi come speciali in quanto non identificabili con quelle ordinarie, «sono articolate in un contraddittorio, in una istruzione e in un accertamento giudiziale pieni ed approfonditi» (in questo senso LANFRANCHI, Profili sistematici dei procedimenti decisori sommari,in RTPC, 1987, 88 ss., specie 107); a titolo meramente esemplificativo, si segnalano il giudizio di dichiarazione dello stato di adottabilità, previsto dalla l. 4 maggio 1983, n. 184, ed il procedimento di interdizione e di inabilitazione disciplinato dagli art. 712 c.p.c. e seg. e art. 414 c.c. e seg. I provvedimenti conclusivi di tali procedimenti, aventi per lo più forma di sentenza e soggetti alle impugnazioni ordinarie elencate nell’art. 324 c.p.c., una volta divenuti (relativamente) definitivi, producono gli effetti del giudicato materiale ex art. 2909 c.c., in quanto emessi in base ad una «cognizione esauriente» e suscettibili di raggiungere la condizione del giudicato formale ipotizzata dall’art.

324 c.p.c. Analoga soluzione deve essere adottata per le sentenze (ad es., dichiarative di fallimento ex art. 16 l. fall.) emesse in base ad una cognizione sommaria e non soggette ad appello o a ricorso per cassazione o agli altri mezzi di cui all’art. 324 c.p.c., ma sottoposte ad opposizione o ad altri rimedi «ad ampio spettro» la cui proposizione dà vita ad un ordinario giudizio di cognizione; in tali ipotesi, da un lato, «l’infruttuoso decorso del termine per proporre opposizione provoca una situazione di formale stabilità e inattaccabilità della sentenza, in tutto paragonabile al fenomeno del giudicato formale», presupposto della formazione del giudicato sostanziale (LA CHINA, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 39-40) e, dall’altro lato, la possibilità della conversione del rito sommario in quello ordinario, a seguito di opposizione dell’interessato, assicura la garanzia del «giusto e dovuto processo» a cognizione piena, condizione questa necessaria ma anche sufficiente per il riconoscimento dell’autorità del giudicato al provvedimento pur sommario.

36 VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, 338; MONTESANO, Sentenze endoprocessuali nei giudizi civili, in RDPr, 1971, 17 ss., specie 25 in nt. 34.

37 COSTANTINO, sub art. 2909, in Comm. Perlingieri, VI, Torino, 1980, 509; MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, 2a ed., Torino, 1994, 239, 291.

38 CERINO CANOVA, La garanzia costituzionale del giudicato civile, in Studi di diritto processuale civile, Padova, 1992, 9.

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Nulla quaestio per quanto concerne le sentenze definitive di merito, sia che esse siano pronunciate all’esito del giudizio di primo grado sia che siano rese a seguito della proposizione dell’appello ovvero – successivamente alla riforma del 1990 – anche dalla Corte di Cassazione quando essa «decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto» (art. 384 comma 2 c.p.c.).

Semmai, è stato giustamente evidenziato39, come dal giudicato vero proprio vada tenuto distinto il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte poiché l’«effetto vincolante» che ne deriva sembra costituire un unicum a sé, a mezza strada fra preclusione e giudicato.

Maggiori contrasti sorgono, invece, con riguardo alla sentenze di carattere processuale, che pronunciano su questioni di rito, ovvero sulle sentenze non definitive aventi ad oggetto questioni preliminari di merito.

Sul punto, si è giustamente sottolineato40 che la circostanza che dette pronunce assumano la veste della sentenza non ha valore di per sé decisivo.

Non esiste, infatti, un’esatta corrispondenza tra la previsione dell’art. 2909 c.c. e quella di cui all’art. 324 c.p.c.: se è vero che l’autorità di cosa giudicata presuppone il passaggio in giudicato formale, non è vero anche il contrario.

Si tratta di una disposizione neutra, in quanto, pur facendo riferimento all’accertamento contenuto nella sentenza essa non specifica quale debba essere l’oggetto di tale accertamento.

Per risolvere il quesito occorre, pertanto, prendere in considerazione le norme di cui agli artt. 310 comma 2 c.p.c., 44 c.p.c. e 393 c.p.c. .

La prima norma citata prevede che «l’estinzione rende inefficaci gli atti compiuti, ma non le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e quelle che regolano la competenza»; per l’art. 44 c.p.c. «la sentenza che... dichiara l’incompetenza del giudice che l’ha pronunciata, se non è impugnata con l’istanza di regolamento, rende incontestabile l’incompetenza dichiarata e la competenza del giudice in esso indicato se la causa è riassunta nei termini di cui all’art.

50»; infine, per l’art. 393 c.p.c., in caso di estinzione del processo per mancata riassunzione del giudizio di rinvio, la sentenza della Corte di Cassazione «conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda».

Dalle disposizioni normative citate è possibile infatti enucleare i seguenti principi: com’è reso palese dall’art. 310 comma 2 c.p.c. le sentenze su questioni di rito non producono effetti extraprocessuali, con la sola eccezione di quelle pronunciate dalla Corte di Cassazione sulla competenza; hanno efficacia panprocessuale, sempre che venga riproposta la stessa domanda, le pronunce aventi ad oggetto la soluzione di questioni preliminari di merito. Invero, quando il comma 2 dell’art. 310 c.p.c. parla di «sentenze di merito», si riferisce alle sentenze parziali di merito su questioni preliminari emesse in forza del combinato disposto dei nn. 2 e 4 del comma 2 dell’art. 279 c.p.c., mentre restano escluse dall’ambito di operatività di quella norma le cosiddette sentenze parzialmente definitive41.

In ordine alle prime, nonostante alcune autorevoli opinioni contrarie42, si ritiene che gli accertamenti di rito, contenuti in sentenze definitive o non definitive, siano idonei ad acquisire l’autorità e gli effetti interni del solo giudicato formale, essendo del tutto privi di ogni efficacia esterna, tale da poter “fare stato” al di fuori del processo in cui essi si siano formati, giacché risolvono questioni riguardanti il singolo processo.

Risultano estranee al fenomeno del giudicato sostanziale le sentenze con le quali sono risolte dai giudici di merito questioni di giurisdizione, di competenza ed attinenti al processo: infatti, esse non hanno efficacia extraprocessuale.

Tuttavia, producono effetti panprocessuali - ossia vincolano i futuri giudici in caso di riproposizione della medesima domanda - oltre alle sentenze della Corte di Cassazione in tema di competenza e di giurisdizione ed in ordine al principio di diritto enunciato, quelle parziali concernenti questioni preliminari di merito.

Si sostiene43 infatti che il fenomeno per il quale diviene incontestabile l’attribuzione di un bene della vita non è assimilabile a quello per il quale una questione decisa non può essere nuovamente discussa, in caso di riproposizione della

                                                                                                               

39 RICCI, Il giudizio civile di rinvio, Milano, 1967, 143.

40 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

41 In questo senso, si vedano: ATTARDI, Diritto processuale civile, cit., I, 432-433.

42 LAUDISA, La sentenza processuale, Milano, 1982, 181.

43 REDENTI, Il giudicato sul punto di diritto, in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, I, Milano, 1962, 291 ss. (già in Studi Camelutti, II, Padova,

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stessa domanda: nella prima ipotesi, il provvedimento incide prima sulla sfera sostanziale e poi sulla sfera processuale;

nella seconda ipotesi, invece, la sentenza può avere rilevanza soltanto in futuri processi, ma non esercita alcuna rilevanza sul piano sostanziale.

Nella stessa prospettiva si afferma che dette pronunce – essendo meramente preparatorie della decisione finale sul merito – non possono sopravvivere all’estinzione del processo, eccezion fatta per le sentenze con cui la Suprema Corte «regola la competenza», come prevede l’art. 310, comma 2 c.p.c. .

Ad onore del vero, per quanto riguarda le pronunce sulla giurisdizione, siano esse provenienti dal giudice di merito o dalla stessa Corte di Cassazione - in sede di regolamento preventivo o di ricorso ordinario - esiste tuttavia una forte corrente dottrinale44 che ne propugna l’efficacia vincolante esterna, propria del giudicato sostanziale, ribadendone la conseguente sopravvivenza all’estinzione del processo nel quale esse siano state rese.

Per quel che concerne le sentenze non definitive di merito è particolarmente diffusa la tesi secondo cui esse – pur essendo sentenze in senso tecnico – non sarebbero pronunce sul merito, le quali andrebbero identificate esclusivamente con quelle che decidono tutte od alcune delle domande proposte.

A differenza di queste ultime, le prime sarebbero inidonee ad acquisire l’autorità giudicato sostanziale, in quanto dirette ad accertare non già il diritto fatto valere e la sua fattispecie genetica, ma un singolo elemento di quest’ultima.

Tali forme di accertamento parziale, essendo strumentali e preparatorie, non riuscirebbero a sottrarsi alle conseguenze caducatorie dell’estinzione del processo e non dovrebbero pertanto essere ricomprese nelle nozione di “sentenze di merito” cui si riferisce l’art. 310 comma 2 c.p.c.45 .

L’impossibilità di acquisire l’efficacia della cosa giudicata sostanziale con riguardo a tali sentenze è scontata se – come messo in evidenza in dottrina46 - si prendono le mosse dalle idee chiovendiane sul giudicato sostanziale: poiché «la cosa giudicata è l’efficacia propria della sentenza che accoglie o respinge la domanda, e consiste in ciò che, per la suprema esigenza dell’ordine e della sicurezza della vita sociale, la situazione delle parti fissata dal giudice rispetto al bene della vita (res) che fu oggetto di contestazione, non può più essere successivamente contestata», la risoluzione data alle questioni o processuali o sostanziali, di fatto o di diritto, pur contenuta in sentenze interlocutorie, «non ha l’efficacia del giudicato; essa ha soltanto un’efficacia più limitata, imposta da esigenze d’ordine e di sicurezza nello svolgimento del processo, che consiste nella preclusione della facoltà di rinnovare la stessa questione nello stesso processo»47.

Ulteriore questione da affrontare riguarda l’attitudine ad acquisire valore di giudicato sostanziale dei provvedimenti con funzione cautelare: con riguardo a questi ultimi, appare evidente che la strumentalità e la provvisorietà di cui si caratterizzano li rendono del tutto incompatibili con la nozione di cosa giudicata sostanziale cui si è fatto in precedenza cenno.

In quanto «provvisori» e non capaci di sopravvivere al normale procedimento di cognizione, non forniscono alcuna

«disciplina definitiva» al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, per cui non sono in grado di rappresentare la fonte della regolamentazione vincolante di esso48.

Analoghe conclusioni possono adottarsi relativamente ai provvedimenti anticipatori della statuizione finale, caratterizzati da una sostanziale provvisorietà: si pensi alle ordinanze degli artt. 186-bis, 423 e 708 c.p.c. e dell’art. 446 c.c. .

Si tratta di provvedimenti che anticipano il contenuto della pronuncia di merito e sono perciò provvisori, essendo i loro effetti destinati ad essere rimossi dalla sentenza conclusiva del processo; essi si dicono sommari perché sono pronunciati «quando il giudice sia convinto che le risultanze di causa acquisite fino al momento della pronuncia (o, come

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

1950, 691 ss. ed in RTPC, 1949, 257 ss.); COSTA, Sull’effetto vincolante della sentenza della Corte di Cassazione per violazione di legge, in RDPr, 1949, II, 132 ss.; CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, cit., 269 ss.; ANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., I, 993 ss.; MONTESANO, Sull’efficacia panprocessuale delle sentenze civili di Cassazione, T, 1971, 740 ss.

44 FERRI, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, Pavia, 1968, 99; Id., Sentenze a contenuto processuale e cosa giudicata, in RDPr, 1966, 419; Id.,Estinzione del processo ed efficacia delle sentenze regolatrici della giurisdizione, in RDPr, 1973, 135, commento a C., S.U., 3019/71.

45 BONSIGNORI, Tutela giurisdizionale dei diritti, I, Disposizioni generali, cit. 91.

Sul punto anche MONTANARI, L’efficacia delle sentenze non definitive su questioni preliminari di merito, in RDPr, 1986, 392, 834, e 1987, 324; VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, cit., 332.

46 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

47Così CHIOVENDA, Cosa giudicata e preclusione, cit., 267 ss. Sul punto, in modo analogo, Id., Principi di diritto processuale civile, cit., 906 ss.;

Id., Cosa giudicata e competenza, in Saggi di diritto processuale civile, II, Milano, 1993 (Ristampa), 411 ss.

48 PROTO PISANI, Usi e abusi della procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c., in RDC, 1990, I, 393 ss.; MENCHINI, Orientamenti sull’efficacia dei provvedimenti contenziosi sommari non cautelari, in GC, 1988, II, 319 ss., specie 320.

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si suol dire, emergenti «allo stato degli atti») sarebbero, in sé, sufficienti ad accogliere in tutto o in parte la domanda, se non contrastate da altre, che non sono ancora emerse o non sono ancora pienamente conosciute, ma che lo possono in momenti successivi, dando luogo alla revoca della tutela provvisoria» 49.

Tuttavia, tali provvedimenti – come emerge ad esempio dal tenore letterale dell’art. 186bis comma 2 c.p.c. - conservano la loro efficacia in caso di successiva eventuale estinzione del processo: detto carattere ha indotto parte della dottrina a sostenere che essi producano l’autorità di cosa giudicata ed impediscano una nuova decisione in ordine al rapporto accertato50.

Per risolvere la questione riveste carattere decisivo la previsione normativa di cui all’art. 189 disp. att. c.p.c., che – sebbene dettata con riferimento alle ordinanze dell’art. 708 c.p.c., sembra espressione di un principio di valenza generale:

i provvedimenti anticipatori conservano la loro efficacia esecutiva anche dopo l’estinzione del processo, ma possono essere sostituiti con un altro provvedimento emesso a seguito di nuova presentazione della domanda.

Ciò comporta, sostanzialmente, che dette ordinanze non contengono un accertamento vincolante per il futuro, che impedisca ad ogni successivo giudice di tornare ad esaminare il diritto soggettivo tutelato: «l’efficacia che si conserva dopo l’estinzione del processo, non può essere maggiore di quella che il provvedimento sopravvivente aveva in quel processo, e poiché nel suo corso gli atti in questione erano revocabili, al mezzo della sentenza di merito, essi sopravvivono con tale revocabilità, nel senso che danno alla controversia un regolamento parziale e provvisorio, che può essere sostituito con altro dettato dalla sentenza di merito nel nuovo processo instaurato con la riproposizione della domanda o anche nel corso dell’istruttoria di tale nuovo processo, con provvedimento a sua volta revocabile»51.

L’efficacia della cosa giudicata sostanziale deve, inoltre, essere negata ai decreti camerali di volontaria giurisdizione, emessi ai sensi degli art. 737 e ss. c.p.c.: la revocabilità e la modificabilità in ogni tempo di tali decreti (art. 742 c.p.c.), ne escludono la stabilità e ne rendono contestabile in futuro il contenuto.

Proprio la revocabilità rappresenta, come sottolineato in dottrina52, «una conferma non superabile all’affermazione che un tale decreto non abbia un’efficacia dichiarativa o di accertamento», ossia che non presenti le condizioni per la produzione del giudicato vuoi formale vuoi sostanziale53.

Per quanto riguarda i provvedimenti autonomi a cognizione sommaria, emessi a conclusione di procedimenti convertibili, su opposizione di parte, in giudizi ordinari, vengono in considerazione: il decreto di ingiunzione emesso ai sensi degli artt.

633 e ss. c.p.c.; l’ordinanza di rilascio prevista dall’art. 30, commi 4 e 5, l. n. 392 del 1978 (c.d. legge dell’equo canone);

il decreto di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro di cui all’art. 28, l. n. 300 del 1978 (Statuto dei lavoratori) ed il decreto di repressione dei comportamenti di discriminazione nel lavoro fondata sul sesso, di cui all’art. 15, legge 9 dicembre 1977, n. 903; il decreto in materia di obblighi di mantenimento dell’art. 148 c.c.

                                                                                                               

49 Vedi, MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 293, cui si rinvia, op. cit., 298 ss., per approfondimenti.

50 Il problema si è posto soprattutto con riferimento all’ordinanza per somme non contestate dell’art. 186-bis c.p.c.; parte della dottrina ha sostenuto che essa, a seguito dell’estinzione del giudizio di merito nel corso del quale è stata emessa, resta ferma e l’accertamento del credito fa stato ex art. 2909 c.c.; ciò in forza del richiamo in via analogica del regime accordato dall’art. 653 c.p.c. al decreto ingiuntivo opposto nell’analogo caso dell’estinzione del processo di opposizione (CIVININI, Le condanne anticipate, FI, 1994, I, 331 ss., specie 338-339; FABIANI, I provvedimenti a funzione prevalentemente definitiva, ivi, 1993, I, 1993 ss., specie 2000). Peraltro, la dottrina maggioritaria, facendo leva, da un lato, sul regime di revocabilità dell’ordinanza, e, dall’altro lato, sul disposto dell’art. 189 disp. att. c.p.c., sostiene che l’art. 186-bis c.p.c. si riferisca esclusivamente alla conservazione dell’efficacia esecutiva, la quale «non implica — anzi esclude — l’efficacia di cosa giudicata e perciò è perfettamente compatibile con la provvisorietà del provvedimento» (MANDRIOLI, Le nuove ordinanze di «pagamento» e «ingiunzionale» nel processo ordinario dì cognizione,in RDPr, 1991, 644 ss., specie 650), con la conseguenza che il debitore potrà sempre contestare il debito in un autonomo giudizio (così, oltre anche MERLIN, L’ordinanza di pagamento delle somme non contestate,in RDPr, 1994, I, 1009 ss., specie 1035 ss.; RAMPAZZI, Commento agli art. 20 e 21 l. 26 novembre 1990, n. 353, in Le riforme del processo civile, a cura di S. Chiarloni, Torino, 1992, 232 ss., specie 243).

51 Vedi, MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti ,cit., 298. A fondamento della conclusione qui difesa (in termini generali, confronta anche MENCHINI, Orientamenti sull’efficacia dei provvedimenti contenziosi sommari non cautelari, cit., 320) si può addurre (MENCHINI, Regiudicata civile, cit. 404 ss.) anche un ulteriore argomento: i provvedimenti de quibus sono resi sulla base di una cognizione sommaria e superficiale e sono inoppugnabili, per cui, non essendo sottoposti alle garanzie dell’ordinaria cognizione e dei normali rimedi impugnatori, non sono in grado di acquisire la condizione descritta dall’art. 324 c.p.c., presupposto degli effetti di cui all’art. 2909 c.c.

52 CERINO CANOVA, Per la chiarezza di idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, cit., 449-450, 459; MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 260; TOMMASEO, Appunti di diritto processuale civile3, Torino, 1995, 159, 164.

53 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

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Orbene, si ritiene che detti provvedimenti – una volta divenuti stabili per mancata proposizione dei mezzi di impugnazione predisposti dal Legislatore - acquistino l’efficacia della cosa giudicata sostanziale54.

Parte autorevole della dottrina55 ha giustamente sottolineato che sebbene la pronuncia del giudice, in queste ipotesi, sia emessa sulla base di una valutazione meramente probabilistica dell’esistenza del diritto soggettivo fatto valere, è altresì innegabile che è previsto un rimedio oppositorio, idoneo a consentire a garanzia della parte soccombente lo svolgimento di un procedimento a cognizione piena. Il «giusto e dovuto» processo non è negato alle parti; esse hanno la possibilità di trasformare la fase sommaria in un ordinario giudizio di cognizione.

Gli orientamenti giurisprudenziali sono, in parte, coincidenti e, in altra parte, divergenti. Si ammette anzitutto, senza particolari incertezze, che possano acquisire l’efficacia e l’autorità del giudicato sostanziale pure i provvedimenti decisori pronunziati in forma diversa dalla sentenza (ad es., i decreti ingiuntivi non opposti)56.

Coerentemente con le argomentazioni della dottrina, cui si è fatto poco sopra cenno, si esclude dall’area di operatività del giudicato sostanziale il provvedimento cautelare, in quanto strumentale e non decisorio57, nonché ogni provvedimento dichiarativo di eventi processuali anomali: si pensi, ad esempio, alla cessazione della materia del contendere58.

Viene inoltre affermato che il giudicato parziale di merito è suscettibile di formarsi, anche per impugnazione parziale o per acquiescenza impropria (ex art. 329, comma 2 c.p.c.), limitatamente ad un capo autonomo di sentenza, che decida un capo autonomo di domanda o comunque risolva una questione avente una propria «individualità ed autonomia»59.

Talvolta, invece, è stato ammesso che le sentenze non definitive di merito - con cui il giudice risolve in senso negativo una questione preliminare di merito, avente carattere impediente od assorbente (ad es., un’eccezione di prescrizione) - siano suscettibili di acquisire l’autorità del giudicato sostanziale ai sensi dell’art. 2909 c.c.60 .

La stessa conclusione viene assunta per le sentenze non definitive di condanna generica (arg. ex artt. 278 e 340,comma 1 c.p.c.), in cui è contenuto un accertamento parziale della fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento del danno61: in ogni caso, la pronunzia non definitiva sull’an debeatur, divenuta inoppugnabile, è dotata di efficacia panprocessuale, che la preserva dagli effetti caducatori della sopravvenuta estinzione del processo (argomentando ex artt. 310, comma 2 c.p.c., e 129 comma 3 disp. att. c.p.c.). Tuttavia, postulando l’accertamento della mera potenzialità lesiva del fatto dannoso, nonché l’accertamento della probabile esistenza di un nesso causale tra quest’ultimo e il danno cagionato, essa non preclude mai nel giudizio sul quantum la possibilità di accertare e dichiarare l’insussistenza in concreto di un danno risarcibile62.

                                                                                                               

54 Ad essi, secondo parte della dottrina, è riconosciuta una certa stabilità «che non si esaurisce nella mera impossibilità del soggetto passivo di paralizzare l’esecuzione e quindi di attendere la compiuta esecuzione per contestare il diritto contro di lui fatto valere... ma dà luogo alla incontestabilità del diritto limitatamente agli effetti del provvedimento sommario “diretti” tra le parti» (così MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, cit., 296).

MENCHINI ( Regiudicata civile, cit., 404 ss.) sottolinea come la giurisprudenza costante e la dottrina maggioritaria equiparano, quanto alla vincolatività, questi provvedimenti alla sentenza passata in giudicato e ne riconoscono l’idoneità ad acquisire l’autorità descritta dall’art. 2909 c.c., in quanto la sommarietà della cognizione riguarda la struttura del procedimento, che per questo si qualifica speciale, e non anche l’efficacia del provvedimento, la quale dipende piuttosto dal suo oggetto e dalla sua funzione dichiarativa ed accertativa dei rapporti giuridici sostanziali (sul punto: CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, cit., 916; ; ALLORIO, Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e di giudicato, in Problemi di diritto, II, Milano, 1957, 57 ss., specie 116; LANFRANCHI, Profili sistematici, cit., 106 ss.; VOCINO, Intorno al nuovo verbo «tutela giurisdizionale differenziata», in Studi Carnacini, II, 1, Milano, 1984, 798 ss., specie 799-801; FAZZALARI, «Processo civile (diritto vigente)», in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 118 ss., specie 136 ss.; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, cit., 473 ss.; GARBAGNATI, I procedimenti d’ingiunzione e per convalida di sfratto, Milano, 1979, 7 ss.; PUGLIESE, Giudicato civile, cit., 838-839).

55 MENCHINI, Regiudicata civile, cit., 404 ss.

56 Cass. 7272/2003 in Mass. Giur. It., 2003; Cass. 7400/1997 in Mass. Giur. It., 1997, 889 nota di RONCO; Cass. 3757/1996, in Nuova Giur. Civ., 1998, I, 272 nota di CASSIANI, PAOLINI; Cass. 2584/1990, in Mass. Giur. It., 1990; Cass. 4647/1987, in Mass. Giur. It., 1987.

57 Cass. 8765/2001, in Mass. Giur. It., 2001.

58 Cass. 9332/2001, in Mass. Giur. It., 2001; Cass. S.U. 1048/2000, in Foro It., 2001, I, 954 nota di SCALA.

59 Cass. 6757/2001, inGiust. Civ., 2002, 1, 729; Cass. 9568/1997, in Mass. Giur. It., 1997; Cass. 3271/1996, in Mass. Giur. It., 1996; Cass. 2621/1995, in Mass. Giur. It., 1995.

60 Cass. 840/1981, in Arch. Civ., 1981, 317.

61 Cass. S.U. 2859/1986 in Foro It., 1986, I, 1533 nota di PROTO PISANI; Cass. 736/1986, in Mass. Giur. It., 1986.

62 Cass. 2127/1998, in Mass. Giur. It., 1998; Cass. 12257/1997, in Mass. Giur. It., 1997; Cass. 2037/1985, in Giur. It., 1986, I,1, 770 nota di MONTESANO.

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