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CAPITOLO 1 PRESUPPOSTI TEORICI

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CAPITOLO 1

PRESUPPOSTI TEORICI

1.1 Le origini degli studi sulla narrazione

La letteratura sulla narrazione ha inizio con la Poetica di Aristotele. In questa opera la poesia viene definita “mimesi”(o arte mimetica), cioè imitazione della vita, e questa tendenza è considerata innata in tutti gli uomini come espressione dell’inclinazione verso la conoscenza. Secondo Aristotele l’imitazione poetica ha un valore conoscitivo superiore alla storia, perché rappresenta «quali cose siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza o della necessità» (1451a 38) ed è considerata vicina alla filosofia poiché ha come oggetto l’universale: «si ha l’universale infatti quando a un individuo di una certa indole accade di dire o di fare certe cose in base alla verosimiglianza e alla necessità, ed è questo a cui mira la poesia» (ivi, 9, 1451b 1, 10).

Inoltre, ad Aristotele è dovuta anche la distinzione dei principali generi poetici, poiché egli ha individuato la tragedia, l’epica e la lirica, che sono caratterizzate in rapporto ai personaggi e all’intreccio. La tragedia è considerata da Aristotele il genere

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supremo ed è definita «mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa, […] la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da tali passioni» (ivi, 6, 1449b 23). Dunque, il fine della mimesi tragica, intesa come ricreazione della realtà secondo la dimensione del possibile e del verosimile, è la catarsi, cioè la purificazione delle passioni. Secondo Aristotele c’è un collegamento tra dramma e azione, poiché il dramma è concepito appunto come imitazione di un’azione e inoltre ha origine dal personaggio che agisce in una determinata situazione. Come si può vedere, già Aristotele aveva compreso l’enorme importanza della letteratura, considerando appunto la poesia dotata di una sua validità conoscitiva che possiede lo stesso grado di verità della filosofia.

Come mostra Olson (1990), il discorso in prosa è emerso nel dodicesimo secolo in Francia. Prima di quell’epoca i discorsi importanti erano versificati: i versi erano visti come una forma di adornamento che mancava dell’immediatezza della prosa.

Nei secoli successivi si è assistito a una diminuzione dell’interesse verso la narrazione, fino ad arrivare all’Ottocento, quando il mondo occidentale ha avvertito un bisogno di trame particolarmente forte, probabilmente dovuto al processo di secolarizzazione, iniziato nel Rinascimento e fortificatosi nell’Illuminismo (Brooks, 1984).

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Nell’Ottocento sia gli autori che i lettori hanno iniziato a pensare che le trame potessero riuscire a dare significato al mondo e alla vita umana. Infatti, «in quella vera e propria età d’oro della narrativa, autori e pubblico condividevano evidentemente la convinzione che le trame fossero un modo utile e necessario per organizzare e interpretare il mondo» (ivi, p. VIII).

Dunque, secondo Brooks, con il romanticismo si afferma la narrazione come modalità fondamentale di rappresentazione e spiegazione.

Nel XX secolo il contributo di Vladimir Propp (1928) dà inizio ai moderni studi sulla narrazione. Nell’ opera Morfologia della fiaba Propp si propone di studiare scientificamente le fiabe. Più precisamente, egli ha lo scopo di esaminare le fiabe attraverso la “morfologia”, cioè lo studio della forma. Egli ha sviluppato un metodo di indagine che si basa sulla descrizione del racconto in relazione alle parti che lo compongono e ai loro reciproci legami. Inoltre, secondo Propp la narrativa rappresenterebbe lo sforzo degli uomini di spiegare gli avvenimenti della vita.

Nel 1945, il critico letterario Kenneth Burke nel libro A Grammar of Motives sosteneva che esistono cinque elementi fondamentali della drammaticità:

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• Il personaggio. • L’ambiente. • Il mezzo. • L’intenzione.

Dunque, il contenuto di un racconto è dato da un fatto compiuto da personaggi, che agiscono con degli scopi, in un ambiente, usando dei mezzi. Secondo Burke la drammaticità nasce quando l’equilibrio tra questi elementi viene a mancare; e proprio nella drammaticità egli vede riflessa l’abilità umana di affrontare le difficoltà.

Negli anni Sessanta il tema della narrazione è stato presente negli studi di Labov e Waletzky, i quali nel saggio Narrative analysis (1967) affermano la tesi secondo cui il racconto servirebbe per comprendere ciò che è improvviso e spiacevole. Secondo le ricerche di Labov e Waletzky ad ogni narrazione di eventi ricordati preesiste una sottostruttura narrativa personale, e l’ordine e la forma delle sequenze del discorso contribuisce a creare l’ordine, la struttura e il significato degli eventi raccontati.

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1.2 Il cognitivismo e la prospettiva narrativa

In psicologia la metafora narrativa non è emersa presto. La psicologia ha affrontato al suo interno vari cambiamenti, uno dei quali è stato la “rivoluzione cognitiva”, che ha segnato la fine del primato del comportamentismo. Una prima fase embrionale del cognitivismo può essere ritrovata negli studi sulla percezione fatti dal movimento del “New Look”, iniziato da Bruner e Postman nel 1946 con il saggio L’attendibilità degli errori costanti nelle misure psicofisiche. Secondo questo movimento di pensiero la percezione umana è influenzata dalle motivazioni, dalle aspettative e dai bisogni emotivi del soggetto. Il New Look, dunque, ha messo in rilievo il valore dei fattori psicologici soggettivi nell’organizzazione della percezione, opponendosi ai parametri, allora dominanti, della psicologia comportamentistica. Questi studi hanno portato alla pubblicazione nel 1956 del libro Il pensiero. Strategie e categorie, ad opera di Bruner, Goodnow e Austin, che, attraverso il concetto di strategia, reintroduce i processi mentali nella ricerca psicologica, e per questo è considerato la prima opera di indirizzo cognitivistico che supera la visione della psicologia comportamentistica (Mecacci, 1992).

L’impostazione della psicologia cognitivistica degli anni che seguirono la pubblicazione del libro di Bruner, è stata sintetizzata

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nel libro di Neisser del 1967, Psicologia cognitivista, che ha stabilito il nome della nuova corrente. La psicologia cognitivistica era caratterizzata innanzitutto da un’impostazione interdisciplinare (psicologia sperimentale, linguistica, cibernetica, neuroscienze, filosofia della mente) e poi dall’interesse verso i processi cognitivi (percezione, linguaggio, attenzione, memoria, pensiero, creatività). Inoltre, il cognitivismo era caratterizzato anche dalla metafora della mente come calcolatore: i processi cognitivi umani erano considerati affini ai processi di elaborazione dell’informazione eseguiti dal calcolatore, che possiede un’organizzazione sequenziale e una limitata capacità di elaborazione lungo i propri canali di trasmissione. Un altro aspetto del cognitivismo era quello di considerare il carattere finalizzato dei processi mentali. Ciò significa che il comportamento veniva considerato orientato verso una meta, cioè una serie di atti, guidati dai processi cognitivi, finalizzati alla soluzione di un problema.

Dunque, questa linea del cognitivismo è denominata “Human Information Processing” (HIP, cioè elaborazione dell’informazione umana) proprio perché nello studio dello sviluppo cognitivo vengono adottati dei modelli computazionali della mente.

Verso la metà degli anni Settanta si è verificato un ripensamento critico del cognitivismo, iniziato dallo stesso Neisser con il libro Conoscenza e realtà, del 1976. Neisser in quest’opera

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mette in luce che il cognitivismo, pur avendo apportato contributi importanti alla comprensione dei processi cognitivi, non ha saputo fornire modelli applicabili a situazioni di concreto funzionamento della mente nella vita quotidiana. Dunque, Neisser ha evidenziato come il cognitivismo sia indifferente alla cultura e privo di validità ecologica. Nella stesura dell’opera Neisser è stato influenzato dalle tesi innovative dello studioso della percezione Gibson (1966)1, che affermava l’importanza di fondare una psicologia della percezione basata sugli effettivi processi attraverso i quali un osservatore percepisce il mondo visivo all’interno di un ambiente naturale.

Il nuovo approccio “ecologico” di Neisser (1976) ha posto lo scopo, per il cognitivismo, di trattare tutti gli aspetti dell’attività cognitiva in una cornice realistica, proponendo metodologie affini alle condizioni di vita dei soggetti studiati. L’argomento principale del libro di Neisser è la percezione, sia perché essa costituisce l’attività cognitiva basilare da cui scaturiscono tutte le altre, sia perché essa si colloca al punto d’incontro tra attività cognitiva e realtà. In Neisser il concetto di “schema” rappresenta il cardine della teoria del ciclo percettivo. Secondo questa teoria l’individuo possiede nella sua struttura cognitiva degli schemi che dirigono l’attenzione e l’esplorazione dell’ambiente producendo delle

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Vedi James J. Gibson (1966) The Senses Considered as Perceptual Systems. In questo libro Gibson è interessato al tema della percezione; egli afferma che l’informazione è presente nella stimolazione ambientale, fuori di noi, e non va cercata nella testa delle persone. Perciò la mente che percepisce non può

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anticipazioni, e quindi preparando il percipiente a ricevere e a selezionare le informazioni. Questi schemi costituiscono il legame tra percezione e pensiero, e dunque tra raccolta ed elaborazione dell’informazione. Tale affermazione sottolinea, quindi, la funzione adattativa e la plasticità dei sistemi psichici. Questa nuova posizione ecologica ha portato all’affermazione di modelli interattivo-costruttivisti, che hanno cercato di coordinare le due prospettive teoriche del cognitivismo, cioè la prospettiva computazionale e la prospettiva ecologica, con la teorizzazione di processi mentali caratterizzati sia cognitivamente che socialmente. Questi nuovi modelli hanno usato il concetto di “schema”, “copione”, “formato” per descrivere «organizzazioni cognitive di azioni sociali nelle quali esiste sempre un’interdipendenza tra componenti sociali e cognitive» (Smorti, 1994, p. 40).

Secondo Smorti (1994) la svolta ermeneutica in psicologia si è affermata in ritardo rispetto agli altri campi proprio a causa del conflitto che si è instaurato all’interno del cognitivismo tra la visione che considera la mente produttrice di significati, e l’altra visione che vede la mente come elaboratrice di informazioni.

Grazie all’importante contributo offerto da Neisser (1976) alla svolta ermeneutica della psicologia, è stato possibile che lo studio dei processi cognitivi si sia collegato a quello della narrativa.

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Lo studio della grammatica delle storie, compiuto dagli studiosi di narratologia, si è unito all’analisi della struttura mentale che soggiace alle storie. Lo studio dei processi cognitivi si è diretto verso lo studio della diacronicità; infatti, il concetto di schema si addice a spiegare la struttura mentale di una storia.

E’ da questi studi che è emersa la prospettiva narrativo-ermeneutica in psicologia, che ha dato nuovo vigore agli studi sulla narrativa.

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1.3 Il contributo di Wittgenstein

Uno dei grandi contributi offerti dalla filosofia in campo psicologico può essere ritrovato negli scritti più tardi di Wittgenstein, in particolare nel Libro blu e Libro marrone (1958) prima, e nelle Ricerche filosofiche (1953) poi.

Wittgenstein compose tra il 1933 e il 1934 Il Libro blu, e tra il 1934 e il 1935 Il Libro marrone. Entrambi i lavori vennero pubblicati postumi in un unico volume, a cura di R. Rhees, nel 1958 sotto il titolo di Preliminary Studies for the Philosophical Investigations generally known as The Blue and Brown Books. Invece, le Ricerche filosofiche furono composte da Wittgenstein tra il 1941 e il 1945 la prima parte, e tra il 1947 e il 1949 la seconda parte, e anch’esse pubblicate postume nel 1953 con il nome di Philosophical Investigations.

Queste ultime opere costituiscono quella che comunemente è chiamata la “seconda fase” della speculazione filosofica di Wittgenstein, che rappresenta una totale revisione critica della sua prima opera, il Tractatus logico-philosophicus (1922).

Nelle opere della seconda fase del pensiero di questo filosofo sono contenuti dei concetti chiave riguardanti la spiegazione psicologica. La posizione che assume Wittgenstein per spiegare i fenomeni mentali prevede una separazione delle cause dalle

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ragioni: la mente non fa parte dell’ordine della natura, perché non rientra nell’ordine delle cause, ma in quello delle ragioni. Questa posizione critica l’idea che i fenomeni mentali possano essere studiati come fenomeni naturali. Wittgenstein sostiene che i fenomeni mentali non sono rappresentazioni soggettive private, e inoltre che gli stati mentali non sono processi o eventi (privati, oggettivi o fisici). Il modello causale della mente concepisce gli stati mentali come effetti di eventi interni o esterni a un organismo. Secondo questo filosofo i modelli causali sono sbagliati perché queste spiegazioni ricorrono alle ragioni che non possono essere conosciute, come invece possono esserlo le cause; infatti le ragioni non sono cause esterne o interne osservabili. Wittgenstein (1958) afferma che

per “stati della mente” noi non intendiamo “fenomeni mentali consci”. Uno stato della mente in questo senso è, piuttosto, lo stato d’un meccanismo ipotetico, un modello [“model”] della mente inteso a spiegare i fenomeni mentali consci. […] Noi

consideriamo questi fenomeni manifestazioni di questo

meccanismo, e la loro possibilità è la particolare costruzione del meccanismo stesso (ivi, pp. 153-54).

Secondo il filosofo, le spiegazioni psicologiche tramite ragioni non sono spiegazioni causali e non sono compatibili con le

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spiegazioni causali, perché nessuna descrizione causale può dire qualcosa sulle azioni “in quanto azioni” o sulle ragioni “in quanto ragioni”. Dunque, Wittgenstein (1966) sostiene che la logica delle ragioni non coincide con la logica delle cause:

supponiamo tu voglia parlare della causalità nel processo delle

sensazioni. “Il determinismo si applica alla mente non

diversamente che alle cose fisiche”. Questo è oscuro. […] Gli psicologi, tuttavia, insistono nel dire “Ci deve essere una legge” – benché non si sia trovata legge alcuna […] A me, invece, che non ci siano di fatto leggi del genere sembra importante (ivi, p. 125).

Allora, la relazione tra ragioni e azioni sta nel fatto che noi diamo un’interpretazione alle nostre azioni, basata su criteri, che rappresentano «l’enunciazione di una connessione concettuale o “grammaticale” fra lo stato psicologico, attribuito per mezzo di un termine del vocabolario “mentale”, e diverse manifestazioni tipiche» (Engel, 1996, p. 120). Dunque, secondo Wittgenstein (1958), gli stati mentali necessitano di criteri pubblici, che corrispondono a connessioni empiriche tra fenomeni. All’interno del nostro linguaggio le connessioni empiriche sono “grammaticali”, cioè hanno lo statuto di “quasi-definizioni” di concetti. Perciò, dare la grammatica di un concetto mentale significa sia associarlo ai criteri appropriati, sia assegnarlo alla categoria concettuale di

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appartenenza. Inoltre, «la “grammatica” di un’espressione non si identifica con le regole del suo uso linguistico, perché la grammatica d’uso del linguaggio spesso ci inganna riguardo alla grammatica reale dell’espressione» (Engel, 1996, p. 121).

In questo senso, nel Libro Blu viene criticata la tradizionale concezione mentalistica/psicologistica che identifica il significato di un’espressione linguistica con un processo mentale parallelo e coesistente al segno. Per Wittgenstein (1958) «il significato di un’espressione, d’un sintagma [“phrase”] per noi è caratterizzato dall’uso che noi ne facciamo. Il significato non è un accompagnamento mentale dell’espressione» (ivi, p. 89).

Wittgenstein sostiene che i concetti mentali appartengono alla categoria di proprietà della sostanza, poiché essi sono proprietà che attribuiamo alle persone. Da qui si deve concepire il pensiero non come una cosa, ma come un attributo di qualcuno. Questi attributi sono intesi dal filosofo come capacità o disposizioni a compiere certe azioni. E le capacità rappresentano l’espressione del fatto che un agente ha “seguito una regola”. Seguire una regola è una “pratica”, acquisita all’interno di un gioco linguistico pubblico; Wittgenstein (1953) afferma che «seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)» (ivi, I, §119). Una regola rappresenta il modello di un comportamento

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impartito tramite l’addestramento all’uso del linguaggio. Secondo Wittgenstein un fenomeno mentale è un fenomeno storico, comprensibile sapendo come certe regole vengono apprese.

Wittgenstein vede la psicologia come una disciplina ermeneutica, e dunque come una disciplina dell’interpretazione (e non come una scienza naturale), perché i fenomeni mentali appartengono a un certo ordine di senso, che fa parte del nostro linguaggio e delle nostre “forme di vita”; e inoltre, perché le spiegazioni psicologiche sono spiegazioni teleologiche o finali, e non causali. Per queste ragioni Wittgenstein (1953) sostiene che la psicologia scientifica non ci può dire niente sulla mente, poiché la connessione tra ragioni e azioni non può essere causale, ma logica o concettuale. La psicologia non deve essere intesa in modo scientifico: «in psicologia sussistono metodi sperimentali e confusione concettuale. […] L’esistenza di metodi sperimentali ci fa credere di possedere i mezzi per risolvere i problemi che ci assillano; per quanto problema e metodi non abbiano nulla da spartire» (ivi, XIV).

Allora Wittgenstein intende sfruttare gli argomenti della psicologia del senso comune per fondare una psicologia ermeneutica, e per negare, dunque, che la psicologia scientifica possa essere pertinente con la psicologia. Wittgenstein, infatti, si pone contro la concezione cartesiana della mente e contro quella

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della psicologia cognitiva, secondo le quali esisterebbe un’interazione causale tra cause interne che producono effetti esterni. La psicologia scientifica, infatti, secondo questo filosofo, dà un’interpretazione erronea della psicologia del senso comune, la quale è perfettamente “in ordine” poiché è comprensibile la natura dei suoi concetti (i quali non sono teorici o esplicativi).

Wittgenstein afferma che gli stati mentali non sono processi o proprietà, ma disposizioni, cioè punti essenziali di relazioni complesse che si comprendono considerando la storia naturale e sociale, e le regole d’uso per i termini mentali apprese dalle persone.

In ultima analisi, Wittgenstein fornisce un contributo alla svolta ermeneutica della psicologia proprio perché difende una concezione interpretativa del mentale, contro una concezione causale del pensiero.

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1 . 4 La metafora narrativa in psicoanalisi

Walkup (1990) afferma che la psicoanalisi si trova al

centro di una rivoluzione concettuale, che prende le mosse

dalla metapsicologia di Freud. Questa rivoluzione è

dovuta alla teoria narrativa, che è stata la prima ad

attaccare la metapsicologia freudiana.

Secondo Walkup, si possono distinguere due tendenze

principali che hanno influenzato la teoria narrativa

psicoanalitica: una è data da Wittgenstein, l’altra è data

dall’ermeneutica2.

La prima tendenza proviene dalle critiche filosofiche

inglesi della psicoanalisi, che confidano nella distinzione,

operata da Wittgenstein (1953, 1958, 1966), tra spiegazioni

causali e spiegazioni che danno una ragione, per

argomentare contro l’adeguatezza delle spiegazioni

metapsicologiche. L’insegnamento di Wittgenstein, come

abbiamo visto, ci ha detto che la mente si riferisce alla

“grammatica” delle ragioni, e non riguarda lo spazio

2

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logico delle cause; inoltre, ci ha detto che la psicologia

scientifica riguarda lo spazio logico delle cause, e per

questo la psicologia si interessa delle condizioni causali

contingenti delle attività mentali, e non verte sulla mente.

Da tutto questo si vede che

le vere “scienze” della mente non sono dunque scienze naturali, ma discipline “interpretative” o della comprensione, scienze dell’uomo […] nella misura in cui queste discipline vertono su attività umane, in un mondo umano, in cui gli individui danno già un senso a queste attività, un senso che fa comprendere loro gesti, parole, scritti, aneddoti, racconti, istituzioni, ecc., come fatti umani, in un universo proprio e autonomo, che deve molto al linguaggio (Engel, 1996, pp. 153-4).

Allora, la psicologia dovrà ridare alle credenze, alle

rappresentazioni e agli atti umani, i significati sociali,

storici, ecc., che appartengono loro, e, perciò, dovrà essere

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Il cambiamento verso la narrativa è uno dei molti

sforzi di separare un modello della scienza naturale,

usualmente collocato nella metapsicologia, dalla

psicoanalisi clinica. Si può vedere facilmente come la

separazione cause/ragioni può adattarsi bene alla teoria

narrativa. Comunque, malgrado l’ovvio adattamento tra

spiegazioni che danno una ragione e spiegazioni narrative,

le seconde sono state introdotte proprio per opporre l’uso

delle ragioni verso le cause in queste discussioni. Qui in

particolare si inseriscono le teorizzazioni di Sherwood

(1969), considerate prioritarie per lo sviluppo delle teorie

della psicoanalisi narrativa. Egli ha indirizzato e

trasformato le istanze sulla psicoanalisi sollevate proprio

dal dibattito sulle cause e ragioni. Infatti, secondo questo

autore le spiegazioni narrative possono offrire

un’alternativa alla stretta dicotomia tra cause e ragioni

nelle discussioni di psicoanalisi, e infatti egli si è opposto

all’uso di questi argomenti, cercando di cambiare i termini

della discussione. Sherwood ha collegato la narrativa con

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di spiegazione; secondo questo pensiero, infatti, le forme

di spiegazione avrebbero tutte uno scopo. Nello schema

proposto da Sherwood una causa o una ragione sono

qualcosa che dà senso a un’incongruità. L’ordine delle

cause e/o ragioni osservabili è in conformità con gli scopi

esplicativi che lo psicoanalista attribuisce loro; a seconda

dello scopo, lo stesso fenomeno primario può essere

considerato sia come una causa che come una ragione.

Come ha affermato Walkup (1990), la seconda

tendenza convogliata nella teoria narrativa psicoanalitica,

è venuta dallo sviluppo (e dalle successive reazioni a essa),

nella filosofia continentale, dell’ermeneutica. Cruciale per

il punto di vista dell’ermeneutica è la stretta divisione tra

scienze umane e scienze naturali. All’interno della corrente

ermeneutica uno dei maggiori filosofi che ha contribuito

allo sviluppo del concetto di narrazione in psicoanalisi è

stato Habermas (1971).

Anche Habermas (1971), come gli ermeneuti, è

interessato alla divisione delle scienze. Egli ha introdotto

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diversità essenziale del sapere, basata sui diversi scopi a

cui serve. Habermas ha proposto tre divisioni della

conoscenza, basate sull’interesse cognitivo svolto:

1) le scienze empirico-analitiche sono guidate

dall’interesse verso la predizione e il controllo;

2) le scienze storico-ermeneutiche sono guidate

dall’interesse verso la comunicazione e la chiarificazione

del significato all’interno di un ordine normativo;

3) la psicoanalisi è guidata dall’interesse verso

l’emancipazione umana.

Habermas ha inoltre proposto che la psicoanalisi

fosse depurata dal positivismo e che essa potesse fornire

una prospettiva critica su una visione della conoscenza che

è potenzialmente disumanizzante.

Queste conclusioni fondamentali, negli anni Settanta,

hanno messo in secondo piano il concetto di causa in

favore dell’ermeneutica, concorrendo a definire dei

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sono nate alcune importanti concezioni di due teorici che,

all’interno della comunità psicoanalitica, sono considerati

tra i maggiori sostenitori dell’approccio narrativo, cioè

Schafer e Spence. Questi due studiosi hanno portato

avanti, seppur in maniera diversa, una concezione

narrativa della psicoanalisi. Infatti, entrambi evidenziano

il fatto che continuamente raccontiamo storie

autobiografiche che sono fondamentali per costituire la

nostra memoria autobiografica e il nostro inconscio.

Invece, la diversità sta nel fatto che Schafer abbraccia la

visione della psicoanalisi proposta da Sherwood e da

Habermas, ed enfatizza l’importanza della narrativa per la

teoria psicoanalitica, mentre Spence non si inserisce

propriamente nel panorama dei tre studiosi sopraccitati.

Schafer (1976), in accordo con la tradizione

ermeneutica, concepisce la psicoanalisi come una

sofisticata tecnica di interpretazione, e la contrappone a

una psicologia psicoanalitica scientifica. Per questo

psicoanalista la psicoanalisi assume un carattere

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su un lavoro circolare di interpretazione, che ricompone

nella sua interezza la vita del paziente, attraverso un

costante movimento di significati. L’abbandono della

concezione che vede la psicoanalisi come scienza che

indaga i fatti, e la sua apertura verso l’ermeneutica hanno

portato all’affermazione di un modello narrativo della

psicoanalisi.

In particolare, Schafer ha operato una forte critica

verso tutto il sistema esplicativo psicoanalitico,

principalmente verso l’impostazione positivistica del

pensiero di Freud. Infatti, anche Schafer ha portato avanti

il dibattito wittgensteiniano sulle cause e ragioni,

sostenendo la rinuncia al concetto di causa per spiegare la

mente e affermando, invece, che le cause servono a

spiegare gli eventi fisici, mentre le ragioni servono a

spiegare i fatti della psiche o i fatti storici.

Nei più recenti lavori di Schafer (1980, 1981, 1983) la

narrativa è passata in primo piano, ed egli vede la

psicoanalisi come una disciplina interpretativa che si basa

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capire e ridescrivere le loro storie di vita. Schafer

attribuisce alla narrativa un ruolo fondazionale in

psicoanalisi, dato che fornisce «un punto di vista su punti

di vista» (1981, p. 3). Vista in questo modo, la narrativa è

un tipo di limite che non può essere superato.

Come spiega Walkup (1990), Schafer considera la

narrazione come un concetto organizzativo per descrivere

cosa succede nel dialogo psicoanalitico, in cui è presente

una storia che inizia a metà e ha due livelli. Nel primo

livello l’analizzato racconta qualcosa all’analista a

proposito di se stesso e di altri, e l’analista lo riespone.

Solo in un secondo tempo l’analista costruisce la storia di

vita analitica del paziente. Per Schafer l’analisi inizia un

movimento tra il disagio attuale e il resoconto presente del

passato. Il recupero del passato attraverso l’analisi avviene

mediante la raccolta delle esperienze che sono fissate in

forma di storia nell’inconscio e nella memoria

dell’analizzato. Grazie al terapeuta viene compiuta

un’ulteriore riorganizzazione di queste storie, ed egli

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Spence (1982), come è stato detto, non si inserisce nel

dibattito sulle cause e ragioni, ma propone un’altra serie

di critiche. Egli contesta le teorie della percezione e della

memoria che crede fallimentari, e la visione del lavoro

analitico che ne deriva. Spence parte dalla distinzione tra

“verità storica e verità narrativa”, già presente ma non

adeguatamente sviluppata in Freud, per arrivare a

riformulare il metodo analitico attraverso il passaggio

dalla “metafora archeologica” a quella narrativa. Spence

rifiuta le teorie che vedono la mente come un registratore

passivo di eventi che, una volta diventati tracce mnestiche

e depositati definitivamente nell’inconscio, possono essere

richiamati durante l’analisi. E, rispetto agli altri tre

studiosi, egli non si preoccupa che questa teoria sia

causale, ma piuttosto è focalizzato sull’importanza del

lavoro analitico di aiutare il paziente a “riscrivere” la sua

storia di vita in una versione più coerente e persuasiva,

come probabile chiave di lettura dei processi mentali.

Dunque, secondo Spence, in sede analitica il terapeuta si

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di essere indipendente dai fatti), cioè deve riorganizzare e

dare un significato a ciò che il paziente dice, diventando

co-autore della nuova narrazione. Anche Wyatt (1986)

afferma che nel contesto terapeutico l’analista fa parte del

genere “uomo narratore”; le storie raccontate dal cliente in

terapia sono ricostruzioni, non immagini reali. Spence

(1986), per spiegare questo fatto, identifica due livelli di

azione narrativa (narrative smoothing) che distorgono “ciò

che è accaduto veramente”. Il primo livello di azione

narrativa è esemplificato dal tipico resoconto in cui alcuni

dettagli sono omessi e altri ingranditi, al punto che il

prodotto finale si adatta al modello richiesto dalla teoria.

Il secondo livello di azione narrativa si svolge nella stanza

dell’analista, nel tipo di storie sollecitate dall’analista.

Come spiega Walkup (1990), Spence (1982) presume che le

qualità narrative dei resoconti di un paziente siano tarde

aggiunte o trasformazioni della verità storica. Allora

Spence propone due nuovi modi di vedere le

interpretazioni psicoanalitiche: in primo luogo, le

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estetiche che devono essere giudicate in base al loro potere

persuasivo, e in secondo luogo, le interpretazioni sono

agenti terapeutici designati per determinare la verità della

proposizione espressa.

La psicoanalisi, dunque, ha a che fare con e nelle

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1.5 L’approccio narrativo e la psicologia culturale

In psicologia lo sperimentalismo scientifico collegato

alla corrente del cognitivismo ha tralasciato un aspetto

fondamentale dei fenomeni umani, ovvero la capacità delle

persone di generare comportamenti, cioè azioni conformi a

certi sistemi di regole, prodotto dell’appartenenza a una

cultura di riferimento.

Il cambiamento in psicologia è avvenuto quando gli

studiosi hanno iniziato a capire che le azioni hanno un

significato solo se rapportabili a un contesto sociale. Si

possono comprendere le “ragioni” (Wittgenstein 1953,

1958, 1966) dei comportamenti umani solo se si dà

significato alle azioni inserite in un contesto sociale.

Quindi, per conoscere la condotta umana si è

avvertita la necessità di un approccio ermeneutico, che

pone come elementi fondamentali e oggetto di studio i

processi comunicativi e i significati umani (Bruner, 1990).

Anche in psicologia, dunque, come era già avvenuto in

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interesse dalle cause alle ragioni (Wittgenstein, 1953, 1958,

1966), e dal comportamento all’azione, divenuta l’elemento

primario dotato di significato da analizzare.

Perciò, si è assistito in ambito psicologico a un

passaggio «da una prospettiva ‘scientifica’ ad una

‘culturale’ e ‘storica’, e infine ‘narrativa’» (Paolicchi, 1994,

pag. 99), basata sulla negazione della metodologia

scientifica della causazione, che, come afferma Bruner

(1990), non è in grado di «cogliere la ricchezza sociale e

personale delle esistenze all’interno di una cultura» (ivi, p.

130).

La psicologia narrativa si riferisce a un punto di vista

all’interno della psicologia interessato al racconto della

vita umana, e quindi a come gli esseri umani costruiscono

storie e ascoltano le storie degli altri. Gli psicologi che

studiano la narrazione sono accomunati dalla concezione

che l’attività umana e l’esperienza sono riempite dal

significato, e le storie sono il veicolo attraverso il quale

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Sarbin e Gergen sono stati alcuni degli autori

fondamentali che hanno contribuito a dare avvio a questo

cambiamento di paradigma in psicologia. Sarbin (1986) ha

proposto di adottare la narrativa come metafora di base

(root metaphor) della psicologia per comprendere il

comportamento umano, piuttosto che continuare ad

assumere il punto di vista meccanicista della scienza

tradizionale in voga per tutto il secolo passato.

Anche Gergen e Gergen (1983 o 1986) hanno affermato

che la forma delle descrizioni scientifiche teoretiche è in

gran parte determinata dalle convenzioni del discorso, cioè

dalla narrativa; quindi le teorie scientifiche sono prodotti

linguistici. Dunque, secondo questi due studiosi,

l’assunzione della scienza tradizionale di fornire teorie che

servano da specchi obiettivi del mondo è falsa, poiché le

teorie scientifiche sarebbero “sottodeterminate” dagli

eventi del mondo, e dunque determinate da preconcetti o

punti di vista. In conclusione, secondo gli autori, le teorie

scientifiche sono costruite da un’impalcatura di trame

(30)

Successivamente un altro studioso, Polkinghorne

(1988), ha offerto un’introduzione alla nozione generale di

narrazione, incluso il suo studio all’interno della

psicologia. La narrazione, secondo Polkinghorne, è la

forma primaria che dà significato all’esperienza umana. La

conoscenza narrativa è un processo narrativo che

organizza le esperienze umane in episodi temporanei

dotati di significato. A causa del fatto che è un processo

cognitivo, la conoscenza narrativa non può essere oggetto

di osservazione diretta, ma le storie individuali, le

narrative umane, invece sì. Esempi di narrative sono storie

personali e sociali, miti, fiabe, novelle, e le storie di tutti i

giorni che usiamo per spiegare le nostre e le altrui azioni.

Dunque, quella che è andata delineandosi in

psicologia è una vera e propria rivoluzione, la

“rivoluzione contestuale”. La metafora contestualista si

fonda sull’evento storico «in quanto si svolge

‘storicamente’ nel suo prodursi» (Paolicchi, 1994, pag.

101). Nel contestualismo è presente l’idea che esista un

(31)

attori che fanno parte di esse, in modi che generano novità

determinate sia dalle situazioni che dall’intervento degli

attori.

Quindi, l’impiego della metafora narrativa per

l’interpretazione degli atti umani è il recente prodotto di

nuovi contributi in psicologia che portano al recupero, alla

riscoperta e alla rivalutazione di aree del sapere che

facevano già parte della tradizione psicologica, ma che

erano state lasciate da parte. Inoltre, in questo clima di

rinnovamento, la metafora narrativa è andata collegandosi

alla psicologia culturale, e in particolare a quegli

orientamenti teorici sviluppatisi negli anni Novanta che

basano lo studio della mente umana sulla valorizzazione

del ruolo del sociale, del linguaggio e delle relazioni

interpersonali.

La psicologia culturale ha come oggetto di studio

l’interazione tra “mente” e “cultura”, e in particolare il

modo in cui l’uomo viene influenzato dalla cultura che lui

stesso ha creato. Più propriamente, la psicologia culturale

(32)

studiare la vita mentale. La psicologia culturale sostiene

che esista una relazione isomorfa tra mente e cultura, cioè

la cultura sarebbe un processo di trasformazione e

riduzione della realtà alla mente umana, un prodotto

mentale umano. Nello stesso tempo, la mente è studiata

dalla psicologia culturale in rapporto agli strumenti

culturali preesistenti in una data cultura. In questo senso,

allora, si instaura un processo circolare nel quale la cultura

influenza la mente, che a sua volta contribuisce a creare la

cultura.

Inoltre, la psicologia culturale si pone anche la

domanda su come l’uomo diventi progressivamente capace

di padroneggiare gli strumenti culturali, per cui diventa

centrale anche il punto di vista evolutivo. Adottando

questo punto di vista si vede, allora, che il bambino nasce

in un mondo già strutturato, apprende la cultura

co-costruendola e negoziandola, e perciò contribuisce a

modificarla. Dunque, la cultura preesiste al bambino e la

mente nasce non mediata dalla cultura, ma nel momento in

(33)

strumenti culturali, la mente diventa mediata. In

conclusione, solo attraverso un punto di vista evolutivo

alla psicologia culturale si può capire che il suo oggetto di

studio è il rapporto tra un soggetto e l’ambiente

preesistente in cui nasce. Come afferma Bruner (2003)

la psicologia culturale è una disciplina che ha in corso un vero processo di rinascita e di ridefinizione, un processo attualmente in piena attività. […] Forse il termine più rivelatore per caratterizzare l’emergente approccio psicologico-culturale a mente-e-cultura, è quello di “costruttivismo” (ivi, pag. 13).

Il costruttivismo considera la realtà come una

costruzione generata dalla mente umana e dalle credenze

tramandate storicamente; inoltre, all’interno della cultura

gli uomini condividono le versioni della realtà create

singolarmente. Questa condivisione avviene grazie alla

facoltà umana dell’ intersoggettività, che è il modo proprio

degli umani di leggere le altre menti; proprio

(34)

considerata il prerequisito fondamentale per lo sviluppo

della cultura umana3.

1.5.1 Le origini della psicologia culturale

La psicologia culturale ha le sue basi negli studi

antropologici, che hanno contribuito a orientare la

psicologia verso un approccio più culturale. In particolare

la psicologia culturale deve il suo sviluppo a due

discipline scientifiche, che sono l’antropologia (psicologica

e cognitiva) e la psicologia. L’antropologia psicologica,

nata tra gli anni Venti-Trenta, usava metodi e

concettualizzazioni psicologiche e psicoanalitiche, mentre

l’antropologia cognitiva si ispirava al modello della

psicologia cognitiva. «Queste due correnti di studio,

l’antropologia psicologica e l’antropologia cognitiva,

costituiscono, per così dire, l’origine antropologica del

3

Attraverso le recenti ricerche compiute sulle scimmie antropomorfe, gli studiosi dell’evoluzione umana hanno mostrato che una delle differenze principali tra uomini e primati sta nella capacità di leggere la

(35)

modo in cui si è venuta a definire la psicologia culturale»

(Smorti, 2003, pag. 69).

Per quanto riguarda invece il contributo offerto dalla

psicologia, possiamo risalire alle teorie proposte da

Wilhelm Wundt nei primi del Novecento. Egli, per

affrontare lo studio dei processi psicologici, propose la

teoria delle “due psicologie”: una psicologia che segue

l’impostazione del positivismo scientifico, facendo propri i

metodi delle scienze naturali e ricollegando i processi

psicologici alle scienze biologiche, e un altro tipo di

psicologia che fa propria l’analisi storico-culturale,

fornendo una descrizione sistematica delle funzioni

psichiche superiori. Un altro importante contributo può

essere rintracciato nelle teorizzazioni della Scuola

storico-culturale sovietica di Vygotskij, Leont’ev e Luria, che dava

importanza al ruolo svolto dall’azione, dal contesto e dagli

strumenti. Secondo questa scuola le funzioni psichiche

superiori si svilupperebbero grazie alle variabili storiche e

culturali. Inoltre, l’organizzazione del lavoro e l’uso degli

(36)

sviluppo culturale che quello mentale4 (Lurjia, 1932;

Vygotskij, 1934). Allora «il pensare, in breve, è un processo

sociale di comunicazione culturalmente mediato» (Cole,

1995, pag. 98). Dunque, l’esperienza umana è mediata, e

quindi il mondo non viene sperimentato direttamente.

In ambito statunitense lo studioso Michael Cole si è

ispirato e ha approfondito le teorie della Scuola

storico-culturale, inglobando anche le teorizzazioni

contemporanee di antropologia culturale e di psicologia

cognitiva; «il risultato ottenuto è stato quello di una

concettualizzazione di cultura che combinava idee

provenienti dalla tradizione europea (principalmente

quella storico-culturale tedesca e russa) con la tradizione

pragmatica-antropologica americana» (Cole, 1996, pag.

301).

Il concetto fondamentale della teoria di Cole (1995,

1996) è che la cultura è un sistema di artefatti, e la mente è

4

Cole (1996) riassume le idee fondamentali della psicologia storico-culturale russa, che sono:

Mediazione attraverso strumenti: i processi psicologici sono emersi contemporaneamente al comportamento umano che permette di modificare gli oggetti materiali per regolare le interazioni con il mondo e i propri simili. Queste forme di mediazione sono gli “strumenti”, e il linguaggio rappresenta lo strumento principale.

Sviluppo storico: secondo il processo dell’inculturazione gli esseri umani diventano esseri culturali e predispongono gli altri a diventare esseri culturali. Allora si può intendere la cultura come una totalità di artefatti raccolti da un gruppo sociale durante la sua esperienza storica.

(37)

il risultato di un processo di mediazione del

comportamento da parte di artefatti. La mente è

considerata come «un “involucro” sopra-individuale in

riferimento al quale vengono definiti l’oggetto/ambiente,

il testo/contesto» (Cole, 1996, pag. 129).

Cole (1996) afferma che «un artefatto è un aspetto del

mondo materiale che è stato modificato durante la storia

della sua incorporazione nell’azione umana rivolta ad un

obiettivo» (ivi, pagg. 109-10). Gli artefatti hanno una

duplice natura, sia materiale che ideale; «sono ideali in

quanto la loro forma materiale è stata modellata dalla loro

partecipazione alle interazioni di cui hanno prima

costituito una parte e che ora invece mediano» (ivi, pag.

110). Perciò gli artefatti «coordinano gli esseri umani con il

mondo e fra di loro in modo da unificare le proprietà degli

strumenti e dei simboli» (ivi, pag. 130)5.

5

Secondo Cole (1996) gli artefatti non possono esistere da soli come elementi di cultura, ma devono essere inclusi in una gerarchia di livelli che implica dei modelli culturali e la costruzione di “mondi alternativi”. A questo proposito Cole adotta la concezione di Wartofsky (1973) secondo cui esistono tre livelli di artefatti:

Artefatti primari: sono quelli usati nella produzione, e sono strettamente collegati al concetto di artefatto come oggetto trasformato dall’attività umana antecedente.

Artefatti secondari: sono rappresentazioni degli artefatti primari, per cui preservano e trasmettono forme di azione e credenze.

(38)

Secondo Cole (1995) la cultura è un

“vincolo-strumento” di azione che può essere collegato a una

varietà di azioni e pensieri umani.

Cole sostiene che per comprendere il pensiero

mediato dalla cultura si devono determinare sia gli

artefatti con i quali viene mediato il comportamento, sia il

contesto in cui si manifesta il pensiero. Perciò ogni

comportamento deve essere interpretato in relazione al suo

contesto.

Inoltre, l’ambiente sociale racchiude la conoscenza

accumulata dagli uomini nel corso del tempo, per cui gli

uomini usufruiscono sia della propria esperienza, sia di

quella dei propri antenati;

i risultati delle generazioni precedenti vengono accumulati nel presente come la parte specificamente umana dell’ambiente; questa forma di sviluppo, a sua volta, implica la speciale importanza del mondo sociale nello sviluppo umano, dal momento che solo altri esseri umani possono creare le condizioni speciali necessarie perché esso si verifichi (Cole, 1995, pag. 103).

(39)

1.5.2 Le prospettive della psicologia culturale

Le prospettive all’interno della psicologia culturale

sono molte ed eterogenee, ma possono essere raggruppate

in due grandi gruppi:

1) PSICOLOGIA TRANSCULTURALE (MENTE E

CULTURA): questa prospettiva separa la mente dalla

cultura, anche se le due interagiscono reciprocamente. La

cultura è una variabile esterna che influenza lo sviluppo

psicologico, mentre la mente è considerata come un

processore logico interno. «Scopo della psicologia

transculturale è allora quello di documentare le variazioni

e spiegare come le differenze individuali nelle funzioni

psichiche umane […] possano avere un’origine culturale»

(Smorti, 2003, pag. 73). Questo è un approccio

universalistico, poiché «studia i parametri universali della

struttura del sistema culturale» (ivi, pag. 76). Inoltre, in

questo approccio lo psicologo rimane fuori dal sistema

(40)

sulla mente. Allora si può dire che lo studioso in questo

caso adotta un modello esplicativo di tipo causale. Questo

approccio può essere chiamato anche prospettiva etica.

3) PSICOLOGIA CULTURALE: è un tipo di approccio

particolaristico, perché studia «il comportamento come

indisgiungibile dalla cultura quindi comprensibile solo

in base ad essa» (Ibidem). In questa prospettiva la cultura

e la mente sono considerate inseparabili e parte di un

unico sistema. Dunque, qui vengono studiate le

reciproche implicazioni tra mente e cultura, per cui viene

usato un modello esplicativo di tipo circolare. Inoltre, in

questo approccio lo psicologo rimane all’interno del

sistema culturale esaminato, adottando un punto di vista

interno e un metodo interpretativo. Questo metodo

comporta un’interazione e un coinvolgimento reciproco

tra osservatore e fenomeno osservato, secondo questo

(41)

l’osservatore analizza l’oggetto a partire dai propri presupposti, influenza l’oggetto osservato ed è da questo influenzato. Egli compirà allora un percorso circolare ed ermeneutico che andrà dai suoi presupposti all’oggetto osservato per tornare indietro e rivedere i propri presupposti (ivi, pag. 82).

Questo approccio può anche essere denominato

prospettiva emica. La psicologia culturale, a sua volta, si

può suddividere in altri due punti di vista:

2.1 Psicologia culturale degli strumenti (mente “nella” cultura): questo approccio è influenzato dalla

Scuola storico-culturale russa. La psicologia

culturale degli strumenti assume come punto di

partenza fondamentale che mente e cultura

interagiscano nelle attività. Questo aspetto della

psicologia culturale opera una mentalizzazione

degli strumenti culturali; infatti «la cultura è

costituita da costrutti mentali concretizzati negli

(42)

non materiali» (ivi, pag. 76). Ciò che interessa della

mente sono il pensiero, la memoria e il

ragionamento. Ciò che viene esaminato è il

contesto, che viene considerato come «ciò che viene

investito dalle pratiche culturali» (ivi, pag. 74). Uno

degli esponenti principali di questo approccio è

Cole.

2.2 Psicologia culturale dei costrutti mentali (cultura “nella” mente): in questo punto di vista la mente è

considerata come parzialmente culturale. La mente

è studiata all’interno di processi sociali condivisi e

costruiti (come possono essere le narrazioni o gli

script). «Cognizioni e cultura sono co-costitutivi e

le storie sono concepibili come strutture culturali

nella mente» (ivi, pag. 75). Dunque, qui è presente

un processo di culturalizzazione dei contenuti e dei

processi mentali; infatti «il linguaggio, le categorie,

le storie, la memoria, la percezione sono tutte

funzioni mentali frutto dell’interiorizzazione di un

(43)

le storie» (ivi, pag. 77). Uno degli esponenti più

importanti di questo approccio è Bruner.

Tornando più specificamente alla differenza esistente

tra prospettiva etica e prospettiva emica, si è riscontrata la

necessità di far coordinare entrambe, dato che sono

insufficienti se adottate da sole. Anche Amsterdam e

Bruner (2000) parlano di una ricomposizione di questa

opposizione. Innanzitutto chiamano la prospettiva etica

“prospettiva socio-istituzionale”: essa dà importanza a

tutto ciò che è esterno alla mente, cioè ciò che influenza e

plasma la mente degli individui. In questa prospettiva la

cultura ha una realtà indipendente dalla mente e dalle

interpretazioni degli individui.

La prospettiva emica invece è chiamata “prospettiva

interpretativo-costruttivista”: essa enfatizza ciò che è

interno alla mente (le interpretazioni), e la società è intesa

come il risultato di una negoziazione di significati.

Secondo questa prospettiva non esiste una cultura al di

(44)

Secondo i due studiosi queste prospettive sono

epistemologicamente incommensurabili, e quindi risultano

non in contraddizione tra loro; perciò si devono

considerare entrambe utili alla comprensione della realtà

culturale. Amsterdam e Bruner pensano che la concezione

socio-istituzionale sia utile a evidenziare la legittimazione

di cui hanno bisogno le società per stabilire e mantenere la

canonicità istituzionale, e che anche la concezione

interpretativo-costruttivista sia importante, perché mette

in luce la capacità delle persone di costruire mondi

canonicamente possibili.

Quindi, in ogni cultura si assiste ad una lotta tra

diverse interpretazioni per il dominio sulle concezioni

della realtà, proprio perché la cultura è considerata dai

due autori come un processo dialettico di negoziazione tra

ciò che è canonico e ciò che è possibile. Inoltre, questo

processo dialettico di negoziazione permette a una cultura

di raggiungere una certa coerenza interna, e conferisce

(45)

1.5.3 Concetti fondamentali della psicologia culturale

Nonostante le varie differenze di prospettive,

all’interno della psicologia culturale si riscontrano molte

idee in comune.

Innanzitutto nella psicologia culturale è presente una

particolare importanza attribuita al concetto di

soggettività. Questo approccio psicologico pone

particolare attenzione alla spiegazione del comportamento

e della soggettività individuale. Ciò è in accordo «con una

visione dell’interazione mente-cultura in cui gli individui

danno interpretazioni idiosincratiche alle situazioni che

affrontano» (Smorti, 2003, pag. 77).

In secondo luogo, la psicologia culturale ricorre ad un

approccio non riduzionistico per studiare i legami che

esistono tra cultura, psicologia ed esperienza. L’approccio

antiriduzionista riguarda sia i rapporti individuo-cultura –

cioè, le forme culturali non possono essere spiegate né con

disposizioni psicologiche, né con spiegazioni che

(46)

trasmissione di informazioni verso l’individuo - sia il

modo di intendere la conoscenza della realtà – cioè, la

conoscenza è un atto di interpretazione compiuto da un

individuo che è coinvolto in esso.

Un’altra caratteristica è che la psicologia culturale

assume una prospettiva monistica, che non opera una

separazione tra psicologia e cultura, e in cui il livello di

analisi è il sistema culturale in cui si verifica il

comportamento. La psicologia culturale concettualizza la

psicologia e la cultura come due fenomeni distinti, ma non

indipendenti; perciò la psicologia è considerata

culturalmente costituita.

Inoltre, la psicologia culturale rifiuta il postulato

dell’”unità psichica”. Questo approccio afferma la necessità di teorie esplicative particolari che si riferiscono

a situazioni culturali specifiche, e si oppongono al

postulato dell’ “unità psichica”, secondo cui i processi

psicologici sarebbero gli stessi in tutti gli individui

indipendentemente dalla cultura. Dunque, secondo questa

(47)

«sono dovuti al fatto che gli individui attribuiscono

significati culturali simili e utilizzano pratiche culturali

simili» (ivi, pag. 79).

In ultimo luogo, un’altra fondamentale caratteristica è

costituita dal fatto che la psicologia culturale pone

un’enfasi particolare sul linguaggio e sulla comunicazione,

poiché essi sono considerati i mezzi attraverso i quali sono

creati, comunicati, mantenuti e trasformati i significati.

Secondo la psicologia culturale la condivisione della stessa

pragmatica del linguaggio è fondamentale poiché produce

delle regole comuni nel modo di pensare. Dunque «lo

strumento principale di cui la “mente mediata” fa uso è

costituito dal linguaggio. Attraverso il linguaggio la

persona condivide e diventa consapevole della storia e

della cultura della sua comunità» (ivi, pag. 98).

Attualmente esistono vari orientamenti teorici che

impostano lo studio della mente sull’importanza del

linguaggio, delle relazioni interpersonali e del sociale. In

particolare, tra le più importanti teorie che usano la

(48)

Edwards e Potter, e di Harré e Gillett, e la psicologia

culturale di Bruner. Entrambe le prospettive, infatti,

concepiscono la dimensione narrativa come la base su cui

può strutturarsi un tipo di pensiero che riguarda la

(49)

1.6 La psicologia discorsiva

La psicologia discorsiva è un tipo di approccio nuovo,

che si inserisce nel vasto panorama della psicologia

culturale, poiché mette in luce una concezione della

cultura intesa come un insieme di pratiche discorsive.

Questo approccio si è venuto a definire nei primi anni

Novanta, ma può essere fatto risalire al lavoro di Vygotskij

e di Mead, e si ispira alla linguistica, all’etnometodologia,

al costruzionismo sociale e all’etogenia.

Secondo Harré e Gillett (1994) la svolta discorsiva,

che si è verificata nei primi anni Novanta, ha prodotto un

radicale cambiamento rispetto alla prima rivoluzione

cognitiva, operata da Bruner, Miller e Johnson-Laird.

Infatti, la prima rivoluzione cognitiva aveva permesso di

superare i limiti del comportamentismo, ma aveva

continuato a studiare gli esseri umani come soggetti

passivi. «La psicologia cognitiva si basava su un revival

dell’utilizzo di concetti mentalistici nella teorizzazione

(50)

che esistessero dei processi mentali inaccessibili

all’osservatore, e compito del cognitivismo era studiare

l’azione umana (intesa come intenzione e cognizione). La

teoria cognitiva che affermava che i meccanismi mentali

sarebbero differenti versioni di “rule-following” (cioè,

seguire la regola) che causano il comportamento, fu

sviluppata attraverso il ricorso all’analogia

mente-computer. Il cervello, perciò, era considerato «il

meccanismo che implementa le regole. I cervelli sono gli

hardware. […] Il cervello e i suoi moduli elaborano

l’informazione proprio come fanno i computer» (ivi, pag.

16). Gli esperimenti del vecchio paradigma «sopravvissero

con la funzione di verificare le conseguenze

comportamentali di ipotesi riguardanti esecuzioni di

presunti “meccanismi” di elaborazione dell’informazione»

(ivi, pag. 19).

L’impulso che ha portato all’affermazione della svolta

discorsiva, chiamata da Harré e Gillett “seconda

rivoluzione cognitiva”, è stato dato, ancora una volta, dal

(51)

Wittgenstein (1953, 1958, 1966). Come abbiamo visto,

Wittgenstein ha portato avanti una concezione

interpretativa dell’attività mentale umana. Secondo il

filosofo si può capire il comportamento di una persona

solo cogliendo le “ragioni” che strutturano il suo pensiero.

Includendo queste concezioni di Wittgenstein, la

psicologia ha assunto un nuovo punto di vista secondo cui

il comportamento delle persone comporterebbe

interpretazione e la mente sarebbe una costruzione sociale,

«in quanto i nostri concetti emergono dal nostro discorso e

formano il modo in cui pensiamo» (Harré, Gillett, 1994,

pag. 26). Dunque, la mente è radicata contemporaneamente

nel contesto storico, culturale, politico, sociale e

interpersonale.

L’assunzione fondamentale di questo nuovo

approccio è il fatto che i fenomeni discorsivi

rappresentano i fenomeni mentali, e dunque non esistono

processi mentali «”dietro” gli stati e i processi mentali

delle nostre attività discorsive» (ivi, pag. 68), come al

(52)

cognitiva. A questo riguardo anche Edwards e Potter

(1992) affermano che

piuttosto che considerare queste costruzioni discorsive come espressioni degli stati cognitivi sottostanti a colui che parla, esse vengono esaminate nel contesto in cui accadono in quanto costruzioni situate e contestualizzate, la cui natura specifica ha senso in egual misura per i partecipanti e per l’analista, nei termini dell’azione sociale che queste descrizioni realizzano (ivi, pag. 2).

Inoltre, essi affermano che nel discorso sono compiute

azioni sociali, o interazionali, e dunque «il focus della

psicologia discorsiva è l’orientamento all’azione del

parlare e dello scrivere» (Ibidem).

Harré e Gillett (1994) considerano la psicologia

discorsiva come lo studio dei discorsi pubblici e privati,

delle significazioni, della soggettività e dei

posizionamenti, attraverso i quali si spiegano i fenomeni

psicologici. Perciò la psicologia rappresenterebbe lo studio

(53)

simbolici, per raggiungere degli scopi e per mettere in atto

progetti.

Un altro punto focale della psicologia discorsiva,

secondo Edwards e Potter (1992), è rappresentato dalla

costruzione retorica delle versioni dei fatti: «nell’approccio

discorsivo le versioni degli eventi, delle cose, delle

persone e così via, sono studiate nei termini di come sono

costruite queste versioni per compiere azioni sociali» (ivi,

pag. 8). Edwards e Potter considerano le spiegazioni che si

danno quotidianamente come “versioni interessate” degli

eventi, come “descrizioni situate discorsivamente”. «La

psicologia discorsiva si focalizza su come gli eventi sono

descritti costruttivamente in modi che, per i partecipanti,

implicano particolari relazioni di causa» (ivi, pag. 10).

Questi due studiosi hanno sviluppato un modello di

azione discorsiva che enfatizza la «centralità della

responsabilità nel dare senso al discorso dei partecipanti»

(ivi, pag. 4).

Secondo Harré e Gillett (1994), il nuovo approccio

(54)

di “significazione”, usato «per indicare il ruolo attivo del

significato nello strutturare l’interazione tra una persona e

un contesto, così come per definire la soggettività di quella

persona nella situazione e il suo posizionamento in

relazione a determinati discorsi impliciti in questa

soggettività» (ivi, pag. 27).

La negoziazione degli eventi da parte del soggetto

deve rispettare 3 vincoli:

a) «non esiste una flessibilità infinita nel modo in cui si concettualizza una situazione» (Ibidem);

b) «ai modi di concettualizzare le cose che entrano in gioco in una data occasione è richiesto di

essere coerenti» (ivi, pag. 28);

c) «io abito molti discorsi differenti, ognuno dei quali possiede il proprio insieme di

significazioni» (Ibidem).

Un altro concetto fondamentale è che il discorso è ciò

(55)

discorsiva. Secondo l’approccio discorsivo «una pratica

discorsiva è l’uso di un sistema di segni, per il quale ci

sono norme d’uso giusto o sbagliato, e i segni riguardano o

sono diretti a varie cose» (ivi, pag. 32). Quindi, la struttura

degli enunciati è controllata da convenzioni di usi giusti o

sbagliati, per cui si parla di “convenzioni narrative” per

indicare i modi con cui vengono raccontate le storie in una

determinata cultura; queste convenzioni sono insite nelle

pratiche conversazionali. Dunque, la mente viene

concepita come un complesso di attività discorsive, che

sono una successione ordinata di atti intenzionali che

usano dei segni, e che sono un’attività combinata

collettivamente. Uno dei concetti fondamentali è quello di

“posizionamento” del parlante, che serve per spiegare il

concetto di soggettività «che esprime il modo in cui le cose

appaiono o con cui ricevono significato dal linguaggio e

dall’azione di una persona, vista in relazione a un contesto

discorsivo» (ivi, pag. 40); infatti, l’esperienza di sé è

fondata su una locazione spaziale, temporale, morale e

(56)

Nella psicologia discorsiva i processi discorsivi

interpersonali producono il pensiero, che viene

considerato come «l’attività e l’essenza della mente» (ivi,

pag. 56). Essi sono comunicabili e “intenzionali”, perché

riguardano delle cose o sono diretti a fini umani. Inoltre, i

pensieri servono per spiegare il comportamento, perché

trattano dei legami, tra esperienze passate e presenti, che

strutturano l’attività del soggetto. Dunque c’è una

connessione tra pensiero concettuale e processi di azione.

Assunzione fondamentale per la psicologia discorsiva è

che c’è uno stretto legame tra pensiero e linguaggio,

infatti: «il linguaggio e il pensiero sono legati l’uno

all’altro, poiché parlare del pensiero è un modo di parlare

dell’attività discorsiva. Il pensiero possiede caratteristiche

governate da regole o normative» (Ibidem). I pensieri

«risiedono negli usi che facciamo di sistemi di segni

pubblici e privati» (Ibidem). Dunque, dato che il pensiero è

costituito dall’uso privato dei sistemi simbolici, si può

Riferimenti

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