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Capitolo 1. Introduzione.

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Capitolo 1.

Introduzione.

1.1 Le origini della trapiantologia.

Fin da tempi remoti prolungare la vita, restituire “salute” o giovinezza attraverso la sostituzione di organi malati con organi sani, omologhi od eterologhi, ha appassionato e stimolato numerosi studiosi, anche appartenenti a discipline differenti: leggende mitologiche, rappresentazioni artistiche e testi antichi fanno risalire l'interesse per il trapianto ai secoli precedenti l’avvento di Cristo.

La tradizione vuole che il primo trapianto sia stato effettuato intorno al III secolo d.C. ad opera dei santi Cosma e Damiano che sostituirono, in un loro sacrestano, la gamba colpita da gangrena con quella sana di un moro appena deceduto. L'evento, ovviamente, venne definito “miracolo” (figura 1).

In realtà gli autotrapianti di tessuti vascolarizzati venivano già eseguiti nel II-III secolo a.C.: il Susbruta Shamita, testo indiano dell'epoca, descrive infatti la tecnica di autotrapianto di tessuto cutaneo prelevato dall'avambraccio o dal collo per riparare mutilazioni del naso o dell'orecchio.

I trapianti escono dalla leggenda ed entrano nella storia grazie all'opera di Gaspare Tagliacozzi (1547-1599) che, nel trattato “De Custorum Chirurgia per Insitionem”, descrive la tecnica di rinoplastica condotta utilizzando un lembo cutaneo della superficie volare dell'avambraccio (figura 2).

Tagliacozzi eseguì numerosi autotrapianti, ma mai un allotrapianto di tessuto cutaneo poiché aveva intuito l'esistenza di una “forza” che avrebbe impedito il successo di un simile tentativo: solo quattro secoli più tardi questa “forza” verrà identificata nella reazione di rigetto. Grazie agli studi di John Hunter (1728-1793), padre della chirurgia sperimentale, l'approccio al “problema trapianto” venne affrontato in modo scientifico con i primi

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Figura 1: I santi Cosma e Damiano sostituiscono la gamba gangrenosa di un sacrestano con quella di un moro morto. Dipinto di Ferdinando del Rincon, 1560, Madrid, Museo del Prado.

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Figura 2: Ricostruzione del naso con la cute della fronte e della parte superiore del braccio.

©Foto: akg-images.

La storia scientifica dei trapianti d'organo ha ufficialmente inizio nel 1902 con lo sviluppo della tecnica di anastomosi vascolare ad opera di Alexis Carrel, premio Nobel nel 1912. Carrel, con il contributo non riconosciuto di Charlie Gunthrie, effettuò in modelli animali il trapianto di organi vascolarizzati: rene, cuore, tiroide ed ovaio. Carrel e Gunthrie, la cui attenzione era rivolta esclusivamente alla risoluzione di problemi tecnici presentati dal trapianto d'organo, non accennarono mai al problema del rigetto.

Fu Carl Williamson, nel 1928, a definire per la prima volta la differenza esistente tra auto ed allotrapianto documentando istologicamente un rigetto di rene in animale e focalizzando l'attenzione degli studiosi dell'epoca su quello che anche in seguito e per lungo tempo sarebbe rimasto il principale ostacolo che i pionieri del trapianto avrebbero dovuto affrontare.

La dimostrazione che la reazione di rigetto di un tessuto trapiantato fosse un fenomeno immunologico, caratterizzato da riconoscimento e specificità antigenica non-self e da memoria, avvenne grazie agli studi di Peter Medawar, premio Nobel nel 1960. Medawar, avendo eseguito durante la II Guerra Mondiale numerosi innesti cutanei in pazienti gravemente ustionati durante i bombardamenti di Londra, osservò che laddove erano stati effettuati successivi trapianti di cute da medesimo donatore a medesimo ricevente, il secondo trapianto veniva rigettato più rapidamente del primo. Medawar realizzò inoltre che

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La costante ed intensa attività di ricerca, la scoperta successiva di potenti farmaci anti-rigetto ad attività immunosoppressiva e la possibilità di tipizzare immunologicamente i tessuti ed ovviamente i notevoli miglioramenti della tecnica chirurgica hanno permesso al trapianto d'organo di uscire dal campo esclusivamente sperimentale per diventare un caposaldo della terapia di malattie un tempo mortali.[1]

1.2 I trapianti di organo solido.

Negli ultimi anni '40 un esiguo numero di studiosi tentò di trapiantare organi e tessuti prelevati da donatori cadavere. Nonostante il successo tecnico di molti di questi tentativi, tutti i pazienti morirono nell'arco di un breve lasso di tempo dall'intervento. Il primo trapianto di organo solido si deve a Joseph Murray, premio Nobel per la medicina nel 1990, che nel 1954 riuscì ad effettuare con successo un trapianto di rene. Il ricevente era un paziente di 23 anni affetto da glomerulonefrite cronica ed il donatore era il gemello omozigote. Successive approfondite ricerche condotte su gemelli dimostrarono come l'identità genetica fosse il principale fattore condizionante il successo dell'intervento. Nonostante questa intuizione ed il successo di questo e di altri trapianti tra gemelli omozigoti, il problema del trapianto tra pazienti geneticamente non identici doveva ancora essere superato.

Nel 1952 Jean Dausset descrisse per la prima volta i geni del complesso di istocompatibilità nell'uomo, portando alla comprensione dei meccanismi che avrebbero permesso negli anni a venire la tipizzazione immunologica dei tessuti del donatore e del ricevente tramite l'analisi dei leucociti.

La comprensione del fondamentale ruolo del sistema immunitario nel riconoscimento di tessuti non-self, e quindi nella reazione di rigetto, portò ad intuire che la modificazione del sistema immunitario stesso potesse diminuire la risposta avversa dell'organismo nei confronti dell'organo trapiantato. Sfortunatamente in quegli anni non erano ancora disponibili farmaci efficaci per ottenere l'effetto desiderato.

I primi tentativi di immunosoppressione furono condotti tramite irradiazione di tutta la superficie corporea: sebbene in molti casi le radiazioni impedissero il rigetto dell'organo trapiantato, l'aplasia midollare successiva all'irradiazione si associava ad un elevato tasso di mortalità. Lo stesso dicasi per alcuni farmaci antineoplastici: metotrexate e ciclofosfamide vennero inizialmente utilizzati per ottenere immunosoppressione, ma risultarono

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Nel 1960 il prednisone venne per la prima volta utilizzato con successo per controllare gravi episodi di rigetto; in seguito la 6-mercaptopurina ed il suo derivato, l'azatioprina, vennero testati da Roy Calne, dapprima in esperimenti su modelli animali e quindi introdotti nella pratica clinica dopo averne constatato l'efficacia.

Nonostante alcuni successi iniziali e le terapie di associazione con azatioprina e steroidi, la percentuale di esiti sfavorevoli rimase elevata e solo in rarissimi casi gli organi trapiantati si mantennero vitali per più di un anno.

Nel corso degli anni '60, mentre la biologia dei trapianti veniva via via compresa nei suoi meccanismi più fini, il ruolo degli antigeni leucocitari umani (HLA) divenne finalmente chiaro, tanto che venne stabilita una relazione diretta tra tipizzazione HLA ed esito clinico. Nel contempo divenne evidente come il fenomeno trapianto non potesse limitarsi agli interventi tra gemelli omozigoti poiché stavano aumentando in modo esponenziale le richieste di trapianto da parte di pazienti affetti da patologie organo-dipendenti in fase terminale: si stava delineando la sempre maggiore necessità di poter utilizzare con successo anche organi prelevati da cadavere. Negli stessi anni vennero definiti i primi criteri medico-legali riguardanti la morte cerebrale, in relazione alla possibilità di poter espiantare organi da utilizzare per il trapianto.

Folkert O. Belzer all'Università della California, San Francisco, e successivamente all'Università del Wisconsin fornì importanti contributi per la preservazione dei tessuti e degli organi espiantati sviluppando la tecnica della perfusione con soluzione fisiologica fredda, che permetteva di preservare più a lungo la vitalità dell'organo espiantato.

In questo stesso decennio furono inoltre eseguiti con successo e per la prima volta trapianti di organo solido differente dal rene: Thomas Starzl trapiantò il primo fegato nel 1963, a James Hardy si deve il primo trapianto di polmoni sempre nel 1963; Christian Barnard trapiantò il cuore nel 1967 ed infine Richard Lillehei trapiantò pancreas ed intestino rispettivamente nel 1966 e nel 1967.

Negli anni '70 i ricercatori introdussero nuove terapie per migliorare la percentuale di successi nei trapianti d'organo; tra questi è soprattutto da ricordare l'uso del siero antilinfocitario. Nonostante questi sforzi, però, i risultati nel trapianto di rene rimasero scarsi con tassi di sopravvivenza a 1 anno del 70% per i trapianti da viventi e del 50% per i

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trapiantologia[45]. Jean Francois Borel, un collaboratore di Roy Calne a Cambridge, identificò un metabolita del fungo isolato, la ciclosporina A, che mostrò in vitro una selettiva inibizione delle colture di linfociti in assenza di significativi effetti collaterali mielotossici. I primi studi di questo nuovo farmaco su modelli animali vennero effettuati da Alkis Kostakis, chirurgo, e da David White, immunologo; Kostakis effettuò una serie di trapianti di cuore nei ratti e trattò gli animali trapiantati con il nuovo farmaco, solubilizzato in olio d'oliva, riportando risultati più che promettenti.[46] A questi esperimenti su modelli animali seguirono sperimentazioni cliniche nell’uomo che dimostrarono che l'uso della ciclosporina migliorava significativamente la sopravvivenza del trapianto, nonostante la grave nefrotossicità e l'alta incidenza di linfomi provocate dall'utilizzo di eccessive dosi di questo farmaco. La diminuzione dei dosaggi produsse la riduzione degli effetti collaterali e l'associazione a corticosteroidi portò in un tempo brevissimo la ciclosporina ad assumere il ruolo di il gold standard per la terapia antirigetto. E' pressoché impossibile sovrastimare l'importanza avuta nella storia dei trapianti dall'introduzione della ciclosporina come terapia antirigetto: alla fine degli anni '70 Starzl e collaboratori sottolinearono la svolta che tale farmaco aveva significato in ambito trapiantologico in un lavoro rivolto a valutare le curve di sopravvivenza di pazienti da loro trapiantati distinti per epoca: pre e post-ciclosporina.[4] Le percentuali di sopravvivenza in soggetti trapiantati di fegato e cuore risultarono raddoppiate nel secondo braccio: la scoperta della ciclosporina aveva effettivamente aperto una nuova era nella storia dei trapianti.

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Negli anni '90 vennero introdotte nella pratica clinica due nuove sostanze immunosoppressive ad attività antirigetto: il micofenolato mofetile, antimetabolita già conosciuto che risultò superiore all'azatioprina, ed il tacrolimus (FK-506) che mostrò un meccanismo d'azione simile a quello della ciclosporina, ma un’efficacia ancora maggiore. Grazie alla maggiore esperienza ed ai miglioramenti nella tecnica chirurgica, nella preservazione dei tessuti e nella terapia post-trapianto, le percentuali complessive di successo andarono costantemente aumentando. Nel 1988 la sopravvivenza del trapianto ad 1 anno da donatore cadavere era del 76%, mentre nel 1995 era salita all'87%. Anche i risultati dei trapianti di rene da donatore vivente migliorarono passando dall'89% del 1988 al 93% del 1995, sempre per quanto riguarda la sopravvivenza ad 1 anno.[2]

Con l'aumento della sopravvivenza a breve termine un sempre maggior numero di pazienti ha goduto di ottimi risultati anche a lungo termine, portando così al graduale ma progressivo spostamento dell'attenzione dei clinici su differenti problematiche come la qualità della vita dei pazienti trapiantati e l'aumentata incidenza tra essi di complicanze infettive e neoplasie legate allo stato di immunosoppressione indotto dalla terapia antirigetto.

Figura

Figura 1: I santi Cosma e Damiano sostituiscono la gamba gangrenosa di un sacrestano con quella  di un moro morto
Figura  2:  Ricostruzione  del  naso  con  la  cute  della  fronte  e  della  parte  superiore del braccio
Figura 3: Ciclosporina A: struttura.

Riferimenti

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